Glifosato e cancro: nuovo studio, molti titoli… pochi fatti

di Enrico Bucci & Pellegrino Conte

Se c’è una cosa che la scienza dovrebbe insegnarci, è che non tutti gli studi hanno la stessa valenza e importanza. Alcuni sono ben progettati, trasparenti e ci aiutano a capire meglio il mondo; altri, invece, presentano fragilità nelle premesse, nel metodo o nell’interpretazione dei dati.

L’ultimo studio pubblicato nel 2025 su Environmental Health da un gruppo di ricerca dell’Istituto Ramazzini ha fatto molto discutere, sostenendo che anche dosi di glifosato ritenute sicure possano aumentare il rischio di tumori nei ratti. Da qui è nato il timore che, se aumenta la possibilità di avere tumori nei ratti, anche l’essere umano possa correre lo stesso rischio. Tuttavia, un’analisi attenta rivela numerosi limiti sull’effettiva rilevanza dei risultati.

Vediamo perché.

Dosi scelte e perché non sono realistiche

Lo studio ha previsto tre dosi di glifosato somministrate ai ratti:

  • 0.5 mg/kg al giorno (l’ADI, ovvero la dose giornaliera accettabile in Europa)
  • 5 mg/kg al giorno (10 volte l’ADI)
  • 50 mg/kg al giorno (NOAEL, che corrisponde alla dose massima senza effetti osservati).

A prima vista, trovare effetti anche alla dose più bassa potrebbe sembrare preoccupante. Ma c’è un dettaglio importante: l’ADI non è una soglia tossicologica, ma un limite iper-cautelativo. Come viene calcolata?

  1. Si prende la dose più alta che non ha causato effetti negli animali (es. 50 mg/kg).
  2. Si divide per 100: 10 per la variabilità interspecie (topo vs uomo) e 10 per la variabilità intraspecie (uomo vs uomo).
  3. Si ottiene l’ADI (0.5 mg/kg).

Quindi, se uno studio trova effetti giusto all’ADI, non è un fallimento del sistema: è la conferma che il sistema di sicurezza funziona.

E nella vita reale? L’EFSA ha stimato che l’esposizione reale della popolazione è centinaia di volte inferiore all’ADI. Per raggiungere 0.5 mg/kg, un adulto di 70 kg dovrebbe mangiare 10 kg di soia OGM al giorno, tutti i giorni. E anche gli agricoltori professionisti non si avvicinano a quei livelli.

Discrepanze tra dosi dichiarate e dosi realmente usate

Come si può facilmente immaginare, il lavoro che stiamo valutando non è passato inosservato. La comunità scientifica si è subito attivata per verificare se quanto riportato fosse attendibile, e questo è un aspetto cruciale. In un contesto saturo di informazioni, dove distinguere il falso dal vero o dal verosimile è sempre più difficile, avere dei riferimenti affidabili per valutare la solidità di uno studio è fondamentale. Dimostra anche che la scienza non resta chiusa in una torre d’avorio: controlla, discute e, se necessario, corregge.

Un’analisi particolarmente accurata pubblicata su PubPeer  ha evidenziato come gli autori dello studio mirassero a somministrare ai ratti tre livelli “target” di esposizione giornaliera al glifosato, corrispondenti, come già indicato nel paragrafo precedente, all’ADI europea di 0,5 mg per chilo di peso corporeo, a 5 mg/kg e infine al NOAEL di 50 mg/kg, calibrando la concentrazione del principio attivo nell’acqua da bere sulla base di un consumo medio di 40 mL e di un peso medio di 400 g. Tuttavia, nei grafici relativi al peso e al consumo d’acqua, visibili già a partire dalla quinta settimana di vita, si nota chiaramente che i ratti più giovani, ancora ben al di sotto dei 400 g, continuano a bere quantità di acqua vicine a quelle stimate per gli adulti. Questo significa che, anziché ricevere esattamente i dosaggi “target”, i cuccioli assumono in realtà molto più glifosato, spesso oltre il doppio di quanto previsto per l’ADI, proprio nel momento in cui la loro vulnerabilità ai possibili effetti tossici è maggiore.

Colpisce poi il fatto che i pannelli che riportano l’effettiva assunzione giornaliera di glifosato inizino soltanto alla tredicesima settimana, escludendo dalla visualizzazione le prime dieci settimane successive allo svezzamento, quando il sovradosaggio è più pronunciato. In questo modo il lettore non ha modo di rendersi conto di quanto i ratti più giovani abbiano effettivamente superato i livelli di riferimento, né di valutare eventuali conseguenze sulla salute in questa fase critica dello sviluppo.

La mancanza di qualsiasi discussione nel testo centrale su questa esposizione eccessiva nei cuccioli rappresenta una lacuna significativa, perché proprio nei primi mesi di vita gli organismi mostrano una sensibilità maggiore a sostanze tossiche. Sarebbe stato opportuno non soltanto estendere i grafici dell’assunzione fin dalla quinta settimana, ma anche accompagnarli con un’analisi dedicata a quei dati, per capire se fenomeni di tossicità precoce possano essere correlati proprio al superamento dei dosaggi prefissati. In assenza di questa trasparenza, resta un interrogativo aperto sul reale profilo di sicurezza del glifosato nei soggetti in accrescimento.

Statistiche creative: quando un “aumento significativo” è solo rumore

Uno dei problemi più comuni negli studi tossicologici è quando si prendono in considerazione troppi parametri. In queste circostanze, prima o poi, qualcosa risulterà “statisticamente significativo”… ma per puro caso.

Lo studio ha esaminato tumori in:

  • fegato
  • pelle
  • tiroide
  • sistema nervoso
  • reni
  • mammelle
  • ovaie
  • pancreas
  • ghiandole surrenali
  • milza
  • osso
  • vescica

Statisticamente parlando, più confronti si fanno, più aumenta il rischio di falsi positivi: è il noto problema dei confronti multipli. E in questo caso non è stata applicata nessuna correzione (come Bonferroni o FDR), nonostante le decine di test effettuati.

Per esempio:

  • Un solo caso di carcinoma follicolare tiroideo (1,96%) viene presentato come “aumento significativo”, nonostante un’incidenza storica dello 0,09%.
  • Leucemie rarissime (0 casi nei controlli) diventano improvvisamente “frequenti” se appaiono in uno o due animali.

E proprio perché si lavora con numeri minuscoli (gruppi da 51 ratti), anche un singolo caso in più può far sembrare enorme un effetto che in realtà è solo rumore statistico.

Non a caso, un commentatore su PubPeer ha fatto notare che, nella versione pubblicata rispetto al preprint è stato aggiunto un caso di leucemia monocitica in un ratto femmina trattato con 50 mg/kg/die, assente nella versione preprint. Nessuna spiegazione è stata data per questo cambiamento. Ma in gruppi così piccoli, un solo caso in più può bastare a far emergere o sparire un “aumento significativo”. E la mancanza di trasparenza su come sia stato deciso questo aggiornamento rende ancora più difficile fidarsi delle conclusioni.

Statistiche fragili: come un’analisi più corretta fa crollare i risultati

Gli autori dello studio dicono di aver usato il test di Cochrane-Armitage per verificare se aumentando le dosi di glifosato aumentasse anche il numero di tumori nei ratti: insomma, per valutare se esistesse un trend “dose-risposta” significativo.

Fin qui, tutto regolare. Ma leggendo le osservazioni pubblicate su PubPeer emerge un problema serio: gli autori hanno usato la versione asintotica del test, che diventa poco affidabile quando si analizzano eventi rari – come accade quasi sempre negli studi di cancerogenicità a lungo termine, dove molti tumori osservati sono davvero pochi.

Chi ha commentato ha quindi rifatto i calcoli usando la versione esatta del test (disponibile grazie al software del DKFZ) e il risultato è stato sorprendente: i p-value, che nello studio originale erano inferiori a 0.05 (e quindi dichiarati “significativi”), sono saliti ben oltre 0.25, diventando del tutto non significativi.

In pratica: gli stessi dati, analizzati in modo più corretto, perdono completamente la significatività statistica.

E questo non è un dettaglio secondario: lo stesso errore potrebbe riguardare anche altre analisi statistiche e tabelle pubblicate, mettendo seriamente in discussione la solidità complessiva delle conclusioni dello studio.

Glifosato puro vs formulazioni commerciali: un confronto incompleto

Lo studio testa anche due erbicidi commerciali (Roundup Bioflow e RangerPro), sostenendo che siano più tossici del glifosato puro. Ma:

È un po’ come dire:

“La vodka è tossica!”
Senza specificare se il problema è l’alcol o l’acqua in essa contenuta.

Trasparenza e potenziali conflitti d’interesse

Gli autori dello studio dichiarano esplicitamente di non avere conflitti di interesse. Tuttavia, come segnalato su PubPeer, emergono diverse criticità. L’Istituto Ramazzini che ha condotto la ricerca riceve fondi da organizzazioni e soggetti che hanno preso pubblicamente posizione contro l’uso del glifosato. Tra questi finanziatori troviamo:

  1. la Heartland Health Research Alliance, già criticata da diverse fonti per sostenere ricerche orientate contro i pesticidi;
  2. l’Institute for Preventive Health, fondato da Henry Rowlands, che è anche l’ideatore della certificazione “Glyphosate Residue Free”;
  3. Coop Reno, una cooperativa italiana che promuove attivamente la riduzione dei pesticidi nei propri prodotti;
  4. Coopfond, che ha dichiarato pubblicamente il proprio sostegno alla ricerca contro il glifosato.

Tutti questi elementi non sono banali, perché vanno in direzione opposta alla dichiarazione “no competing interests” fornita dagli autori.

Dichiarare questi legami non significa necessariamente che i risultati siano falsati, ma consente ai lettori di valutare meglio la possibile influenza dei finanziatori.

IARC, hazard e risk: una distinzione fondamentale

Lo studio si richiama alla classificazione dello IARC, che nel 2015 ha definito il glifosato “probabile cancerogeno” (Gruppo 2A). Ma attenzione: l’IARC valuta l’hazard, non il rischio.

  • Hazard: “Il glifosato può causare il cancro in certe condizioni ideali”.
  • Risk: “Il glifosato causa il cancro nelle condizioni reali di esposizione?”

Lo IARC ha incluso nel gruppo 2A anche:

  • la carne rossa,
  • il lavoro da parrucchiere,
  • il turno di notte.

Le principali agenzie che valutano il rischio reale non hanno trovato evidenze sufficienti per considerare il glifosato cancerogeno:

Agenzia Conclusione Anno
EFSA (UE) Non cancerogeno 2023
EPA (USA) Non cancerogeno 2020
JMPR (FAO/OMS) Non cancerogeno 2016
IARC Probabile cancerogeno 2015

Conclusione: il glifosato non è innocente, ma nemmeno un mostro

Il nuovo studio del 2025 mostra che, se si cercano abbastanza tumori rari in tanti tessuti, qualcosa prima o poi emerge. Ma:

  • Le dosi utilizzate sono lontanissime dalla realtà umana, e persino più alte del previsto nei ratti giovani;
  • I risultati sono fragili, non replicati, e statisticamente poco robusti;
  • I meccanismi di azione non sono spiegati;
  • La trasparenza sui dati e sui conflitti di interesse è carente;
  • Le conclusioni si basano su metodi statistici che vanno messi in discussione.

Non si tratta di negazionismo scientifico ma di scetticismo informato, che è il cuore del metodo scientifico. Sebbene questo studio sollevi questioni interessanti, trarre conclusioni definitive su un legame causale tra glifosato e cancro basandosi su dati così fragili e dosi irrealistiche è prematuro. La scienza richiede prove solide, replicabili e trasparenti.

Per questo, le agenzie regolatorie continuano a considerare il glifosato sicuro se usato nei limiti stabiliti. Restiamo aperti a nuove evidenze, ma diffidiamo dei titoli allarmistici che spesso accompagnano studi con così tante ombre.

EDIT

A dimostrazione del fatto che il metodo scientifico si basa sull’autocorrezione, sia Enrico Bucci che io desideriamo ringraziare l’Ing. Dario Passafiume per essersi accorto di un errore che abbiamo commesso nell’interpretare i dati di PubPeer. La sostanza non cambia: cambiano solo i valori assoluti dei numeri che avevamo preso in considerazione. Il testo che abbiamo rieditato per effetto dell’errore di cui ci siamo accorti grazie all’ingegnere è il seguente:

Un’analisi particolarmente accurata pubblicata su PubPeer ha evidenziato una discrepanza rilevante: le figure riportate nello studio non si riferiscono alle dosi dichiarate (quelle indicate nel primo paragrafo), ma a dosi circa dieci volte superiori. In pratica, mentre gli autori affermano di aver usato 0.5, 5 e 50 mg/kg/die, i grafici mostrano dati ottenuti con 5, 50 e 500 mg/kg/die. Si tratta – come già evidenziato – di concentrazioni del tutto inconcepibili nella vita reale dove per arrivare all’assunzione di soli 0.5 mg/kg/die bisogna ingurgitare circa 70 kg di soia OGM al giorno, tutti i giorni.

Glifosato: miti e leggende

Il glifosato oggi rappresenta il demone da sconfiggere.

Ormai giornali di ogni tipo, dai quotidiani a tiratura nazionale ai giornalini di quartiere, fanno a gara ad indicare il Roundup®,  il fitofarmaco che contiene il glifosato quale principio attivo,  come il nemico da sconfiggere perché responsabile di tutti i mali di questa terra.

Un po’ di tempo fa, tempo recente, mi è capitato di leggere in una di quelle pagine di complottisti che imperversano in rete, che il glifosato è responsabile anche dell’insorgenza della pandemia da SARS-CoV-2. Insomma, manca solo il gomito della lavandaia ed il ginocchio del tennista (citazione liberamente ispirata a “Tre uomini in barca per non parlar del cane” di Jerome K. Jerome) per incoronare il glifosato come principe del male.

Chi mi conosce e mi segue da un po’ di tempo, sa che non sono nuovo a prendere posizioni in merito al glifosato. Per esempio, ne parlai già a suo tempo in un articolo che potete trovare qui:

Glifosato sì, glifosato no: è veramente un pericolo?

Un po’ più recentemente, invece, ho anche evidenziato la faziosità di certi scienziati che pubblicano lavori sulla tossicità di questo composto con dubbia (si fa per dire) qualità sia progettuale che sperimentale. L’articoletto lo potete trovare qui:

Il glifosato nei lavori medici

“Allora perché ci ritorni su?”, mi potreste chiedere.

Semplicemente perché ogni tanto bisogna ricordare che la chimica è una scienza e non tiene conto delle opinioni di nessuno, anche se a parlare è un premio Nobel. Le sciocchezze sono tali anche se a dirle è il padreterno sceso in terra. La scienza si basa sui fatti ed i fatti sono quelli che vi descrivo adesso. Peraltro questi sono anche i fatti che racconto ai miei studenti nelle mie lezioni sia di Chimica del Suolo che di Recupero delle Aree Degradate.

Cos’è il glifosato?

Solo per completezza, il nome IUPAC del glifosato è N-(fosfonometil)-glicina. La sua struttura è quella rappresentata in Figura 1.

Figura 1. Struttura del glifosato

Benché nel suo nome compaia il termine “glicina”, che è un amminoacido che assolve a diverse funzioni importantissime nel nostro organismo (Figura 2), esso ha delle funzioni biochimiche che sono completamente diverse da quelle dell’amminoacido glicina.

Figura 2. Funzioni biochimiche della glicina
La via sintetica dell’acido shichimico

Quello che gli scienziati della domenica non sanno, o fanno finta di non sapere, è che esiste una relazione diretta tra struttura ed attività biochimica. Questo vuol dire che la N-(fosfonometil)-glicina non ha le stesse caratteristiche dell’amminoacido da cui essa deriva. Ed infatti, se andiamo a studiare il meccanismo di funzionamento di questo composto, ci accorgiamo che esso è un “competitore” del fosfoenolpiruvato per i siti attivi di un enzima che è coinvolto nel metabolismo dell’acido shichimico (Figura 3).

Figura 3. Processo del metabolismo dell’acido shikimico in cui il glifosato compete con il foosfoenolpiruvato (da: Schönbrunn et al., 2001, Interaction of the herbicide glyphosate with its target  enzyme 5-enolpyruvylshikimate 3-phosphate synthase in atomic detail, PNAS, 98:1376–1380)

Traduco quanto detto in termini più semplici. Il metabolismo dell’acido shichimico è una parte del metabolismo vegetale grazie alla quale le piante sintetizzano degli amminoacidi che abbiamo deciso di chiamare “essenziali”. Ricordo che tutti gli amminoacidi sono importanti perché sono coinvolti nei processi di sintesi delle proteine. Senza certi amminoacidi, proteine che svolgono numerose funzioni importantissime nel nostro organismo non possono essere sintetizzate. Questo implica insorgenza di patologie più o meno mortali.  La “essenzialità” degli amminoacidi citati discende dal fatto che noi animali non siamo in grado di auto-produrceli e li dobbiamo assimilare dalla dieta mangiando proprio i vegetali. Il fatto che noi non auto-produciamo gli amminoacidi essenziali e dobbiamo assumerli dalla dieta, ci consente di intuire immediatamente che nel nostro metabolismo non è compresa la via sintetica dell’acido shichimico. Se noi non “godiamo” di questa meravigliosa (in senso chimico per chi è in grado di apprezzare i passaggi chimici in essa coinvolti) via sintetica, vuol dire che anche tutti gli enzimi che mediano le reazioni comprese nella via dell’acido shichimico non sono presenti nel nostro organismo. In definitiva, quindi,  il glifosato non è in grado di agire nell’organismo umano come fa, invece, nelle piante.

La tossicità del glifosato.

Ora, però, non mettetemi in bocca quello che non ho detto. Ho detto che il glifosato è in grado di inibire la via metabolica dell’acido shichimico, tipica delle piante. Questo non vuol dire che esso non sia tossico ad elevate concentrazioni per gli animali. Infatti, per esempio, recentemente è stato pubblicato un lavoro in cui sono stati studiati gli effetti teratogeni di “dosi da cavallo” di glifosato iniettate direttamente nei feti di alcuni ratti (riferimento). Il lavoro, che immediatamente è stato usato dagli amici della natura (come se gli scienziati odiassero il mondo che li circonda) come cavallo di battaglia per dar contro a tutti quelli che fanno uso di questo erbicida, è stato, in realtà, messo sotto la lente di ingrandimento dalla comunità scientifica a livello mondiale. Ciò che tutti gli addetti ai lavori hanno stigmatizzato è stato l’uso strumentale e fazioso di questo studio che dimostra solo che se i feti vengono esposti a dosi massicce di glifosato subiscono degli effetti deleteri. In altre parole, questo studio non dimostra nulla se non che è la dose che fa il veleno. Ma questo è noto fin dai tempi di Paracelso. In Campania, regione dalla quale provengo, c’è un modo di dire molto caratteristico quando si vuole evidenziare la lapalissianità di uno studio. Tuttavia, per ovvi motivi di decenza, evito di usare il turpiloquio. In ogni caso, per avere un’idea delle critiche circostanziate al lavoro di cui sto parlando, rimando al blog del mio amico Enrico Bucci che ha scritto l’articolo che trovate qui sotto.

Glifosate e bugie

Quanto è tossico il glifosato?

Poco fa ho scritto che il glifosato è tossico ad alte concentrazioni. Ma chiunque mastichi un poco il linguaggio scientifico sa benissimo che “elevato”, “grande”, “piccolo”, “alto”, “basso” etc. sono tutti aggettivi privi di significato. Da un punto di vista scientifico, noi dobbiamo sempre quantificare l’ammontare di un certo composto chimico oltre il quale si possono avere effetti negativi sulla salute. A tale scopo abbiamo definito la cosiddetta LD50, ovvero la dose di composto che somministrata per via orale, per contatto dermale, per inalazione etc. uccide il 50% (ovvero la metà) della popolazione di animali usati come target di riferimento.  Più elevato è il valore della LD50, meno tossico è il composto preso in considerazione se paragonato ad altri composti chimici.  Ed allora se cerchiamo le schede di sicurezza del glifosato e di altri prodotti chimici di uso comune, possiamo elaborare il grafico che è mostrato in Figura 4.

Figura 4. Confronto tra i valori di LD50 del glifosato con quelli di sostanze di uso comune

In questo grafico ho paragonato la tossicità orale (espressa in milligrammi di principio attivo per chilogrammo in peso dei target animali usati per misurare la LD50) del glifosato con quella dell’acido acetico (presente nell’aceto), dell’acido citrico (presente negli agrumi), dell’alcol etilico (presente, per esempio, nei vini), dell’aspirina, dell’ibuprofene (il principio attivo dell’OKI o del Moment, farmaci di uso comune), della caffeina (presente nel thé e nel caffè) e della nicotina (presente nelle foglie di tabacco). A colpo d’occhio si evidenzia subito che il glifosato è molto meno tossico (il valore della LD50 è il più alto) di composti che vengono ritenuti innocui. Evidentemente, l’esposizione mediatica a cui è stato sottoposto il glifosato negli ultimi anni, ha alterato sia la percezione del pericolo che quella del rischio legate all’assunzione per via orale dell’erbicida rispetto a quella di altri sistemi di uso più comune e quotidiano.

Pericolo e rischio: una definizione

Occorre sottolineare per i non addetti ai lavori che pericolo e rischio non sono sinonimi e non possono essere considerati interscambiabili. Riprendendo una bella definizione che ho trovato sul sito della Società Chimica Italiana (qui), il pericolo è una qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni​, mentre il rischio è la probabilità di raggiungere il livello potenziale di danno nelle effettive condizioni di impiego​. In altre parole, un composto può essere pericoloso ma non rischioso, ossia avere una valenza mortale ma non essere concentrato a sufficienza. Come detto in precedenza: è la dose che fa il veleno​.

A cosa è dovuta la tossicità del glifosato?

In realtà, sarebbe meglio chiedere a cosa non è dovuta la tossicità di tale principio attivo. Infatti, girando un po’ per la rete internet, è venuto fuori che quando la concentrazione di glifosato supera certe dosi, esso compete con l’amminoacido glicina per la sintesi proteica. Avendo una struttura un po’ diversa dalla glicina, le proteine che si ottengono hanno delle conformazioni (ovvero delle caratteristiche strutturali tridimensionali) che non le rendono adatte ad assolvere i compiti per cui esse sono sintetizzate. Si innescano, quindi, patologie mortali. Devo dire la verità. Leggendo questa informazione ho ritenuto che essa fosse verosimile. In realtà, sicuro di me, ho dimenticato che la chimica è una scienza e, per questo, prima di ritenere verosimile una informazione occorre andare a verificare da dove questa informazione è scaturita. Ebbene, devo aggiungere che studiare per scrivere gli articoli in questo blog mi fa bene. Infatti, proprio per cercare le fonti della notizia in merito alla competizione glicina/glifosato, mi sono imbattuto in un bellissimo studio dal titolo: “Glyphosate does not substitute for glycine in proteins of actively dividing mammalian cells”. Il lavoro lo potete scaricare liberamente cliccando direttamente sull’immagine di Figura 5.

Figura 5. Studio in cui si dimostra che glicina e glifosato non competono tra loro per la sintesi proteica

In questo lavoro si evidenzia che la intercambiabilità glicina/glifosato è un mito. Una falsa informazione messa in giro ad arte per supportare delle posizioni antiscientifiche. Per semplicità riporto solo le conclusioni, piuttosto chiare, presenti alla fine dell’abstract dello studio anzidetto: “the assertion that glyphosate substitutes for glycine in protein polypeptide chains is incorrect“. Come potete leggere voi stessi, gli autori parlano di “assertion” che in inglese vuol dire “a declaration that is made emphatically (as if no supporting evidence were necessary)” (da: “Advanced English Dictionary and Thesaurus”, app per iPad).   In conclusione, se navigando in rete vi imbattete in qualcuno che dice che il glifosato si sostituisce alla glicina, potete cancellare la pagina dalla memoria del computer. Se invece leggete la notizia sulla stampa…beh…sapete adesso che potete bruciare quel giornale. Se è un vostro amico/contatto in Facebook…cancellatelo. Non vale la pena leggere quello che scrive.

Ma allora come funziona il glifosato negli animali?

La mia risposta è: non lo so. Non ho la più pallida idea di quali siano i meccanismi chimici alla base della tossicità del glifosato oltre una certa dose limite. Fino ad ora, per quanto ho potuto verificare in rete, sono pubblicati lavori che riportano di effetti negativi e fanno ipotesi (per esempio qui) che non sono sperimentalmente verificate se non in vitro. L’unica cosa che mi è chiara è che il glifosato può complessare micronutrienti metallici che funzionano da co-fattori in molti processi metabolici inibendone, quindi, l’utilizzo negli enzimi in cui essi dovrebbero essere presenti. Ma questa è una informazione che potete già leggere nel mio articolo del 2017 (qui) e che riprende le conclusioni di un lavoro del 2013 che potete liberamente scaricare qui. Peraltro, la particolare natura chimica del glifosato lo rende molto polare e, di conseguenza, particolarmente solubile in acqua. Come spiega Donatello Sandroni nel suo libro “Orco glifosato“, esso viene espulso per 2/3 nelle feci e 1/3 nelle urine​. In altre parole, se rimaniamo al di sotto delle concentrazioni limite previste per legge (in Europa la concentrazione limite assimilabile dagli organismi umani è 0.3 mg/kg/d​), il glifosato non si accumula nell’organismo.

Da tutto quanto avete letto fino ad ora, appare chiaro che non è possibile semplificare il comportamento del glifosato quando entra a contatto con il nostro organismo. Dire che il glifosato è un demone che innesca patologie di ogni tipo, semplicemente non corrisponde a verità.

Perché si possa avere un effetto tossico è necessario superare di gran lunga le soglie limite di cui abbiamo discusso fino ad ora.

Dalla Figura 4 abbiamo imparato che la LD50 di glifosato per assunzione orale è di 5 g per kg di peso corporeo. In altre parole, per cominciare ad avere effetti negativi un individuo di peso medio pari a 80 kg deve ingerire almeno 400 g di glifosato in un unico shot. Ma adesso abbiamo anche imparato che il limite massimo di glifosato che un individuo può assumere ogni giorno è 0.3 mg/kg. Se una persona pesa 80 kg, può ingerire al massimo 24 mg di glifosato al giorno. In altre parole si tratta di una quantità di glifosato circa 200 volte inferiore a quella necessaria per avere problemi di salute.

Impatto ambientale del glifosato.

Uno dei problemi che vengono spesso presi in considerazione da chi demonizza il glifosato è legato alla sua persistenza al suolo che influenzerebbe la comunità microbica presente ed al fatto che è solubile in acqua per cui può facilmente arrivare a contaminare le acque potabili.  In realtà anche quella appena indicata è una semplificazione del comportamento del glifosato. Essa è fatta in modo strumentale e fazioso ad uso e consumo di chi, non avendo strumenti adeguati, non può comprendere a fondo che si tratta di mezze verità.

Il glifosato (con la struttura rappresentata in Figura 1) è una molecola che ha almeno tre siti con i quali si può agganciare alle componenti organiche ed inorganiche presenti nei suoli. Questo, da un punto di vista ambientale, vuol dire che esso può essere lisciviato verso le falde acquifere abbastanza difficilmente rimanendo a disposizione dei microorganismi del suolo che lo possono degradare a molecole più semplici e meno tossiche. Infatti, è noto già da parecchio tempo (per esempio qui) che il glifosato subisce nei suoli processi di degradazione microbica, mentre sono poco importanti quelli di tipo fotochimico (ovvero ad opera della luce del sole) e meccanico (ovvero ad opera delle lavorazioni del suolo). È, comunque, anche vero che l’elevata solubilità del glifosato in acqua possa portare a dei concreti problemi alle forme di vita acquifere qualora esso fosse utilizzato in prossimità di tali fonti. In ogni caso, i microorganismi che vivono in acqua possono “lavorare” come quelli terrestri per decomporre il glifosato a sistemi più semplici e meno tossici. In altre parole, sia che finisca in acqua, sia che finisca al suolo, il glifosato non rimane in quei comparti a tempo indefinito, ma viene degradato microbiologicamente. Il problema è capire quali sono le concentrazioni limite di glifosato oltre le quali l’attività dei microorganismi viene inficiata. Vi ricorda qualcosa? Ma certo. È la dose che fa il veleno. Oltre un certo limite il glifosato diventa tossico anche per i microorganismi. Questo vuol dire che per evitare problemi di tipo ambientale non possiamo usare il glifosato tutti i giorni a tutte le concentrazioni possibili. Occorre una gestione oculata dell’uso di tale erbicida. Del resto…voi mangereste una sacher torte da 5 kg tutta assieme sapendo che subito dopo dovreste essere portati in pronto soccorso per intossicazione alimentare? Non è meglio centellinare la torta in modo da evitare i problemi di salute e godere del dolce per un tempo più prolungato?

Adesso permettetemi di entrare in qualche dettaglio chimico che mi serve per capire cosa bisogna fare per progettare un uso oculato del glifosato.

Volete sapere come si degrada nei suoli il glifosato? Seguendo lo schema della Figura 6.  Qui, il pathway più importante è quello riportato nella parte sinistra della figura.

Il glifosato viene prima degradato ad acido amminometilfosfonico  (AMPA) ed acido gliossilico. Mentre il primo viene trasformato in fosfato e metilammina e quest’ultima in ammonio ed anidride carbonica, l’acido gliossilico si ossida completamente ad acqua ed anidride carbonica. In definitiva i prodotti finali di questa via di degradazione sono fosfato, ammonio, anidride carbonica ed acqua.

Il meccanismo di degradazione riportato nella parte destra di Figura 6 è stato individuato in laboratorio ed avviene ad opera di microorganismi che vengono isolati dal suolo e studiati in vitro. In pratica, il glifosato viene decomposto a fosfato e sarcosina. La sarcosina viene, poi, trasformata in glicina.

Figura 6. I due pathway di degradazione del glifosato. Il primo a sinistra è la via biochimica che avviene nei suoli, il secondo a destra è la via biochimica che è stata studiata in microorganismi isolati dal suolo e studiati in vitro (da Giesy et al., 2000, Ecotoxicological risk assessment for Roundup® herbicide, Rev. Environ. Contam. Toxicol., 167: 35-120)

Il meccanismo di degradazione riportato a sinistra nella Figura 6 si può semplificare anche in questo modo: G→A→M, dove la G indica il glifosato, la A l’acido amminometilfosfonico e la M la metilammina. Se facciamo l’assunzione che la velocità di degradazione da G ad A e da A a M segua in entrambi i casi una cinetica del primo ordine, dopo calcoli più o meno complicati, si ottengono delle equazioni che possono essere graficate come in Figura 7.

Figura 7. Variazione della quantità di glifosato (curva e punti in blu) e acido amminometilfosfonico (curva e punti in arancione) nel tempo dopo deposizione al suolo di 193 mg ha-1 di una soluzione di Roundup® con concentrazione di principio attivo pari a 57.1 mM.

La curva blu indica la scomparsa nel tempo del glifosato, mentre quella in arancione l’andamento temporale di AMPA. La concentrazione di quest’ultimo prima aumenta, poi, man mano che il glifosato diminuisce, comincia a diminuire perché i microorganismi del suolo cominciano ad utilizzarlo come nutrimento per ricavare energia per il loro metabolismo.

Nelle condizioni descritte nella didascalia della figura, occorrono circa 100 giorni per arrivare a un contenuto di glifosato pari a circa 20 mg ha-1, mentre ne occorrono circa 250 per arrivare ad una analoga concentrazione di AMPA.

I diagrammi di Figura 7 sono stati ottenuti utilizzando i parametri dei suoli forestali riportati in Giesy et al., 2000, Ecotoxicological risk assessment for Roundup® herbicide, Rev. Environ. Contam. Toxicol., 167: 35-120. Questo vuol dire che a seconda del pH, temperatura, tessitura etc (ovvero le caratteristiche dei suoli soggetti alla contaminazione da glifosato), le tempistiche di degradazione possono cambiare.

Come va usato il glifosato?

Alla luce di quanto scritto fino ad ora, possiamo dire che le applicazioni di glifosato devono essere progettate in modo tale da tener conto delle caratteristiche chimico fisiche dei suoli sui quali esso verrà applicato. Due applicazioni successive non si possono fare a pochi giorni di distanza. Occorre attendere che i microorganismi facciano il loro “lavoro” portando la concentrazione dei contaminanti a livelli predefiniti, prima di poter fare una seconda applicazione.

Conclusioni

Da tutto quanto scritto in questo articolo, si capisce che non è il glifosato ad essere un problema. I problemi sono l’ignoranza e la superficialità che impediscono di capire che, se non si seguono le indicazioni degli esperti nell’uso di un erbicida, si possono avere seri problemi sia ambientali che di salute.

Cosa rispondere a tutti coloro che sono per il “NO” a tutto? Semplicemente che devono studiare. Il “no” non risolve i problemi, anzi li incrementa. La semplificazione estrema di cui essi si fanno portavoce, non consente di comprendere che i problemi ambientali (e non solo quelli) sono complessi. Problemi complessi ammettono solo risposte/soluzioni complesse.

Immagine di copertina: By W.carter – Own work, CC0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=86493357

Il glifosato nei lavori medici

Uso questo spazio per esprimere la mia rabbia contro certi sedicenti scienziati che si permettono di pubblicare certe cose senza aver fatto un minimo di analisi critica dei dati che raccolgono. Quello che fa più male è che uno si fa in quattro per insegnare ai propri studenti il valore dell’analisi critica dei dati e poi appaiono in letteratura risultati che non stanno né in cielo né in terra. Il problema, poi,  è che, essendo questi dati pubblicati, vengono presi senza senso critico e sbattuti in faccia a chi invoca attenzione alla lettura dei lavori scientifici.

Certo che se non entro nei dettagli, si capisce poco. Chiedo scusa ma sono veramente indignato.

Nelle solite discussioni Facebook sto intervenendo in un post in cui per l’ennesima volta si demonizza il glifosato. Un medico ha inserito un link ad una notizia (qui) dalla quale è possibile accedere ad un lavoro scientifico in cui si mette in correlazione causa-effetto il glifosato ed il tumore al fegato (qui). Quando si legge il lavoro pubblicato su Clinical Gastroenterology and Hepatology, si arriva ad un punto in cui è scritto:

Glyphosate (women, 0.373 μg/L; standard deviation [SD], 0.41 vs men, 0.215 μg/L; SD, 0.17) (F = 5.18; P = .025) and glyphosate residue (women, 0.833 μg/L; SD, 0.67 vs men, 0.594 μg/L; SD, 0.38) (F = 4.09; P = .046) were elevated in women as compared with men“.

Hai voglia adesso a spiegare agli studenti l’importanza delle cifre significative (qui) quando in un lavoro pubblicato è scritto 0.373 ± 0.41 μg/L, oppure 0.215 ± 0.17 μg/L, oppure 0.833 ± 0.67 μg/L, o ancora 0.594 ± 0.38 μg/L. Ma, cosa ancora più grave, come si fa a spiegare agli studenti che non è possibile trarre una qualsiasi conclusione quando l’errore sperimentale è grande quanto il dato stesso (ovvero l’errore è del 100%)?

E quello che ho individuato non è l’unico passo falso. Eccone un altro:

In multivariate models adjusting for age, sex, and body mass index, as compared with patients without NASH, AMPA (F = 5.39; P = .022) and glyphosate residue (F = 7.43; P = .008) were elevated in patients with definite NASH (Table 1). When compared with patients without advanced fibrosis (stages 0 and 1), patients with advanced fibrosis (stages 2, 3, and 4) had elevated AMPA (0.196 μg/L; SD, 0.20 vs 0.365 μg/L; SD, 0.33) (F = 9.44; P = .003), glyphosate residue (0.525 μg/L; SD, 0.38 vs 0.938 μg/L; SD, 0.372) (F = 11.9; P = .001), and glyphosate (0.230 μg/L; SD, 0.19 vs 0.351 μg/L; SD, 0.45) (F = 4.13; P = .046), respectively“.

Anche in queso caso si traggono conclusioni sulla base di risultati sperimentali con errori vicini o molto vicini al 100%.

Ma è mai possibile che i reviewers non si siano accorti di un simile obbrobrio scientifico?

E questo è solo uno dei lavori che i detrattori del glifosato usano come leva per spingere all’abolizione dell’uso di questo erbicida in agricoltura.

Fonte dell’immagine di copertina: https://it.wikipedia.org/wiki/Glifosato

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