- https://www.facebook.com/RinoConte1…
- http://www.laputa.it/omeopatia/
- http://web.unitn.it/files/download/…
- http://www.nature.com/news/2004/041…
- http://www.i-sis.org.uk/DNA_sequenc…
- https://www.researchgate.net/public…
- https://www.researchgate.net/profil…
- http://www.badscience.net/wp-conten…
- http://www.sciencedirect.com/scienc…
- http://www.sciencedirect.com/scienc…
- http://www.sciencedirect.com/scienc…
- http://www.sciencedirect.com/scienc…
- Germano R. AQUA. L’acqua elettromagnetica e le sue mirabolanti avventure. Napoli: Bibliopolis, 2007.
- http://www.chimicare.org/curiosita/…
Le strane proprietà dell’acqua. L’effetto Mpemba
In che cosa consiste l’Effetto Mpemba?
Una caratteristica dell’acqua su cui non sembra esserci un accordo nel mondo scientifico è il cosiddetto effetto Mpemba, ovvero la capacità dell’acqua di congelare più velocemente se essa è prima riscaldata.

LA STRUTTURA DELL’ACQUA



LE SPIEGAZIONI PIÙ CONOSCIUTE DELL’EFFETTO MPEMBA

L’EFFETTO MPEMBA E LA NEVE ISTANTANEA

Ma allora l’effetto Mpemba esiste o meno?
Il ruolo dell’acqua nelle reazioni foto-catalitiche
Notizie dal mondo scientifico. Il ruolo dell’acqua nelle reazioni foto-catalitiche
Sapete cos’è il biossido di titanio? Non è un materiale che esce da un film di fantascienza, sebbene le sue proprietà lo rendano veramente particolare. Lo si trova un po’ dappertutto, anche nei dentifrici e funziona da sbiancante. Lo trovate anche come eccipiente in alcuni farmaci in compressa.
La sua funzione è veramente notevole perché il biossido di titanio viene utilizzato come catalizzatore per reazioni foto-catalitiche nella chimica verde.
Catalizzatore? chimica verde? fotocatalitico?
La chimica verde è quella branca della chimica che si occupa delle reazioni nelle quali non si fa uso di solventi organici. Questi ultimi, infatti, sono per lo più tossici per l’uomo oltre che dannosi per l’ambiente. Il solvente di elezione nei processi legati alla chimica verde è l’acqua. Questa molecola, infatti, non “distrugge” la biomassa microbica presente nei suoli, nelle acque e nei sedimenti come, invece, fanno i solventi organici. Inoltre, maneggiare acqua, piuttosto che solventi organici, in laboratorio è più “salutare” per gli operatori che non inalano, così, sostanze potenzialmente cancerogene.
Un catalizzatore è un materiale che è in grado di velocizzare una reazione chimica. In altre parole, una reazione che avviene in un tempo lungo – per esempio qualche giorno – può subire una accelerazione in presenza di certi particolari sistemi come il biossido di titanio. Questo è molto conveniente, per esempio, sotto l’aspetto produttivo perché consente alle aziende di produrre nuove molecole o nuovi materiali in tempi non biblici. Ma è conveniente anche sotto l’aspetto ambientale perché il biossido di titanio può essere utilizzato per accelerare la decomposizione di contaminanti organici tossici per l’uomo e dannosi per l’ambiente.
Una reazione foto-catalitica è una reazione la cui velocità viene influenzata dalla interazione tra la luce ed un catalizzatore come il biossido di titanio.
Come funziona il biossido di titanio?
Proprio recentemente, il secondo [1] di due studi [1, 2] sul ruolo dell’acqua nell’attività catalitica del biossido di titanio è apparso sul Journal of Physical Chemistry C (lo so…sono vanesio…entrambi gli studi sono miei).
E’ stato evidenziato che l’acqua legata alla superficie del biossido di titanio forma dei radicali ossidrilici (OH) che sono direttamente coinvolti nei processi catalitici dei contaminanti organici. La velocità con cui la reazione può avvenire dipende dal tempo durante il quale l’acqua resta a contatto con la superficie del biossido di titanio. In pratica, l’acqua e la molecola che deve essere degradata competono tra loro per raggiungere la superficie del biossido di titanio. Una volta che l’acqua è arrivata si possono realizzare due condizioni: l’affinità tra il biossido di titanio e l’acqua è alta; l’affinità tra biossido di titanio e acqua è bassa. Nel primo caso, l’acqua resta più tempo attaccata al biossido di titanio ed ha una maggiore opportunità di produrre i radicali che, poi, serviranno per decomporre il contaminante organico. Nel secondo caso, invece, l’acqua non ha il tempo materiale di decomporsi e la velocità con cui il contaminante si decompone è più lenta.
Lo studio appena pubblicato [1] apporta quelle prove sperimentali che fino ad ora mancavano in merito all’ipotesi sulla competizione acqua/substrato per la superficie del biossido di titanio.
Riferimenti
[1] http://pubs.acs.org/doi/abs/10.1021/acs.jpcc.6b11945
[2] http://pubs.acs.org/doi/10.1021/jp400298m
Su fallacia e omeopatia. Una riflessione ragionevole.
Proviamo a fare una riflessione sul concetto di fallacia e omeopatia.
Quante volte ho dovuto leggere “su di me funziona” da parte dei fautori dell’omeopatia come risposta ai miei ripetuti post sull’argomento omeopatia? I vari interventi si trovano nei riferimenti [1-6]Adesso cerco di spiegare perché questa affermazione non ha alcuna validità e denota solo ignoranza scientifica da parte di chi la sostiene. A tale scopo faccio un esempio banale considerando che ognuno di noi è in grado di rispondere in un determinato modo alla somministrazione di una particolare sostanza o un alimento.
Supponiamo che due persone prese a caso assumano del latte. Si possono verificare le seguenti condizioni:
1. Entrambe le persone vivono senza problemi di sorta la loro vita (ok, ok)
2. Una delle due persone vive normalmente, l’altra ha problemi di meteorismo, dolori di stomaco, gonfiore e tutto quanto si può associare ad una intolleranza all’alimento che gli è stato somministrato (ok, no)
3. Entrambe le persone hanno problemi (no, no)
Se ci limitassimo all’analisi della sola condizione 1. saremmo tentati di dire che il latte è un alimento che fa bene a tutti. In altre parole estenderemmo all’intera popolazione umana quelle che sono le osservazioni fatte su soli due individui. In questo modo non terremmo conto di ciò che accade nella condizione 2., ovvero che la scelta casuale di due persone per condurre un esperimento sulla salubrità del latte potrebbe portare ad una situazione in cui non sappiamo se il latte fa bene oppure no alla salute umana. Infatti uno dei due individui non ha conseguenze, l’altro, invece, mostra intolleranz. Non terremmo conto neanche della condizione 3., per la quale, scelte due persone a caso, entrambe risultano intolleranti.
Per dirimere la questione dobbiamo introdurre una terza persona. Dobbiamo, cioè, scegliere un terzo individuo in modo casuale e osservare l’effetto del latte sul suo organismo. Anche in questa situazione si possono verificare due condizioni:
A. L’individuo non mostra sintomi di intolleranza (ok)
B. L’individuo mostra sintomi di intolleranza (no)
Le condizioni 1., 2. e 3. si possono combinare con le condizioni A. e B. nel seguente modo:
1A, 1B, 2A e 2B, 3A e 3B.
Dalla condizione 1A (cioè ok, ok, ok) potremmo concludere che il latte non dà alcun problema. Dalle situazioni 1B e 2A (ovvero ok, ok, no) potremmo, invece, concludere che il latte fa bene ai 2/3 della popolazione umana. Le situazioni 2B e 3A (corrispondenti a ok, no, no ) ci conducono alla conclusione opposta, ovvero che il latte fa male ai 2/3 della popolazione umana. La condizione 3B (no, no, no) ci porta a concludere che l’intera popolazione umana è intollerante al latte.
In definitiva, prendendo prima due e poi tre individui a caso, non abbiamo risposto alla domanda: qual è l’effetto del latte sulla salute umana? Il latte offre vantaggi o svantaggi? In effetti, il numero limitato di casi presi in considerazione non ci permette di dare una risposta definitiva al nostro problema.
Cosa fare allora? Bisogna estendere l’indagine ad un numero statisticamente significativo di individui umani, differenziandoli per età, sesso, origine etnica e condizioni di salute.
Per “numero statisticamente significativo” si intende un numero di individui che sia, nel suo insieme, rappresentativo della totalità degli individui di una popolazione. Alla luce dei risultati osservati si può fare una statistica e dire che su tanti individui , indichiamoli con 100, un certo numero, indichiamolo Z con Z<100, è tollerante al latte, mentre un numero pari a 100-Z è intollerante. All’interno del campione Z ci può essere un numero, M, di maschi ed un numero, F, di femmine (M+F=Z) ed all’interno delle singole popolazioni ci può essere un certo numero di Italiani, Svizzeri, Danesi e così via di seguito. Lo stesso si applica al numero di individui pari a 100-Z.
Grazie a questa impostazione sperimentale, la variabilità comportamentale dei singoli individui viene inglobata in una casistica che consente di dire che in media il latte fa bene, ma che un certo numero di persone possono mostrare delle intolleranze che si possono spiegare – in uno stadio successivo dell’indagine – alla luce dell’attività pastorizia che ha luogo in un certo ambiente e della diffusione genetica di certe caratteristiche di tolleranza/intolleranza.
Chi afferma che qualcosa funziona sul suo organismo per cui quel qualcosa, in base alla sua opinione, ha un certo tipo di attività, palesemente dichiara, senza alcuna vergogna -perché dimostra solo che le lezioni avute a scuola sono state del tutto inutili, di non conoscere il metodo scientifico e di come esso si applichi alle indagini sugli esseri viventi. I casi soggettivi non sono utili. Devono sempre essere inglobati in una moltitudine di casi che, tutti insieme, consentono di estrapolare il comportamento medio di fronte alla somministrazione di un preparato, un farmaco o un alimento che sia.
Tutto quanto detto, comunque, non è sufficiente alle conclusioni di cui ho discusso. Infatti, è possibile che tra gli individui scelti a caso ci siano degli ipocondriaci a cui il latte non dà fastidio ma che, per partito preso, perché non gli piace o quant’altro, affermano che la somministrazione di latte ha portato loro dei problemi. Per ovviare a questa situazione, ovvero per evitare che i risultati dell’indagine siano influenzati dai propri atteggiamenti ipocondriaci, le indagini sulla popolazione di individui statisticamente significativa deve essere condotta in modo tale che a un certo numero di individui venga somministrato latte, ad un altro numero un materiale simile al latte ma che latte non è.
Sia gli individui soggetti all’esperimento che gli sperimentatori non sanno cosa viene somministrato in modo tale da evitare che anche involontariamente le caratteristiche dell’alimento somministrato possano essere rese note. Questo esperimento, che si chiama “in doppio cieco”, assicura che convinzioni soggettive in merito alla somministrazione di latte (o qualunque altra cosa) possano non alterare i risultati dello studio.
Una breve disanima sul metodo scientifico usato nel settore biologico/biochimico/
Nel caso particolare dell’omeopatia si è verificato che:
1. gli esperimenti per valutare l’effetto dei preparati omeopatici sono condotti in grandissima parte senza alcun controllo rispetto a placebo e farmaci reali [9, 10]
2. Nei casi in cui il controllo è stato condotto e gli esperimenti fatti in doppio cieco, i preparati omeopatici non sono risultati migliori dei placebo [11-13]
3. Sia negli esperimenti su bambini che in quelli su animali condotti con i crismi del metodo scientifico sommariamente illustrato sopra, i preparati omeopatici hanno dimostrato solo effetto placebo [14]
In definitiva, quando i fautori dell’omeopatia affermano che un certo preparato funziona perché a loro sembra di trarne benefici, bisogna prendere atto che si sta interloquendo con delle persone che hanno problemi di tipo non biochimico e che hanno principalmente bisogno di attenzione; quella attenzione che pagano a caro prezzo affidandosi ad imbonitori che, attraverso parole bonarie e finta empatia, prescrivono preparati inutili sotto l’aspetto farmacologico.
Riferimenti
1. https://www.facebook.com/
2. https://www.facebook.com/
3. https://www.facebook.com/
4. https://www.facebook.com/
5. http://www.laputa.it/
6. https://www.facebook.com/
7. https://
8. http://
9. https://
10. http://www.dcscience.net/
11. http://
12. http://jamanetwork.com/
13. https://
14. http://
Contraddizioni culturali e paradossi cognitivi. Naturale / buono = chimico / tossico
Contraddizioni culturali e paradossi cognitivi (Parte I)
Naturale : buono = chimico : tossico
Leggiamola così: naturale sta a buono come chimico sta a cattivo.
È la classica associazione di termini che i seguaci new age di un certo ambientalismo distorto invocano per giustificare scelte personali in merito a pratiche pseudo scientifiche che hanno deciso di utilizzare. La prima che mi viene in mente è quella che si basa sull’omeopatia ritenuta valida perché “su di me funziona” oppure perché “sono trenta anni che mi curo con l’omeopatia e funziona”, oppure ancora “l’omeopatia è naturale e come tale non fa male”.
Questo post non è dedicato all’omeopatia, ma ad evidenziare le dissonanze cognitive di tutti coloro che, come i seguaci dell’omeopatia, denigrano la chimica pur facendone ampiamente uso.
“Il colera è un’infezione diarroica acuta causata dal batterio Vibrio cholerae. La sua trasmissione avviene per contatto orale, diretto o indiretto, con feci o alimenti contaminati [tra cui acqua] e nei casi più gravi può portare a pericolosi fenomeni di disidratazione” [1].
1817-2017. Sono 200 anni. In questi duecento anni si sono avute ben sette pandemie di colera. L’ultima in ordine di tempo è iniziata nel 1961 e, dopo 56 anni, non si è ancora estinta. Nel 1973 il colera è arrivato anche a Napoli. Avevo sei anni. Mi ricordo il terrore della vaccinazione. In tutti questi anni il colera ha fatto milioni di vittime. Alcune fonti parlano di ben 40 milioni di morti [1, 2].
Nonostante la durata molto più lunga delle precedenti, la settima pandemia ha provocato molti meno morti delle altre. Questi sono principalmente nei paesi del terzo mondo, ovvero in quelli sottosviluppati. Proprio in questi paesi, infatti, ci sono carenze igienico-sanitarie che consentono la diffusione del vibrione del colera.
Se noi oggi possiamo dire di non dover più temere questa malattia, ormai dichiarata anche endemica, è perché facciamo parte di quella piccola parte del globo in cui vengono applicate le misure di prevenzione sanitaria in grado di debellare certi micro organismi patogeni per l’uomo.
L’acqua che noi usiamo come alimento è uno dei principali vettori per la trasmissione del colera – e non solo. L’acqua, tuttavia, è un prodotto naturale. Essa sgorga libera dalle rocce. Come prodotto naturale non può fare che bene. Ed invece non è così. L’acqua trasportata dagli acquedotti può essere contaminata, durante il suo tragitto verso i centri abitati, per ogni ordine di causa. Per esempio, se non vengono rispettati i limiti entro cui gli animali possono stazionare nei pressi dei pozzi di approvvigionamento idrico, si può verificare contaminazione fecale e la trasmissione di patologie come il colera. Per assicurare la potabilità delle acque, la chimica, che NON è sinonimo di tossico, ci viene in aiuto. Sapete come? Attraverso l’uso di un’arma di distruzione di massa. Sí, avete letto bene. Si utilizza un gas che durante la prima guerra mondiale è diventato tristemente famoso per il numero di morti e di invalidi permanenti che ha provocato: il cloro.
Il cloro è una molecola biatomica che si trova nella fase gassosa. Ha un colore giallo-verde dal caratteristico odore pungente. È in grado di provocare lesioni permanenti nei tessuti umani e se l’avvelenamento da cloro non è curato in tempo, provoca la morte. La sua azione si deve al fatto che interagisce con molti dei metaboliti che sono presenti nelle nostre cellule, modificandone la struttura e, di conseguenza, la funzionalità biochimica. Quando viene inserito in acqua reagisce dismutandosi (ovvero si trasforma) portando alla formazione di acido ipocloroso. Questo si dissocia in ipoclorito che a sua volta si decompone a cloruro ed ossigeno molecolare. L’ossigeno è un forte ossidante ed è quello che è in grado di distruggere le cellule dei batteri che possono contaminare l’acqua che arriva nelle nostre case [3]. Il problema del cloro gassoso è che è poco maneggevole. Il suo stoccaggio è reso difficile dalla sua corrosività. Per questo motivo oggi la sanificazione delle acque destinate al consumo umano viene effettuata utilizzando i sali solubili, e facilmente maneggiabili, dell’acido ipocloroso. Uno di questi è l’ipoclorito di sodio più noto come varechina. Sì, quella che trovate comunemente al supermercato.
Morale della favola. L’acqua prodotto naturale, quindi in principio ritenuta buona, non è, in realtà, così buona essendo vettore per patologie mortali se non sanificata. Il cloro, arma di distruzione di massa, quindi, “cattivo” per definizione, in realtà è buono perché ci aiuta a sanificare un prodotto naturale che poi tanto buono non è.
La chimica vi sembra ancora così cattiva?
Riferimenti
[1] http://www.epicentro.iss.it/problemi/colera/colera.asp
[2] http://www.who.int/mediacentre/factsheets/fs107/en/
[3] http://www.chimicamo.org/…/clorazione-dellacquareazioni-chi…
Scienza patologica. Un altro caso di scorrettezza scientifica



Come funziona questo “cartello” di cattiva scienza?
FINO AD ORA TUTTO PERFETTO. DOVE È L’INGHIPPO CREATO DA QUESTO ENNESIMO EPISODIO DI CATTIVA SCIENZA?


Figura 3. Variazione dell’impact factor di due riviste scientifiche. Si tratta di Nature (in blu) e PlosOne (in arancione). Il valore dell’impact factor è influenzato da pochi lavori molto citati in tempi relativamente brevi. (Fonte)

CONCLUSIONI
- https://www.facebook.com/notes/rino…
- https://www.facebook.com/RinoConte1…
- T. Kuhn, la struttura delle rivoluzioni scientifiche, Piccola biblioteca Einaudi ed. 2009
- https://www.facebook.com/RinoConte1…
- https://www.facebook.com/RinoConte1…
- https://www.facebook.com/RinoConte1…
- https://static2.egu.eu/media/filer_…
- https://www.scribd.com/document/339…#
Quando anche i professori non supererebbero l’esame di chimica organica
Parliamo di Chimica organica e della struttura del Carbonio.
Esordisco ringraziando il Dr. Luca Minati per aver condiviso questa chicca nella sua bacheca.
Dal 2006 al 2015 ho insegnato la chimica organica all’Università degli Studi di Palermo. Una delle cose di cui mi raccomandavo con gli studenti – ma devo dire che ancora lo faccio, sebbene adesso io insegni la chimica del suolo – è di contare bene il numero di legami intorno agli atomi di carbonio perché il carbonio non può formare più di quattro legami. Insomma è tetravalente.
Sì è vero, recentemente è stato scoperto un carbonio esavalente [1], ma si tratta di un caso particolare e comunque l’esavalenza non è la caratteristica tipica del carbonio coinvolto nelle molecole di interesse biologico.
Angewandte Chemie International Edition è uno dei giornali del settore chimico più quotato. Avere un lavoro pubblicato su questa rivista è uno degli obiettivi dei chimici che lavorano nel mondo della ricerca.
Ebbene anche gli editors e i reviewers delle riviste quotate in merito alla chimica organica possono avere delle defaillances.
La figura a corredo di questa nota è presa dalle Supplementary Information del lavoro: Cheng, Wang (2016) Hydrogel-Assisted Transfer of Graphene Oxides into Nonpolar Organic Media for Oil Decontamination, Angew.Chem. Int.Ed. 2016, 55,6853 –6857. Il lavoro lo trovate nel riferimento [2], mentre le Supplementary Information nel rifermiento [3].
Cosa si vede in questa figura? La bellezza di quattro atomi di carbonio pentavalenti.
Ahi, ahi, ahi! Come è potuto accadere? Devo dire che stavolta non solo gli autori di questo lavoro, ma anche i reviewers e gli editors di questa prestigiosa rivista sono rimandati alla prossima seduta dell’esame di chimica organica.
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Anche agli scienziati piace scherzare: esperimenti in doppio cieco sull’efficienza dei paracadute
Cosa c’entrano i paracadute con il metodo scientifico?
Paracadute: come recita il vocabolario Treccani, dispositivo che ha lo scopo di ridurre la velocità di caduta di un grave ad esso vincolato.
ll metodo scientifico si basa sull’osservazione dei fenomeni, sulla loro ripetibilità e riproducibilità. La ripetibilità si riferisce alla condizione per cui lo stesso laboratorio è in grado di rifare gli stessi esperimenti sempre nelle stesse condizioni. La riproducibilità è quella situazione per cui laboratori differenti sparsi per il mondo sono in grado di riprodurre gli stessi esperimenti utilizzando condizioni identiche. Ripetibilità e riproducibilità sono condizioni essenziali perché una ipotesi possa essere formulata e un modello in grado di spiegare l’osservato possa essere elaborato.
In campo chimico non è difficile riprodurre un esperimento ammesso che si abbiano fondi a sufficienza per attrezzare un laboratorio nel modo necessario. Per esempio, con pochi euro si possono comprare dei sali, acqua bidistillata, un viscosimetro. Si possono preparare delle soluzioni a concentrazione variabile dei diversi sali e se ne può misurare la viscosità. Il buon senso ci dice che all’aumentare della concentrazione aumenta anche la viscosità. Tuttavia, chi si occupa di scienza sa benissimo che il “buon senso” può essere fallace. Per questo motivo, per evitare i pregiudizi di conferma di cui ho già parlato nei riferimenti [1, 2], si possono far misurare le viscosità a ricercatori che non sanno di che tipo di soluzione stanno facendo l’analisi. Che so, una decina di soluzioni a concentrazioni differenti di sali differenti si possono conferire ad un ricercatore, un’altra decina di soluzioni diverse ad un altro ricercatore e così via di seguito. Si raccolgono le misure sperimentali e se ne fa una analisi. Ne viene che la variazione di viscosità varia in positivo (aumento) o in negativo (diminuzione) a seconda della natura del sale preso in considerazione. Tanto per fare un esempio banale, l’aumento di concentrazione del cloruro di sodio (NaCl) comporta un aumento della viscosità. Al contrario, nelle stesse condizioni, cambiando il sodio col potassio (quindi cambiando sale ed usando KCl, invece che NaCl), si osserva una diminuzione della viscosità. Non sto qui a spiegare perché. Il mio intento è altro. Questo esempio mi serve solo per far capire che se tutti i laboratori in giro per il mondo si attrezzano con le stesse strumentazioni e fanno esperimenti con le modalità descritte, sono in grado di osservare sempre lo stesso comportamento delle diverse soluzioni saline.
Il paracadute entra in capo: nel settore medico le cose non sono così semplici!
Supponiamo di voler stabilire l’efficacia di un farmaco antitumorale. Un esperimento ben progettato dovrebbe prevedere un certo numero di persone che abbiano quel tipo di tumore. Questo insieme dovrebbe essere diviso in due gruppi, per esempio gruppo A e gruppo B. Il farmaco antitumorale dovrebbe essere somministrato in modo casuale agli individui dei due gruppi. Diciamo che al gruppo A si potrebbe somministrare il farmaco, mentre al gruppo B si potrebbe somministrare un placebo. Gli individui dei due gruppi non sanno cosa assumono. I medici addetti ai controlli sperimentali non sanno cosa stanno somministrando. Un esperimento di questo tipo, simile a quello descritto sopra, si chiama “in doppio cieco” perché nessuno dei protagonisti sa cosa sta assumendo o prescrivendo. Questa tipologia di esperimenti è utile perché, come nel caso chimico già illustrato, impedisce che i risultati sperimentali risentano dei pregiudizi di conferma [1, 2]. In campo medico, tuttavia, questa tipologia sperimentale ha delle implicazioni etiche e morali insormontabili. Dal momento che gli individui di entrambi i gruppi sono affetti da tumore, in che modo si deve decidere quale dei soggetti è destinato a sicura morte? In altre parole chi decide e come fa a decidere quale delle persone coinvolte nell’esperimento deve assumere il placebo e, per questo, è destinata ad una morte molto probabile?
Un esperimento anche se ben progettato non è sempre fattibile sotto l’aspetto tecnico.
Un paradosso del genere è stato evidenziato in modo comico da due ricercatori britannici che hanno deciso di fare una meta-analisi dei lavori condotti in doppio cieco per la valutazione dell’efficienza dei paracadute nei lanci dagli aerei [3]. Il lavoro è stato pubblicato nel 2003 dal Biomedical Journal, una rivista medica abbastanza autorevole e famosa per la pubblicazione di paradossi come quello che sto descrivendo. Gli autori affermano che:
“Our search strategy did not find any randomised controlled trials of the parachute”
In altre parole, non sono stati in grado di trovare in letteratura alcun lavoro in doppio cieco in grado di poter affermare con certezza scientifica che l’uso del paracadute è fondamentale per salvarsi la vita in un lancio aereo da 5000 m o più. In effetti, gli autori suggeriscono che, per poter affermare che il paracadute è utile, si dovrebbe condurre un esperimento selezionando un certo numero di persone da suddividere in due sottogruppi: sottogruppo A e sottogruppo B. Ad ognuna delle persone dei due sottogruppi, gli addetti alla distribuzione dei paracadute devono consegnare uno zaino. Gli addetti alla distribuzione non sanno cosa contengono gli zaini che distribuiscono: possono contenere oppure no il paracadute; ognuna delle persone che riceve lo zaino non sa cosa esso contenga. Entrambi i sottogruppi vengono imbarcati e portati ad una certa altezza; da lì si devono lanciare nel vuoto. Se si osserva che tutti quelli che hanno lo zaino col paracadute sopravvivono, mentre gli altri no, si può concludere, con ragionevole certezza, che il paracadute ha una certa efficacia, fino a prova contraria, nel salvare le vite umane.
Nelle loro conclusioni, in breve, gli autori affermano:
“As with many interventions intended to prevent ill health, the effectiveness of parachutes has not been subjected to rigorous evaluation by using randomised controlled trials. Advocates of evidence based medicine have criticised the adoption of interventions evaluated by using only observational data. We think that everyone might benefit if the most radical protagonists of evidence based medicine organised and participated in a double blind, randomised, placebo controlled, crossover trial of the parachute”.
In altre parole, i sostenitori compulsivi di esperimenti in doppio cieco in campo medico, quando esperimenti del genere sono insostenibili per motivi etici e morali, si dovrebbero offrire volontari per studi in doppio cieco sulla efficienza dei paracadute nei lanci aerei.
Morale della storia: ci sono situazioni in cui gli esperimenti randomizzati in doppio cieco è meglio non farli oppure è meglio farli non su esseri umani; la sopravvivenza della specie, in mancanza di alternative efficaci, si può assicurare tramite la sperimentazione animale.
Riferimenti:
[1] https://www.facebook.com/RinoConte1967/posts/1920705241484336:0
[3] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC300808/pdf/32701459.pdf
Ringraziamenti:
Si ringrazia il Dr. Arturo Di Girolamo per aver accennato agli esperimenti in doppio cieco sui paracadute nella sua lezione sull’utilità dei vaccini tenuta il 10 Febbraio 2017 presso il Caffè dei Libri di Bassano del Grappa. La lezione è a questo link: https://www.facebook.com/RinoConte1967/videos/1930788107142716/
Naturale vs sintetico: l’ormone della crescita
Oggi vi scrivo della somatotropina ovvero di una molecola che viene anche semplicemente indicata come “ormone della crescita”. Si tratta di un peptide (ovvero di un sistema organico formato da diversi amminoacidi legati assieme) prodotto nell’ipofisi e responsabile della nostra crescita.
L’ormone della crescita utilizzato come farmaco per curare gli individui affetti da nanismo.
Sapete come si ottiene? Si ottiene per via sintetica, ovvero, si sintetizza in laboratorio usando la tecnica del DNA ricombinante. Si tratta della stessa tecnica di sintesi che consente di ottenere i prodotti geneticamente modificati (i famosi OGM tanto vituperati in Italia). Come mai una molecola così importante viene sintetizzata in laboratorio e non ottenuta “naturalmente” attraverso processi di estrazione?
Come ho già scritto, questa molecola è prodotta dall’ipofisi. L’unico metodo “naturale” noto per poterne ottenere in quantità sufficienti da produrre farmaci da distribuire “urbi et orbi” (e realmente utilizzato prima che venisse messa a punto la tecnica del DNA ricombinante) è l’estrazione dalle ghiandole del sistema endocrino di giovani uomini morti o di scimmie. Il problema delle estrazioni è che non si ottiene un prodotto puro, ma sempre “contaminato”. Infatti, il problema fondamentale dei processi estrattivi è che non consentono di “distinguere” tra molecola “giusta” e molecola leggermente “modificata” casualmente per motivi “naturali”. La somatotropina modificata geneticamente ed in modo naturale è anche quella che può dar luogo alla malattia di Creutzfeld-Jacob, altrimenti conosciuta come “morbo della mucca pazza”.
Quando in passato veniva usata la somatotropina ottenuta per processi estrattivi, quindi “naturalmente”, era abbastanza alto il rischio di contrarre il morbo della mucca pazza.
La sintesi chimica attraverso la tecnica del DNA ricombinante consente di ottenere una molecola estremamente pura senza alcun pericolo di contrarre la malattia anzidetta.
Ricordiamo anche questo, quando sentiamo i “naturisti” affermare che ciò che è naturale è necessariamente “buono”.
Per saperne di più
http://www.eusebio.pro/Ormone_della_crescita_gh.pdf
http://www.amegighi.it/…/3-IPOFISI%20e%20ORMONI%20IPOFISARI…
http://www.med.unipg.it/…/Fisi…/Il%20Sistema%20Endocrino.pdf
L’influenza della scienza sulla società: il nostro governo ha, finalmente, modificato la legge sui fertilizzanti, inserendo anche il biochar come amendante dei suoli.
Chi mi segue sa che il mio lavoro di ricerca consiste nello studio delle dinamiche molecolari all’interfaccia solido liquido, laddove il solido è il biochar. Tradotto in parole più semplici, mi occupo di studiare come si muovono i liquidi (in particolare acqua) sulla superficie di un composto (il biochar) fatto prevalentemente di carbonio ottenuto come scarto dei processi industriali (o casalinghi) per la produzione energetica (per es. calore, gas etc).
Questo tema di ricerca è il centro dell’attenzione di numerosi gruppi di ricerca nazionali ed internazionali, tanto è vero che io stesso collaboro con persone ai quattro angoli del mondo (beh…quattro angoli è un modo di dire, ovviamente…non è che io pensi che la Terra sia piatta
😀 ).
I lavori di ricerca hanno dimostrato che il biochar ha numerosi effetti quando applicato come ammendante dei suoli. Recentemente il gruppo internazionale di cui faccio parte, ha pubblicato in merito alla quadruplicazione della produzione di zucche in Nepal quando biochar trattato con urina viene usato come fertilizzante. Lo stesso gruppo ha pubblicato anche i possibili meccanismi con cui il nitrato (uno dei principali nutrienti per le piante) viene catturato e, successivamente, lentamente rilasciato dal biochar quando questo viene applicato ai suoli.
Sebbene molti siano i lavori che dimostrino l’efficacia del biochar come ammendante, molti sono i detrattori di questo materiale. C’è chi prova che il biochar non ha alcun effetto sulla produzione agricola; c’è chi scrive che il biochar contamina i suoli attraverso il rilascio di sostanze tossiche (per es. gli idrocarburi policiclici aromatici) e potrei continuare.
Il punto fondamentale che, in genere, non è chiaro né ai detrattori né ai fautori dell’uso del biochar come ammendante, è che questo materiale va studiato accuratamente prima della sua applicazione come ammendante e non tutti i biochar sono buoni per tutto. In altre parole, i detrattori del biochar sono tali perché sono stati sfortunati: hanno sperimentato con biochar non adatti a quel tipo di piante di cui intendevano aumentare la produzione; i fautori del biochar sono in genere fortunati, ovvero studiano piante per cui il biochar selezionato funziona bene.
In generale le meta-analisi sul biochar (ovvero studi che considerano tutta la letteratura in merito ad un argomento) dimostrano che il biochar come ammendante dei suoli permette un aumento di produttività medio intorno al 18%.
Perché tutto questo? Che c’entra tutto questo discorso con l’impatto della scienza sulla società?
Il punto è che proprio grazie a tutto quanto scoperto sul biochar (sia effetti positivi che negativi), il nostro governo ha, finalmente, modificato la legge sui fertilizzanti, inserendo anche il biochar come possibile fertilizzante dei suoli.
Questo è avvenuto nemmeno un mese fa quando sulla Gazzetta Ufficiale serie generale n° 186 del 12-8-2015 è apparsa quella che viene conosciuta come “normativa biochar”. Questa legge è un grosso passo avanti perché permette a tutti l’uso del “carbone” come ammendante dei suoli sempre che vengano rispettati dei requisiti fondamentali sia sotto l’aspetto chimico che fisico. Infatti, l’uso del biochar è finalizzato non solo all’aumento della produttività dei suoli ma anche al sequestro del carbonio in modo da limitare le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera.
“la norma avrà riflessi che andranno ben oltre questi evidenti benefici tecnici ed economici” – spiega Vittorino Crivello, Presidente di ICHAR – “perchè il Biochar potrà entrare di diritto nei mercati volontari di riduzione delle emissioni di gas serra, stimolando un ciclo virtuoso in cui si potranno generare compensazioni delle emissioni per chi acquisterà crediti e redditi addizionali o risparmi per chi distribuirà il Biochar nel terreno”.
Informazioni complete in merito sono al sito: http://www.ichar.org/
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