Dimostrami che non esiste! La trappola preferita della pseudoscienza

Frequento i social network dal 2009 e, qualche anno dopo – era il 2015, ormai dieci anni fa – ho aperto il mio blog. All’inizio, da neofita, mi ritrovavo a discutere animatamente con persone di ogni tipo: rabdomanti convinti di sentire l’acqua con un bastoncino, cacciatori di fantasmi armati di telecamerine, fan dell’omeopatia pronti a difendere il niente travestito da nulla diluito e sostenitori dell’agricoltura biodinamica intenti a recitare formule magiche come i druidi di Asterix per aumentare la produttività dei campi.

Ogni volta che li mettevo davanti all’evidenza, la conversazione finiva invariabilmente con la stessa frase a effetto:
“Ah sì? Allora dimostrami [provami] che [argomento a piacere] non esiste!”

Oppure, in contesti diversi ma con identica logica capovolta: “Allora dimostrami [provami] che Dio non esiste”.

Chissà perché, ogni volta che ascolto queste argomentazioni, resto colpito dall’involuzione culturale che si sta diffondendo sempre di più. Sono frasi che potevano avere un senso quando ero in terza elementare, quando ci si appellava alla maestra per dirimere questioni vitali come: “Non sono stato io a mettere le mani nella marmellata, è stato lui!”.

Ma in età adulta mi aspetto qualcosa di diverso: argomentazioni più mature, meno retoriche e più legate alla razionalità. E invece questi trucchetti – vecchi come il mondo – continuano a funzionare con chi, pur avendo studiato, non si è abituato al pensiero critico e al metodo scientifico. Il punto è che la scienza, nel bene e nel male, non funziona così.

Provare: ma in che senso?

Ed è proprio qui che nasce la confusione: cosa significa davvero “provare”? Nel linguaggio quotidiano questa parola viene usata in mille modi diversi: provare un vestito, provare a fare una torta, provare un sentimento, provare a convincere qualcuno. E, lasciatemela passare, “provare un esame” – espressione tipica dei miei studenti, che poi però vengono puntualmente bocciati.

Ma in scienza non basta “fare un tentativo” o “avere un’impressione”: qui “provare” significa sottoporre un’idea a un controllo severo, verificare se regge quando viene messa di fronte ai dati.

La Treccani ci ricorda che “provare” significa sia “fare un tentativo” sia “dimostrare con prove la verità di un’affermazione”. Nel linguaggio scientifico, però, prevale il secondo significato: mettere alla prova un’ipotesi. In altre parole, valutare se un’ipotesi spiega davvero i fenomeni osservati e, soprattutto, se permette di fare previsioni verificabili.

Fare scienza significa:

  • osservare un fenomeno;
  • formulare un’ipotesi che lo spieghi e consenta di fare previsioni;
  • progettare esperimenti che possano confermare o smentire l’ipotesi;
  • accettare senza sconti il verdetto dei dati.

Se i dati non la confermano, l’ipotesi è falsificata. Punto. In altre parole, non è più utile: non spiega i fenomeni, non regge alla verifica, è semplicemente errata.

L’onere della prova

Rileggiamo l’elenco del paragrafo precedente, partendo dal primo punto:

  • osservare un fenomeno.

Qui sta il punto cruciale: se non posso osservare un fenomeno, tutto il resto non ha alcun senso. Come potrei formulare un’ipotesi su qualcosa che non vedo? E se non ho un’ipotesi, come potrei progettare esperimenti? Senza esperimenti non ottengo dati e, senza dati, non posso né confermare né confutare nulla.

In definitiva, se qualcosa non è osservabile, non posso applicare alcun metodo per “provarne” l’inesistenza. La scienza non funziona così: non dimostra l’inesistenza, ma mette alla prova ciò che si afferma di aver osservato. L’onere della prova, quindi, ricade sempre su chi fa l’affermazione, non su chi la mette in dubbio.

Mettiamola in un altro modo: se ipotizzo che una sostanza chimica acceleri la germinazione dei semi, posso progettare un esperimento. Se i dati non mostrano differenze, l’ipotesi cade. Ma se qualcuno sostiene che “una misteriosa energia invisibile accelera la germinazione solo in certe notti particolari”, senza dire quando, dove e come… beh, quella non è scienza: è una storia che non può essere né verificata né smentita, in altre parole non può essere falsificata.

Ecco perché fantasmi, energie occulte, biodinamica, draghi invisibili o divinità onnipresenti non possono essere oggetto di indagine scientifica: semplicemente non sono ipotesi falsificabili.

Un insegnamento dalla storia

Certo, gli amanti delle scienze occulte (che se sono occulte non sono scienze, ma va bene: usiamo pure l’ossimoro tanto caro ai fan di queste cose) potranno sempre dire: “Ma scusa, come fai a dire che qualcosa non funziona o non esiste se non lo provi? Non è compito dello scienziato verificare, sperimentare e, casomai, proporre o rigettare?”

Sì, certo. Ma solo se – ripeto – il fenomeno è osservabile o se esiste un impianto logico-matematico che consenta di formulare ipotesi verificabili con una progettazione sperimentale precisa.

Facciamo alcuni esempi. L’etere luminifero, ipotizzato come mezzo di propagazione della luce, è stato messo alla prova con esperimenti celebri come quello di Michelson e Morley (1887). I dati hanno detto chiaramente che non c’era nessuna evidenza a suo favore. Lo stesso destino è toccato al flogisto, sostanza immaginaria che avrebbe dovuto spiegare la combustione, spazzata via dalla chimica di Lavoisier.

E cosa dire della meccanica classica – sì, proprio quella sviluppata da Isaac Newton – che ha dominato per oltre due secoli e ancora oggi descrive benissimo il mondo macroscopico? All’inizio del Novecento, però, si è mostrata inadeguata a spiegare il comportamento delle particelle microscopiche e i fenomeni a velocità prossime a quella della luce. Da lì sono nate la relatività di Einstein e la meccanica quantistica, due teorie che hanno ampliato il quadro e che, pur con approcci diversi, permettono di fare previsioni in ambiti dove Newton non basta. Eppure, i razzi continuano a essere lanciati nello spazio grazie ai calcoli newtoniani: semplicemente, la sua fisica funziona finché si rimane dentro i suoi limiti di validità.

In tutti questi casi, la scienza non ha “provato l’inesistenza” di etere, flogisto o della validità universale della meccanica classica: ha mostrato che i dati non erano compatibili con quelle ipotesi, oppure che servivano modelli più ampi e predittivi per descrivere meglio la realtà.

La differenza tra scienza e pseudoscienza

Alla luce di tutto quanto scritto finora, si può ribadire con chiarezza che la scienza non fornisce verità eterne: propone modelli coerenti con le prove disponibili, validi finché i dati li confermano. Basta anche un solo dato contrario per metterli in crisi. In quel caso, il modello viene abbandonato oppure ampliato, formulando nuove ipotesi che ne estendano i limiti di validità.

La pseudoscienza, invece, gioca sporco: pretende di invertire l’onere della prova e chiede di dimostrare l’inesistenza dei suoi fantasmi. Non è un caso se, dopo più di due secoli, l’omeopatia è rimasta immobile, sempre uguale a se stessa, senza mai evolversi. O se l’agricoltura biodinamica – nonostante il supporto di figure accademiche che hanno scelto di accreditare l’esoterico come se fosse scienza – non sia mai riuscita a produrre una validazione sperimentale credibile. E l’elenco potrebbe continuare.

Come ammoniva Carl Sagan: affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie. Chi non porta prove, porta solo storie… e spesso nemmeno originali.

Conclusione

No, non si può provare l’inesistenza di qualcosa in senso assoluto. Quello che la scienza può fare, e che fa ogni giorno, è mostrare l’assenza di evidenze e smontare affermazioni che non reggono alla prova dei dati.

Per questo non ha senso chiedere di dimostrare che i fantasmi non infestano le vecchie case, che i preparati biodinamici non funzionano o che Dio non esiste. L’onere della prova spetta sempre a chi afferma, non a chi dubita.

La scienza non è un gioco di prestigio in cui si fanno sparire gli spettri: è un metodo per distinguere ciò che ha basi reali da ciò che resta soltanto una storia.

La Sindone e la scienza: dal Medioevo alla risonanza magnetica

Ormai lo sanno anche le pietre: mi occupo di risonanza magnetica nucleare su matrici ambientali. Tradotto per i non addetti: uso la stessa tecnica che in medicina serve a vedere dentro il corpo umano, ma applicata a tutt’altro – suoli, sostanza organica naturale, piante e materiali inerti. Ripeto: non corpi umani né animali, ma sistemi ambientali.

C’è un dettaglio curioso. I medici hanno tolto l’aggettivo “nucleare” dal nome, per non spaventare i pazienti. Peccato che, senza quell’aggettivo, l’espressione “risonanza magnetica” non significhi nulla: risonanza di cosa? elettronica, fotonica, nucleare? Io, che non ho pazienti da rassicurare, preferisco chiamare le cose con il loro nome: risonanza magnetica nucleare, perché studio la materia osservando come i nuclei atomici interagiscono con la radiazione elettromagnetica a radiofrequenza.

Non voglio dilungarmi: non è questa la sede per i dettagli tecnici. Per chi fosse curioso, rimando al mio volume The Environment in a Magnet edito dalla Royal Society of Chemistry.

Tutto questo per dire che in fatto di risonanza magnetica nucleare non sono proprio uno sprovveduto. Me ne occupo dal 1992, subito dopo la laurea in Chimica con indirizzo Organico-Biologico. All’epoca iniziai a lavorare al CNR, che aveva una sede ad Arcofelice, vicino Pozzuoli, in provincia di Napoli. È lì che cominciai a usare l’NMR per studiare la relazione struttura-attività dei metaboliti vegetali: un banco di prova perfetto per capire quanto questa tecnica potesse rivelare.

Successivamente passai all’Università degli Studi di Napoli Federico II, dove estesi l’uso della risonanza magnetica nucleare non solo alla fase liquida, ma anche a quella solida e semisolida. Non più soltanto metaboliti vegetali, dunque, ma matrici molto più complesse dal punto di vista chimico: il suolo e la sostanza organica ivi contenuta.

Con il mio trasferimento all’Università di Palermo ho potuto ampliare ulteriormente le competenze in NMR: dall’uso di strumenti a campo magnetico fisso sono passato allo studio delle stesse matrici naturali con spettrometri a campo variabile. Un passo avanti che mi ha permesso di guardare i sistemi ambientali con ancora più profondità e sfumature.

Ed eccomi qui, dopo più di trent’anni di esperienza, a spiegare perché chi immagina di usare la risonanza magnetica nucleare sulla Sindone di Torino forse ha una visione un po’… fantasiosa della tecnica.

Andiamo con ordine.

La Sindone di Torino: simbolo religioso e falso storico

La Sindone

La Sindone di Torino è un lenzuolo di lino lungo circa quattro metri che reca impressa l’immagine frontale e dorsale di un uomo crocifisso. Per il mondo cattolico rappresenta una delle reliquie più importanti: secondo la tradizione, sarebbe il sudario che avvolse il corpo di Cristo dopo la crocifissione. Attorno ad essa si è sviluppato un culto popolare immenso, fatto di pellegrinaggi e ostensioni pubbliche che ne hanno consacrato il valore spirituale.

Ma che cosa ci dice la scienza su questo straordinario manufatto?

La datazione al radiocarbonio

Il dato più solido arriva dalla datazione con il radiocarbonio. Nel 1988 tre laboratori indipendenti – Oxford, Zurigo e Tucson – pubblicarono sulla rivista Nature i risultati delle loro analisi: il lino della Sindone risale a un periodo compreso fra il 1260 e il 1390 d.C., cioè in piena epoca medievale (Damon et al., 1989). La conclusione degli autori fu inequivocabile: “evidence that the linen of the Shroud is mediaeval”.

Riproduzioni sperimentali

A rafforzare questa interpretazione è intervenuto anche il lavoro del chimico Luigi Garlaschelli, che ha realizzato una riproduzione della Sindone utilizzando tecniche compatibili con l’arte medievale: applicazione di pigmenti su un rilievo, trattamenti acidi per simulare l’invecchiamento, lavaggi parziali per attenuare il colore. Il risultato, esposto in varie conferenze e mostre, mostra come un artigiano del Trecento avrebbe potuto ottenere un’immagine con molte delle caratteristiche dell’originale (Garlaschelli, 2009).

Le conferme della storia

Anche le fonti storiche convergono. Un documento recentemente portato alla luce (datato 1370) mostra che già all’epoca un vescovo locale denunciava il telo come un artefatto, fabbricato per alimentare un culto redditizio (RaiNews, 2025). Questo si aggiunge al più noto documento del 1389, in cui il vescovo di Troyes, Pierre d’Arcis, scriveva a papa Clemente VII denunciando la falsità della reliquia.

Le contro-argomentazioni sindonologiche

Naturalmente, chi sostiene l’autenticità della Sindone non è rimasto in silenzio. Le principali obiezioni riguardano:

  1. Il campione del 1988 – secondo alcuni, la zona prelevata sarebbe stata contaminata da un rammendo medievale, o comunque non rappresentativa dell’intero telo (Karapanagiotis, 2025).
  2. L’eterogeneità dei dati – alcuni statistici hanno osservato che i tre laboratori non ottennero risultati perfettamente omogenei, segnalando possibili anomalie (Karapanagiotis, 2025).
  3. Eventi successivi – l’incendio di Chambéry del 1532, o la formazione di patine microbiche, avrebbero potuto alterare la concentrazione di carbonio-14, facendo sembrare il tessuto più giovane (Karapanagiotis, 2025).

Sono ipotesi discusse ma che non hanno mai trovato prove decisive: nessuna spiegazione è riuscita a giustificare in modo convincente come un tessuto del I secolo potesse apparire medievale a tre laboratori indipendenti.

Le nuove analisi ai raggi X

Negli ultimi anni si è parlato di nuove tecniche di datazione basate sulla diffusione di raggi X ad ampio angolo (WAXS). L’idea è di valutare il grado di cristallinità della cellulosa del lino: più il tessuto è antico, maggiore è la degradazione della sua struttura cristallina. Applicata a un singolo filo della Sindone, questa metodologia ha suggerito un’età più antica di quella medievale (De Caro et al., 2022).

Tuttavia, i limiti sono evidenti: si è analizzato un solo filo, e la cristallinità della cellulosa dipende non solo dal tempo, ma anche da condizioni ambientali come umidità, calore o contatto con sostanze chimiche. Inoltre, il metodo è recente e richiede ulteriori validazioni indipendenti. In sintesi: interessante come indicatore di degrado, ma non ancora un’alternativa solida al radiocarbonio.

Una nuova frontiera? L’NMR

Accanto a tutto ciò è emersa anche la proposta di applicare la risonanza magnetica nucleare (NMR) alla Sindone (Fanti & Winkler, 1998). Alcuni autori suggeriscono che questa tecnica possa rivelare “concentrazioni atomiche” di idrogeno, carbonio o azoto nel telo, o addirittura produrre mappe tomografiche.

Nel prossimo paragrafo entrerò nel dettaglio di questa prospettiva “NMR”, analizzando perché, alla luce dell’esperienza maturata in oltre trent’anni di lavoro su queste tecniche, considero queste proposte non solo irrealistiche, ma anche profondamente fuorvianti.

I limiti della prospettiva NMR

Tra le tante proposte avanzate negli anni, c’è anche quella di usare la risonanza magnetica nucleare per studiare la Sindone. Nel lavoro di Giulio Fanti e Ulf Winkler si ipotizza di applicare tecniche NMR per “vedere” la distribuzione di atomi come idrogeno, carbonio e persino azoto sul telo, o addirittura per ottenere mappe tomografiche simili a quelle della risonanza magnetica medica. Sulla carta può sembrare affascinante, ma nella pratica questa prospettiva presenta numerosi limiti.

Nel caso dei protoni (1H), ad esempio, gran parte del segnale in un lino asciutto deriva dall’acqua residua o da componenti volatili: un parametro che può variare fino all’80% semplicemente cambiando le condizioni ambientali. Inoltre, in un solido come il lino della Sindone, l’analisi 1H-NMR non offre risoluzione: lo spettro mostra soltanto due contributi sovrapposti, un picco stretto e intenso dovuto alle zone cristalline della cellulosa e una larga campana sottostante, tipica delle frazioni amorfe. È chiaro, quindi, che non solo è arduo quantificare i protoni, ma è del tutto irrealistico pensare di usarli per una datazione del tessuto.

Per quanto riguarda l’analisi al carbonio-13 (13C), ci sono diversi punti da sottolineare. La tecnica più usata è la CPMAS 13C-NMR: in questo caso una piccola quantità di campione, dell’ordine dei milligrammi, viene inserita in un porta-campioni invisibile all’NMR, posto nel campo magnetico secondo una geometria precisa, e il carbonio viene “visto” sfruttando l’abbondanza dei protoni. Si tratta però di una tecnica qualitativa: non consente una vera quantificazione del nucleo osservato. Inoltre, richiede tempi di misura molto lunghi, con costi elevati e il rischio concreto di non ottenere informazioni davvero utili.

L’alternativa sarebbe la DPMAS 13C-NMR. Qui, a differenza della CPMAS, non ci si appoggia ai protoni e quindi bisogna fare affidamento solo sull’abbondanza naturale del 13C, circa l’1%: troppo bassa. Di conseguenza i tempi macchina si allungano ulteriormente, con dispendio sia di tempo sia economico. E in più la tecnica è priva di risoluzione: i segnali dei diversi nuclei si sovrappongono in un unico inviluppo indistinguibile, rendendo impossibile perfino la stima del rapporto fra cellulosa cristallina e amorfa.

Quanto all’azoto-14 (14N), il nucleo è quadrupolare e produce linee larghissime e difficilmente interpretabili: in pratica, misure affidabili non sono realistiche.

Nel lavoro di Fanti e Winkler, ci sono poi anche problemi di coerenza interna. Nel testo, ad esempio, si ipotizzano tempi di rilassamento e acquisizione non compatibili con i valori sperimentali reali, e si propongono scenari come la “tomografia NMR dell’intero telo” che, per un materiale rigido e povero di mobilità come il lino secco, sono semplicemente impraticabili: i tempi di decadimento del segnale sono troppo brevi perché si possa ricostruire un’immagine come in risonanza magnetica medica.

Infine, il lavoro suggerisce di estendere le misure addirittura a mappature di radioattività con contatori Geiger o a esperimenti di irraggiamento con neutroni, ipotizzando collegamenti con la formazione dell’immagine. Si tratta di congetture prive di fondamento sperimentale, più vicine a un esercizio di fantasia che a un protocollo scientifico realistico.

In sintesi, Fanti e Winkler hanno portato il linguaggio della NMR nel dibattito sulla Sindone, ma le applicazioni che propongono si scontrano con limiti tecnici insormontabili e interpretazioni sbagliate.

L’NMR è uno strumento potentissimo per lo studio di suoli, sostanza organica e sistemi complessi, ma applicarlo alla Sindone nei termini proposti non ha basi scientifiche solide: rischia anzi di trasformare una tecnica seria in un’arma retorica al servizio di ipotesi precostituite.

Conclusioni

Alla fine dei conti, la Sindone di Torino resta ciò che la scienza ha già dimostrato da tempo: un manufatto medievale. Lo dice la datazione al radiocarbonio pubblicata su Nature; lo confermano le riproduzioni sperimentali di Luigi Garlaschelli e i documenti storici del Trecento che la denunciavano come artefatto devozionale; lo ribadiscono i limiti delle nuove tecniche “alternative” che, per quanto presentate come rivoluzionarie, non hanno mai scalfito la solidità del verdetto del 1988. Le contro-argomentazioni dei sindonologi — campioni non rappresentativi, rammendi invisibili, incendi o contaminazioni miracolose — sono ipotesi suggestive, ma prive di prove concrete e incapaci di spiegare perché tre laboratori indipendenti abbiano ottenuto lo stesso responso: Medioevo. Le proposte più recenti, come l’uso dei raggi X o addirittura della risonanza magnetica nucleare, non fanno che spostare il problema, avanzando idee tecnicamente fragili e spesso concettualmente errate.

La Sindone rimane dunque un oggetto straordinario, ma non perché testimoni la resurrezione di Cristo: straordinaria è la sua forza simbolica, straordinaria è la devozione che suscita, straordinaria è la capacità che ha avuto per secoli di alimentare fede, immaginazione e perfino business. Ma sul piano scientifico la questione è chiusa. Continuare a spacciarla per “mistero insoluto” significa ignorare le evidenze e trasformare la ricerca in propaganda. E questo, più che un atto di fede, è un insulto all’intelligenza.

Dal ppm al femtogrammo: i pesticidi c’erano anche prima ma non li vedevamo

Ogni tanto circolano articoli dai toni allarmistici che mostrano quanto spesso oggi si trovino tracce di pesticidi negli alimenti, nell’acqua, nel suolo. “Una volta queste cose non c’erano”, si legge. Ma è davvero così? La risposta è semplice: no, non è che una volta non ci fossero, è che non eravamo in grado di vederle.

La differenza sta negli occhi, non nelle cose

In chimica analitica, quando si parla di rilevare una sostanza, non si usa mai dire con leggerezza “non c’è”. Si dice invece “non determinabile” (N.D.): vuol dire che non è rilevabile con gli strumenti disponibili, non che la sostanza non sia presente. È come cercare di vedere le stelle con un binocolo da teatro: non le vedi, ma non vuol dire che non ci siano.

E proprio come un telescopio moderno rivela galassie invisibili a Galileo, gli strumenti di oggi vedono tracce infinitesimali di sostanze che gli strumenti di ieri non riuscivano minimamente a percepire.

Un po’ di storia: quanto si vedeva ieri?

  • Anni ’50-’60: i primi gascromatografi (GC) usavano rivelatori come il TCD (rilevava a partire da 1-10 ppm, cioè parti per milione) o il più sensibile FID (circa 0.1 ppm). I pesticidi? Difficili da vedere, se non in quantità elevate.
  • Anni ’70-’80: entra in scena l’Electron Capture Detector (ECD), molto sensibile per sostanze come i pesticidi: arriva a livelli di 0.1 picogrammi, cioè un miliardesimo di milligrammo! Anche il GC-MS (gascromatografia accoppiata a spettrometria di massa) comincia a essere usato per rilevare composti in tracce.
  • Anni ’90-2000: con strumenti più raffinati come il GC-MS/MS, si scende ancora: si arriva a livelli di femtogrammi (mille miliardesimi di grammo). La sensibilità è altissima e il rumore di fondo si riduce grazie a nuove tecnologie (Figura 1).

Dal 2010 in poi: l’uso di spettrometri ad alta risoluzione (HRMS), colonne capillari e nuovi algoritmi di elaborazione dei dati ci porta a una capacità di rilevazione fino a 0.001 picogrammi.

Figure 1. il grafico mostra l'evoluzione dei limiti di rilevazione (LOD) in picogrammi, su scala logaritmica, per alcune delle tecniche analitiche più usate nella chimica analitica dal 1960 a oggi. Negli anni ’60 si vedevano solo concentrazioni nell’ordine dei ppm, oggi possiamo rilevare sostanze anche a femtogrammi, cioè mille miliardesimi di grammo.

Figura 1. il grafico mostra l’evoluzione dei limiti di rilevazione (LOD) in picogrammi, su scala logaritmica, per alcune delle tecniche analitiche più usate nella chimica analitica dal 1960 a oggi. Negli anni ’60 si vedevano solo concentrazioni nell’ordine dei ppm, oggi possiamo rilevare sostanze anche a femtogrammi, cioè mille miliardesimi di grammo.

Quindi oggi i pesticidi sono più usati?

No, non è questo il punto. È che oggi possiamo vedere concentrazioni che una volta erano semplicemente invisibili. È come se avessimo acceso una torcia in una stanza buia. Le cose nella stanza c’erano anche prima. Solo, non potevamo vederle (Figura 2).

Figura 2. Come vediamo gli analiti oggi. Il miglioramento della sensibilità strumentale ci consente di vedere cose che cinque, dieci, venti e più anni fa non eravamo in grado di rilevare.

Un esempio pratico

Un pesticida presente in un campione d’acqua nel 1970 in quantità pari a 5 picogrammi per litro non sarebbe stato rilevato da nessuno strumento allora disponibile. Oggi sì. Ma non significa che quel pesticida non ci fosse allora.

Conclusione

Quando leggiamo “oggi si trovano più pesticidi”, chiediamoci prima se si tratta di un aumento reale o semplicemente di un salto nella capacità di osservazione. La chimica analitica, nel frattempo, ha fatto un balzo gigantesco: non siamo più immersi nei veleni, siamo immersi nei dati. E questo è un enorme passo avanti.

Riferimenti

“Bella e Potente” (L. Cerruti)

Basic Gas Chromatography (H.M. McNair, J.M. Miller)

Gohlke, R.S. (1959)Analytical Chemistry, 31, 535–541.

Karayannis, M.I.; Efstathiou, C.E. (2012). Talanta, 102, 7-15

Su agricoltura biodinamica: riflessioni scientifiche

Circa un mese fa è comparsa una mia intervista su www.VinOsa.it in merito all’agricoltura biodinamica.

[…] È una pratica agricola che non ha nulla di scientifico, ma si basa su riti e superstizioni inventati da Rudolph Steiner all’inizio del ’900. Steiner era un visionario, ma non nel senso positivo del termine. Non va accomunato con gente del calibro di Newton, Galileo Galilei, Giordano Bruno – solo per mantenerci nel passato, citando persone a cui gli pseudo scienziati tendono sempre a confrontarsi – o Einstein, Planck, Dirac, Pauling – per andare a persone a noi più vicine nel tempo – che erano scienziati nel senso compiuto del termine. Il modo di essere visionari delle persone appena citate ha permesso lo sviluppo verticale della scienza, ovvero del corpo di conoscenze che oggi ci consente di usare i social network, di andare sulla Luna, su Marte o di aver superato le colonne d’Ercole del nostro sistema solare. Le visioni di Steiner sono quelle tipiche di una persona che non ha alcuna idea di come si possa fare scienza e basa le sue conoscenze sulla superstizione e sull’esoterismo […]

Se non avete ancora letto l’intervista ed avete voglia di divertirvi con delle valutazioni scientifiche su questa pratica agricola potete cliccare sull’immagine qui sotto. Quello sono io, stanco per le continue battaglie contro la pseudoscienza, mentre mi riposo per riprendere la lotta.

Grazie e buona lettura

Fonte dell’immagine di copertina

Dubbi sul vaccino anti-Covid russo

Recentemente è apparso su The Lancet, autorevole rivista scientifica di carattere medico, un lavoro che illustra l’efficacia di un vaccino anti-Covid sviluppato da ricercatori russi. Il lavoro è disponibile qui. Tuttavia, dall’analisi dei dati riportati nel lavoro, sono venuti fuori alcuni limiti che fanno dubitare della serietà del lavoro. È per questo che alcuni scienziati, tra cui il sottoscritto, si sono fatti latori di una lettera aperta in cui chiedono di poter analizzare i dati bruti da cui sono state ottenute le figure che sembrano artefatte.

La lettera è disponibile cliccando sulla figura qui sotto


La stessa lettera è stata pubblicata su Il Foglio (qui)

Omeopatia su Quotidiano Sanità: tra chicche e fantasia

Quotidiano sanità mi sembra una buona testata giornalistica. Non sfoglio molto spesso le pagine on line di questo giornale, ma quando lo faccio sono soddisfatto delle risposte che trovo. Nell’ultima settimana questo quotidiano ha ospitato tra le Lettere al Direttore una serie di articoli sull’omeopatia, pratica pseudo scientifica su cui sono già intervenuto parecchie volte nel mio blog (qui la raccolta di tutti gli articoli) oltre che in radio (qui l’intervista che a suo tempo mi ha fatto Lele Pescia di Neanderthal Pride) e in un capitolo del mio libro “Frammenti di Chimica” (qui e qui).

I presupposti

Il tutto nasce da una lettera del Dr. Santi del 28 Gennaio 2019 (qui) in cui l’autore spiega che la pratica omeopatica ha solo una valenza storica dal momento che dal 1810 – anno in cui fu reso pubblico l’Organon di Hahnnemann, “bibbia” dei principi omeopatici – la scienza ha fatto passi da gigante. Oggi si conoscono i meccanismi biochimici di moltissime patologie e si sa che certi metaboliti e certe molecole (o principi attivi) se usate nel modo opportuno sono in grado di esplicare una precisa funzione biochimica nei processi metabolici che sono alla base delle patologie anzidette. Il Dr. Santi evidenzia l’importanza che nello sviluppo della medicina ha avuto l’input di Hahnnemann che ha consentito di comprendere i meccanismi che sono alla base dell’effetto placebo. Quando un individuo prende un rimedio omeopatico, la convinzione di star assumendo qualcosa che lo aiuta nel contrastare la patologia da cui è affetto, innesca la produzione di quei metaboliti che sono realmente efficaci nella cura di cui ha bisogno. La letteratura in merito è molto vasta e non mi stancherò mai di citare il bellissimo libro del Prof. Giorgio Dobrilla dal titolo “Cinquemila anni di effetto placebo” leggendo il quale ho imparato tantissime cose. Le conclusioni, ovvie, del Dr. Santi sono, quindi, che non ha senso che costosissimi rimedi omeopatici, la cui efficacia non è superiore al placebo, siano a carico del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). In questa sede non posso fare altro che ricopiare le parole del Dr. Sarti col quale concordo in pieno:

Dobbiamo ricostruire una cultura della salute che passi attraverso la ricerca di uno stile di vita corretto, alimentazione compresa, e non nella ricerca di farmaci, anche se “dolci”, poco invasivi, tanto privi di effetti collaterali quanto privi di efficacia terapeutica!

E quali sono state le reazioni a queste parole condivisibili e del tutto ragionevoli del Dr. Santi?

Beh…la Dottoressa Silvia Nencioni – Presidente e AD di Boiron Italia – ha scritto una lettera utilizzando i luoghi comuni più noti sull’omeopatia. Potete leggere la lettera qui e le mie considerazioni su di essa qui con un post sul mio blog che pare abbia avuto molto successo – solo su facebook, per esempio, ha raggiunto 37 000 persone nel momento in cui scrivo questa nota. Non voglio, quindi ripetermi.

Un dibattito inutile

Ciò che voglio evidenziare, invece, è che delle considerazioni analoghe alle mie sono state fatte con una lettera al direttore del Quotidiano Sanità da parte del Dr. Salvo Di Grazia (Medbunker per i cibernauti). La lettera del Dr. Di Grazia è a questo link. Anche il Dr. Di Grazia ha, sostanzialmente evidenziato l’efficacia pari al placebo dei rimedi omeopatici (senza nulla togliere all’importanza dell’effetto placebo che è importantissimo in medicina) e ha ribadito l’inopportunità di mettere a carico del nostro SSN delle spese che sono praticamente del tutto inutili. Nessuno vuole vietare la libertà alle persone di scegliere pratiche inutili sotto l’aspetto biochimico e fisiologico per risolvere i propri problemi di salute. Ciò che è incomprensibile è che tutti dobbiamo pagare per le scelte sconsiderate di chi prima cerca di rimediare ai propri problemi mediante la magia e poi, quando la patologia si aggrava, chiede aiuto agli ospedali e alla medicina vera che finanziamo tutti quanti con le nostre tasse. Sì. Certo. Anche chi sceglie l’omeopatia paga le tasse ed ha diritto all’assistenza pubblica. Quanto meno, però, si paghi da solo i costi esosi di rimedi che hanno efficacia pari al placebo senza chiedere nulla al servizio sanitario nazionale (ad oggi i rimedi omeopatici sono deducibili dalla dichiarazione dei redditi. Questo significa che posso spendere una certa cifra in rimedi inutili e detrarne una certa percentuale dalla mia dichiarazione dei redditi. Se volete averne idea basta cliccare qui).

Scienza omeopatia e fantasia

Naturalmente alla lettera del Dr Di Grazia sono seguite altre due lettere in difesa dell’omeopatia. Entrambe pubblicate il giorno 4 Febbraio (qui e qui). In linea generale, come prima cosa, non posso far altro che notare che, invece di entrare nel merito delle questioni poste da Salvo Di Grazia, entrambi gli autori usano la fallacia ad hominem, ovvero attaccano la persona per distogliere l’attenzione dai fatti: l’omeopatia non serve a nulla se non come placebo. Uno dei due (professore di chimica in pensione presso l’Università di Firenze) scrive per esempio: “Da una rapida indagine ho scoperto che il Dr. Di Grazia è un medico che “cerca la verità” (c’è scritto così) e che è autore di numerose pubblicazioni scientifiche. La tecnologia a disposizione di tutti mi ha permesso di appurare che apparentemente non è autore di nessuna pubblicazione scientifica, ma che in realtà è un opinionista che ama scrivere, fra l’altro con stile apprezzabile, contro le bufale della medicina non ortodossa”.  Aggiunge anche “questo punto mi porta a sottolineare un aspetto importante: l’opinionista si esprime, si sente, si piace e vede il mondo in discesa, visto che si è posto su un piedistallo. Per contro, chi ha passato cinquanta anni della propria vita, come ho fatto io, dentro un laboratorio sa benissimo che il mondo è in salita e il provare a interpretarlo utilizzando il sentimento della propria teocrazia intellettuale non produce vantaggio. Tuttavia anche fare l’opinionista è un mestiere lodevole, che va apprezzato. Solo che bisogna saperlo fare, perché è un mestieraccio: bisogna studiare, leggere, informarsi perché i gatti neri ti aspettano sempre fuori della porta”. In altre parole, il Dr. Di Grazia viene relegato al grado di opinionista perché l’autore della lettera, professore di chimica in pensione, ha condotto studi dettagliati su cui ritornerò fra poco.

Il secondo autore (che si firma Presidente Omeoimprese e che, quindi, ha un conflitto di interessi acclarato) scrive: “non posso esimermi dal rispondere al dottor Di Grazia che attacca in modo offensivo e come sempre pregiudizievole il comparto omeopatico”. Quindi, un medico qualificato che pratica la sua professione in Scienza e coscienza ha pregiudizi, mentre il Presidente di Omeoimprese non ha pregiudizi ed è a favore della scienza. Tanto a favore della scienza che dichiara: “Ci sono personalità del mondo scientifico, addirittura premi Nobel, che hanno un atteggiamento possibilista e sicuramente più aperto nei confronti della medicina omeopatica” – e questa si chiama fallacia dell’appello all’autorità (qui) che è il leitmotiv preferito dai sostenitori dell’omeopatia (vi ricordate che è stato già usato dal Presidente e AD della Boiron? Ne ho scritto qui) – aggiungendo anche “un approccio che reputo corretto in quanto la scienza non è scolpita su tavole di pietra ma è una conoscenza in continua evoluzione. Un mutamento e un progresso che ha investito anche il mondo dell’omeopatia”. Infatti la Scienza, quella con la maiuscola, è andata avanti. È l’omeopatia ad essere rimasta sempre uguale a se stessa fin dal 1810, anno in cui fu pubblicato l’Organon di Hahnnemann. Quali sono le innovazioni di cui parla il Presidente di Omeoimprese? Non si tratta certo della rivisitazione dei concetti de “il simile cura il simile” o della succussione (concetti che hanno più o meno 210 anni) o della memoria dell’acqua (questa un po’ più fresca come idea dal momento che fu introdotta da Benveniste nel 1988 ma sbugiardata quasi da subito). No. Le innovazioni riguardano il controllo qualità da parte dell’AIFA. Infatti egli scrive: “le aziende del settore da decenni sono controllate, ispezionate, sia dall’Agenzia del farmaco che dal Ministro della Salute, in quanto produttrici di farmaci”. E posso dire? Ma ci mancherebbe altro! Anche il bar sotto casa è soggetto a regole di controllo qualità ed igiene per i prodotti che immette in commercio. Cosa pretenderebbe il Presidente di Omeoimprese? Che i rimedi omeopatici non vengano sottoposti ai più elementari controlli per appurarne l’innocuità sotto il profilo igienico-sanitario? E chi li dovrebbe fare questi controlli se non l’AIFA? Visto e considerato che questi rimedi sono equiparati a farmaci (qui), è proprio l’AIFA, braccio tecnico del Ministero della Salute, ad essere titolata per i controlli. Quindi quale sarebbe l’innovazione? I controlli dell’AIFA? È proprio grazie ai controlli necessari per garantire la salute pubblica che “le aziende hanno introdotto standard produttivi altamente innovativi”. E cosa dire delle “importanti collaborazioni con i maggiori centri di ricerca universitari italiani e mondiali”? Semplicemente che il mondo accademico è una microsocietà molto diversificata. Si può incontrare chiunque: c’è chi cerca di fare il proprio lavoro in modo serio seguendo tutti i criteri imposti dal metodo scientifico, c’è chi cerca scappatoie per ottenere vantaggi per la sua carriera o per ricevere fondi sempre più consistenti (qui, qui e qui) e c’è anche chi crede nelle cose che fa. Ci crede talmente tanto che non riesce a valutare oggettivamente ciò che fa e cade preda dei propri pregiudizi di conferma (qui). In definitiva, vantarsi delle collaborazioni con enti di ricerca più o meno importanti è il solito specchietto per le allodole che serve solo per nascondere i fatti sotto al tappeto e difendere le proprie posizioni acclarate.

Chimica e omeopatia

So che questo articolo è lungo ed è noioso da leggere. Ma consentitemi di dedicare un paragrafo alla lettera del mio collega chimico in quiescenza dell’Università di Firenze (qui). Ho già scritto poco fa della sua fallacia ad hominem. Lasciamola stare ed andiamo avanti.

La sua lettera ha un interessante incipit: “Premetto che la lettera non mi è stata segnalata dalla Dssa. Nencioni, dal momento che, conoscendola, non aveva e non ha nessun bisogno di farlo. Viceversa non ho la fortuna di conoscere il Dr. Di Grazia, anche se poi mi sono ricordato che è stato autore di un articolo simile sul periodico Previdenza, con il quale la FNOM-Ceo cura la salute delle anime dei propri iscritti pubblicando, senza contraddittorio visto che la vera scienza non è democratica, non già consigli per mantenere in salute un popolo di medici vecchierelli, ma compulsioni che ai più sembrano lesive della deontologia professionale di una parte dei propri iscritti, i medici omeopati appunto”.

Mi verrebbe da dire ciò che è spiegato benissimo in questo video, nell’accezione del primo dei due termini di cui si descrive il significato: https://www.facebook.com/IlSocioAci/videos/293772537913204/

Il fatto che il collega professore (in realtà, ex collega perché io sono ancora in servizio) non conosca personalmente il Dr Di Grazia nulla toglie e nulla aggiunge alla serietà di quest’ultimo ed al fatto che si tratti di un medico che si esprime con cognizione di causa, sempre e solo nel merito delle questioni che egli decide di affrontare. Ed il fatto che il collega professore conosca la Dr.ssa Nencioni, nulla toglie e nulla aggiunge al fatto che ella sia presidente ed amministratore delegato della Boiron, nota ditta francese di prodotti omeopatici, e, di conseguenza, necessariamente coinvolta in un conflitto di interessi. Non ho nulla da dire in merito. La dottoressa, giustamente, difende gli interessi della sua categoria. Avrei preferito che lo avesse fatto senza utilizzare i soliti luoghi comuni di cui ho già parlato, ma va bene lo stesso.

Ed allora? A cosa serve questo incipit se non a distogliere l’attenzione del lettore dal reale problema dell’omeopatia, ovvero la sua inconsistenza scientifica, e puntarla verso l’autore delle critiche introducendo la fallacia ad hominem di cui ho parlato?

Questa introduzione sembra seguire le linee generaliste, e talvolta non esattamente corrette, che il professore utilizza nei lavori sull’omeopatia di cui è autore (la sua produzione scientifica è presente nei nostri data base – Scopus in primis – dalla quale si evince che egli ha pubblicato 131 lavori che, per “chi ha passato cinquanta anni della propria vita, come ho fatto io, dentro un laboratorio”, sono circa 3 lavori all’anno). In uno di questi lavori (scaricabile liberamente da questo link), il professore scrive: “The properties of macroscopic matter are related to the properties of its microscopic units. This is in agreement with the statement that the whole is nothing but the sum of its parts. The problem is what ‘the sum of parts’ means. Basic research in pharmacology is carried out according to the belief that the interactions of a molecule with organism units follow simple rules, though often the application of these rules is complicated. But this in principle is relatively unimportant since it is always possible that in the future tools may be developed which could solve these complications. Bearing this in mind, pharmacology describes its ownperspective in terms of ontological or sometimes epistemological reductionism”.

E qui, adesso, parliamo di scienza

Quello che è scritto, sebbene in modo tecnico e con belle parole, è un altro leitmotiv dei sostenitori dell’omeopatia. Si tratta del famoso approccio olistico secondo il quale una persona non è una banale somma di “oggetti” chimici, ma qualcosa di più. Ne ho parlato più volte: la prima sull’enciclopedia volante www.laputa.it (qui), per poi rilanciarlo sul mio blog appena “costruito” (qui). Ma ho fatto anche un elogio del riduzionismo (qui) in cui ho evidenziato che, in realtà, i detrattori del riduzionismo (ovvero, i sostenitori dell’omeopatia) sono attaccati ad una visione ottocentesca della scienza (e non potrebbe essere altrimenti dal momento che le loro idee immutabili risalgono al 1810 che, come ho già scritto, è l’anno in cui Hahnnemann ha “partorito” la sua opera) che ha le sue basi nell’incredibile sviluppo che la termodinamica ha avuto a cavallo tra 1700 e 1800. In quegli anni, per esempio, Carnot enunciò il principio secondo il quale il rendimento di una macchina termica che lavora tra due sorgenti di calore non può mai superare quello della cosiddetta macchina di Carnot. Tradotto in parole povere, l’energia termica che serve per muovere una qualsiasi macchina non viene trasformata tutta in energia meccanica, ma, a causa di forze dissipative, parte di essa viene dispersa e non può essere utilizzata. Si tratta, in pratica, della negazione del famoso moto perpetuo la cui ricerca termina proprio con l’enunciazione del teorema di Carnot.

Proprio l’enorme sviluppo scientifico dei secoli anzidetti, portò alla convinzione che l’essere vivente non fosse altro che una vera e propria macchina il cui funzionamento poteva essere compreso solo se venivano isolate le sue singole componenti e ne veniva indagato il funzionamento pezzo per pezzo. L’idea era che una volta compreso il funzionamento delle singole parti, esse potevano essere riassemblate per riottenere di nuovo l’essere vivente.

Questa idea è caduta in disuso da tantissimi anni e non si capisce perché scienziati, apprezzabilissimi per il lavoro che svolgono, cadano preda del suo fascino. Magari può essere questione di età: tutti, prima o poi, arriviamo alla fine di un ciclo intellettuale. Quando accade, gli accademici cominciano a dare letteralmente i numeri: è accaduto a Linus Pauling con la sua fissazione sugli effetti biologici della vitamina C, a Luc Montagnier con la sua fissazione per la memoria dell’acqua, a Kary Mullis con la sua negazione della correlazione HIV-AIDS, a Emilio Del Giudice con la sua fissazione per le quantum electrodynamics applicata all’acqua. Potrei continuare, ma sono sicuro che prima o poi capiterà anche a me.

Perché sto scrivendo queste cose? Semplicemente perché non è vero che “Basic research in pharmacology is carried out according to the belief that the interactions of a molecule with organism units follow simple rules” e che “Bearing this in mind, pharmacology describes its own perspective in terms of ontological or sometimes epistemological reductionism”. A leggere questa cosa sembrerebbe che J.J. Monod non sia mai esistito e che il suo lavoro non sia mai stato oggetto di premio Nobel nel 1965. Oltre che essere l’autore de “Il caso e la necessità”, opera che tutti quelli che si occupano di scienza dovrebbero o avrebbero dovuto leggere, Monod è lo scienziato che ha introdotto il concetto di allosterismo, ovvero dell’interazione reversibile di un enzima con una piccola molecola, o con un’altra macromolecola che si lega a un sito diverso dal sito attivo della proteina, tale da indurre nell’enzima un cambiamento conformazionale che comporta profonde variazioni della sua attività. In altre parole, un sistema complesso, per effetto delle interazioni con un altro sistema, assume delle proprietà che da solo non è in grado di mostrare. Insomma, il fatto che le proprietà di un insieme non siano una semplice combinazione lineare delle proprietà delle singole componenti, bensì il risultato di combinazioni non lineari, è noto da tempo ed è un concetto che tutti quelli che si occupano di scienza a vario titolo hanno ben presente.

Questo articolo non vuole essere una critica al lavoro encomiabile del collega in quiescenza dell’università di Firenze, ma voglio solo far notare che chi si erge a paladino di una pseudo scienza come l’omeopatia, adatta le sue conoscenze alle proprie convinzioni perdendo di vista l’oggettività. Come ho già scritto, capita a tutti ed il club è molto ben frequentato.

Ancora l’appello all’autorità

Il collega, appellandosi al solito principio di autorità, cita una neurologa “in predicato per essere candidata al Nobel per la scoperta del sistema glimfatico” (in merito al sistema glimfatico ho trovato un bell’articolo pubblicato su Le Scienze che rimanda anche al lavoro originale su Science). Ora, che la scienziata sia in predicato di essere candidata al Nobel è una vera e propria chicca, dal momento che le candidature sono segrete e vengono tenute tali per cinquant’anni. Come ne sia venuto a conoscenza, non è dato saperlo. Arguisco che il collega abbia fonti sicure in merito. In ogni caso, a parte questa notizia che può essere sfuggita nella foga del momento, il lavoro in cui la scienziata “in predicato di” dimostra che l’agopuntura innesca la produzione di adenosina, una molecola responsabile dell’attenuazione del dolore, è stato pubblicato nel 2010 su Nature Neuroscience (qui). Tuttavia, questo lavoro non dimostra affatto l’efficacia dell’agopuntura. E non sono io a dirlo, visto che non sono un clinico. Il lavoro lo ha studiato nei dettagli il team di Science-Based Medicine che fa capo a David Gorsky. Per chi non lo sapesse, Gorsky è medico  cacciatore di bufale, una professione quanto mai necessaria nel mondo iper-connesso di oggi in cui ogni sciocchezza riesce a raggiungere una popolazione molto ampia non sempre pronta a recepire ciò che viene prodotto nei laboratori di tutto il mondo.  Se avete voglia, potete leggere l’articolo completo con tutte le inconsistenze a questo link.

Conclusioni

Ora basta. Ho scritto questo articolo su word e la sua lunghezza è quella di uno dei miei lavori di ricerca. Penso di avervi annoiato anche troppo. Spero molto che abbiate avuto la pazienza di giungere fino a questo punto nella lettura. Il mio obiettivo era quello di far vedere che, purtroppo, come ho scritto prima, il mondo scientifico è popolato da tanta gente. Moltissimi sono quelli che lavorano seguendo il codice etico scientifico secondo il quale il dato sperimentale è sovrano (questa l’ho imparata dal mio professore di tesi, il Professore Ciro Santacroce. Sto invecchiando e come i vecchi comincio a ricordare i tempi in cui ero più spensierato e vedevo il mondo scientifico con gli occhi del giovane che vuole scoprire il mondo nascosto e irraggiungibile ai sensi umani). Molti sono quelli che sono soggetti a conflitto di interessi e farebbero meglio a starsene buoni e zitti. Tanti sono quelli che si lasciano affascinare dalle proprie idee e perdono il contatto con l’oggettività sperimentale inseguendo i propri pregiudizi di conferma. Anche i chimici, come ho dimostrato, non sono infallibili. Purtroppo, la popolarità è una droga ed è semplice scrivere “Lettere al Direttore” invocando l’argumentum ad populum, l’argumentum ad hominem, l’argumentum ab auctoritate per screditare il proprio avversario senza entrare nel merito delle questioni, soprattutto quando questi mette in dubbio la validità del lavoro che si è portato avanti nell’ultima parte della propria carriera accademica.

Cronologia delle Lettere al Direttore del Quotidiano Sanità

28/01/2019 http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=70346

02/02/2019 http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=70577

03/02/2019 http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=70597

04/02/2019 http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=70614

04/02/2019 http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=70622

Fonte dell’immagine di copertina: Wellcome Images

Omeopatia: aridaje

 

Pensavo fosse finita o, quantomeno, che i fan dell’omeopatia non utilizzassero sempre gli stessi argomenti, triti e ritriti, ormai da tempo sbufalati, e si rinnovassero nel loro repertorio in merito all’omeopatia che non mi stancherò mai di assimilare alle pratiche sciamaniche utilizzate dagli uomini di Neanderthal.

Perché scrivo questo? Semplicemente perché è comparsa sul Quotidiano Sanità una lettera al direttore (qui) in cui l’autrice, presidente ed amministratore delegato della Boiron (nota azienda di prodotti omeopatici), non fa altro che riutilizzare, per l’ennesima volta, a mo’ di mantra, le stesse argomentazioni che ho già avuto modo di confutare nel merito più volte anche in una lezione fatta qualche anno fa a Bassano del Grappa e visibile su YouTube (tutta la serie dei miei articoli divulgativi è qui, oltre che nel mio libro “Frammenti di Chimicaqui e qui).

Ma andiamo nei dettagli: data base e validità dei lavori scientifici

L’autrice scrive:

Il primo fatto oggettivo è che – al contrario di quanto continuano ad affermare gli oppositori dell’omeopatia – la letteratura scientifica sull’argomento, seppur lontana dall’essere esaustiva e ne siamo consapevoli, è ampia. Per rendersene conto basta consultare banche dati biomedicali quali PubMed e leggere i lavori scientifici pubblicati su riviste peer review, con Impact Factor. Tra questi, meta-analisi, studi osservazionali, clinici e preclinici, per citarne alcuni. E’ peraltro online da alcuni mesi anche un database nel quale sono raccolti gli studi pubblicati sul tema negli ultimi 70 anni. La mia impressione è che, spesso, chi dice che non esistono ricerche di qualità sull’omeopatia non le abbia mai cercate e tantomeno studiate. Un atteggiamento in completa antitesi a ciò che dovrebbe essere il pensiero scientifico, che spinge a studiare e sperimentare ciò che non si comprende fino in fondo

Vediamo dove sono le fallacie in quanto scritto.

L’autrice usa il classico “appello all’autorità” (qui) in base al quale se una fonte autorevole riporta delle affermazioni, queste automaticamente sono vere (laddove il “vero” scientifico non ha forza in senso assoluto).

L’autorevolezza di una rivista scientifica si misura mediante l’impact factor (IF), ovvero un numero che tiene conto della quantità di citazioni che gli articoli pubblicati nella rivista stessa ricevono. Se i lavori vengono molto citati, vuol dire che hanno un buon impatto nel settore scientifico di riferimento e la rivista che li pubblica, di conseguenza, ha essa stessa un buon impatto.

Come si calcola l’impact factor?

L’IF si calcola confrontando il numero di citazioni di tutti gli studi pubblicati in un biennio col numero totale di studi pubblicati nello stesso biennio. Per esempio, supponiamo che il numero di citazioni di tutti gli studi pubblicati sulla rivista “tal-dei-tali” nel biennio 2015-2016 sia 13000, mentre il numero di studi pubblicati nello stesso periodo sia 5000. L’impact factor si ottiene dal rapporto 13000/5000, ovvero IF=2.6. Questo valore di IF è alto o è basso? Preso da solo, non ha alcun significato. Per stabilire quanto una rivista sia importante, occorre confrontare l’IF di tutte le riviste che appartengono allo stesso settore scientifico. Per questo motivo le agenzie di indicizzazione stabiliscono delle classifiche di merito – o rating – in cui le riviste più prestigiose – perché pubblicano i lavori che hanno maggiore impatto sul mondo scientifico, ovvero sono i più citati – sono quelle che hanno IF più alto. 

Perché non ha senso quanto riportato nella lettera al direttore scritta dalla AD della Boiron?

Appare chiaro, da quanto detto, che l’autorevolezza di una rivista non si riflette in quella dei singoli lavori pubblicati nella stessa. Quindi, io posso scrivere un lavoro e poi pubblicarlo su una rivista autorevole come The Lancet, per esempio. Non per questo il mio studio diventa automaticamente importante. Ne volete un esempio? Vi ricordate di quella frode scientifica che correlava autismo e vaccini? Ebbene quel lavoro fu pubblicato proprio su The Lancet, una delle riviste più autorevoli in campo medico, ma fu poi ritirato quando, dopo una decina di anni, il mondo scientifico poté verificare l’inconsistenza dei risultati ivi riportati (ne ho anche parlato in uno dei miei tanti articoli sulle frodi scientifiche qui).

Di meta-analisi ed omeopatia.

La signora in questione, sempre per difendere le sue posizioni ideologiche – del tutto lecite vista la posizione che occupa, cita meta-analisi e studi osservazionali in cui si dimostrerebbe la validità dell’omeopatia. Per scrivere il mio libro “Frammenti di Chimica” (in cui un capitolo di 75 pagine è dedicato proprio a questo argomento), ho scaricato, letto e studiato i lavori più importanti e significativi del settore omeopatia. Inutile dire che le meta analisi più importanti riportino esattamente quello che non piace alla scrivente della lettera al direttore e che i cosiddetti lavori osservazionali pecchino di difetti sperimentali che li rendono del tutto inutili per trarre le conclusioni di cui la signora accenna nella sua lettera. Se volete leggere quello che ho scritto in merito, potete far riferimento anche al mio blog dove ho riportato un estratto di quanto scritto nel libro sotto forma di reportage in quattro puntate.

In breve, nella prima parte del reportage (qui) ho evidenziato i limiti dei lavori di Benveniste e Montagnier considerati i paladini dell’omeopatia. La seconda parte del reportage (qui) è  dedicata alla valutazione delle prove a sostegno dell’ipotesi “memoria” dell’acqua delizia dei fan dell’omeopatia. La conclusione è che si tratta solo di fantasia e di scienza patologica. Nella terza parte del reportage (qui) ho preso in considerazione le varie meta-analisi che nel corso degli anni sono state fatte per valutare, in modo statistico, l’eventuale efficacia dell’omeopatia. Ne è venuto che gli effetti dell’omeopatia sono ascrivibili al solo effetto placebo. Infine, nella quarta parte del reportage (qui) descrivo l’effetto placebo, l’unico effetto che i rimedi omeopatici hanno sugli organismi viventi.

Perché l’effetto placebo è malvisto dai sostenitori dell’omeopatia?

Più che dai sostenitori generici dell’omeopatia, l’effetto placebo sembra essere odiato soprattutto da coloro che a vario titolo sono coinvolti nella commercializzazione dei rimedi omeopatici. Mi sembra anche ovvio perché. Un rimedio omeopatico come l’Oscillococcinum, per esempio, contiene soltanto due tipi di zuccheri (saccarosio e lattosio) che costano la bellezza di 2000 € al chilogrammo. Insomma delle pillolette fatte di zucchero costano un occhio della testa. Come posso pretendere di vendere questo prodotto a qualcuno affermando che il suo effetto è solo di tipo placebo? Per poter giustificare il prezzo esorbitante, devo appellarmi a presunti meccanismi biochimici ancora sconosciuti che la cosiddetta “scienza ufficiale” (che ricordo NON esiste) si rifiuta di indagare. Indubbiamente troverò persone semplici che, per cultura, non sono in grado di affrontare ragionamenti scientifici complessi, a cui potrò far credere ciò che voglio e che possono rappresentare il mio bacino di utenti. Queste stesse persone diventeranno, poi, strenui difensori dell’omeopatia perché non sono sufficientemente preparate a poter distinguere ciò che è soggettivo da ciò che non lo è. Ho parlato dell’indotto economico della big pharma omeopatica in una intervista a Il Sole 24 Ore (qui).

Il database dell’omeopatia.

Alla luce di tutto quanto scritto, affermare che esiste un data base che raccoglie gli studi sull’omeopatia fatti negli ultimi 70 anni serve solo come specchietto per le allodole e distrarre l’attenzione del lettore dal vero problema: i rimedi omeopatici hanno solo effetto placebo. Anche se si raccogliessero i lavori fatti a partire da quando fu pubblicato l’Organon di Hannhemann nel 1810, nulla potrebbe cambiare questo dato di fatto.

Antiscienza.

Ha senso, allora, parlare di atteggiamento antiscientifico da parte di chi, come me, si oppone con forza a questi rimedi che non servono a nulla? No. La fondatezza di uno studio scientifico diventa progressivamente più forte col passare del tempo, man mano che l’accumulo delle prove sperimentali rende sempre più difficile la sua falsificazione. Mi dispiace moltissimo per i sostenitori dell’omeopatia, ma questa pratica ha basi scientifiche che sono state falsificate in senso popperiano. Di conseguenza essa è entrata a pieno titolo nella storia passata della scienza. Andiamo avanti e lasciamo il ramo secco dell’albero della scienza dove esso è: nel paradiso delle ipotesi sbagliate di cui il mondo scientifico è pieno.

La registrazione dei rimedi omeopatici.

L’autrice continua la sua disamina scrivendo:

Il secondo fatto oggettivo è relativo al processo di registrazione dei farmaci omeopatici. È fuorviante dire che “nessuna azienda omeopatica ha fatto richiesta di inserire i propri prodotti nel percorso autorizzativo per i farmaci con indicazione terapeutica”.  Se le aziende non lo hanno fatto, è perché mancano le linee guida per la registrazione non semplificata con indicazioni terapeutiche, possibile solo attraverso l’articolo 18 del D.Lgs. 219/2006, che afferma: “Per tali prodotti (ndr.: i farmaci omeopatici) possono essere previste, con decreto del Ministro della Salute, su proposta dell’AIFA, norme specifiche relative alle prove precliniche e alle sperimentazioni cliniche, in coerenza con i principi e le caratteristiche della medicina omeopatica praticata in Italia”. E’ in corso da alcuni anni un confronto con il Ministero della Salute perché si arrivi all’emanazione di queste linee guida, presenti in quasi tutti gli altri Paesi che hanno recepito in modo completo la Direttiva europea

Non ci vuole molto ad andare sul sito web dell’Agenzia Italiana del farmaco (AIFA) e trovare quanto riportato in questo link. Se avete la pazienza di leggere cosa è scritto lì, si capisce che le indicazioni su come effettuare la registrazione dei rimedi omeopatici sono state date. Evidentemente i problemi che le aziende che producono questi rimedi incontrano sono altri e non voglio indagare. In ogni caso, un articolo divulgativo in merito lo trovate anche sul sito web di Scienza in Rete (qui).

Le indicazioni terapeutiche.

L’autrice scrive ancora:

Il terzo fatto oggettivo è strettamente connesso al punto precedente. E’ vero che le indicazioni terapeutiche non si possono comunicare ai pazienti, ma è falso affermare che non esistono, tanto che proprio per legge esse vengono consegnate ai medici e ai farmacisti (art. 120, D.Lgs 219/2006), previa notifica all’Agenzia del Farmaco, esattamente come avviene per tutti gli altri farmaci“.

Sempre dal sito dell’AIFA è possibile trovare che le indicazioni terapeutiche sono “malattie o gruppi di malattie contro cui un farmaco è efficace” (qui). Per poter dire che un farmaco è efficace contro una data patologia è necessario condurre studi clinici in doppio cieco. Alla luce di quanto scritto fino ad ora, lascio al lettore le conclusioni in merito alla serietà progettuale degli studi clinici condotti con i rimedi omeopatici.

Il progetto EPI3.

E ci risiamo. L’autrice scrive:

i risultati del programma di ricerca EPI3, il più importante studio farmaco-epidemiologico realizzato nel campo della medicina generale in Francia, indicano che, per tutte le condizioni cliniche prese in esame, un paziente seguito da un medico che prescrive medicinali omeopatici ha un decorso clinico simile a quello di un paziente seguito da un medico che non lo fa, senza perdita di opportunità terapeutica e con un minor consumo di farmaci che possono provocare effetti indesiderati“.

Sfortunatamente per la signora, ho scaricato tutti i lavori del progetto EPI3 (sono circa una decina) e li ho studiati per bene. Ne parlo nel mio libro “Frammenti di Chimica“. Ma ne parlo anche nel mio blog: qui. Non voglio riscrivere cose di cui ho già discusso, per cui vi invito ad aprire il link precedentemente indicato ed a leggere perché il progetto EPI3 – finanziato dalla stessa Boiron con circa 6 milioni di euro –  è inconsistente e privo della solidità scientifica che un progetto di questa portata dovrebbe avere (del progetto EPI3 ho discusso con Francesco Mercadante nella mia intervista a Il Sole 24 Ore qui).

Conclusioni

Capite, ora, perché il titolo di questo lungo articolo è “aridaje”? Quando la lettera sul Quotidiano Sanità è venuta ai miei occhi, mi sono innervosito: possibile che non si faccia altro che ripetere sempre e continuamente le stesse cose? Possibile che questa storia non finisca mai? Perché volete ammantare di scientificità qualcosa che di scientifico ha nulla? Qual è il problema nell’ammettere che i rimedi omeopatici sono solo una moda che si inserisce in una mentalità new age che consente di occupare solo una nicchia di mercato più o meno florida? Nessuno vuol vietare l’uso di questi rimedi. Ciò che importa è che le scelte vengano fatte in modo consapevole sapendo che l’eventuale efficacia di un rimedio omeopatico è dovuta solo all’effetto placebo che è ben studiato e conosciuto in letteratura (a tal proposito cito il libro del mio amico Giorgio Dobrilla “Cinquemila anni di effetto placebo“, edra edizioni).

Ringraziamenti

Sono molto grato al mio amico Marco Cappadonia Mastrolorenzi per la consulenza sul romanesco usato nel titolo di questo articolo.

Fonte dell’immagine di copertina: available on Wikimedia Commons. The photo has been licensed under Creative Commons Zero (Source)

Omeopatia, agricoltura e biodinamica®

 

È di questi giorni la notizia relativa ad un congresso sulla biodinamica® ospitato (quindi patrocinato) dal Politecnico di Milano che ha visto la senatrice Elena Cattaneo autrice di una lettera aperta al Rettore di detta Istituzione (qui) per paventare i pericoli legati alla sponsorizzazione della pseudo scienza da parte delle Istituzioni Universitarie. Non voglio spendere più di tante parole in merito a questa pratica di carattere esoterico perché ne hanno già parlato professionisti e colleghi molto qualificati. Per esempio Donatello Sandroni ha descritto dell’inconsistenza della fede nella biodinamica® in un bell’articolo qui, mentre Enrico Bucci ed Ernesto Carafoli ne hanno discusso qui. Voglio anche evidenziare che nel momento in cui scrivo questo post, la pagina relativa al predetto convegno, ospitata sul sito dell’Associazione per l’Agricoltura Biodinamica®, sembra essere sparita. Se non ci credete, basta andare sul sito, cliccare su “Eventi” e verificare che l’ultimo convegno elencato è quello del 2016 (Figura 1). Il convegno del 2018 non compare. Per averne certezza, ho ripreso la pagina del CICAP in cui si parlava di questo evento (qui) ed ho cercato di raggiungere la locandina del convegno dai link ivi riportati. Il risultato? lo potete vedere cliccando qui.

Figura 1. Finestra in cui non compare il convegno del 2018

Ora il programma del convegno è in “News” (Figura 2).

Figura 2. Dove trovare il programma del Convegno 2

Dalla finestra a tendina di News bisogna cliccare su “Biodinamica News” (Figura 2) e dalla pagina mostrata in Figura 3, selezionare “Un convegno per la libertà degli agricoltori e dei ricercatori”.

Figura 3. Pagina “Biodinamica News”

A questo punto, bisogna scorrere fino in fondo e cliccare su “Clicca qui per visionare il PROGRAMMA COMPLETO” (Figura 4).

Figura 4. Pagina da cui scaricare il programma del convegno sulla biodinamica

Solo dopo tutte queste operazioni compare, finalmente, il programma completo che qualche giorno fa era raggiungibile in modo molto meno macchinoso (per scaricare il programma cliccare qui).

La Naturphilosophie di steiner e la biodinamica

Appare evidente che la sollevazione occorsa in rete da parte del mondo scientifico ha avuto un effetto inaspettato per coloro i quali hanno organizzato questo evento e nonostante tutte le conferme arrivate da diverse associazioni che, a vario titolo, lo patrocinano. Qui si può leggere l’elenco di coloro i quali hanno difeso le proprie scelte nel patrocinare questo famoso convegno. C’è addirittura chi parla di “libertà di ricerca” (per esempio qui e qui) alimentando l’idea che esista una ortodossia scientifica, simile a quella religiosa, che si oppone ai cambiamenti innovativi perché non compresi e temuti dai “santoni” di quella che viene definita “scienza ufficiale”. A parte il fatto che non esiste alcuna “scienza ufficiale”, ma una sola scienza che è quella che fa uso del metodo scientifico di cui ho parlato in diversi articoli (qui), non si capisce di quali innovazioni si dovrebbe aver paura. La biodinamica® nasce all’inizio del XX secolo nella mente di un tal Rudolph Steiner che, di fatto, applica principi esoterici (come per esempio forze cosmiche ed energie astrali) all’agricoltura. Se volete avere un’idea di cosa sia l’agricoltura pensata da Steiner basta leggere qui. È chiaro dai documenti  citati che si tratta di vera e propria fuffa che si basa anche sulle teorie esoteriche di Hannheman pubblicate per la prima volta nel 1810 nel “The organon of medicine”. Devo aggiungere che le idee strampalate di Rudolph Steiner erano abbastanza di moda all’inizio del XX secolo e rientravano nell’ambito della “Naturphilosophie” che fu, poi, abbracciata anche dal nazionalsocialismo tedesco che in ambito pseudoscientifico non si può dire non fosse all’avanguardia (ma di questo parlerò in un altro post). Volete sapere cosa scrive Philip Ball (se volete conoscerlo basta cliccare qui) a proposito di Steiner nel suo “Al servizio del Reich. Come la fisica vendette l’anima a Hitler”  (Einaudi, 2013)? Ecco:

L’entusiasmo del regime nazista per questo tipo di misticismo e pseudoscienza è ben documentato, per quanto forse non si siano ancora approfondite a sufficienza le assonanze tra fascismo, Naturphilosophie, misticismo con tratti da culto di Rudolf Steiner e antroposofia da una parte, e le confortanti certezze di certe credenze New Age dall’altra.

e ancora:

Steiner è stato difeso dall’accusa di avere simpatie naziste, e sicuramente pare non fosse apprezzato dai nazionalsocialisti stessi. Non avrebbero però probabilmente trovato niente da ridire in questo suo commento: «Gli ebrei in quanto tali sono sopravvissuti a se stessi da molto tempo. Non hanno diritto di esistere nella vita moderna delle nazioni. Che siano ugualmente sopravvissuti è un errore da parte della storia del mondo, di cui c’erano da aspettarsi le conseguenze» (R. Steiner, Gesammelte Aufsätze zur Literatur, 1884-1902, Rudolf Steiner Verlag, Basel 1971, p. 152).

Avete capito il tipo? Certo. Nel corso della storia scienziati famosi, che hanno fornito un enorme input all’avanzamento delle conoscenze, non sono stati irreprensibili sotto l’aspetto etico. Ricordiamo Haber per esempio?  Oppure Lennard e Starck? Il primo, dopo aver ottenuto la fissazione dell’azoto molecolare in ammoniaca, fu l’artefice dei primi gas bellici usati nella prima guerra mondiale. Gli altri due, dopo aver dato un contributo alla meccanica quantistica, sposarono il nazismo e le sue tesi antisemite. Almeno, però, i loro nomi sono scritti nella storia della scienza e ricordati solo per il loro contributo ad essa. Steiner, non solo si inseriva a pieno titolo nell’antisemitismo tipico degli inizi del novecento, ma non diede alcun contributo scientifico. Eppure  oggi c’è ancora gente che segue le indicazioni della pseudoscienza di Steiner che ha tutte le caratteristiche di una fede religiosa in cui il Dio canonico è stato sostituito dalla Natura benigna (anche sul significato che l’ortodossia ambientale attribuisce al termine “natura” mi ripropongo di tornare in seguito).

La agro-omeopatia

L’esoterismo biodinamico trova  un forte appoggio nel mondo dell’omeopatia. Non può essere altrimenti dal momento che tutta la filosofia steinariana è permeata dalle idee hannhemaniane. Di queste idee ne ho già discusso altrove (qui trovate tutta la serie di articoli che ho scritto al riguardo). L’applicazione dei principi omeopatici all’agricoltura ha dato vita a un nuovo filone che alcuni definiscono scientifico che prende il nome di agro-omeopatia.  Quali sono i principi dell’agro-omeopatia? Li potete leggere in una intervista sul sito web di lifegate, qui.

Il mio non vuole essere un attacco a nessuno, ma solo una valutazione critica di quanto scritto in una intervista accessibile a tutti. A chi è privo di conoscenze scientifiche, ciò che è riportato nell’intervista può sembrare plausibile e, di conseguenza, indurre a pensare che l’ortodossia scientifica, la stessa di cui parlavo prima ma che – di fatto – non esiste, si oppone alla libertà di ricerca ed impedisce ai novelli Giordano Bruno ed ai sempiterni Galileo Galilei di non esprimere il loro genio.

L’effetto placebo

Andiamo con ordine e vediamo quali sono i limiti di ciò che è scritto nell’intervista.

le piante, non avendo un sistema nervoso, non sono influenzabili da un punto di vista psichico, dunque sono immuni dall’effetto placebo. L’obiezione che viene sempre fatta da coloro i quali non credono nell’efficacia dell’omeopatia è proprio che agisca sull’onda dell’effetto placebo, anche quando viene applicata agli animali oltre che alle persone.

Il primo punto su cui mi preme centrare l’attenzione è proprio il concetto di effetto placebo. In pratica si sta affermando che esso si osservi solo su organismi viventi dotati di “coscienza” o “consapevolezza”. Le piante, in quanto prive di sistema nervoso, non hanno né l’una né l’altra e, di conseguenza, non è possibile parlare di effetto placebo.

Cos’è l’effetto placebo?

Ne ho parlato già diverse volte e ne ho discusso anche nel mio “Frammenti di chimica. Come smascherare falsi miti e leggende”. L’effetto placebo è uno dei due effetti che si osservano quando si assume un farmaco. Il primo è un effetto curativo vero e proprio legato all’azione del principio attivo che influenza, da un punto di vista chimico, i nostri processi metabolici. Il secondo è un effetto curativo, di tipo psicologico, legato all’idea di assumere un rimedio con effetti curativi. È proprio quest’ultimo che viene indicato come effetto placebo. Nella comune pratica clinica, la sperimentazione viene sempre effettuata contro un rimedio placebo, ovvero un rimedio che non ha effetti curativi di tipo biochimico, ma che induce solo un effetto curativo di tipo psicologico. Questo allo scopo di distinguere la reale efficacia biochimica e verificare che un principio attivo sia più efficiente del solo placebo. Se questa condizione non si verifica, ovvero se il principio attivo funziona esattamente come il placebo,  esso viene definito come “non migliore del placebo”. Perché un placebo possa avere un qualche effetto è necessario che l’individuo sia cosciente ed in stato di veglia. Inoltre, il soggetto deve essere sottoposto ad inganno, ovvero non deve sapere che sta assumendo il placebo. In realtà le cose sono molto più complicate di così. Come sottolineavo in un altro post (qui), uno studio recente (questo) pare abbia dimostrato che l’effetto placebo possa aver luogo anche quando il paziente non viene ingannato. Mentre sono chiari i meccanismi dell’effetto placebo che si ottiene quando un paziente cosciente ed in stato di veglia viene “ingannato” (invito a tal proposito a leggere il bellissimo libro divulgativo del Prof. Dobrilla dal titolo “Cinquemila anni di effetto placebo”), non si sa ancora bene cosa accada quando, invece, non c’è inganno.

“Ma stai divagando e stai dando ragione a quanto scritto nell’intervista”, direte voi. Non è esattamente così. Ho solo, per ora, evidenziato che i meccanismi di tale effetto sono complessi e non basta dire che occorre “coscienza” o “consapevolezza” perché si abbia effetto placebo. Dirò di più. Proprio perché i meccanismi di tale effetto sono complessi, essi si osservano anche laddove la logica spicciola legata a “coscienza” e “consapevolezza” sembrerebbe indicarci che esso non possa realizzarsi. Cosa voglio dire? Ne ho già parlato qui, ma, come dicevano i nostri antenati, “repetita iuvant”.

I meccanismi dell’effetto placebo

Quando si fa un esperimento di qualsiasi tipo, bisogna fare in modo che i pregiudizi di conferma vengano opportunamente riconosciuti e tenuti sotto controllo. Cosa vuol dire questo? Se decido di fare un esperimento su un essere vivente, come un bambino, un topo o una pianta, devo tener conto anche dei miei atteggiamenti nei confronti dell’essere vivente sotto osservazione. Per esempio, uno dei meccanismi dell’effetto placebo è quello che prende il nome di apprendimento per imitazione. Esso consiste nel fatto che un essere vivente, come un bambino, possa modulare il suo comportamento osservando e imitando o emulando le azioni di un individuo di riferimento come un genitore. Se il genitore si aspetta che il figlio guarisca dalla patologia per assunzione di uno zuccherino, indurrà nel bambino, attraverso la sua gestualità ed il suo comportamento generale, un analogo comportamento, assimilabile alla riduzione degli effetti della patologia, anche se non c’è reale guarigione. Vogliamo dimenticare poi il meccanismo che prende il nome di condizionamento Pavlov? Quando ero più giovane possedevo un bellissimo meticcio di pastore belga chiamato Pluto (sia perché era simpatico come il cane di Topolino, sia perché era nero come l’entrata dell’Ade di cui Pluto era custode nella mitologia Latina). Ebbene, a quell’età ero convinto che fosse un cane non particolarmente intelligente perché ogni volta che veniva aperto il cassetto delle posate si precipitava in cucina per mangiare anche se non era l’ora del pasto. All’epoca, non avevo ancora capito che era soggetto al condizionamento Pavlov. Quando da cucciolo gli davamo da mangiare (sia io che uno qualsiasi dei membri della mia famiglia), aprivamo il cassetto delle posate per prendere l’apriscatole per poter aprire le scatolette di cibo per cani e una posata per mettere il cibo nella ciotola. Pluto aveva associato il rumore del cassetto delle posate al cibo. Per questo motivo ogni volta che, per un qualsiasi motivo, veniva aperto il cassetto delle posate, si precipitava a spron battuto in cucina indipendentemente dal fatto che fosse il momento del pasto oppure no. Lo stesso accade in laboratorio quando si fanno esperimenti con gli animali. Si induce un comportamento di un certo tipo perché l’animale associa quel comportamento a una qualsiasi forma di ricompensa. Ma non basta. Se uno crede che l’uso dello zuccherino, in qualche modo, permetta la guarigione dell’animale, deve tener conto di alcuni altri fattori che pure vengono inquadrati sotto il termine di “effetto placebo”. Se l’animale è malato, il proprietario avrà la tendenza a curarlo meglio, magari riscaldando di più l’ambiente, fornendo cibo migliore o in quantità più elevata. L’attenzione che il proprietario dell’animale ha verso il suo “assistito” facilita il processo di guarigione esattamente come quando noi da piccoli ci sentivamo subito meglio quando la mamma ci dava il bacetto sulla bua. Per quanto riguarda il mondo vegetale, l’effetto placebo si traduce nel fatto che l’osservatore vuole vedere un miglioramento che non esiste semplicemente perché si è innamorato delle sue ipotesi e, inconsapevolmente, scarta tutte le osservazioni che non soddisfano ciò che gli piace.

Cosa si conclude da tutto questo? Che quanto scritto nell’intervista in merito all’effetto placebo è troppo semplicistico. Le piante, come qualsiasi altro essere vivente, sono soggette ad effetto placebo anche se non hanno un sistema nervoso.

La dinamizzazione

Uno dei cavalli di battaglia degli amici dell’omeopatia è quello della succussione che serve per dinamizzare l’acqua in modo tale che l’essenza del principio attivo venga trasferita al network di legami a idrogeno che tengono unite le diverse molecole di acqua. È l’essenza del principio attivo che rimane “impressa” nell’acqua ed agisce in modo tale da alterare i processi metabolici degli organismi viventi. Appare chiaro da questa breve spiegazione che la succussione e, quindi, la dinamizzazione (che vuol dire trasferire la forza del principio attivo al solvente) consentono di ottenere dei sistemi in cui la presenza fisica del principio non è necessaria: basta solo che la sua essenza, o forza vitale, si trasferisca al solvente. Cosa ha a che fare tutto questo con la scienza? Alla luce delle conoscenze attuali ed in base alla definizione stessa di scienza, nulla. Si tratta solo di principi metafisici del tutto slegati da quello che è il pragmatismo scientifico. Per comprendere i limiti scientifici di questo approccio metafisico, devo rimandare o al mio libro, oppure ad articoli del blog in cui ho già discusso di queste cose (qui).

Nell’intervista si va anche oltre quello che è il concetto di dinamizzazione di Hannheman. Leggiamo:

La dinamizzazione è fondamentale. All’inizio della sperimentazione abbiamo lavorato con diverse tesi, una era il controllo negativo da ottenere attraverso semi stressati trattati con acqua distillata; poi abbiamo preparato l’acqua dinamizzata alla 45esima senza principio attivo, adottando lo stesso protocollo usato per l’arsenico; in seguito abbiamo creato la 45esima decimale del triossido di arsenico con diluizione e dinamizzazione e infine abbiamo preparato un arsenico diluito alla 45esima senza dinamizzazione intercalare, quindi semplicemente facendo gli step di diluizione.

In pratica, oltre alla semplice acqua distillata, si afferma di aver preparato acqua dinamizzata diluendo l’acqua distillata. E cosa si osserva?

l’arsenico alla 45esima DH era sempre stimolante in maniera significativa; l’acqua alla 45esima DH aveva anch’essa un effetto stimolante ma meno significativo rispetto a quello dell’arsenico; l’arsenico semplicemente diluito alla 45esima, senza dinamizzazione, era esattamente come l’acqua di controllo

In altre parole, l’acqua distillata diluita e dinamizzata ha anche essa un effetto sulle piante. Cioè…se sbatto l’acqua seguendo le regole tipiche dell’omeopatia, il prodotto che ottengo, che chiamo acqua dinamizzata alla i-esima diluizione, ha effetti stimolanti sulle piante. E l’effetto stimolante è lo stesso dell’arsenico. Allora, se decido di verificare queste cose usando diluizioni omeopatiche di qualche altro principio attivo, mi devo aspettare che l’acqua dinamizzata diluita tante volte abbia un effetto simile (o anche opposto, non importa) rispetto a quello del principio che sto valutando per il semplice fatto che sto preparando i miei prodotti nello stesso laboratorio ed essi, in un modo che non riesco a comprendere, si trasmettono tra loro le informazioni necessarie a stimolare oppure no le piante. Inoltre, talvolta l’acqua diluita e dinamizzata funziona come l’arsenico, talaltra, invece, come un qualche altro principio attivo. Insomma, come dicevo prima, con queste parole siamo ben oltre la metafisica di Hannheman. Solo che riesco a comprendere e giustificare Hannheman perché ai suoi tempi la scienza non aveva ancora raggiunto lo sviluppo odierno; capisco molto meno queste affermazioni oggi perché non sono giustificabili in alcun modo.

Le pubblicazioni scientifiche

A nulla vale dire che questi sono risultati pubblicati in riviste scientifiche con peer review ed impact factor:

Abbiamo pubblicato sempre su riviste internazionali indicizzate con referee. Per pubblicare su riviste internazionali lavorando nel settore dell’omeopatia bisogna essere irreprensibili.

Né la peer review né l’impact factor assicurano la qualità di un lavoro scientifico. Vogliamo forse dimenticare quanto scritto da Benveniste su Nature o da Wakefield su Lancet? Tutt’al più i parametri anzidetti sono indice di serietà della rivista che, anche dopo aver pubblicato un lavoro, si assicurano che esso venga ritirato dalla letteratura nel momento stesso in cui la comunità scientifica si accorge della fallacia dello stesso. In ogni caso, le riviste scientifiche in cui l’intervistata pubblica sono, grosso modo, sempre le stesse e tutte invariabilmente legate al mondo dell’omeopatia. Per quanto mi è dato sapere non ci sono lavori pubblicati su riviste non di quel settore.

Conclusioni

Mi rendo conto di essere stato alquanto critico prendendo in considerazione unicamente le parole scritte in una intervista. Queste possono essere fuorvianti, considerando la semplicità con cui deve essere scritto un articolo di giornale. Mi riservo quindi di entrare nei dettagli delle varie pubblicazioni scientifiche scaricandole e leggendole con attenzione.

Un caso di plagio

Oggi, per caso, mi è capitata una cosa che mi ha lasciato con l’amaro in bocca. Mi sono imbattuto in un caso di plagio. Già altre volte ho parlato di plagio, per esempio qui. Ma perché ogni volta che mi imbatto in questa cosa rimango sconvolto? Perché il plagio è una delle attività che allontanano il mondo scientifico dalla società civile. È una di quelle cose che fanno dire alla gente “hai visto? Non ci si può fidare degli scienziati”. È per questo che poi abbondano in rete pseudoscienziati e ciarlatani. È per questo che questi individui hanno grande seguito e le fake news si propagano a macchia d’olio.

Andiamo con ordine e vediamo cosa ho trovato.

Sto leggendo un libro. Si tratta di un libro di divulgazione chimica scritto da John Emsley, un chimico britannico che ha curato una rubrica chimica su “The Independent” dal titolo “La molecola del mese”. Questa rubrica ha poi dato la possibilità all’autore di scrivere il libro che sto leggendo che si intitola “Molecole in mostra” (Figura 1).

Figura 1. Copertina del libro di John Emsley nell’edizione italiana

Uno dei paragrafi che mi ha colpito e su cui ho iniziato a fare un po’ di ricerca per scrivere un post su questo blog è quello relativo alla epibatidina, una tossina che si trova sulla pelle di certe rane del Sud America ed utilizzata dagli indigeni per le loro frecce avvelenate. In Figura 2, 3 e 4 trovate le foto dell’intero paragrafo.

Figura 2.. Paragrafo sulla epibatidina 1.

Figura 3. Paragrafo sull’epibatidina 2.

Figura 4. Paragrafo sull’epibatidina 3.

Immaginatevi la mia sorpresa quando mi sono imbattuto nel forum di chimica di Figura 5 ed ho trovato un articolo sulla epibatidina.

Figura. 5. Foto del forum di chimica in cui mi sono imbattuto

Ho cominciato a leggere. Più leggevo e più  montava in me la delusione e lo sdegno per un evidente caso di plagio. L’autore dell’articolo invece di scrivere qualcosa di suo, magari prendendo spunto proprio dal libro di Emsley, ha copiato tal quale il paragrafo che ho riportato nelle fotografie di delle Figure 2-4. Non ci credete? Guardate a questo link: http://www.myttex.net/forum/Thread-Fumare-una-sigaretta-o-leccare-una-rana-l-epibatidina

Nel caso il link non si dovesse aprire perché la pagina risulta non più attiva , ho provveduto a fare uno screenshot (Figura 6).

Figura 6. Screenshot dell’articolo plagiato

Qual e il punto che mi ha indignato?

Caro “collega”, tu puoi copiare un articolo e riportarlo tal quale sul tuo blog, ma non devi farlo passare come se fosse “farina del tuo sacco” solo perché hai aggiunto un paio di strutture chimiche. Correttezza scientifica vorrebbe che tu citassi sempre le tue fonti. In questo caso, in cui hai fatto un bel copia/incolla, la citazione è assolutamente necessaria. Il tuo atteggiamento non è corretto e la dice lunga sul tipo di mentalità che hai. Mi dispiace molto che un chimico, peraltro abbastanza giovane, abbia questa forma mentis. Hai sicuramente fatto un lavoro di tesi e non so se lavori nel mondo della ricerca. Cosa hai fatto per la tua tesi? Un lavoro originale o un plagio? Cosa fai quando scrivi un lavoro di ricerca? Prendi pezzi di altri lavori e li assembli come se fossero cose tue? Ci puo stare che ti autoplagi se usi sempre le stesse procedure analitiche (scritta la procedura una volta, non hai bisogno di riscriverla ex novo tutte le volte che pubblichi), ma non è corretto che tu prenda lavori di altri e li assembli come se fossero tuoi e senza citare le fonti. Questo è valido per te come per chiunque altro.

Peccato! Un blog di chimica come il tuo rovinato da una cosa del genere.

Fonte dell’immagine di copertina: https://www.fotografiaprofessionale.it/il-plagio-e-il-furto-in-fotografia-come-difendersi-13

Omeopatia e fantasia. Parte IV

Ed eccoci giunti all’ultima parte di questo lungo reportage sull’omeopatia. Questa serie di articoli divulgativi è nata da uno studio cominciato un po’ di tempo fa che ha consentito prima una pubblicazione divulgativa e poi una lezione divulgativa che ho tenuto a Bassano del Grappa il 29 Dicembre 2016 (qui l’articolo e qui la lezione se non siete interessati a leggere l’articolo).

L’esigenza di un reportage divulgativo più approfondito dell’articolo citato è nata dalla constatazione che i pro-omeopatia (quelli che io definisco “amici dell’omeopatia”) battono sempre sugli stessi tasti ogni volta che si parla di tale pratica che più volte ho definito “magica” ed “esoterica”. In particolare, l’opinione corrente di questi individui informatissimi sull’omeopatia, ma di certo molto poco informati sulla scienza chimica, fisica e biologica, è che gli scienziati sono, mediamente, contro l’omeopatia perché chiusi intellettualmente e rifiutano a-priori questa pratica sulla base di preconcetti culturali che ne impediscono una adeguata apertura mentale.

Ho voluto far vedere che, in realtà, non è così. Sono stati condotti studi molto dettagliati su tutti gli aspetti dell’omeopatia e tutti questi studi si incanalano in un’unica direzione: l’omeopatia è veramente una pratica magica al di fuori dal tempo. Il suo uso si basa solo su una fede cieca ed incondizionata che denota, purtroppo, ascientificità, illogicità e scarsa cultura scientifica.

Riassunto delle puntate precedenti

Nella prima parte di questo reportage (qui) ho evidenziato i limiti dei lavori di Benveniste e Montagnier intesi come “paladini” dell’omeopatia. I lavori di questi due “eroi” contengono tante di quelle incongruenze sperimentali da renderli del tutto inaffidabili. Tuttavia, nonostante l’inaffidabilità, le loro ipotesi affascinanti sono state tenute in debito conto tanto è vero che sono stati condotti studi per verificare la validità dell’ipotesi della “memoria” dell’acqua che è alla base della presunta efficacia dei rimedi omeopatici. La seconda parte del reportage (qui) è stata proprio dedicata alla valutazione delle prove a sostegno dell’ipotesi “memoria”. La conclusione è che tale ipotesi è frutto solo di fantasia e di scienza patologica. Nella terza parte del reportage (qui) ho preso in considerazione le varie meta-analisi che nel corso degli anni sono state fatte per valutare, in modo statistico, l’eventuale efficacia dell’omeopatia. Ne è venuto che gli effetti dell’omeopatia sono ascrivibili al solo effetto placebo.

effetto placebo

Quando parliamo di “effetto placebo” intendiamo riferirci ad un qualsiasi cambiamento positivo (nel caso di un cambiamento negativo si parla di “effetto nocebo”) nello stato di salute di un paziente come conseguenza di un’azione aspecifica non attribuibile ad alcun trattamento o farmaco.

Tale effetto si osserva solo in pazienti che sono in stato di veglia e coscienti. Questa è una considerazione importante perché permette ai seguaci dell’omeopatia di affermare che tale pratica, a discapito di quanto già evidenziato nelle “puntate precedenti”, ha un effetto biochimico reale sebbene ancora non conosciuto nei suoi particolari. Infatti, quale coscienza può avere un neonato o un animale a cui vengono somministrati i rimedi omeopatici?

I meccanismi alla base dell’effetto placebo

I principali meccanismi che consentono di spiegare l’effetto placebo sono i seguenti:

  1. effetto Rosenthal o effetto aspettativa
  2. apprendimento per imitazione
  3. condizionamento Pavlov o riflesso condizionato
  4. effetto Hawthorne o effetto dell’osservatore.

L’effetto Rosenthal consiste nel fatto che ogni individuo tende a modulare il proprio comportamento secondo quanto ci si aspetta in base ai risultati attesi. Per esempio, se un medico somministra un medicamento ad un paziente e si attende un risultato positivo, trasmette, anche inconsciamente, al paziente quelle che sono le sue aspettative. Il paziente risponderà alla somministrazione del preparato fornendo al medico le indicazioni che egli si aspetta in merito alla terapia.

L’apprendimento per imitazione si riferisce al processo in cui un individuo modula il suo comportamento osservando e imitando/emulando le azioni di un individuo di riferimento. Questo tipo di apprendimento è molto sfruttato, per esempio, nel campo della comunicazione. Il testimonial pubblicitario, modello da cui prendere esempio, induce un comportamento emulativo/imitativo nell’acquirente che si immedesima nel modello stesso ed immagina di poterlo incarnare così da identificarsi con lui e con i valori che egli rappresenta.

Il condizionamento Pavlov consiste nella modulazione involontaria di un determinato comportamento quando l’individuo è soggetto a stimoli sia interni che esterni a se stesso. Supponiamo che un individuo assuma un rimedio convinto che possa essere utile a far passare un dolore. A seguito dell’assunzione del rimedio si attiveranno nel suo cervello delle aree che porteranno alla produzione di sostanze deputate al raggiungimento dello stato di benessere. Una volta “abituato a guarire” con quel rimedio, l’individuo avvertirà la diminuzione del dolore ogni volta che è convinto di assumere quel particolare rimedio a cui associa la cura di quel determinato dolore.

L’ effetto Hawthorne consiste nella variazione di un comportamento quando un individuo è soggetto all’osservazione da parte di un terzo. Il nome di questo effetto deriva da quello di una cittadina dell’Illinois in cui fu condotto uno studio per valutare le azioni da intraprendere per il miglioramento dell’efficienza produttiva degli impiegati di una azienda elettrica. I risultati dimostrarono che l’efficienza lavorativa non migliorava per effetto di migliori condizioni lavorative come, per esempio, migliore illuminazione, mensa meglio organizzata, migliore retribuzione etc, ma grazie alle attenzioni personali da parte dei responsabili dell’azienda. In altre parole, si evidenziò che il miglioramento dell’efficienza lavorativa era legato ad una migliore comunicazione, una più elevata attenzione per i sentimenti individuali, comprensione dei problemi personali, etc. etc. Insomma, è l’osservatore che induce un comportamento positivo da parte dell’osservato.

Effetto placebo in pediatria, veterinaria e agricoltura

L’azione dell’effetto placebo è descritto in tutti gli studi sull’uso dei rimedi omeopatici in pediatria , veterinaria ed agricoltura .

Nel caso di applicazioni pediatriche, l’effetto placebo si può realizzare o attraverso l’apprendimento per imitazione, o attraverso il condizionamento Pavlov o attraverso l’effetto Hawthorne .

Un bambino nell’età in cui è in grado di comprendere ed a cui viene applicato un rimedio omeopatico che secondo i genitori ha una qualche efficacia terapeutica, viene condizionato dalle aspettative e dalle attenzioni dei genitori.

In altre parole, il suo comportamento nei confronti della patologia si adegua a quanto i genitori si attendono dal rimedio. Se il bambino è un neonato o è in una condizione tale da non poter comprendere, allora l’effetto placebo dipende solo dalle aspettative dei genitori. Questi ultimi interpretano le variazioni comportamentali come effetti positivi del rimedio, mentre, invece, si tratta solo di correlazioni senza causazione.
Le aspettative dell’osservatore influenzano anche le osservazioni sugli animali e sulle piante. Un animale o una pianta appaiono riprendersi per effetto dell’azione dei rimedi omeopatici solo perché l’osservatore “pretende” di vedere cambiamenti positivi che, in realtà, non esistono.

Conclusioni

Ed eccoci finalmente alle conclusioni. Dall’insieme delle informazioni riportate nelle diverse parti di questo reportage, appare chiaro che l’omeopatia è stata ampiamente studiata ed opportunamente falsificata in senso popperiano. Quando scrivo che questa pratica è assimilabile ad una pratica magica di tipo esoterico, lo faccio a ragion veduta: la mia opinione scientifica si basa sulla valutazione delle osservazioni sperimentali che si sono accumulate nel corso degli anni.

Mentre l’omeopatia, nata ufficialmente nel 1810 con la pubblicazione dell’ “Organon of medicine” di Hanhemann, è rimasta ferma alle conoscenze primitive in voga nel XIX secolo, la scienza è andata avanti; ha elaborato un impianto di conoscenze col quale è in grado di spiegare gran parte dei fenomeni osservabili intorno a noi. L’omeopatia, purtroppo, pur essendo una pratica cosiddetta “dolce” e non invasiva, non è osservabile e, per questo, priva di ogni significato. Le osservazioni in merito alla sua presunta efficacia sono riconducibili ai meccanismi dell’effetto placebo.

Mi rendo perfettamente conto che tutto quanto riportato non convincerà gli estremisti dell’omeopatia. Ma non è importante. Questi individui sono e rimarranno ignoranti. Le loro obiezioni si baseranno sulle solite chiacchiere come per esempio “ciò che non è osservabile oggi, lo sarà domani” oppure “anche gli elettroni non si osservano, eppure esistono”. Queste posizioni sono illogiche ed antiscientifiche. Neanche oggi noi siamo in grado di osservare gli elettroni. La loro esistenza è teorizzata sulla base di osservazioni indirette che ci hanno permesso di capire che la materia è fatta da particelle elementari con certe particolari caratteristiche. Noi osserviamo solo gli effetti che queste caratteristiche hanno sul mondo che ci circonda.

L’obiettivo di questo reportage scientifico è quello di mettere assieme le informazioni sperimentali più attuali per cercare di far capire, a chi ancora nutre dei dubbi, che l’omeopatia non serve. Per la cura di patologie serie bisogna sempre ed esclusivamente rivolgersi a medici e farmacisti seri.

Ringraziamenti

Devo ringraziare il Prof. Stefano Alcini per le utilissime chiacchierate che mi hanno consentito di chiarire i miei dubbi in merito all’effetto placebo. In realtà, sto ancora studiando i meccanismi psicologici alla base di tale effetto. Mi scuso per le eventuali inesattezze ed il linguaggio non corretto che ho potuto utilizzare in quest’ultima nota. La responsabilità è tutta mia ed è legata alla mia ignoranza dovuta al fatto che non sono né un medico né uno psicologo. Qualsiasi suggerimento utile a migliorare la nota è più che benvenuto.

Letture consigliate

R. Rosenthal, L. Jacobson (1966) Teachers’ expectancies: determinants of pupils’ IQ gains, Psycological Reports, 19: 115-118

R.W. Byrne, A.E. Russon (1998) Learning by imitation: a hierarchical approach, Behavioural and Brain Sciences, 21: 667-721

I. Pavlov (2010) Conditioned reflexes: an investigation of the physiological activity of the cerebral cortex (Translated by G.V. Anrep), Annals of Neurosceinces, 17: 136-141

E. Mayo (1945) The social problems of an industrial civilization, Boston: Division of Research, Harvard Businness School

K. Weimer et al. (2013) Placebo effects in children: a review, Pediatric Research, 74: 96-10

R.T. Mathie, J. Clausen (2015) Veterniary homeopathy: meta-analysis of randomised placebo-controlled trials, Homeopathy, 104: 3-8

Altre letture divulgative

www.laputa.it

Omeopatia pratica esoterica senza fondamenti scientifici

Fonte dell’immagine di copertinahttps://daily.wired.it/news/internet/2011/08/17/boiron-minacce-blogger-14039.html

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