L’atomo della pace: This is the dawning of the Age of Aquarius

“L’energia liberata dall’atomo non sarà più impiegata per la distruzione, ma per il bene dell’umanità.” Con queste parole, nel 1953, il presidente degli Stati Uniti Dwight D. Eisenhower lanciava al mondo il programma Atoms for Peace, in un celebre discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. Era il tentativo, ambizioso e visionario, di trasformare il simbolo stesso della guerra in una promessa di progresso, usando le tecnologie nucleari non per armare le nazioni, ma per alimentare ospedali, centrali elettriche e laboratori scientifici.

Settant’anni dopo, quella visione resta più attuale che mai. In un pianeta che affronta crisi ambientali sempre più gravi e una domanda crescente di energia, l’atomo torna a farsi sentire: non come spettro del passato, ma come possibile chiave per un futuro più sostenibile.

Eppure, mentre la scienza offre strumenti per usare l’energia nucleare a beneficio della società, c’è ancora chi preferisce impiegarla per rafforzare equilibri di potere instabili, costruendo arsenali atomici in grado di distruggere il pianeta che abitiamo. Una scelta anacronistica, fondata su interessi politici miopi e incapaci di cogliere il potenziale positivo di una delle scoperte più straordinarie del Novecento.

Nel dibattito sulla transizione energetica, l’energia nucleare torna oggi al centro dell’attenzione. Di fronte all’urgenza climatica e alla crescente domanda globale di energia, le tecnologie nucleari civili si presentano come una delle soluzioni più promettenti per garantire una produzione elettrica stabile, sicura e a basse emissioni di carbonio.

Nonostante il peso simbolico lasciato da eventi come Chernobyl e Fukushima, i dati raccolti in decenni di esercizio mostrano che il nucleare civile è, per unità di energia prodotta, una delle fonti più sicure e pulite disponibili. Le nuove tecnologie oggi in sviluppo, come i reattori modulari di piccola taglia (SMR) e i reattori di IV generazione, puntano a migliorare ulteriormente la sicurezza, l’efficienza del combustibile e la gestione dei rifiuti. Alcuni progetti prevedono sistemi di sicurezza passiva, in grado di spegnere il reattore in caso di emergenza senza intervento umano né alimentazione elettrica esterna. Altri lavorano su cicli del combustibile chiusi, per ridurre drasticamente la quantità di scorie radioattive a lunga vita.

Parallelamente, progetti come ITER e numerose iniziative private stanno esplorando la strada della fusione nucleare, l’unica tecnologia in grado di imitare il funzionamento del Sole: energia virtualmente illimitata, senza il rischio di fusione del nocciolo e con rifiuti di gran lunga meno problematici rispetto alla fissione.

La chimica ambientale resta al cuore di queste sfide: dalla separazione degli attinidi alla progettazione di materiali resistenti, dalla speciazione degli isotopi radioattivi alla modellazione del loro comportamento nel suolo e nelle acque sotterranee. Capire come gli elementi si muovono, decadono, si adsorbono o si fissano in forma solida non è solo un esercizio accademico: è una condizione necessaria per progettare impianti più sicuri, prevedere il comportamento delle scorie e gestire correttamente il rischio.

Tuttavia, un ostacolo importante resta la percezione pubblica del rischio. L’energia nucleare continua a suscitare paure profonde, spesso basate su eventi eccezionali e su una comunicazione scientifica carente. Colmare questo divario tra realtà tecnica e immaginario collettivo è una responsabilità etica, oltre che culturale.

I radionuclidi non sono pericolosi per natura. Lo diventano solo quando vengono gestiti con superficialità, trascuratezza o opacità. Gli stessi elementi che in passato hanno provocato danni enormi se impiegati in modo irresponsabile, oggi ci permettono di curare malattie, studiare il passato, comprendere il clima e produrre energia pulita.

Abbiamo ereditato l’età dell’atomo come simbolo di potere e minaccia, ma possiamo ancora trasformarla in qualcos’altro. Forse è il momento di farla coincidere, almeno in parte, con quella età dell’Acquario cantata negli anni ’60: un’epoca immaginata di pace, di fiducia nella scienza, di armonia tra progresso e umanità.

Non si tratta di utopia, ma di responsabilità. Perché l’atomo, da solo, non porta né salvezza né rovina. È la mano che lo guida, e la visione che lo orienta, a determinarne il destino.

Sta a noi decidere se vivere nella paura del passato o costruire, con consapevolezza, un futuro possibile e migliore.

Una buccia vi sfamerà

Dalla fame di guerra al valore nascosto negli scarti: viaggio scientifico e umano nella buccia di patata.

Mi sto avvicinando ai sessant’anni. È più il tempo che ho vissuto che quello che ancora mi resta e, con la vecchiaia, certe volte vengo sommerso dai ricordi di quando ero piccolo. Entrambi i miei genitori hanno vissuto la guerra. Mia madre come bambina. Nata nel 1938, aveva circa un anno quando Hitler invase la Polonia e circa due quando l’Italia entrò in guerra. Ora non c’è più. È scomparsa nel 2016 per le conseguenze di un tumore ai polmoni. Ma mi ricordo che di tanto in tanto le venivano dei flash grazie ai quali ricordava di quando i suoi fratelli (lei era l’ultima di quattro; ben 22 anni la separavano dal fratello più grande) la prendevano in braccio cercando di non terrorizzarla per accompagnarla nei rifugi anti aerei. Un po’ come nel film “La vita è bella” che ha valso a Roberto Benigni il premio Oscar.

Mio padre, invece, di sedici anni più anziano di mia madre, ha passato l’intera guerra come POW (prisoner of war) in Africa. Si era trasferito in Etiopia per lavorare assieme agli zii quando aveva circa 16 anni e si trovava ad Adis Abeba come impiegato civile quando gli inglesi sconfissero gli italiani. Fu imprigionato per cinque anni in vari campi di prigionia sparsi per il continente africano e ha sempre raccontato degli stenti che ha dovuto sopportare per poter sopravvivere: dagli incontri di pugilato contro pugili professionisti per poter racimolare qualche alimento per tenersi in vita, alle fosse scavate nella sabbia nelle quali si seppelliva per sopravvivere al caldo dei deserti africani. Anche mio padre non c’è più. È scomparso nel 1998 ed anche lui per le conseguenze di tumori ai polmoni.

Non sto scrivendo questa storia per intenerire, ma solo per creare il contesto di quanto mi accingo a raccontare.

Sia dai racconti dei miei genitori, sia da quelli che faceva mia nonna, la madre di mio padre – l’unica nonna che ho conosciuto, ho sempre saputo che la guerra è una brutta bestia. Lo sanno benissimo tutti quelli che ancora oggi sono sotto i bombardamenti: il cibo scarseggia, la fame, quella vera, non quella da “buco allo stomaco” di noi viziati che le guerre non le abbiamo mai vissute e viviamo, sostanzialmente, nell’opulenza, si fa sentire. E quando la fame si fa sentire si mangia qualunque cosa, altro che “questo non mi piace” o “ho una lieve intolleranza al glutine”. Quando la fame avanza, ci mangeremmo qualsiasi cosa. Ed è quello che accadeva durante la guerra: anche quelli che per noi oggi sono scarti, venivano usati per alimentarsi. E sapete quali scarti venivano usati, tra gli altri? Le bucce di patata.

Quando me lo raccontavano non riuscivo a immaginarlo. Le bucce? Quelle che si buttano via senza pensarci? Eppure, col tempo, e forse anche grazie al mio lavoro, ho imparato che il racconto di mia nonna e dei miei genitori era molto più che una memoria di sopravvivenza: era un piccolo spaccato di biochimica popolare.

Le bucce non sono rifiuti

Dal punto di vista nutrizionale, le bucce di patata non sono uno scarto. Al contrario: rappresentano una parte preziosa del tubero. Contengono una quantità significativa di fibre alimentari, vitamine e sali minerali, spesso superiore a quella della polpa stessa. In particolare, la vitamina C, le vitamine del gruppo B e il potassio si concentrano proprio vicino alla superficie esterna. Inoltre, la buccia ospita una varietà di polifenoli, composti antiossidanti come l’acido clorogenico, che oggi studiamo per il loro ruolo nella protezione cellulare.

Dal punto di vista energetico, le bucce non sono ricche quanto la polpa amidacea, ma in tempi di carestia potevano comunque offrire un contributo calorico importante. Se bollite o fritte, conservavano buona parte dei micronutrienti ed erano capaci di saziare. Non è un caso, infatti, che in molte parti d’Europa, dalla Germania alla Russia, le bucce siano state cucinate, essiccate o addirittura ridotte in farina nei periodi più difficili.

Un equilibrio delicato

C’è però un lato oscuro: le bucce di patata contengono anche glicoalcaloidi naturali, come la solanina e la chaconina, che le piante producono come difesa contro funghi e insetti. In piccole dosi non rappresentano un pericolo, ma in alte concentrazioni possono causare disturbi gastrointestinali e neurologici. Le bucce verdi, germogliate o esposte alla luce sono le più ricche di solanina, e vanno evitate. Ma le bucce sane, ben cotte, erano, e sono ancora, sicure, specie se trattate con il buon senso tramandato più che con la chimica.

Una lezione dal passato

Oggi, in un mondo che produce più rifiuti alimentari di quanto possa giustificare, quella vecchia storia di bucce mangiate per fame mi torna alla mente con una sfumatura diversa. Non solo come testimonianza di resilienza, ma come invito a riconsiderare il valore del cibo in ogni sua parte. In laboratorio, so bene quanto lavoro ci sia dietro l’estrazione di un antiossidante da una buccia. Ma forse il sapere contadino, quello di mia nonna o dei miei genitori, aveva già intuito tutto: che in una buccia c’è più nutrimento di quanto sembri, e che a volte, per sopravvivere bisogna imparare a guardare il cibo con occhi diversi.

E così, mentre il ricordo di quelle storie si fa ogni giorno più tenue, mi piace pensare che un pezzetto di chimica, di biologia e di dignità sia rimasto impigliato in quella buccia sottile. E che valga ancora la pena raccontarlo.

Riferimenti

Potato Skin: Nutrition Facts and Calories for 100 Grams

A comparative study on proximate and mineral composition of coloured potato peel and flesh

Composition of phenolic compounds and glycoalkaloids alpha-solanine and alpha-chaconine during commercial potato processing

The Best & Edible Fruit and Vegetable Skins You Need to Try

Risk assessment of glycoalkaloids in feed and food, in particular in potatoes and potato‐derived products

 

Parabrezza puliti e insetti scomparsi: ma davvero davvero?

Nel 2020, durante la pandemia, pubblicai una breve nota sul cosiddetto “windscreen phenomenon“. Per chi volesse rileggerla, ecco il link:

Sugli insetti e sui parabrezza – www.pellegrinoconte.com

Negli ultimi anni, questa teoria ha continuato a circolare. L’idea che il numero di insetti stia diminuendo drasticamente perché i parabrezza delle auto si sporcano meno rispetto al passato è oggi più attendibile di quanto non lo fosse cinque anni fa?

Osservazioni aneddotiche vs. evidenze scientifiche

È importante distinguere tra osservazioni personali e dati scientifici. Il fatto che oggi i parabrezza sembrino più puliti non costituisce una prova concreta del declino globale degli insetti. Le variabili in gioco sono molteplici: cambiamenti nei modelli di traffico, aerodinamica delle auto moderne, variazioni climatiche locali e stagionali, per citarne alcune.

Studi recenti sul declino degli insetti

Diversi studi scientifici hanno documentato un effettivo declino delle popolazioni di insetti:

Il problema del “windscreen phenomenon” come indicatore

Utilizzare il numero di insetti sul parabrezza come misura del declino globale presenta diverse problematiche:

  • Variabilità delle condizioni di guida: percorsi, velocità, condizioni climatiche e tipologie di veicoli influenzano significativamente il numero di insetti che colpiscono il parabrezza.
  • Effetti di bordo e distribuzione degli insetti: le strade creano discontinuità nel paesaggio, influenzando la distribuzione degli insetti e rendendo difficile generalizzare le osservazioni.
  • Bias di campionamento: le osservazioni sono spesso limitate a determinate aree e periodi, non rappresentando accuratamente la situazione globale.

Conclusione

Come scrivevo già nel 2020, anche oggi è necessario ribadire che, sebbene il declino degli insetti sia un fenomeno reale ed allarmante, le conclusioni devono basarsi su studi scientifici solidi, non su impressioni personali. Il “windscreen phenomenon” può forse stimolare la curiosità o fornire uno spunto iniziale, ma non rappresenta in alcun modo una prova scientifica.

L’aneddotica non è probante e il “lo dicono tutti” non è – né sarà mai – un metodo scientificamente valido.

Come disse un celebre divulgatore: la scienza non si fa per alzata di mano.

La democrazia scientifica non funziona come quella politica: non tutte le opinioni hanno lo stesso peso. E, a ben vedere, nemmeno in politica tutte le opinioni sono uguali – quelle che negano i diritti fondamentali dell’uomo non possono e non devono essere considerate accettabili.

In ambito scientifico, il confronto è possibile solo tra persone con un background adeguato, perché solo così si può parlare la stessa lingua: quella del metodo.

Chimica e intelligenza artificiale: un’alleanza per il futuro della scienza

Avrete sicuramente notato che oggi l’intelligenza artificiale (AI) sta diventando una presenza sempre più costante nelle nostre vite. Sono tantissimi gli ambiti in cui l’AI riesce a sostituire con successo l’essere umano. Si potrebbe dire che questa rivoluzione sia iniziata molto tempo fa, con i primi robot che hanno cominciato a svolgere compiti ripetitivi al posto dell’uomo, come nelle catene di montaggio o, più drammaticamente, nei contesti bellici, dove i droni sono diventati strumenti chiave per ridurre il numero di vittime umane.

Negli ultimi anni, lo sviluppo vertiginoso delle reti neurali artificiali ha portato alla nascita di veri e propri “cervelli digitali” che, presto, anche se non sappiamo quanto presto, potrebbero avvicinarsi, per certi aspetti, alle capacità del cervello umano.

Nel frattempo, però, l’intelligenza artificiale già funziona alla grande ed è sempre più presente in numerosi settori, tra cui la chimica, che rappresenta uno dei campi più promettenti.

All’inizio può sembrare curioso accostare molecole, reazioni chimiche e leggi della fisica a concetti come algoritmi e reti neurali. Eppure, l’unione di questi mondi sta rivoluzionando il modo in cui facciamo ricerca, progettiamo nuovi materiali, affrontiamo le sfide ambientali e persino come insegniamo la scienza.

Ma cosa significa, concretamente, applicare l’intelligenza artificiale alla chimica?

Scoprire nuove molecole (senza provare tutto in laboratorio)

Uno degli ambiti in cui l’intelligenza artificiale si è rivelata più utile è la scoperta di nuovi composti chimici. Fino a qualche tempo fa, per trovare una molecola utile, un farmaco, un catalizzatore, un materiale con proprietà particolari, bisognava fare molti tentativi sperimentali, spesso lunghi e costosi.

Negli ultimi decenni, la chimica computazionale ha cercato di alleggerire questo carico, permettendo ai ricercatori di simulare al computer il comportamento di molecole, reazioni e materiali. Tuttavia, anche le simulazioni più avanzate richiedono molto tempo di calcolo e competenze specialistiche, oltre ad avere dei limiti nella scala e nella complessità dei sistemi che si possono trattare.

Qui entra in gioco l’intelligenza artificiale: grazie a modelli di machine learning sempre più raffinati, è possibile prevedere rapidamente il comportamento di una molecola, come la sua stabilità, la reattività, o la capacità di legarsi a un bersaglio biologico, semplicemente a partire dalla sua struttura. Questi algoritmi apprendono da enormi quantità di dati sperimentali e teorici e sono in grado di fare previsioni accurate anche su molecole mai testate prima.

In altre parole, l’AI sta cominciando a superare i limiti della chimica computazionale tradizionale, offrendo strumenti più rapidi, scalabili e spesso più efficaci nel guidare la ricerca. Invece di provare tutto in laboratorio (o simulare tutto al computer), oggi possiamo usare modelli predittivi per concentrare gli sforzi solo sulle ipotesi più promettenti.

Cosa vuol dire “machine learning”?

Il machine learning, o apprendimento automatico, è una branca dell’intelligenza artificiale che permette a un computer di imparare dai dati. Invece di essere programmato con regole rigide, un algoritmo di machine learning analizza una grande quantità di esempi e impara da solo a riconoscere schemi, fare previsioni o prendere decisioni.

È un po’ come insegnare a un bambino a distinguere un cane da un gatto: non gli spieghi la definizione precisa, ma gli mostri tante immagini finché impara da solo a riconoscerli.

Nel caso della chimica, l’algoritmo può “guardare” migliaia di molecole e imparare, per esempio, quali caratteristiche rendono una sostanza più solubile, reattiva o stabile.

Simulare ciò che non possiamo osservare

In molti casi, la chimica richiede di capire cosa succede a livello atomico o molecolare, dove gli esperimenti diretti sono difficili, costosi o addirittura impossibili. Ad esempio, osservare in tempo reale la rottura di un legame chimico o l’interazione tra una superficie metallica e un gas può essere tecnicamente molto complicato.

Qui entrano in gioco la chimica computazionale e, sempre di più, l’intelligenza artificiale. I metodi classici di simulazione, come la density functional theory (DFT) o le dinamiche molecolari, permettono di studiare reazioni e proprietà microscopiche con una certa precisione, ma sono spesso limitati dalla potenza di calcolo e dal tempo necessario per ottenere risultati.

L’AI può affiancare o persino sostituire questi metodi in molti casi, offrendo simulazioni molto più rapide. Gli algoritmi, addestrati su grandi insiemi di dati teorici o sperimentali, riescono a prevedere energie di legame, geometrie molecolari, traiettorie di reazione e persino comportamenti collettivi di materiali complessi, con un livello di precisione sorprendente.

Questo approccio è particolarmente utile nella chimica dei materiali, nella catalisi e nella chimica ambientale, dove le condizioni reali sono dinamiche e complesse, e spesso è necessario esplorare molte variabili contemporaneamente (temperatura, pressione, pH, concentrazione, ecc.).

In sintesi, grazie all’AI, oggi possiamo “vedere” l’invisibile e testare ipotesi teoriche in modo veloce e mirato, risparmiando tempo, denaro e risorse. La simulazione assistita dall’intelligenza artificiale sta diventando una delle strategie più promettenti per affrontare problemi scientifici troppo complessi per essere risolti con i soli strumenti tradizionali.

Insegnare (e imparare) la chimica in modo nuovo

Anche il mondo dell’istruzione sta vivendo una trasformazione grazie all’intelligenza artificiale. La didattica della chimica, spesso considerata una delle materie più “dure” per studenti e studentesse, può oggi diventare più coinvolgente, personalizzata ed efficace proprio grazie all’uso di strumenti basati su AI.

Uno dei vantaggi principali è la possibilità di adattare il percorso di apprendimento alle esigenze del singolo studente. Grazie a sistemi intelligenti che analizzano le risposte e i progressi individuali, è possibile proporre esercizi mirati, spiegazioni alternative o materiali supplementari in base al livello di comprensione. Questo approccio personalizzato può aiutare chi è in difficoltà a colmare lacune e, allo stesso tempo, stimolare chi è più avanti ad approfondire.

L’AI può anche contribuire a rendere la chimica più visiva e interattiva. Alcune piattaforme, ad esempio, usano modelli predittivi per generare visualizzazioni 3D di molecole, reazioni chimiche o strutture cristalline, rendendo più intuitivi concetti spesso astratti. In più, i chatbot educativi (come quelli alimentati da modelli linguistici) possono rispondere a domande in tempo reale, spiegare termini complessi in modo semplice o simulare piccoli esperimenti virtuali.

Un’altra frontiera interessante è quella della valutazione automatica e intelligente: sistemi di AI possono correggere esercizi, test e report di laboratorio, offrendo feedback tempestivo e accurato. Questo libera tempo per l’insegnante, che può concentrarsi sulla guida e sul supporto più qualitativo.

Infine, l’intelligenza artificiale può aiutare anche chi insegna: suggerendo materiali didattici aggiornati, creando quiz su misura per ogni lezione, o analizzando l’andamento della classe per identificare i concetti che vanno ripresi o approfonditi.

In sintesi, l’AI non sostituisce il docente o il laboratorio, ma li potenzia, offrendo nuovi strumenti per rendere l’insegnamento della chimica più accessibile, efficace e stimolante.

Una rivoluzione che non sostituisce il chimico

Di fronte a questi progressi, è naturale chiedersi: quale sarà allora il ruolo del chimico nel futuro? La risposta è semplice: sarà sempre più centrale, ma in modo diverso.

L’intelligenza artificiale è uno strumento potente, ma resta pur sempre uno strumento. Può accelerare le ricerche, suggerire ipotesi, esplorare combinazioni complesse o evidenziare correlazioni nascoste. Ma non può, da sola, sostituire la competenza critica, l’intuizione, l’esperienza e la creatività che solo un/una chimico/a formato/a può offrire.

Un errore molto comune, oggi, è considerare l’AI come una sorta di enciclopedia moderna, da cui si possano estrarre risposte esatte, univoche, perfette. Ma la chimica non funziona così e neppure l’intelligenza artificiale. Entrambe si muovono su terreni complessi, fatti di ipotesi, interpretazioni, modelli e approssimazioni. Pretendere dall’AI risposte definitive senza saper valutare, filtrare o indirizzare i risultati è un rischio.

Proprio come un bambino brillante, l’AI va educata e guidata. Ha bisogno di esempi buoni, di dati corretti, di domande ben formulate.

E, soprattutto, ha bisogno di essere “letta” da occhi esperti, capaci di interpretare e contestualizzare quello che produce.

In chimica, come nella scienza in generale, la conoscenza non è mai solo questione di calcoli o statistiche: è anche, e soprattutto, comprensione profonda dei fenomeni.

Quindi, piuttosto che temere l’arrivo dell’intelligenza artificiale, dobbiamo imparare a collaborarci con intelligenza.

Il chimico del futuro non sarà un tecnico che esegue, ma un regista che sa orchestrare strumenti nuovi per rispondere a domande sempre più complesse. Ed è proprio questa, forse, la sfida più stimolante dei nostri tempi.

Riferimenti

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Microplastiche: i rischi che conosciamo, le sorprese che non ti aspetti

Quando pensiamo all’inquinamento da plastica, ci vengono subito in mente bottiglie che galleggiano negli oceani, sacchetti impigliati tra i rami degli alberi o imballaggi abbandonati nei fossi (Figura 1).

Figura 1. Tracce invisibili del nostro tempo: bottiglie, sacchetti e frammenti di plastica si insinuano nei paesaggi naturali, segnando il confine sottile tra quotidiano e catastrofe ambientale.

Ma esiste un tipo di plastica molto più subdolo e pericoloso, perché invisibile ai nostri occhi: le microplastiche. Questi minuscoli frammenti, spesso più piccoli di un chicco di riso, sono ormai ovunque: nell’acqua che beviamo, nell’aria che respiriamo, nel suolo che coltiviamo e persino, come recenti studi hanno dimostrato, dentro il nostro corpo.

Le microplastiche possono essere prodotte intenzionalmente, come accade ad esempio per le microperle usate in alcuni cosmetici e detergenti industriali. In altri casi, invece, derivano dalla frammentazione di oggetti di plastica più grandi, spezzati nel tempo da sole, vento, onde e attrito. Qualunque sia la loro origine, una volta disperse nell’ambiente, diventano praticamente impossibili da recuperare.

Se inizialmente l’attenzione della ricerca si è concentrata soprattutto sull’ambiente marino, oggi sappiamo che le microplastiche si trovano ovunque. Sono presenti nei mari, nei laghi, nei fiumi, ma anche nei ghiacciai e nell’atmosfera. Sono state rinvenute in alimenti di uso comune, come il pesce, il sale e perfino il miele. E non si tratta solo di contaminazione esterna: alcune ricerche hanno individuato tracce di microplastiche in campioni biologici umani, come sangue, feci e placenta. È una diffusione capillare, e proprio per questo difficile da controllare.

Un campo che ha attirato crescente interesse negli ultimi anni è quello dei suoli. Spesso trascurato rispetto agli ambienti acquatici, il suolo si sta rivelando un enorme serbatoio di microplastiche. La plastica può arrivarci attraverso molteplici vie: dai fanghi di depurazione usati in agricoltura, dai rifiuti plastici agricoli, dal compost contaminato, fino alla semplice deposizione atmosferica. Alcuni studi stimano che i suoli possano contenere più microplastiche degli oceani.

Ma quello che ha sorpreso molti ricercatori è che, in certi casi e in certe condizioni, la presenza di microplastiche nel suolo sembra produrre effetti inaspettati, non tutti negativi. Ad esempio, le plastiche possono contribuire ad aumentare la porosità del terreno, migliorandone l’aerazione e il drenaggio. In alcune situazioni, è stata osservata una maggiore stabilità degli aggregati del suolo e una migliore ritenzione idrica, caratteristiche che potrebbero essere utili, ad esempio, in contesti agricoli soggetti a siccità (Figura 2).

Figura 2. In alcune condizioni, la presenza di microplastiche nel suolo può modificare la struttura degli aggregati, favorendo aerazione, porosità e ritenzione idrica: effetti apparentemente utili in contesti agricoli aridi, ma non privi di rischi a lungo termine.

Anche dal punto di vista biologico, gli effetti sono controversi. Alcuni esperimenti hanno riportato un incremento dell’attività di lombrichi e di alcuni microrganismi in presenza di microplastiche, suggerendo un adattamento o una stimolazione di certi processi. Tuttavia, altri studi mettono in guardia: le stesse microplastiche possono alterare la composizione delle comunità microbiche del suolo, interferire con l’attività enzimatica, ostacolare la germinazione delle piante e veicolare sostanze tossiche, come metalli pesanti o pesticidi, adsorbiti sulla loro superficie.

Insomma, si tratta di una situazione complessa. Gli effetti variano molto a seconda del tipo di plastica, della sua forma — che siano fibre, frammenti o sfere — della concentrazione e, naturalmente, delle caratteristiche del suolo ospite. Anche se in certi casi le microplastiche sembrano migliorare temporaneamente alcune proprietà fisiche del terreno, la loro persistenza, la potenziale tossicità chimica e gli effetti a lungo termine sulla salute degli ecosistemi rendono il bilancio complessivo tutt’altro che rassicurante.

La chimica gioca un ruolo chiave in questa sfida. Grazie a essa possiamo non solo comprendere meglio il comportamento delle microplastiche nell’ambiente, ma anche sviluppare strategie per contrastarne la diffusione. La ricerca lavora su materiali biodegradabili, su metodi per separare e rimuovere microplastiche da acque e fanghi, su traccianti molecolari per seguirne il destino nell’ambiente e su tecnologie per limitarne l’ingresso nelle filiere produttive.

Ma anche nel nostro piccolo possiamo contribuire. Ridurre l’uso di plastica monouso, preferire materiali naturali per abbigliamento e oggetti di uso quotidiano, evitare prodotti cosmetici contenenti microperle — basta leggere le etichette con attenzione — sono scelte semplici che, moltiplicate per milioni di persone, possono fare una differenza reale. E soprattutto, possiamo diffondere consapevolezza. Perché le microplastiche sono piccole, sì, ma la loro portata è enorme. Capirle, raccontarle e affrontarle è un passo essenziale per costruire un rapporto più equilibrato tra l’uomo, la chimica e l’ambiente.

Riferimenti

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Prata, J.C., et al. (2020). Environmental exposure to microplastics: An overview on possible human health effects. Science of the Total Environment, 702, 134455. (https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0048969719344468?via%3Dihub)

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Zhang, G.S., Liu, Y.F. (2018). The distribution of microplastics in soil aggregate fractions in southwestern China. Science of the Total Environment, 642, 12–20. (https://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0048969718320667?via%3Dihub)

Dal ppm al femtogrammo: i pesticidi c’erano anche prima ma non li vedevamo

Ogni tanto circolano articoli dai toni allarmistici che mostrano quanto spesso oggi si trovino tracce di pesticidi negli alimenti, nell’acqua, nel suolo. “Una volta queste cose non c’erano”, si legge. Ma è davvero così? La risposta è semplice: no, non è che una volta non ci fossero, è che non eravamo in grado di vederle.

La differenza sta negli occhi, non nelle cose

In chimica analitica, quando si parla di rilevare una sostanza, non si usa mai dire con leggerezza “non c’è”. Si dice invece “non determinabile” (N.D.): vuol dire che non è rilevabile con gli strumenti disponibili, non che la sostanza non sia presente. È come cercare di vedere le stelle con un binocolo da teatro: non le vedi, ma non vuol dire che non ci siano.

E proprio come un telescopio moderno rivela galassie invisibili a Galileo, gli strumenti di oggi vedono tracce infinitesimali di sostanze che gli strumenti di ieri non riuscivano minimamente a percepire.

Un po’ di storia: quanto si vedeva ieri?

  • Anni ’50-’60: i primi gascromatografi (GC) usavano rivelatori come il TCD (rilevava a partire da 1-10 ppm, cioè parti per milione) o il più sensibile FID (circa 0.1 ppm). I pesticidi? Difficili da vedere, se non in quantità elevate.
  • Anni ’70-’80: entra in scena l’Electron Capture Detector (ECD), molto sensibile per sostanze come i pesticidi: arriva a livelli di 0.1 picogrammi, cioè un miliardesimo di milligrammo! Anche il GC-MS (gascromatografia accoppiata a spettrometria di massa) comincia a essere usato per rilevare composti in tracce.
  • Anni ’90-2000: con strumenti più raffinati come il GC-MS/MS, si scende ancora: si arriva a livelli di femtogrammi (mille miliardesimi di grammo). La sensibilità è altissima e il rumore di fondo si riduce grazie a nuove tecnologie (Figura 1).

Dal 2010 in poi: l’uso di spettrometri ad alta risoluzione (HRMS), colonne capillari e nuovi algoritmi di elaborazione dei dati ci porta a una capacità di rilevazione fino a 0.001 picogrammi.

Figure 1. il grafico mostra l'evoluzione dei limiti di rilevazione (LOD) in picogrammi, su scala logaritmica, per alcune delle tecniche analitiche più usate nella chimica analitica dal 1960 a oggi. Negli anni ’60 si vedevano solo concentrazioni nell’ordine dei ppm, oggi possiamo rilevare sostanze anche a femtogrammi, cioè mille miliardesimi di grammo.

Figura 1. il grafico mostra l’evoluzione dei limiti di rilevazione (LOD) in picogrammi, su scala logaritmica, per alcune delle tecniche analitiche più usate nella chimica analitica dal 1960 a oggi. Negli anni ’60 si vedevano solo concentrazioni nell’ordine dei ppm, oggi possiamo rilevare sostanze anche a femtogrammi, cioè mille miliardesimi di grammo.

Quindi oggi i pesticidi sono più usati?

No, non è questo il punto. È che oggi possiamo vedere concentrazioni che una volta erano semplicemente invisibili. È come se avessimo acceso una torcia in una stanza buia. Le cose nella stanza c’erano anche prima. Solo, non potevamo vederle (Figura 2).

Figura 2. Come vediamo gli analiti oggi. Il miglioramento della sensibilità strumentale ci consente di vedere cose che cinque, dieci, venti e più anni fa non eravamo in grado di rilevare.

Un esempio pratico

Un pesticida presente in un campione d’acqua nel 1970 in quantità pari a 5 picogrammi per litro non sarebbe stato rilevato da nessuno strumento allora disponibile. Oggi sì. Ma non significa che quel pesticida non ci fosse allora.

Conclusione

Quando leggiamo “oggi si trovano più pesticidi”, chiediamoci prima se si tratta di un aumento reale o semplicemente di un salto nella capacità di osservazione. La chimica analitica, nel frattempo, ha fatto un balzo gigantesco: non siamo più immersi nei veleni, siamo immersi nei dati. E questo è un enorme passo avanti.

Riferimenti

“Bella e Potente” (L. Cerruti)

Basic Gas Chromatography (H.M. McNair, J.M. Miller)

Gohlke, R.S. (1959)Analytical Chemistry, 31, 535–541.

Karayannis, M.I.; Efstathiou, C.E. (2012). Talanta, 102, 7-15

Perché studiare chimica e fisica? L’innalzamento ebullioscopico

Avete presente la classica robetta sul mettere il sale prima o dopo che l’acqua ha cominciato a bollire? Questa cosa mi ha sempre lasciato perplesso perché ho sempre pensato che chiunque abbia frequentato con profitto le scuole superiori conosca le proprietà colligative e sa cosa significa innalzamento ebullioscopico. Traduco per i meno esperti: l’innalzamento ebullioscopico è l’innalzamento della temperatura di ebollizione di un solvente quando in esso vengano aggiunti dei soluti. Nel caso specifico, il solvente è l’acqua mentre il soluto è il cloruro di sodio (NaCl), popolarmente conosciuto come sale da cucina.

La solubilità in acqua del cloruro di sodio a 100 °C è di circa 400 g L-1.

L’innalzamento ebullioscopico si calcola usando la formuletta:

ΔT=keb · m · i                                                                                         (1)

dove ΔT è la variazione della temperatura di ebollizione tra il solvente che contiene il soluto e quella del solvente puro; keb è una costante che si chiama costante ebullioscopica. Essa è tabulata per ogni solvente. Per l’acqua, la keb assume il valore di 0.512 °C kg mol-1. Infine, m è la cosiddetta molalità, ovvero la concentrazione di soluto espressa in mol kg-1, dove il peso si riferisce al solvente usato, mentre i è il cosiddetto coefficiente di Vant’Hoff.

Adesso possiamo applicare la formuletta (1) per calcolare quale quantità di cloruro di sodio permette di alzare la temperatura di ebollizione dell’acqua di quantità note. Quelle che che ho preso in considerazione sono le seguenti:

ΔT = 0.01; 0.025; 0.05; 0.075; 0.1; 0.25; 0.5; 0.75; 1; 1.25; 1.5; 1.75; 2; 2.25; 2.5; 2.75; 3; 3.25; 3.5

Dal grafico riportato nella figura qui sotto, ne viene che per aumentare di un solo grado centigrado la temperatura di ebollizione di un litro di acqua occorrono circa 114 g di NaCl. In realtà, noi non aggiungiamo mai oltre 100 g di sale nell’acqua che mettiamo a bollire per la pasta. Tutt’al più ne usiamo un decimo, ovvero circa una decina di grammi. Dallo stesso grafico si evince come l’aggiunta di una decina di grammi di NaCl ad un litro di acqua innalza il punto di ebollizione nell’intervallo 0.075 – 0.1 °C. In altre parole, la temperatura di ebollizione passa da 100 °C all’intervallo di temperature compreso tra 100.08 e 100.1 °C.

Ancora pensate, voi adulti, che chiedere se aggiungere il sale prima o dopo l’ebollizione sia una domanda seria?

Edit: nel calcolo dell’innalzamento ebullioscopico non ho tenuto conto del coefficiente di Vant’Hoff che, per il cloruro di sodio, è pari a 2. Questo vuol dire che, introducendo questo fattore di correzione, l’aumento di temperatura dell’acqua a cui si aggiungono grosso modo una decina di grammi di NaCl è intorno a 0.1-0.2 °C. Insomma, da 100 °C si passa a 100.1-100.2 °C. Rimane sempre valida la domanda: ancora pensate, voi adulti, che chiedere se aggiungere il sale prima o dopo l’ebollizione sia una domanda seria?

 

Fonte dell’immagine di copertina

Bullismo accademico

Recentemente, grazie ad un amico e collega, ho letto un articolo molto interessante sul cosiddetto bullismo accademico, ovvero quella serie di atteggiamenti perversi che vengono usati contro le minoranze accademiche (tra cui spiccano le donne) per bloccare le carriere universitarie. Si tratta di un articolo molto interessante che, volendo, ha anche una certa applicabilità generale al di fuori dell’accademia. Mi riferisco, in particolare, a tutti quegli atti di prevaricazione che portano anche al femminicidio e messi in atto da quei maschi che sentono minata la loro mascolinità da donne che cercano di farsi strada nella famiglia, nel sociale e nel lavoro.

Non sono un sociologo e men che meno uno psicologo o psichiatra. Tuttavia, sbagliata o giusta che sia, mi sono fatto un’opinione in merito all’odio che porta i maschi a rivalersi sulle donne. Si tratta del rifiuto di accettare l’evoluzione culturale. Come esseri umani ci stiamo evolvendo. L’evoluzione non è soltanto legata all’adattamento fisico all’ambiente che ci circonda, ma è anche legata alla cultura, ovvero alla forma mentis che ci consente di assumere atteggiamenti e pensieri che sono diversi da quelli che erano in auge 10, 20 o 30 anni fa. L’evoluzione culturale sembra più veloce nelle donne che nei maschi e questi ultimi non accettano che una donna possa emanciparsi, pensare meglio di loro, lavorare meglio di loro ed ottenere risultati migliori dei loro. L’incapacità culturale di affrontare il confronto sfocia nella cosiddetta violenza di genere.

La parola chiave per descrivere efficacemente la violenza di genere o quella verso le minoranze sotto rappresentate è: mediocrità. In altre parole solo un maschio mediocre non è in grado di accettare che ci possa essere qualcuno (donna o uomo che sia) migliore di lui. In questo contesto i termini “uomo” e “donna” non si riferiscono solo ad una separazione di genere fisico, ma anche al modo con cui ogni essere umano percepisce se stesso.

Come ho detto, non sono uno specialista e quanto appena scritto è solo una mia opinione. Tuttavia, vale la pena leggere l’articolo di cui accennavo sopra. L’articolo è in inglese. Pertanto, per agevolare la lettura di chi non è ferrato in inglese, l’ho tradotto. Inserisco, però anche l’articolo originale sotto forma di immagine. In originale, il lavoro si trova qui.

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COME IL BULLISMO DIVENTA MEZZO PER FARE CARRIERA

di Susanne Täuber e Morteza Mahmoudi

Tra i recenti scandali di bullismo e molestie (sessuali) di alto profilo nell’ambito accademico, molti coinvolgono personaggi considerati “accademici di spicco”, ma che hanno in realtà un passato di bullismo e numerose denunce accumulate nel corso degli anni1.

Spesso, chi non è abituato all’ambito accademico ritiene che queste persone siano dei bulli pur avendo raggiunto posizioni di rilevo nei loro settori di interesse. L’attitudine al buon comportamento in ambito scientifico viene separata da quella legata alla loro personalità umana. In altre parole, la persona “scienziato” viene vista come indipendente dalla persona “essere umano”. Tuttavia, coloro che hanno subito bullismo spesso descrivono modelli comportamentali che suggeriscono un’interpretazione completamente diversa: il bullismo sembra essere più un mezzo usato dai mediocri per arrivare in cima ai vertici della loro carriera invece che qualcosa di separato dalla loro personalità scientifica. In altre parole, i bulli accademici arrivano ad essere considerati ottimi professionisti grazie al loro bullismo e non nonostante esso.

Esistono molteplici modi, tutti relazionati tra loro, in cui il bullismo può essere usato come mezzo per promuovere la propria carriera ed i propri interessi in ambito accademico. Comportamenti da bullo, come abuso di potere, mobbing e svalutazione dei successi altrui, rallentano o annullano le carriere degli avversari cosicché i bulli riescono ad eliminare efficacemente la concorrenza e raggiungere posizioni di vertice. Una volta lì, tali accademici possono utilizzare le stesse strategie per promuovere i loro “accoliti” e diventare intoccabili.

Cosa rende il bullismo mezzo non etico, ma efficace, per scalare le gerarchie? Un numero sempre maggiore di ricerche suggerisce che gli accademici mediocri ricorrano al bullismo per eliminare la concorrenza2,3. In particolare, quando le gerarchie maschili vengono “disturbate” dalle donne, si innescano dei comportamenti ostili soprattutto da parte di quegli uomini che non sono in grado di svolgere il loro lavoro in modo soddisfacente. Infatti, sono proprio questi coloro che rischiano di perdere di più dall’”ingerenza” femminile4.

I membri di gruppi accademici sottorappresentati riferiscono di essere (o essere stati) bersagli di bullismo con l’intento di sabotare le loro carriere. Alcuni racconti suggeriscono che i bulli entrano in azione quando i destinatari del bullismo acquisiscono un successo più o meno rilevante nel loro campo rischiando, quindi, di diventare troppo ingombranti per gli accademici mediocri. Ad esempio, una ricercatrice che lavorava nei Paesi Bassi ha notato di essere stata trattata piuttosto bene fino a quando ha ottenuto una sovvenzione multimilionaria3. Dopo ciò, è diventata oggetto di molestie, incluse aggressioni fisiche. Sabotando le carriere degli altri, i bulli eliminano efficacemente la concorrenza. Quando altri accademici nel dipartimento ottengono risultati oggettivamente migliori, sabotare o emarginare viene scelto come percorso alternativo per raggiungere la vetta2,3.

Quali sono le strutture che supportano i bulli? Nonostante siano abbastanza diffusi processi di selezione altamente competitivi negli ambienti accademici, i criteri di valutazione sono spesso oscuri. Ciò consente ai bulli e ai loro alleati, che secondo uno studio sono probabilmente maschi e provengono dalle istituzioni più prestigiose, di utilizzare criteri di rendimento in continua evoluzione per giustificare il rifiuto di conferire l’abilitazione, le promozioni e le cattedre ai loro bullizzati5.

Il concetto di bulli che hanno alleati o che costruiscono reti attraverso le gerarchie emerge anche in alcuni resoconti: le vittime di bullismo parlano di direttori di dipartimento che potrebbero voler promuovere i propri “eredi e ereditiere”, anche se stanno lavorando a un livello inferiore rispetto ai loro colleghi.

Una ricercatrice dei Paesi Bassi ha riferito che, quando ha vinto un importante finanziamento, le persone hanno iniziato a dubitare delle capacità di uno dei prìncipi ereditari del dipartimento che doveva essere promosso, attribuendo poi la colpa a lei3. Come risultato, è stata vittima di bullismo e ha lasciato l’università, mentre il “collega maschio è ora professore associato, anche se le sue prestazioni non sono superiori alla media”. La questione è stata affrontata in modo toccante altrove, con un’attenzione particolare agli uomini che molestano sessualmente le donne nell’ambito accademico6: “L’abuso di potere non è incidentale alla ‘grandezza’ di questi uomini; è centrale ad essa”.

Non sono solo i criteri oscuri e il favoritismo a creare terreno fertile per il bullismo. L’ambiente accademico iper-competitivo offre un “vantaggio di sopravvivenza” per tutte quelle persone che hanno tratti di personalità come l’audacia, la tendenza al dominio, la cattiveria e la spregiudicatezza7. Questi tratti di personalità sono chiaramente associati a comportamenti da bullo8. Ciò può manifestarsi nel sovrastimare regolarmente i propri successi e sminuire quelli degli altri, diffondere storielle false per danneggiare le reputazioni, o deridere pubblicamente, insultare e offuscare i successi dei colleghi9. Pertanto, la nostra attuale cultura accademica, con la sua iper-competizione, l’occupazione precaria e la ripida gerarchia, sembra incentivare i bulli fornendo le condizioni che permettono loro di prosperare9,10.

L’ambiente accademico ha urgentemente bisogno di un cambio di paradigma per eliminare le condizioni che permettono ai bulli di dominare. È giunto il momento di affrontare efficacemente le questioni che le leadership passate (sia a livello di dipartimento che di ateneo) hanno troppo spesso trascurato o sfruttato a proprio vantaggio: il bullismo, il mobbing e gli abusi nei confronti di coloro che sono sottorappresentati ed emarginati per i motivi più diversi.

Dobbiamo assicurarci che i leader accademici siano giocatori di squadra culturalmente sensibili, consapevoli delle dinamiche di potere e privilegio, e che non incentivino il bullismo, ma piuttosto stimolino lo spirito di comunità. Per raggiungere questo obiettivo sarà necessario il contributo proattivo di tutti gli interessati in modo interdipendente e collaborativo. Abbiamo bisogno di attenzione e azione collaborativa da parte di tutti i membri della forza lavoro scientifica, a livello locale e globale, per essere solidali permettere l’emancipazione degli studiosi per arrivare ad un cambiamento sistematico atteso da tempo in ambito accademico.

Riferimenti

  1. Goulet, T. L. Science 373, 170–171 (2021).
  2. Naezer, M. M., van den Brink, M. C. L. & Benschop, Y. W. M.
    Harassment in Dutch Academia: Manifestations, Facilitating
    Factors, Effects and Solutions (LNVH, 2019).
  3. Young Academy Groningen. Report on Harassment at the
    University of Groningen (2021).
  4. Kasumovic, M. M. & Kuznekoff, J. H. PLoS ONE 10, e0131613
    (2015).
  5. Moss, S. E. & Mahmoudi, M. EClinMed 40, 101121 (2021).
  6. Mansfield, B. et al. Human. Geogr. 12, 82–87 (2019).
  7. Tijdink, J. K. et al. PLoS ONE 11, e0163251 (2016).
  8. Namie, G. Results of the 2017 WBI Workplace Bullying Survey
    (WBI, 2017).
  9. Forster, N. & Lund, D. W. Glob. Bus. Organ. Excell. 38, 22–31
    (2018).
  10. Moss, S. Nature 560, 529 (2018).

Immagine di copertina creata con https://runwayml.com/

The environment in a magnet

Come molti di voi hanno già avuto modo di vedere, assieme ai miei colleghi Paolo Lo Meo e Delia Chillura Martino ho curato un libro di applicazioni ambientali della risonanza magnetica nucleare. Il titolo, secondo noi divertente, è “The environment in a magnet”. Proprio oggi sono stato autorizzato dalla casa editrice, la famosa Royal Society of Chemistry, a mettere in chiaro la prefazione al libro e l’indice dei capitoli. A nome di tutti i curatori sono, quindi, lieto di presentarvi i motivi che ci hanno indotto a curare questo libro e i capitoli – con relativi autori – che compongono quest’opera di cui tutti noi curatori andiamo particolarmente fieri. Per leggere le pagine mostrate nella galleria, basta cliccare su di esse e scorrere l’album. Saranno ben accette critiche e commenti così da permetterci di migliorare questo libro che è dedicato, in modo particolare, a studenti e neofiti della tecnica. Buona lettura.

Fonte dell’immagine di copertina.

Di dubbi, incertezze ed altre amenità del genere

Come ho già avuto modo di scrivere qualche tempo fa, non aggiorno il blog con la frequenza di un tempo perché molti degli argomenti che oggi vanno di moda sono già stati commentati da me negli anni passati. Si pensi, per esempio, alla polemica «naturale=buono» di cui ho parlato qui e qui, oppure al periodico successo di cose come il Dr. Bestiale di cui ho già parlato qui, o, ancora, l’intolleranza al lattosio di cui ho scritto qui e qui, per non parlare, poi, dell’enorme numero di articoli che ho scritto in merito all’omeopatia (qui) o altre pseudo scienze come l’agricoltura biodinamica (qui). Capirete, quindi, che ritornare sempre sugli stessi argomenti, perché periodicamente di moda, è alquanto noioso. Mi annoio io a scriverne e annoio voi che, sulla base della vostra stima nei miei confronti, siete “costretti” a leggere sempre le stesse cose, magari scritte con parole diverse. Tuttavia, di tanto in tanto, ci sono degli argomenti che ancora mi colpiscono e che mi lasciano perplesso soprattutto quando a scriverne/parlarne sono persone che si dicono amanti della scienza.

Ma veniamo al punto.

I disapprove of what you say, but I will defend to the death your right to say it

Gli “amanti della scienza” molto spesso riportano nelle loro lettere, nei loro siti o ovunque sia possibile la famosa massima secondo cui «non condivido la tua opinione, ma sono pronto a combattere affinché tu possa esprimerla liberamente» attribuendola nientepopodimenoché a Voltaire. Queste persone, per lo più pseudo scienziati, usano questo aforisma per rimarcare la differenza del loro modo di pensare rispetto a quello degli scienziati che apparterrebbero, secondo loro, ad una casta di tipo sacerdotale chiusa e poco avvezza ai cambiamenti. Gli scienziati, in parole povere, sarebbero quelli che si opporrebbero allo sviluppo culturale di certe discipline (o addirittura del paese) chiudendosi a riccio nei confronti di idee innovative in grado di apportare benefici in ogni ambito dello scibile. 

Cominciamo con lo stabilire che da nessuna parte nell’opera di Voltaire è riportata la frase anzidetta. Questa fu scritta virgolettata in “The friends of Voltaire nel 1903 da Evelyn Beatrice Hall sotto lo pseudonimo di Stephen G. Tallentyre. Quindi, Voltaire, che ha scritto il famoso “Trattato sulla tolleranza”, non si è mai sognato di dire quelle cose riportate come sue. Lo stesso Sandro Pertini, in un suo discorso, cadde nell’equivoco di attribuire a Voltaire la massima su menzionata (qui). Purtroppo, usare in modo strumentale frasi ad effetto attribuendole a grandi menti per esaltarne la significatività è uno sport molto attuale. Ricordo che nel 1938 in Italia furono promulgate le leggi razziali. Se dovessimo prendere alla lettera ciò che viene indicato come l’aforisma massimo della libertà di espressione, dovremmo concludere che, seppure le leggi razziali furono quanto di più bieco una mente umana avesse potuto concepire, gli individui che le promulgarono avevano tutto il diritto di farlo e di seguire le condotte opportune per realizzarle. Ma ciò contraddice sia l’operato di Pertini che si è battuto, rischiando più volte la vita, contro il fascismo – corrente politica responsabile delle anzidette leggi  che i principi basilari di tutti i trattati in cui vengono stabiliti i diritti inalienabili degli individui intesi come persone umane. Da questa breve disamina, quindi, ne viene che la libertà è sacrosanta (peraltro è uno dei diritti inalienabili della persona umana) ma ha dei limiti entro cui essa può essere esercitata.

Adesso, però, come al mio solito, sto andando un po’ per la tangente.

Libertà di parola ed opinioni

Ritorniamo all’aspetto scientifico legato all’aforisma incorrettamente attribuito a Voltaire. Secondo gli pseudo scienziati, il diritto di parola e di opinione è sacrosanto. Ma io sono più che d’accordo. Il problema è che una cosa è il diritto di parola e opinione in ambito politico (sempre entro i limiti dettati dal rispetto per i diritti umani inalienabili), altro è il diritto di parola e opinione in ambito scientifico. Tradotto in parole molto più semplici: in ambito scientifico, una cosa è la libertà di parola, altro sono le parole in libertà.

Come ho avuto più volte il modo di evidenziare (per esempio qui), la Scienza (la S – in maiuscolo – non è casuale) è un complesso corpo di conoscenze che richiede lo sviluppo di competenze che si raggiungono con anni di studi e sacrifici. L’idea dello scienziato come il Don Chisciotte di turno che va per la propria strada all’inseguimento di una intuizione illuminante ma contraria al pensiero scientifico corrente è da film hollywoodiano. Avete mai visto un film – nato per l’intrattenimento – in cui si pone l’accento sul tempo passato da uno studioso a leggere e capire le cose invece che su scene di azione più o meno movimentate? Penso proprio di no. E volete sapere perché? Lo studio è noioso. A chi volete che interessi vedere uno che resta seduto al tavolo a sfogliare libri su libri per giorni interi solo per capire questa o quella formuletta? Il film deve intrattenere, deve tener legato l’utente/spettatore alla sedia ed attrarlo. Se l’utente/spettatore si annoia incomincia il passaparola negativo per cui altri utenti/spettatori non andranno a vedere il film con evidenti danni economici. Ed allora molto meglio inventarsi che Einstein era una “rapa” in matematica (non è assolutamente vero) e che, nonostante questo, sia stato in grado di vincere il premio Nobel; meglio inventarsi che Galileo Galilei ha combattuto contro il sistema imperante ed ha perso, invece che spiegare che l’eliocentrismo era già in voga e che Galilei è stato osteggiato dalla chiesa – quindi da una setta religiosa – che vedeva nelle sue “osservazioni” qualcosa che poteva scardinare il potere temporale del Papa.

L’intuizione scientifica

L’intuizione scientifica non nasce dal nulla. Nasce, piuttosto, dall’apprendimento continuo di cose già note che vengono “sviscerate” in tutti i modi possibili. Una volta individuati i limiti delle cose note (questo si fa attraverso gli esperimenti e la loro interpretazione) viene fuori l’intuizione geniale che consente l’avanzamento delle conoscenze. In questo senso amo ripetere che alla fine dell’Ottocento si riteneva che la fisica non avesse più nulla da dire. Tutto era già stato detto e scoperto da sir Isaac Newton. Ed invece, dal paradosso del corpo nero è nata quella che oggi è conosciuta come meccanica quantistica – che ha inglobato la meccanica classica (quella di Newton, per intenderci)  che ha consentito lo sviluppo di nuove tecnologie come la TAC (Tomografia Assiale Computerizzata), la NMR (Risonanza Magnetica Nucleare) fino ad arrivare ai computer quantistici. Del resto fu Bernardo di Chartres, intorno alla prima metà del 1100, a dire qualcosa del tipo “siamo seduti sulle spalle dei giganti” intendendo che la conoscenza – scientifica o meno, dico io – può essere intesa come un castello in continua crescita in cui è possibile individuare torri alte la cui stabilità è assicurata dalle fondamenta solide, costruite da chi ci ha preceduto, e torri basse e diroccate le cui fondamenta non hanno resistito all’azione del tempo. In altre parole, se oggi siamo in grado di controllare i movimenti di Curiosity (il rover che sta analizzando il suolo di Marte) lo dobbiamo a Newton, dalla cui fisica siamo in grado di calcolare l’energia necessaria per sfuggire alla forza gravitazionale terrestre, a Marconi, che ha scoperto la trasmissione dei segnali senza fili, a tutti quei chimici che hanno elaborato le tecniche analitiche in grado di campionare e analizzare i suoli etc. etc. etc.

Il dubbio

Un corollario interessante all’aforisma scorrettamente attribuito a Voltaire è che bisogna essere tolleranti, anzi aperti alla discussione, con chiunque avanzi dubbi – più che legittimi  su tutto quanto riguarda la scienza. Del resto, l’avanzamento delle conoscenze scientifiche non si basa sui dubbi? Il problema qui è capire cosa si intende per dubbio.

Quando sono in aula per i miei corsi mi trovo spessissimo in presenza di dubbi. A parte quelli personali legati all’efficienza della mia esposizione, i dubbi principali sono quelli dei miei studenti che possono non aver capito qualcosa che ho detto o che possono avere domande per correlare ciò che sanno a ciò che ho esposto. Si tratta, quindi, di dubbi – quelli degli studenti – che servono per chiarire concetti noti in modo tale da permetterne un immagazzinamento migliore così da poterli utilizzare nei momenti opportuni. Per quanto riguarda i miei dubbi, si tratta di domande che mi faccio prima, durante e dopo la lezione per capire quanto sono stato efficiente nell’esposizione. Non sempre lo sono perché dipende dai momenti umorali in cui mi trovo. Quando me ne rendo conto ripeto la lezione cercando di essere più chiaro. Quindi, nel caso del rapporto asimmetrico docente-studenti, i dubbi servono per crescere e migliorare. Io imparo dagli studenti a spiegare meglio, ovvero cerco di migliorare come docente, mentre gli studenti imparano da me cose che serviranno loro nelle future esperienze da professionisti.

Un discorso analogo vale se faccio una domanda al mio elettricista o al mio idraulico. In questo caso io faccio il discente, loro sono i docenti. 

Ma cosa succede se la tolleranza in merito alla libertà di espressione e di opinioni viene invocata da qualcuno che, non avendo competenze in quel campo, volesse obiettare, per esempio, che la Terra è piatta? Si tratta veramente di un dubbio? Ovviamente, no! Questo non è un dubbio. Questa è semplicemente ignoranza. La persona che volesse intavolare una discussione sulla geoidicità del nostro pianeta è solo uno/a che ci fa perdere tempo. Evidentemente ha saltato tutte le lezioni (dalle elementari alle superiori) in cui si è discusso e si sono portate prove in merito. Lo stesso è valido quando a evocare dubbi sulla validità ed efficacia dei vaccini è mamminapancina86. In realtà, nella mia vita mi è capitato che ad avere dubbi sui vaccini non fossero solo persone ignoranti (nel senso etimologico del termine), ma anche professionisti che hanno una cultura e una preparazione che li pone agli apici del loro campo. Ma di questo accennerò fra poche righe. In generale, si tratta di ignoranza pura e semplice, che pone queste persone al livello di studenti che devono ancora imparare e a cui è utile dare spiegazioni semplici, sempre che si rendano conto del rapporto di asimmetria tra loro e chi ha studiato e “perso tempo” per approfondire l’argomento su cui loro hanno espresso dubbi.

Il dubbio qualificato

Se possiamo prendere con ilarità i “dubbi” sulla Terra piatta, non possiamo fare altrettanto quando, invece, si parla di vaccini, di omeopatia, di agricoltura biodinamica, di negazione del riscaldamento climatico o della componente antropica legata al riscaldamento climatico. A maggior ragione quando ad avanzare tali “dubbi” non sono ciarlatani incolti, ma professionisti che hanno una formazione culturale adatta a discernere tra vero, verosimile e falso. In questo caso, come ho già scritto altrove (qui), si tratta di persone che per meri fini opportunistici – che siano economici o per esercitare un qualsiasi potere, poco importa  si comportano come quelli che prima fanno la curva e poi inseriscono i punti sperimentali. Sono persone inaffidabili. Con esse non è possibile intavolare alcuna discussione perché si arroccano su posizioni asimmetriche per cui i loro dubbi sono legittimi, mentre le prove fisiche portate da chi confuta le loro teorie astruse non sono valide. 

Da tutta questa digressione ne viene che a livello scientifico quando si parla di dubbio si intende sempre il cosiddetto “dubbio qualificato”. Si tratta di un dubbio che non coinvolge tutti i possibili interlocutori, ma solo coloro che hanno una formazione culturale in comune, ovvero hanno studiato, elaborato e compreso quanto attinente a un determinato argomento. È proprio questa comprensione che consente di fare domande nel merito per ottenere risposte in grado di dirimere problemi che da soli non sarebbe possibile fare.

Conclusioni

Cosa voglio concludere con questa lunga digressione? Solo che bisogna fare attenzione a quelle persone che usano la massima falsamente attribuita a Voltaire. Queste persone, lungi dall’essere “modeste” come vorrebbero apparire mediante l’uso dell’aforisma citato, sono, in realtà, dei narcisisti che hanno mal compreso i processi che vengono seguiti per lo sviluppo scientifico e ritengono sé stessi dei geni che, pur non avendo competenze specifiche in un particolare campo, ritengono di aver diritto di parola proprio in quel settore di cui conoscono molto poco – o addirittura niente – come se fossero dei grandi luminari. Ancora oggi, a distanza di oltre quarant’anni, è ancora valido quanto tenne a scrivere Asimov nella sua rubrica “My turn” il 21 gennaio del 1980 (qui): “my ignorance is just as good as your knowledge”.

Ringraziamenti

Con questa lunga disamina spero di non avervi annoiato troppo. Tuttavia, come talvolta accade, ci sono dei momenti in cui, dopo aver letto e/o sentito certe cose, mi rimane l’amaro in bocca e sento l’esigenza di condividere in questo blog i miei pensieri. Pertanto, ringrazio tutti voi, miei lettori, per la pazienza che avete avuto nel voler leggere queste elucubrazioni e ringrazio il Dr. Michele Totta per la sua pazienza nel revisionare questo articoletto. Il Dr Totta, peraltro, è un valente divulgatore che gestisce un canale YouTube “Senza logica mal si cogita” che invito a seguire (qui).

Fonte dell’immagine di copertina

 https://commons.wikimedia.org/wiki/File:2005_Mus%C3%A9e_Rodin_3.jpg

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