Gli scacchi della natura

Seconda metà degli anni Ottanta. Auletta di chimica in via Mezzocannone 4, allora Dipartimento di Chimica della Federico II di Napoli. Tra un esercizio di stechiometria, un ripasso di termodinamica, una chiacchiera e un panino veloce, si giocava a scacchi su una scacchiera malconcia dai pezzi spaiati. Qualche volta vincevo, più spesso perdevo. Poi sono passato alla ricerca e, piano piano, ho abbandonato la scacchiera. Errore: quel gioco non solo aiuta a staccare la testa, ma allena all’ipotesi, al controfattuale, al “se… allora” che è il respiro stesso del metodo scientifico. A ben guardare, gli scacchi sono una metafora sorprendentemente precisa della natura: mosse e contromosse, vincoli e possibilità. Dopo oltre trent’anni di distacco dal gioco, ho ripreso. Sono sempre una schiappa – anzi, pure peggio – ma la metafora scacchi–natura continua a intrigarmi.

La grammatica degli scacchi (in tre atti)

Una partita di scacchi è articolata in tre momenti, esattamente come in un esperimento ben impostato.

Apertura. I pezzi escono dai loro posti: cavalli e alfieri per primi. Si prende il centro, si mette al sicuro il re con l’arrocco. Non c’è fretta, ma c’è ordine: partire bene conta.

Mediogioco. La posizione si accende. Minacce che nascono, colonne che si aprono, case deboli da presidiare. Tattica e strategia si alternano come prove e controprove: una mossa chiama una risposta, l’equilibrio cambia di continuo.

Finale. Pochi pezzi, nessun rumore di fondo. Il re diventa un pezzo d’attacco, accompagna un pedone verso la promozione. Qui la precisione è tutto.

Due parole da tenere a portata di mano: scacco, quando il re è sotto attacco e va difeso subito; scacco matto, quando non esiste più alcuna mossa legale per salvarlo: fine della partita. Esiste anche la patta — stallo, ripetizione della posizione e altre vie di mezzo — ma resta un esito raro.

Quanto alle combinazioni possibili, sono vertiginose: l’ordine di grandezza del numero possibile di partite diverse è circa 10120, abbastanza da far sembrare la scacchiera un piccolo universo.

Le aperture della natura

In natura, come sulla scacchiera, l’apertura è decisiva. All’inizio non c’è un piano vero e proprio: si prova ciò che funziona. L’obiettivo è sempre lo stesso: trovare energia (luce, cibo), occupare spazio (nicchie), mettersi al sicuro (rifugi).

Il camaleonte si mimetizza: è un pedone coperto, avanza senza farsi notare.

Il falco pattuglia il cielo: è una regina, domina righe e diagonali e costringe gli altri pezzi a rispettarne il raggio d’azione.

Le zebre, in gruppo, creano un effetto “abbaglio”: centinaia di corpi striati che si sovrappongono e si muovono insieme confondono il predatore, che fatica a scegliere un bersaglio e a stimarne direzione e velocità.

I pesci palla e molte farfalle tossiche fanno il contrario: avvisano con colori accesi (aposematismo) – una sorta di gambetto: “mi vedi? Bene, lasciami stare”.

Come nelle buone aperture, valgono tre principi: sviluppo, centro, sicurezza del re. In ecologia diventano: attivare in fretta le funzioni utili (enzimi, sensi, comportamenti), occupare il cuore della nicchia (dove risorse e opportunità si incrociano), proteggere il “re” – la continuità del lignaggio – con rifugi, cure parentali, simbiosi. Le micorrize delle piante sono un arrocco riuscito: scambio zuccheri contro nutrienti minerali per stabilità e difesa.

E, come in ogni apertura, arriva subito la contromossa. Al veleno della pianta, alcuni insetti evolvono enzimi di detossificazione. Al mimetismo della preda, i predatori affinano il riconoscimento dei contorni e del movimento o cambiano tattica (più olfatto, più agguati). È già mediogioco che bussa alla porta: nell’evoluzione non vince chi “fa il punto” oggi, ma chi arriva alla prossima mossa.

Il mediogioco: mosse e contromosse

Nel mediogioco si costruiscono piani, si creano minacce, si occupano colonne aperte. In natura è lo stesso: strategie che si intrecciano, alleanze e conflitti che cambiano la posizione a ogni mossa.

Una pianta alza il livello di difesa con tossine o tessuti più duri: scacco. Alcuni insetti, selezionati nel tempo, sviluppano enzimi di detossificazione o cambiano dieta: controscacco.

L’essere umano introduce antibiotici: scacco ai batteri. I batteri rispondono con resistenze (bersagli modificati, pompe che espellono il farmaco): controscacco.

Predatore e preda si rincorrono: il ghepardo guadagna velocità, la gazzella investe in agilità e zig-zag. Ognuno cerca l’iniziativa, mai senza costo.

Nel mediogioco, infatti, ogni vantaggio ha un compromesso. Più difesa può voler dire meno crescita o un costo energetico aggiuntivo; i colori d’allarme proteggono da alcuni nemici, ma ti rendono più visibile ad altri. È una bilancia che oscilla, non un trofeo da mettere in bacheca.

Non c’è solo conflitto: ci sono cooperazioni vincenti. Piante e impollinatori si accordano su forme, tempi, profumi – come aprire linee per i propri pezzi e chiuderle all’avversario. Le comunità microbiche formano biofilm: sommando forze diventano più resistenti alle intemperie dell’ambiente, come una batteria di pezzi coordinati.

Il mediogioco della natura è questo: scacco, controscacco, riposizionamento. Un vantaggio di oggi può diventare vulnerabilità domani, se il contesto cambia o l’avversario trova la mossa giusta. L’obiettivo non è “vincere per sempre”, ma mantenere l’iniziativa – arrivare, ancora una volta, alla prossima mossa.

Il re: la sopravvivenza

Negli scacchi, tutto ruota attorno al re. In natura, il “re” non è un singolo individuo, ma la continuità della specie.

Ogni tratto utile si muove per questo obiettivo. La velocità della gazzella, le spine del cactus, il veleno del serpente: pezzi diversi che tengono lontano lo scacco. Le cure parentali, i semi in dormienza, la diapausa negli insetti sono difese posizionali: guadagnano tempo e protezione, come interporre un pezzo tra l’attacco e il re. Anche le strategie riproduttive cambiano l’assetto in campo: pochi figli molto curati oppure molti con poche risorse – piani diversi per tenere il re al riparo.

Quando la posizione peggiora, arriva lo scacco al re: habitat che svaniscono, nuovi predatori, malattie emergenti. Le popolazioni si assottigliano, la variabilità genetica cala: è un collo di bottiglia. Meno varianti significa meno mosse utili sulla scacchiera del futuro. Se la minaccia persiste e non c’è contromossa, lo scacco diventa matto: estinzione.

Proteggere il re, in natura, vuol dire mantenere opzioni: diversità genetica, plasticità comportamentale, reti di cooperazione (simbiosi, mutualismi), corridoi ecologici che permettono spostamenti. È lo scudo di pedoni davanti al re e l’arrocco fatto in tempo. Non per vincere una volta per tutte, ma per restare in partita – e arrivare alla prossima mossa.

Il finale: non esiste la patta

C’è solo una piccola differenza, non esattamente insignificante, tra scacchi e natura. Sulla scacchiera il pareggio è possibile. In natura no: la partita non si ferma mai. Finita una posizione, ne inizia un’altra – generazione dopo generazione – con pezzi, regole del campo ecologico e avversari che cambiano di continuo.

Nel finale degli scacchi contano poche risorse e molta precisione. In natura accade qualcosa di simile: quando le condizioni si fanno strette – habitat ridotti, risorse scarse, climi che oscillano – ogni mossa pesa di più. Piccole differenze di comportamento, dieta, tempismo riproduttivo diventano decisive come un pedone in promozione.

Non esiste un vero stallo: ciò che oggi sembra equilibrio domani si rompe. Una siccità prolungata, un nuovo patogeno, una barriera che cade: il quadro si rimescola e la posizione “patta” svanisce. A volte è zugzwang – non muovere è impossibile, ma qualunque mossa ha un costo. Alcune linee si spengono, altre si differenziano in nuove specie, qualcuna migra e riapre il gioco altrove.

Le estinzioni sono scacchi matti locali; le ricolonizzazioni e le nuove nicchie sono aperture che ripartono da zero. Ma non c’è “game over” universale: è un torneo senza tregua in cui i pezzi non si rimettono mai al loro posto. L’unico obiettivo resta quello di tutta la partita: arrivare alla prossima mossa.

Epilogo: un sorriso dal bordo della scacchiera

La prossima volta che perderò a scacchi non me la prenderò: dirò che stavo testando la resilienza del mio “lignaggio scacchistico”. Se poi dovesse arrivare uno scacco matto in dieci mosse, pazienza: avrò contribuito alla biodiversità delle aperture sbagliate.

Quando sbaglio un tatticismo lo chiamo mimetismo difettoso; quando mi dimentico l’arrocco, è fallimento simbiotico (niente micorrize oggi). Se mi inchiodano in zugzwang, brindo alla scienza: esperimento riuscito – qualunque mossa ha un costo, quindi scelgo quella che fa ridere di più.

E se qualcuno mi chiede perché continuo a giocare, rispondo che sto facendo citizen science: raccolgo dati su come NON si vince. In fondo, la natura non premia chi fa il punto una volta, ma chi arriva alla mossa successiva. E io, perdente seriale ma curioso, ci arrivo sempre… magari con l’eleganza di un pedone coperto e l’ottimismo di chi sogna la promozione. Poi, certo, di solito promuovo… a regina avversaria. Ma questa è un’altra storia.

La chimica del benessere. Dentro i segreti del cioccolato

Quanti di noi non hanno mai assaggiato una tavoletta di cioccolata, un ovetto, una pralina o una tazza fumante di cioccolata calda? Dopo quel morso o quel sorso, quasi sempre arriva una sensazione di benessere, un piccolo conforto che sembra andare oltre il semplice gusto. Non è un’illusione: dietro c’è la chimica.

Un po’ di storia

La storia del cioccolato affonda le sue radici ben prima dell’arrivo in Europa. Le prime tracce di utilizzo del cacao risalgono a più di tremila anni fa e sono legate alle civiltà dell’America centrale, a partire dagli Olmechi, che probabilmente furono i primi a coltivare e trasformare i semi di cacao. I Maya lo considerarono un dono divino: lo impiegavano nelle cerimonie religiose, lo offrivano agli dei e lo seppellivano persino nelle tombe come viatico per l’aldilà. Per loro, come più tardi per gli Aztechi, il cacao era anche moneta sonante: i semi servivano a pagare tributi e scambi, trasformando il frutto in una ricchezza tangibile oltre che simbolica. Ma il cioccolato di allora non aveva nulla a che vedere con la tavoletta dolce e cremosa che conosciamo: si trattava di una bevanda amara, densa, speziata con peperoncino o vaniglia, chiamata “xocolatl”, riservata a nobili e guerrieri e consumata come tonico energizzante e rituale.

Fu soltanto dopo la scoperta delle Americhe che il cacao attraversò l’Atlantico. Cristoforo Colombo ne raccolse alcuni semi, ma fu Hernán Cortés a comprenderne il valore osservandone l’uso tra gli Aztechi e a introdurlo in Spagna. Qui la bevanda subì la prima trasformazione decisiva: al posto del peperoncino, i cuochi di corte iniziarono ad aggiungere zucchero, cannella e vaniglia, rendendola più gradevole al palato europeo. Il cacao divenne così una moda raffinata, diffondendosi nelle corti e nelle case aristocratiche di tutta Europa.

La svolta arrivò nel XIX secolo, quando l’ingegno tecnico permise di trasformare la bevanda in un alimento solido. Nel 1828 l’olandese Coenraad Van Houten inventò una pressa capace di separare il burro di cacao dalla polvere, ottenendo un prodotto più fine e versatile. Qualche decennio più tardi, in Inghilterra, la ditta Fry & Sons creò la prima tavoletta di cioccolato, seguita a ruota dagli svizzeri che introdussero l’aggiunta del latte in polvere e, con Rodolphe Lindt, perfezionarono il processo di conching[1] che regalò al cioccolato la sua inconfondibile cremosità. In pochi decenni il cioccolato smise di essere un lusso per pochi, legato alle “chocolate houses” frequentate da aristocratici e mercanti, per diventare un piacere diffuso e accessibile, destinato a conquistare il mondo.

Un po’ di chimica del cioccolato

Il cioccolato non nasce dolce e vellutato: per arrivare alla tavoletta che conosciamo occorre un percorso fatto di trasformazioni chimiche complesse. Tutto comincia nelle piantagioni, dove le fave di cacao vengono fermentate dentro mucillagini ricche di zuccheri. Qui lieviti e batteri innescano una catena di reazioni che porta alla formazione dei precursori degli aromi: si liberano amminoacidi e peptidi, si producono acidi organici, e perfino piccole quantità di ammine biogene che contribuiranno al profilo sensoriale finale.

Dopo la fermentazione, le fave vengono essiccate al sole. Questo passaggio riduce l’umidità, stabilizza i chicchi e permette che le reazioni ossidative continuino a sviluppare colore e gusto, attenuando l’astringenza tipica del cacao fresco.

Il momento cruciale arriva con la tostatura, in fabbrica: a temperature tra 120 e 140 °C avvengono le celebri reazioni di Maillard, quelle stesse che danno la crosta dorata al pane e l’aroma alla carne arrostita. In questo caso, gli zuccheri reagiscono con gli amminoacidi liberati in fermentazione, generando un caleidoscopio di nuove molecole aromatiche: aldeidi, chetoni, acidi, ma soprattutto pirazine (Figura 1), responsabili del tipico profumo tostato e leggermente nocciolato del cioccolato. Anche la caramellizzazione degli zuccheri e l’ossidazione dei grassi contribuiscono a creare complessità.

Figura 1. Formule di risonanza della pirazina. La freccia a doppia punta non indica un equilibrio chimico, ma rappresenta il fatto che la struttura reale non coincide con nessuna delle due formule, bensì con un unico ibrido di risonanza. Con il termine “pirazine” si indica invece l’intera famiglia dei derivati della pirazina, ottenuti introducendo sostituenti sugli atomi di carbonio dell’anello.

Il burro di cacao, che rappresenta circa metà del peso della fava, è un capitolo a parte. La sua particolarità è la capacità di cristallizzare in diverse forme, o polimorfi, con punti di fusione diversi. Solo una di queste forme, detta β(V), conferisce al cioccolato la giusta consistenza: solido a temperatura ambiente, ma capace di sciogliersi in bocca a circa 30–32 °C. Per ottenere questo equilibrio serve un trattamento preciso chiamato temperaggio, che allinea i cristalli di burro di cacao nella struttura più stabile.

Infine, durante la fase di conching, la massa di cacao viene mescolata e riscaldata a lungo. In questo modo si eliminano acidi volatili indesiderati, si riduce l’astringenza dei polifenoli e si affinano le particelle solide, donando al cioccolato la sua texture setosa e il tipico effetto “melt-in-the-mouth”.

Il risultato di questa catena di trasformazioni è un alimento che non solo stimola i sensi con centinaia di molecole aromatiche, ma conserva anche composti bioattivi originari del cacao, come i flavonoidi (antiossidanti naturali), la teobromina e la caffeina, responsabili degli effetti stimolanti e di quel sottile senso di benessere che accompagna ogni morso.

La chimica del piacere

Come introdotto alla fine del paragrafo precedente, il cioccolato ci fa stare bene grazie a molecole quali:

  • Teobromina e caffeina (Figura 2A e 2B). Entrambi sono metilxantine, alcaloidi strutturalmente simili, che agiscono come antagonisti competitivi dei recettori dell’adenosina. Normalmente, l’adenosina riduce l’attività neuronale e favorisce sonnolenza e rilassamento; bloccarne i recettori ha quindi l’effetto opposto: maggiore vigilanza, riduzione della percezione della fatica, incremento della contrattilità muscolare e della frequenza cardiaca. La caffeina ha un’azione più potente e rapida, mentre la teobromina, presente in concentrazione più elevata nel cacao, ha effetti più blandi ma di lunga durata, con una marcata azione vasodilatatrice e diuretica.
  • Feniletilammina (Figura 2C). È una ammina biogena derivata dalla decarbossilazione della fenilalanina. Ha una struttura simile alle amfetamine e agisce come modulatore neuromediatore: stimola il rilascio di dopamina e noradrenalina e inibisce la loro ricaptazione. Questo si traduce in un senso di euforia e piacere. Tuttavia, la sua emivita nell’organismo è brevissima (rapidamente degradata dalla monoaminoossidasi-B, MAO-B), per cui il suo contributo diretto è probabilmente modesto. Alcuni studi suggeriscono che gli effetti percepiti siano potenziati dalla contemporanea presenza di altre molecole del cacao, che ne modulano il metabolismo.
  • Flavonoidi (Figura 2D). Sono polifenoli, in particolare flavanoli come epicatechina e catechina, abbondanti nel cacao. Il loro effetto principale riguarda l’endotelio vascolare: stimolano l’attività della nitrossido sintasi endoteliale (eNOS), aumentando la produzione di ossido nitrico (NO). Il NO è un potente vasodilatatore che migliora il flusso sanguigno, abbassa la pressione arteriosa e favorisce l’ossigenazione cerebrale. Inoltre, i flavonoidi hanno un’azione antiossidante diretta (neutralizzazione dei radicali liberi) e indiretta (induzione di enzimi antiossidanti), proteggendo neuroni e cellule endoteliali dallo stress ossidativo. Alcuni studi clinici hanno dimostrato che il consumo regolare di cacao ricco in flavonoidi migliora la funzione endoteliale e le performance cognitive.
Figura 2. Struttura della teobromina (A), caffeina (B), feniletilammina (C) e di un flavonoide (D).

Ma non basta. Il piacere del cioccolato non è soltanto biochimico: è anche profondamente sensoriale. L’esperienza inizia già con l’udito, con quel caratteristico snap quando si spezza una tavoletta, un suono secco che ci anticipa la freschezza e la qualità del prodotto. Poi interviene il tatto: la superficie liscia sotto le dita e la resistenza al morso che cede gradualmente. In bocca il cioccolato si trasforma: il burro di cacao, unico tra i grassi per la sua particolare composizione, fonde a una temperatura vicinissima a quella corporea, regalando quella sensazione vellutata e avvolgente che sembra sciogliersi sulla lingua quasi senza sforzo.

A questo si aggiunge l’olfatto, forse il senso più importante: il calore della bocca libera lentamente centinaia di composti aromatici – dalle note tostate e leggermente amare delle pirazine, a quelle fruttate degli esteri, fino ai sentori di vaniglia o spezie che possono accompagnare certe miscele. Infine, il gusto completa l’esperienza con il suo equilibrio tra dolcezza, amaro e acidità, un gioco di contrasti che stimola le papille gustative e rende ogni morso appagante.

È proprio l’intreccio di queste percezioni – suono, tatto, vista, olfatto e gusto – che fa del cioccolato non solo un alimento, ma un piccolo rito multisensoriale, capace di trasformare un frammento di tavoletta in un momento di gratificazione e benessere.

Dalla percezione alla scienza

Negli ultimi decenni, il cioccolato è diventato anche un oggetto di ricerca scientifica. Non ci si limita a indagare perché ci fa sentire bene, ma si studiano le proprietà fisiche e chimiche che ne determinano qualità e stabilità: la cristallizzazione del burro di cacao, la viscosità del fuso, la texture al morso.

Tecniche avanzate come la calorimetria differenziale (DSC), la reologia e la risonanza magnetica a campo variabile (NMR relaxometria) permettono di esplorare come ingredienti diversi influenzino la struttura del cioccolato. Per esempio, come cambia quando si sostituisce lo zucchero con dolcificanti alternativi, o il latte con componenti vegetali per chi segue una dieta vegana o è intollerante al lattosio.

Una ricerca tutta italiana

Proprio sul tema con si è chiuso il paragrafo precedente, ho contribuito a uno studio pubblicato su European Food Research and Technology.

Con un gruppo di colleghi abbiamo confrontato cioccolati tradizionali con varianti vegane e a ridotto contenuto di zuccheri. I risultati hanno mostrato differenze misurabili:

  • i cioccolati senza latte risultano meno duri e meno adesivi, con un comportamento reologico più fluido;
  • quelli con zuccheri alternativi, invece, modificano la cristallizzazione del burro di cacao e aumentano la resistenza al flusso (yield stress);
  • le analisi NMR hanno rivelato “impronte digitali” molecolari uniche, utili a distinguere le diverse formulazioni in modo rapido e non distruttivo.

Insomma, anche quando cambiano ingredienti e ricette, la scienza ci aiuta a garantire che il risultato finale sia comunque un cioccolato capace di dare piacere al palato.

Il futuro del cioccolato

Quello che emerge è un nuovo scenario: una generazione di cioccolati che non rinunciano al gusto, ma che cercano di conciliare benessere, salute e sostenibilità. Non si tratta più soltanto di un piacere edonistico, ma di un alimento che può dialogare con le esigenze nutrizionali moderne, con la ricerca di prodotti più etici e con una maggiore consapevolezza ambientale. La scienza, in questo percorso, ha un ruolo decisivo: dalle tecniche di fermentazione e tostatura che modulano aromi e consistenze, fino alle analisi sofisticate che permettono di comprendere e ottimizzare la struttura interna del cioccolato, rendendo possibile sperimentare nuove formulazioni senza sacrificare la qualità sensoriale.

Dal laboratorio al consumatore, la chimica diventa così uno strumento di innovazione culturale oltre che tecnologica, capace di custodire la tradizione e, allo stesso tempo, di aprire la strada a un futuro in cui il cioccolato possa essere non solo buono, ma anche sano e sostenibile.

E forse proprio qui sta il segreto della cioccolata: nel suo equilibrio perfetto tra storia e modernità, tra cultura e molecole, tra arte e scienza. Un equilibrio che continua a rinnovarsi e a sorprenderci, rendendo ogni morso non soltanto un piccolo piacere quotidiano, ma anche la testimonianza di un legame profondo fra uomo, natura e conoscenza.

Riferimenti & Approfondimenti

Barišić, V.; Kopjar, M.; Jozinović, A.; Flanjak, I.; Ačkar, Đ.; Miličević, B.; Šubarić, D.; Jokić, S.; Babić, J. (2019) The Chemistry behind Chocolate Production. Molecules  24: 3163. https://doi.org/10.3390/molecules24173163

BBC (2019) A brief history of chocolate

Encyclopedia Britannica Chocolate

Fredholm, B.B.; Bättig, K.; Holmén J.; Nehlig, A.; Zvartau, E.E. (1999) Actions of caffeine in the brain with special reference to factors that contribute to its widespread use. Pharmacol Rev. 51(1): 83-133. https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/10049999/

Sabelli, H.; Fink, P.; Fawcett, J.; Tom, C. (1996) Sustained antidepressant effect of PEA replacement. J Neuropsychiatry Clin Neurosci 8: 168-71. https://doi.org/10.1176/jnp.8.2.168

Schroeter, H. ; Heiss, C.; Balzer, J.; Kleinbongard, P. ; Keen, C.L.; Hollenberg, N.K.; Sies, H.; Kwik-Uribe, C.; Schmitz, H.H.; Kelm, M.   (2006) (–)-Epicatechin mediates beneficial effects of flavanol-rich cocoa on vascular function in humans, Proc. Natl. Acad. Sci. 103 (4) 1024-1029. https://doi.org/10.1073/pnas.0510168103

Torregrossa, F.; Cinquanta, L.; Albanese, D.; Cuomo, F.; Librici, C.; Lo Meo, P.; Conte, P.  (2024) Vegan and sugar-substituted chocolates: assessing physicochemical characteristics by NMR relaxometry, rheology, and DSC. Eur Food Res Technol 250: 1219–1228. https://doi.org/10.1007/s00217-023-04457-w

Note

[1] Il termine “conching” deriva dall’inglese conch (conchiglia), per via della forma delle prime macchine impiegate. Si tratta di un processo introdotto nel 1879 da Rodolphe Lindt: la massa di cioccolato viene agitata e mescolata per ore a temperatura controllata, così da eliminare aromi indesiderati, affinare le particelle solide e rendere il cioccolato più vellutato e cremoso, con il tipico effetto “melt-in-the-mouth”.

Rabdomanzia: tra mito, illusioni e scienza

La scena è familiare: un uomo cammina con una bacchetta biforcuta fra le mani, in attesa che il ramo si pieghi misteriosamente indicando la presenza di acqua sotterranea. Lo sguardo è serio, quasi mistico; chi osserva trattiene il fiato. È l’immagine della rabdomanzia, una pratica antica che ancora oggi conserva un certo fascino, a metà strada tra magia, folklore e speranza.

Se non fosse per un piccolo dettaglio: la bacchetta non funziona. Non importa se sia di nocciolo, di salice o di legno d’ulivo raccolto la notte di San Giovanni – l’acqua, in realtà, se ne infischia del bricolage arboreo. Eppure, generazioni di rabdomanti hanno giurato che quel ramoscello si muove da solo, attirato da misteriose forze sotterranee.

La verità, a guardarla con occhio scientifico, è che la rabdomanzia ha molto in comune con altre discipline affascinanti ma poco affidabili: dall’astrologia alle previsioni calcistiche del barista sotto casa. Funziona finché nessuno prende nota dei risultati, e smette improvvisamente di funzionare appena qualcuno si ostina a fare i conti con carta e penna.

E allora la domanda sorge spontanea: se decenni di esperimenti hanno mostrato che la bacchetta magica non è poi così magica, perché la sua immagine continua ad avere presa su di noi? Forse perché racconta qualcosa di più profondo: il nostro desiderio che il mondo, oltre a pozzi e falde acquifere, nasconda ancora un po’ di incanto.

Una lunga storia di rami e speranze

La rabdomanzia non nasce ieri: già nel XVI secolo in Europa c’erano cronache di minatori che si affidavano alla bacchetta per trovare filoni. Ma se allarghiamo lo sguardo, scopriamo che il trucco del ramo che trema è universale: in Cina, in Africa, nel cuore dell’Europa contadina, ovunque qualcuno sperava di strappare alla natura un segreto in più.

Il contesto era chiaro: quando non avevi né carte geologiche né GPS, provavi di tutto pur di evitare un buco a vuoto. E allora perché non affidarsi a un ramo che vibra in mano? Dopotutto, tra un ingegnere inesistente e un rabdomante disponibile, il contadino assetato sceglieva il secondo. La bacchetta diventava così un’ancora psicologica, una piccola illusione per addomesticare l’imprevedibilità della natura.

La scienza mette alla prova la bacchetta

Col passare del tempo, però, qualcuno iniziò a chiedersi: ma funziona davvero? Così, dal XIX secolo in poi, si organizzarono i primi esperimenti controllati. Qui inizia il bello: quando nessuno teneva conto degli errori, i rabdomanti sembravano infallibili; quando invece entravano in gioco rigore, randomizzazione e doppio cieco, la bacchetta diventava improvvisamente timida.

George P. Hansen nel 1982 fece il punto con una rassegna storica. Risultato? Un mare di studi traballanti. Molti test erano poco più che spettacoli di paese travestiti da esperimenti: niente controlli, numeri minuscoli, conclusioni ottimistiche. Insomma, la bacchetta piegava più le regole del metodo scientifico che quelle del nocciolo.

Monaco e Kassel: la Champions League dei rabdomanti

Negli anni ’80 e ’90 la Germania decise di fare sul serio. Basta esperimenti da cortile: servivano test colossali. Centinaia di rabdomanti convocati, un fienile trasformato in laboratorio, tubi d’acqua fatti scorrere a caso sotto il pavimento. Sembrava un reality show, ma con meno glamour e più statistica.

Il verdetto? La maggior parte non indovinava meglio del caso. Ma – ed è qui che si accese la speranza – una piccola minoranza sembrava cavarsela meglio. Era davvero abilità, o semplice fortuna? Il dibattito infuriò: per i sostenitori, la prova che “qualcosa” c’era; per gli scettici, l’ennesimo esempio di come in un campione ampio ci sia sempre qualcuno che batte la media, anche tirando a indovinare.

Per rendere l’idea, immaginate la scena: decine di rabdomanti convocati come concorrenti a un talent show. Invece di cantare o ballare, camminavano nervosi sopra il pavimento di un fienile, stringendo la bacchetta con l’ansia di chi aspetta l’applauso della giuria. Sotto di loro, nascosto, il famigerato tubo d’acqua che veniva spostato di volta in volta per mantenere il mistero.

Ogni “esibizione” era accompagnata dal silenzio carico di aspettativa: il pubblico (scienziati e assistenti con blocchi per gli appunti) tratteneva il fiato in attesa che la bacchetta si piegasse. Qualcuno, per darsi un tono, chiudeva gli occhi come un pianista rapito dall’ispirazione; altri procedevano a piccoli passi, come rabdomanti zen. Ma, al momento della verità, le performance erano spesso deludenti: bacchette immobili, movimenti incerti, colpi andati a vuoto.

A guardarla con occhi moderni, quella parata sembrava una puntata di “X-Factor” ambientata in un granaio: solo che il premio in palio non era un contratto discografico, ma l’onore di essere proclamati campioni dell’“acqua sotto al fienile”. E, come in ogni talent che si rispetti, alla fine i veri protagonisti furono i giudici: perché la statistica, inflessibile come un televoto truccato, decretò che la maggioranza non aveva alcun talento speciale.

Betz 1995: il canto del cigno

Nel 1995 Hans-Dieter Betz pubblicò due articoli sul Journal of Scientific Exploration che per i rabdomanti furono un po’ come il disco d’oro per una band in declino: la grande occasione di rivincita. Si trattava della trattazione più sistematica mai scritta a favore della rabdomanzia, con tanto di dati, grafici e racconti di campagne sul campo. Betz riportò i risultati dei “progetti di Monaco” e delle missioni in Africa finanziate dalla Gesellschaft für Technische Zusammenarbeit (GTZ), la cooperazione tecnica tedesca (oggi GIZ), presentando la bacchetta come una potenziale compagna di squadra della geofisica tradizionale.

Secondo lui, alcuni rabdomanti avrebbero ottenuto risultati “statisticamente significativi” nel localizzare tubi nascosti o anomalie geologiche. Nei test di campo, specialmente in zone aride e su rocce fratturate, qualcuno riuscì effettivamente a indicare punti di perforazione che poi si rivelarono buoni. Non mancava il tocco epico: Betz parlava di pochi “dowser d’élite”, una sorta di squadra speciale capace di performance superiori alla media, quasi come i supereroi della bacchetta.

Eppure, sotto la patina brillante, le crepe erano evidenti. I presunti successi riguardavano solo una minoranza, mentre la grande maggioranza non si distingueva affatto dal caso. Il meccanismo fisico rimaneva un mistero: si tirarono in ballo ipotesi fantasiose come campi elettromagnetici, vibrazioni sottili, “energie della terra” … ma senza mai una prova concreta. Le analisi statistiche, poi, furono bersagliate di critiche: sembravano cucite su misura per trovare significatività dove non ce n’era.

E infine la questione editoriale: i due articoli non uscirono certo su Nature o Science, ma su una rivista di nicchia, non proprio la Champions League delle pubblicazioni scientifiche. Più una serie cadetta, frequentata da fenomeni di confine e discipline in cerca di legittimazione.

In conclusione, lo stesso Betz, pur con toni misurati, lasciava intendere che la rabdomanzia non poteva dirsi provata. Al massimo, poteva essere definita “promettente” in qualche caso particolare – una formula elegante per dire: non funziona, ma non vogliamo ammetterlo troppo forte.

Ma ogni disco d’oro, si sa, prima o poi incontra la critica musicale. E in questo caso la critica aveva il nome di J. T. Enright.

Enright e la doccia fredda

Pochi anni dopo, J. T. Enright prese in mano gli stessi dati e li analizzò con rigore da scienziato. Risultato: nessun effetto reale, nessun rabdomante miracoloso, solo casualità travestita da abilità. In altre parole, il re era nudo e la bacchetta pure.

La sua critica mise in imbarazzo i sostenitori che, a quel punto, si rifugiarono nell’argomento classico: forse c’è, ma non si riesce a misurare. È lo stesso tipo di scusa usata per i fantasmi, gli UFO, l’omeopatia, l’agricoltura biodinamica e certe diete miracolose.

Suggestione, ideomotorio e fortuna

Perché allora la rabdomanzia continua a sembrare efficace a tanti praticanti e osservatori? Le spiegazioni più condivise chiamano in causa la psicologia umana:
Effetto ideomotorio: piccoli movimenti inconsci delle mani fanno oscillare bacchette o pendoli.
Bias di conferma: si ricordano i successi e si dimenticano i fallimenti.
– Indizi ambientali: in campagna, un occhio esperto può cogliere segni del terreno senza rendersene conto.
Fortuna: con abbastanza tentativi, qualche “colpo giusto” è inevitabile.

Non servono forze misteriose: bastano i meccanismi ben noti della percezione e della memoria selettiva.

Conclusione: il fascino della bacchetta

La storia della rabdomanzia è una parabola perfetta del rapporto tra scienza e credenze popolari. Un rito antico che sopravvive all’avanzata della geologia e della fisica, alimentato da aneddoti e speranze. Gli esperimenti moderni, dai progetti di Monaco alle analisi critiche di Enright, ci dicono che la bacchetta non ha poteri misteriosi: i pochi risultati “positivi” non sono replicabili e si dissolvono al vaglio della statistica.

Eppure, il mito resiste. Resiste come certe catene WhatsApp, come gli oroscopi del mattino o le promesse di miracoli a domicilio: inutile ma rassicurante. Forse perché non parla soltanto di acqua nascosta, ma del nostro bisogno profondo di credere che la natura conservi ancora qualche trucco segreto da regalarci gratis.

Peccato che, quando si tratta di scavare un pozzo, la bacchetta tenda più a piegarsi sotto il peso delle illusioni che a segnalare una falda acquifera. Se vogliamo davvero trovare acqua, meglio affidarsi a un idrogeologo. Con lui, almeno, l’unica bacchetta magica sarà quella del geologo… e al massimo la fattura a fine lavoro.

Riferimenti e approfondimenti

Betz (1995) Unconventional Water Detection: Field Test of the Dowsing Technique in Dry Zones: Part 1. Journal of ScientiJic Exploration, 9(1): 1-43

Betz (1995) Unconventional Water Detection: Field Test of the Dowsing Technique in Dry Zones: Part 1. Journal of ScientiJic Exploration, 9(2): 159-189

Dix (2017) Skeptics beware — a story about dowsing. Available online

Enright (1995) Water Dowsing: the Scheunen Experiments. Naturwissenschaften 82: 360-369

Enright (1999) Testing Dowsing the Failure of the Munich Experiment. Skeptical Enquirer, Available online

Hansen (1982) Dowsing: a Review of Experimental Research. Journal of the Society for Psychical Research, 51(792): 343-367

McCarney & al. (2002) Can homeopaths detect homeopathic medicines by dowsing? A randomized, double-blind, placebo-controlled trial. Journal of the Royal Society of Medicine, 95(4): 189–191

Skeptical Enquirer (1999) Letters to the editor. Available online

Walach & Schmidt (1997) Empirical evidence for a non-classical experimenter effect: An experimental, double-blind investigation of unconventional information transfer. Journal of ScientiJic Exploration, 11(1): 59-67

Notizie dal mondo scientifico. Viaggio attraverso il tempo e nei processi evolutivi

Cos’è la malattia di Huntington

La còrea o malattia di Huntington è una malattia genetica neurodegenerativa che colpisce la coordinazione muscolare e porta a un declino cognitivo e a problemi psichiatrici [1].

Non sono un neuroscienziato e non ho la pretesa di comprenderne fino in fondo le implicazioni biologiche e cliniche, che sono spiegate molto meglio altrove [2,3]. Ne parlo qui perché ho letto un interessantissimo articolo della senatrice Elena Cattaneo [4], che riesce a descrivere con grande chiarezza (anche per chi, come me, non è esperto di genetica) le basi molecolari della malattia.

La tripletta CAG e la proteina huntingtina

La malattia di Huntington è legata a un’anomalia di un gene localizzato sul cromosoma 4 (Figura 1), dove si trova una sequenza ripetuta della tripletta CAG.

Figura 1. Corredo cromosomico umano. Ogni cromosoma è presente in coppia: dal numero 1 al 22 sono identici in entrambi i sessi, mentre i cromosomi sessuali differiscono (XY nei maschi, XX nelle femmine). Fonte: Ospedale Bambin Gesù.

Per i non addetti ai lavori: la tripletta CAG corrisponde a tre nucleotidi – citosina (C), adenina (A) e guanina (G) – e codifica per l’amminoacido glutammina (GLN) [5]. Sul cromosoma 4 questa tripletta si ripete molte volte (CAGCAGCAG…) e la sequenza codifica per una proteina che contiene un tratto con molte glutammine legate in fila.

La differenza sta proprio nel numero di ripetizioni:

  • meno di 36 triplette → la proteina funziona normalmente e non si sviluppa la malattia;
  • più di 36 triplette → la proteina subisce alterazioni strutturali che portano alla comparsa della malattia di Huntington.

Quando la sequenza è nella norma, la proteina stimola la produzione di una neurotrofina fondamentale per i neuroni striatali [4]. Se le ripetizioni superano la soglia critica, la produzione di questa neurotrofina può ridursi anche del 50% [4], causando gravi conseguenze per le cellule nervose.

Il dilemma evolutivo

A questo punto emerge la domanda cruciale: perché l’evoluzione ha conservato una sequenza così rischiosa, che nel tempo può diventare una condanna? [4]

Per rispondere, i ricercatori hanno dovuto fare un salto indietro nel tempo di circa 800 milioni di anni, fino ai primi organismi pluricellulari comparsi sulla Terra, come l’ameba sociale Dictyostelium [6]. Proprio lì è stato identificato il gene che, molto più tardi, nell’uomo, sarebbe stato associato all’Huntington.

Un vantaggio nascosto

La spiegazione suggerita è che questa sequenza ripetuta abbia avuto – e abbia ancora – un vantaggio evolutivo: nelle giuste quantità, la proteina che ne deriva sostiene lo sviluppo e la sopravvivenza dei neuroni, offrendo un beneficio che ha superato, almeno in termini evolutivi, il costo del rischio che le ripetizioni diventino eccessive.

Negli ultimi anni si è rafforzata l’idea che le ripetizioni CAG in numero non patologico non siano affatto neutre: studi su popolazioni sane hanno mostrato che variazioni nella lunghezza della sequenza, pur restando sotto la soglia critica, sono associate a differenze nelle strutture cerebrali e talvolta a prestazioni cognitive migliori [7,8]. Questo suggerisce che la sequenza poliglutaminica del gene HTT abbia un ruolo positivo nella plasticità e nello sviluppo del cervello.

Le espansioni somatiche

Un altro aspetto emerso di recente è quello delle espansioni somatiche: nel corso della vita, alcune cellule accumulano lentamente ulteriori ripetizioni CAG, senza che questo causi danni immediati. Tuttavia, quando la soglia viene superata in specifiche regioni cerebrali vulnerabili, il processo degenerativo si accelera bruscamente [9,10]. Questo meccanismo spiega perché la malattia si manifesta spesso in età adulta, dopo decenni di apparente normalità.

La prospettiva evolutiva

Analisi comparative in diverse specie hanno mostrato che la lunghezza della sequenza poliglutaminica nel gene HTT è stata oggetto di selezione naturale, a indicare che versioni con una certa estensione sono state probabilmente favorevoli allo sviluppo di funzioni nervose più complesse [11].

In altre parole, ciò che oggi leggiamo come malattia – la Huntington – potrebbe essere il rovescio della medaglia di un meccanismo che, nel corso dell’evoluzione, ha contribuito a plasmare la complessità del cervello umano, offrendo benefici cognitivi e adattativi a fronte di un rischio che si manifesta solo in alcune circostanze.

Riferimenti

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Malattia_di_Huntington

[2] http://www.uniroma2.it/didattica/MBND/deposito/lezione3.pdf

[3] http://www.telethon.it/…/malattie-tr…/huntington-malattia-di

[4] E. Cattaneo, Alla ricerca del gene perduto, Wired (Estate 2016), 77, 60-65

[5]  https://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK545250/

[6] https://it.wikipedia.org/wiki/Dictyostelium

[7] Schultz JL, et al. Association of CAG Repeat Length in the Huntington Gene With Cognitive Performance in Young Adults. JAMA Neurology (2021).

[8] Cattaneo E, et al. When repetita no-longer iuvant: somatic instability of the CAG triplet in Huntington’s disease. Nucleic Acids Research (2025).

[9] Handsaker RE, et al. Long somatic DNA-repeat expansion drives neurodegeneration in Huntington’s disease. Cell (2025).

[10] Scahill RI, et al. Somatic CAG repeat expansion in blood associates with biomarkers of neurodegeneration in Huntington’s disease decades before clinical motor diagnosis. Nature Medicine (2025).

[11] Iennaco R, et al. The evolutionary history of the polyQ tract in huntingtin sheds light on its functional pro-neural activities. Cell Death & Differentiation (2022).

Quando la mano fa scienza: gli scimpanzé e i fichi verdi

Il mercato della foresta

C’è un mercato nella foresta dove i venditori non urlano i prezzi e i clienti non pagano con monete ma con attenzione. I prodotti sono piccole sfere verdi appese ai rami: i fichi. Per un osservatore distratto molti di questi frutti sembrano uguali – verdi, anonimi, tutti lì a mezz’aria – eppure, per uno scimpanzé affamato, scegliere il fico giusto è questione di vita quotidiana. Non importa tanto il colore: è la mano che decide.

Un esperimento naturale

In uno studio molto elegante, Dominy e collaboratori hanno seguito gli scimpanzé di Kibale (Uganda) mentre esaminavano, palpavano e a volte incidevano con morsi i fichi della specie Ficus sansibarica. I ricercatori hanno misurato colore, elasticità, resistenza alla frattura e contenuto di zuccheri dei frutti, e hanno poi messo insieme comportamento e fisica con un semplice ma potente ragionamento statistico: ogni test sensoriale riduce l’incertezza su quanto dolce sia il frutto. In pratica, gli scimpanzé fanno Bayes con le dita.

Perché è interessante?

Per tre motivi.

  1. Il segnale visivo è debole. Molti fichi rimangono verdi anche quando sono maturi: il colore non tradisce la dolcezza. Per un animale che si affida alla vista, questo è un problema. Ma gli scimpanzé non rimangono fermi a guardare: si arrampicano, afferrano, premono. La palpazione dura una frazione di secondo – in media circa 1,4 s – e fornisce un’informazione meccanica che si correla molto meglio con il contenuto di fruttosio del frutto. In altre parole: il dito è più informativo dell’occhio.
  2. La sequenza sensoriale è modulare e razionale. Gli scimpanzé prima osservano (valutano dimensione e qualche indicazione cromatica), poi palpano – la mano misura elasticità – e infine, se serve, mordono per valutare la resistenza all’incisione (KIC, una misura meccanica della facilità con cui il tessuto si rompe). Ogni sensazione è un pezzo di informazione che, sommato agli altri, rende la decisione più affidabile.
  3. La ricerca suggerisce una lettura evolutiva intrigante: la mano come strumento di misura. Spesso colleghiamo la precisione della mano umana all’uso di utensili; questo lavoro propone invece che, almeno in parte, la selezione per mani sensibili e destre possa essere stata guidata anche da esigenze quotidiane di raccolta e valutazione del cibo — vale a dire: la mano non è nata solo per costruire strumenti, ma anche per saggiare il mondo.

Un piccolo laboratorio sensoriale

Questa visione sposta il centro dell’attenzione: non è solo l’innovazione tecnologica che plasma l’evoluzione della mano, ma anche la routine del foraggiamento. Pensalo come un piccolo laboratorio sensoriale: lo scimpanzé solleva un fico, lo preme con il polpastrello, percepisce la “cedibilità”, stima se dentro ci sono zuccheri a sufficienza e poi decide. Un segnale visivo vago (verde) viene corretto da informazioni meccaniche precise. Il risultato è una strategia efficiente: meno errori nella scelta di frutti importanti (i fichi sono una risorsa alimentare di riserva nelle stagioni difficili) e quindi un vantaggio per la sopravvivenza e la riproduzione.

La mano come utensile per conoscere

Per milioni di anni, fichi e altri frutti “criptici” hanno messo alla prova la capacità dei primati di distinguere il commestibile dal deludente. La pressione selettiva non ha riguardato soltanto occhi e cervello, ma anche la mano. La destrezza manuale, che oggi colleghiamo soprattutto all’uso degli strumenti, potrebbe avere radici ben più antiche: la necessità di valutare il cibo. La mano, prima di diventare utensile per costruire, è stata utensile per conoscere.

Un fotogramma della nostra storia

Il gesto dello scimpanzé che palpa un fico non è solo un dettaglio curioso di comportamento, ma un fotogramma della nostra stessa storia evolutiva. La precisione del pollice opponibile, la ricchezza sensoriale del polpastrello, la capacità di coordinare occhio e mano: tutto ciò che oggi ci permette di scrivere, scolpire, dipingere o operare, è nato anche da azioni semplici come scegliere il frutto giusto su un ramo.

Dalla foresta al mercato

Così, la foresta diventa laboratorio, la mano un sensore, il frutto una sfida evolutiva. E se ci pensiamo, la linea che ci separa dagli scimpanzé non è poi così netta: anche noi, al mercato, prima di comprare una pesca o un avocado, li osserviamo, li tocchiamo, li premiamo leggermente con le dita. In fondo, facciamo la stessa cosa: riduciamo l’incertezza con la complessità della mano.

Conclusione

La prossima volta che vedrai uno scimpanzé contemplare un frutto, immaginalo come un piccolo scienziato improvvisato: non sta solo mangiando, sta raccogliendo dati. Con il polpastrello riduce l’incertezza, proprio come noi davanti a una confezione con etichetta sbiadita.

E allora si capisce: la mano è nata per conoscere, prima ancora che per costruire. È questa complessità – fatta di tatto, intelligenza e memoria – che ha guidato la nostra evoluzione.

Dal fico della foresta alla penna, allo scalpello, al bisturi: ogni gesto umano porta ancora impressa quella prima funzione. La mano che oggi crea, cura, scrive e dipinge è la stessa che, milioni di anni fa, imparava a saggiare un frutto. In fondo, la nostra evoluzione è cominciata con un dito sul frutto.

La Sindone e la scienza: dal Medioevo alla risonanza magnetica

Ormai lo sanno anche le pietre: mi occupo di risonanza magnetica nucleare su matrici ambientali. Tradotto per i non addetti: uso la stessa tecnica che in medicina serve a vedere dentro il corpo umano, ma applicata a tutt’altro – suoli, sostanza organica naturale, piante e materiali inerti. Ripeto: non corpi umani né animali, ma sistemi ambientali.

C’è un dettaglio curioso. I medici hanno tolto l’aggettivo “nucleare” dal nome, per non spaventare i pazienti. Peccato che, senza quell’aggettivo, l’espressione “risonanza magnetica” non significhi nulla: risonanza di cosa? elettronica, fotonica, nucleare? Io, che non ho pazienti da rassicurare, preferisco chiamare le cose con il loro nome: risonanza magnetica nucleare, perché studio la materia osservando come i nuclei atomici interagiscono con la radiazione elettromagnetica a radiofrequenza.

Non voglio dilungarmi: non è questa la sede per i dettagli tecnici. Per chi fosse curioso, rimando al mio volume The Environment in a Magnet edito dalla Royal Society of Chemistry.

Tutto questo per dire che in fatto di risonanza magnetica nucleare non sono proprio uno sprovveduto. Me ne occupo dal 1992, subito dopo la laurea in Chimica con indirizzo Organico-Biologico. All’epoca iniziai a lavorare al CNR, che aveva una sede ad Arcofelice, vicino Pozzuoli, in provincia di Napoli. È lì che cominciai a usare l’NMR per studiare la relazione struttura-attività dei metaboliti vegetali: un banco di prova perfetto per capire quanto questa tecnica potesse rivelare.

Successivamente passai all’Università degli Studi di Napoli Federico II, dove estesi l’uso della risonanza magnetica nucleare non solo alla fase liquida, ma anche a quella solida e semisolida. Non più soltanto metaboliti vegetali, dunque, ma matrici molto più complesse dal punto di vista chimico: il suolo e la sostanza organica ivi contenuta.

Con il mio trasferimento all’Università di Palermo ho potuto ampliare ulteriormente le competenze in NMR: dall’uso di strumenti a campo magnetico fisso sono passato allo studio delle stesse matrici naturali con spettrometri a campo variabile. Un passo avanti che mi ha permesso di guardare i sistemi ambientali con ancora più profondità e sfumature.

Ed eccomi qui, dopo più di trent’anni di esperienza, a spiegare perché chi immagina di usare la risonanza magnetica nucleare sulla Sindone di Torino forse ha una visione un po’… fantasiosa della tecnica.

Andiamo con ordine.

La Sindone di Torino: simbolo religioso e falso storico

La Sindone

La Sindone di Torino è un lenzuolo di lino lungo circa quattro metri che reca impressa l’immagine frontale e dorsale di un uomo crocifisso. Per il mondo cattolico rappresenta una delle reliquie più importanti: secondo la tradizione, sarebbe il sudario che avvolse il corpo di Cristo dopo la crocifissione. Attorno ad essa si è sviluppato un culto popolare immenso, fatto di pellegrinaggi e ostensioni pubbliche che ne hanno consacrato il valore spirituale.

Ma che cosa ci dice la scienza su questo straordinario manufatto?

La datazione al radiocarbonio

Il dato più solido arriva dalla datazione con il radiocarbonio. Nel 1988 tre laboratori indipendenti – Oxford, Zurigo e Tucson – pubblicarono sulla rivista Nature i risultati delle loro analisi: il lino della Sindone risale a un periodo compreso fra il 1260 e il 1390 d.C., cioè in piena epoca medievale (Damon et al., 1989). La conclusione degli autori fu inequivocabile: “evidence that the linen of the Shroud is mediaeval”.

Riproduzioni sperimentali

A rafforzare questa interpretazione è intervenuto anche il lavoro del chimico Luigi Garlaschelli, che ha realizzato una riproduzione della Sindone utilizzando tecniche compatibili con l’arte medievale: applicazione di pigmenti su un rilievo, trattamenti acidi per simulare l’invecchiamento, lavaggi parziali per attenuare il colore. Il risultato, esposto in varie conferenze e mostre, mostra come un artigiano del Trecento avrebbe potuto ottenere un’immagine con molte delle caratteristiche dell’originale (Garlaschelli, 2009).

Le conferme della storia

Anche le fonti storiche convergono. Un documento recentemente portato alla luce (datato 1370) mostra che già all’epoca un vescovo locale denunciava il telo come un artefatto, fabbricato per alimentare un culto redditizio (RaiNews, 2025). Questo si aggiunge al più noto documento del 1389, in cui il vescovo di Troyes, Pierre d’Arcis, scriveva a papa Clemente VII denunciando la falsità della reliquia.

Le contro-argomentazioni sindonologiche

Naturalmente, chi sostiene l’autenticità della Sindone non è rimasto in silenzio. Le principali obiezioni riguardano:

  1. Il campione del 1988 – secondo alcuni, la zona prelevata sarebbe stata contaminata da un rammendo medievale, o comunque non rappresentativa dell’intero telo (Karapanagiotis, 2025).
  2. L’eterogeneità dei dati – alcuni statistici hanno osservato che i tre laboratori non ottennero risultati perfettamente omogenei, segnalando possibili anomalie (Karapanagiotis, 2025).
  3. Eventi successivi – l’incendio di Chambéry del 1532, o la formazione di patine microbiche, avrebbero potuto alterare la concentrazione di carbonio-14, facendo sembrare il tessuto più giovane (Karapanagiotis, 2025).

Sono ipotesi discusse ma che non hanno mai trovato prove decisive: nessuna spiegazione è riuscita a giustificare in modo convincente come un tessuto del I secolo potesse apparire medievale a tre laboratori indipendenti.

Le nuove analisi ai raggi X

Negli ultimi anni si è parlato di nuove tecniche di datazione basate sulla diffusione di raggi X ad ampio angolo (WAXS). L’idea è di valutare il grado di cristallinità della cellulosa del lino: più il tessuto è antico, maggiore è la degradazione della sua struttura cristallina. Applicata a un singolo filo della Sindone, questa metodologia ha suggerito un’età più antica di quella medievale (De Caro et al., 2022).

Tuttavia, i limiti sono evidenti: si è analizzato un solo filo, e la cristallinità della cellulosa dipende non solo dal tempo, ma anche da condizioni ambientali come umidità, calore o contatto con sostanze chimiche. Inoltre, il metodo è recente e richiede ulteriori validazioni indipendenti. In sintesi: interessante come indicatore di degrado, ma non ancora un’alternativa solida al radiocarbonio.

Una nuova frontiera? L’NMR

Accanto a tutto ciò è emersa anche la proposta di applicare la risonanza magnetica nucleare (NMR) alla Sindone (Fanti & Winkler, 1998). Alcuni autori suggeriscono che questa tecnica possa rivelare “concentrazioni atomiche” di idrogeno, carbonio o azoto nel telo, o addirittura produrre mappe tomografiche.

Nel prossimo paragrafo entrerò nel dettaglio di questa prospettiva “NMR”, analizzando perché, alla luce dell’esperienza maturata in oltre trent’anni di lavoro su queste tecniche, considero queste proposte non solo irrealistiche, ma anche profondamente fuorvianti.

I limiti della prospettiva NMR

Tra le tante proposte avanzate negli anni, c’è anche quella di usare la risonanza magnetica nucleare per studiare la Sindone. Nel lavoro di Giulio Fanti e Ulf Winkler si ipotizza di applicare tecniche NMR per “vedere” la distribuzione di atomi come idrogeno, carbonio e persino azoto sul telo, o addirittura per ottenere mappe tomografiche simili a quelle della risonanza magnetica medica. Sulla carta può sembrare affascinante, ma nella pratica questa prospettiva presenta numerosi limiti.

Nel caso dei protoni (1H), ad esempio, gran parte del segnale in un lino asciutto deriva dall’acqua residua o da componenti volatili: un parametro che può variare fino all’80% semplicemente cambiando le condizioni ambientali. Inoltre, in un solido come il lino della Sindone, l’analisi 1H-NMR non offre risoluzione: lo spettro mostra soltanto due contributi sovrapposti, un picco stretto e intenso dovuto alle zone cristalline della cellulosa e una larga campana sottostante, tipica delle frazioni amorfe. È chiaro, quindi, che non solo è arduo quantificare i protoni, ma è del tutto irrealistico pensare di usarli per una datazione del tessuto.

Per quanto riguarda l’analisi al carbonio-13 (13C), ci sono diversi punti da sottolineare. La tecnica più usata è la CPMAS 13C-NMR: in questo caso una piccola quantità di campione, dell’ordine dei milligrammi, viene inserita in un porta-campioni invisibile all’NMR, posto nel campo magnetico secondo una geometria precisa, e il carbonio viene “visto” sfruttando l’abbondanza dei protoni. Si tratta però di una tecnica qualitativa: non consente una vera quantificazione del nucleo osservato. Inoltre, richiede tempi di misura molto lunghi, con costi elevati e il rischio concreto di non ottenere informazioni davvero utili.

L’alternativa sarebbe la DPMAS 13C-NMR. Qui, a differenza della CPMAS, non ci si appoggia ai protoni e quindi bisogna fare affidamento solo sull’abbondanza naturale del 13C, circa l’1%: troppo bassa. Di conseguenza i tempi macchina si allungano ulteriormente, con dispendio sia di tempo sia economico. E in più la tecnica è priva di risoluzione: i segnali dei diversi nuclei si sovrappongono in un unico inviluppo indistinguibile, rendendo impossibile perfino la stima del rapporto fra cellulosa cristallina e amorfa.

Quanto all’azoto-14 (14N), il nucleo è quadrupolare e produce linee larghissime e difficilmente interpretabili: in pratica, misure affidabili non sono realistiche.

Nel lavoro di Fanti e Winkler, ci sono poi anche problemi di coerenza interna. Nel testo, ad esempio, si ipotizzano tempi di rilassamento e acquisizione non compatibili con i valori sperimentali reali, e si propongono scenari come la “tomografia NMR dell’intero telo” che, per un materiale rigido e povero di mobilità come il lino secco, sono semplicemente impraticabili: i tempi di decadimento del segnale sono troppo brevi perché si possa ricostruire un’immagine come in risonanza magnetica medica.

Infine, il lavoro suggerisce di estendere le misure addirittura a mappature di radioattività con contatori Geiger o a esperimenti di irraggiamento con neutroni, ipotizzando collegamenti con la formazione dell’immagine. Si tratta di congetture prive di fondamento sperimentale, più vicine a un esercizio di fantasia che a un protocollo scientifico realistico.

In sintesi, Fanti e Winkler hanno portato il linguaggio della NMR nel dibattito sulla Sindone, ma le applicazioni che propongono si scontrano con limiti tecnici insormontabili e interpretazioni sbagliate.

L’NMR è uno strumento potentissimo per lo studio di suoli, sostanza organica e sistemi complessi, ma applicarlo alla Sindone nei termini proposti non ha basi scientifiche solide: rischia anzi di trasformare una tecnica seria in un’arma retorica al servizio di ipotesi precostituite.

Conclusioni

Alla fine dei conti, la Sindone di Torino resta ciò che la scienza ha già dimostrato da tempo: un manufatto medievale. Lo dice la datazione al radiocarbonio pubblicata su Nature; lo confermano le riproduzioni sperimentali di Luigi Garlaschelli e i documenti storici del Trecento che la denunciavano come artefatto devozionale; lo ribadiscono i limiti delle nuove tecniche “alternative” che, per quanto presentate come rivoluzionarie, non hanno mai scalfito la solidità del verdetto del 1988. Le contro-argomentazioni dei sindonologi — campioni non rappresentativi, rammendi invisibili, incendi o contaminazioni miracolose — sono ipotesi suggestive, ma prive di prove concrete e incapaci di spiegare perché tre laboratori indipendenti abbiano ottenuto lo stesso responso: Medioevo. Le proposte più recenti, come l’uso dei raggi X o addirittura della risonanza magnetica nucleare, non fanno che spostare il problema, avanzando idee tecnicamente fragili e spesso concettualmente errate.

La Sindone rimane dunque un oggetto straordinario, ma non perché testimoni la resurrezione di Cristo: straordinaria è la sua forza simbolica, straordinaria è la devozione che suscita, straordinaria è la capacità che ha avuto per secoli di alimentare fede, immaginazione e perfino business. Ma sul piano scientifico la questione è chiusa. Continuare a spacciarla per “mistero insoluto” significa ignorare le evidenze e trasformare la ricerca in propaganda. E questo, più che un atto di fede, è un insulto all’intelligenza.

Dal Voltaren al vaccino: perché temiamo ciò che ci salva e ignoriamo ciò che ci nuoce

Uno dei cavalli di battaglia degli antivaccinisti, soprattutto durante la pandemia di Covid, è stato: Non sappiamo cosa ci iniettano. Una frase che sembra prudente, ma che in realtà nasconde il vuoto più assoluto. In rete, e purtroppo anche in certi palchi mediatici, si sono lette e ascoltate fandonie indegne: vaccini pieni di grafene, di materiale “fetale”, di microchip. Panzane. Bufale. Balle cosmiche spacciate per verità scomode.

Il punto è che la percezione del rischio, quando si parla di vaccini, viene distorta fino al ridicolo. Gli stessi che si indignano davanti a una fiala di vaccino non si fanno problemi ad abusare di Voltaren per un mal di schiena, di Tachipirina per un raffreddore o di Aspirina a stomaco vuoto. Farmaci che, se presi male o in dosi eccessive, hanno effetti collaterali ben documentati e tutt’altro che lievi. Ma nessuno apre gruppi Telegram per denunciare il “complotto della Tachipirina”.

E allora torniamo alle basi. La differenza tra pericolo e rischio.
Il pericolo è una proprietà intrinseca di una sostanza: la candeggina, per esempio, è pericolosa. Ma il rischio dipende dall’uso: se non la bevi, se non la respiri, la candeggina non ti ammazza. Lo stesso vale per i farmaci. Aspirina e Tachipirina hanno pericoli reali, ma li consideriamo a basso rischio perché li usiamo con buon senso.

Con i vaccini si è creata la tempesta perfetta: un farmaco nuovo, un’emergenza sanitaria mondiale e un esercito di disinformatori pronti a manipolare la paura. Eppure, i dati clinici erano chiari già nel 2021: i vaccini anti-Covid erano molto più sicuri di tanti farmaci da banco. I rischi di complicazioni gravi erano rarissimi, infinitamente inferiori rispetto a quelli legati alla malattia. Ma invece di guardare i numeri, ci si è lasciati spaventare dai fantasmi.

C’è chi liquida la pandemia come una “farsa”, chi parla di “censura” e di “virostar” in televisione. È il classico copione: invece di discutere sui dati, si attacca chi li porta. Roberto Burioni e altri virologi sono stati accusati di essere “ospiti fissi” senza contraddittorio. Ma davvero serve un contraddittorio tra chi studia i virus da decenni e chi diffonde complotti sui microchip nei vaccini? Sarebbe come chiedere di contrapporre un astrologo a un astronomo quando si parla di orbite planetarie.

La realtà è che i dati c’erano, e chiunque poteva consultarli: studi clinici, report di farmacovigilanza, pubblicazioni scientifiche. Non erano nascosti – erano ignorati. La vera censura è quella che gli antivaccinisti applicano a se stessi e ai loro seguaci: censura dei numeri, censura dei fatti, censura del pensiero critico.

Il risultato? Una percezione capovolta: farmaci familiari diventano “innocui per definizione”, mentre vaccini che hanno salvato milioni di vite vengono descritti come “veleni sperimentali”. Non è prudenza, è ignoranza travestita da saggezza.

Chiariamo una volta per tutte: i vaccini non sono perfetti, ma nessun farmaco lo è. La differenza è che i vaccini non curano soltanto: prevengono, riducono i contagi, salvano intere comunità. Attaccarli con menzogne non è opinione, è irresponsabilità sociale.

In fondo, la chimica e la farmacologia ci dicono una cosa semplice: nessuna sostanza è innocua, nemmeno l’acqua. È il contesto, la dose, l’uso che fanno la differenza. Non capirlo – o, peggio, fingere di non capirlo per ideologia – significa giocare con la salute propria e quella altrui.

Il vero pericolo, oggi, non sono i vaccini. Sono gli antivaccinisti.

Alochimica o Chelichimica? La scienza quotidiana dietro gli aloni delle magliette

Cari lettori vicini e lontani,

vi siete mai chiesti perché si formano gli aloni gialli sotto le ascelle delle maglie chiare? È tutta questione di chimica.

Oltre alla normale igiene personale – uso di acqua e sapone – facciamo molto ricorso a quelli che chiamiamo deodoranti ascellari. In realtà, molti di essi sono deodoranti nel senso che contengono profumi che servono a coprire i cattivi odori che produciamo dopo una giornata intensa. Tuttavia, la maggior parte dei prodotti in commercio contiene anche sostanze chimiche in grado di ridurre la produzione di sudore. In altre parole, sono veri e propri antitraspiranti.

I miei amici biologi e medici mi perdonino se uso un linguaggio un po’ semplificato: il mio obiettivo qui non è fare un trattato, ma spiegare in modo chiaro ciò che accade sotto le nostre ascelle.

Il sudore: un condizionatore naturale

Innanzitutto. diciamo che il sudore ha un ruolo fisiologico molto importante. Per capire meglio, proviamo con un esempio semplice: avete mai bagnato le mani con alcol etilico in estate? Ricorderete la sensazione di fresco che si avverte subito dopo. Perché succede?

L’evaporazione di un liquido – cioè, il passaggio dalla fase liquida a quella gassosa – è un processo che richiede energia. In termini fisici, il sistema assorbe calore dall’ambiente circostante, ovvero la pelle su cui abbiamo messo l’alcol etilico: ecco perché, dopo applicazione di alcol, abbiamo una sensazione di freschezza.

Il sudore funziona allo stesso modo. È composto principalmente da acqua, che evaporando sulla nostra pelle porta via calore e ci aiuta a regolare la temperatura corporea. A questo si aggiungono sali (soprattutto cloruro di sodio), piccole quantità di proteine, lipidi e altre molecole prodotte dal metabolismo.

Da solo, il sudore non ha un odore particolarmente sgradevole. Quell’odore tipico che associamo alle “ascelle sudate” nasce in realtà dall’azione dei batteri che vivono normalmente sulla nostra pelle: essi degradano alcune delle sostanze organiche contenute nel sudore, producendo composti maleodoranti.

Il ruolo dei deodoranti e degli antitraspiranti

Ed eccoci ai deodoranti e agli antitraspiranti. Molti prodotti contengono sali di alluminio (come il cloruro o il cloridrato di alluminio), che riducono la traspirazione formando una sorta di tappo temporaneo nei dotti sudoripari. In questo modo restiamo “asciutti” più a lungo, ma si innescano anche conseguenze meno gradite per i nostri vestiti. Gli aloni gialli, infatti, non derivano semplicemente dal sudore, bensì da una vera e propria orchestra di reazioni chimiche che coinvolgono diversi attori: i sali di alluminio presenti negli antitraspiranti interagiscono con le proteine e i metaboliti azotati del sudore, generando complessi stabili dalle sfumature giallo-brune che si fissano nelle fibre del cotone. Una parte dell’ingiallimento ricorda, in scala ridotta, le reazioni di Maillard, le stesse che fanno dorare pane e biscotti: qui entrano in gioco gli amminoacidi del sudore e i carboidrati della cellulosa del tessuto, catalizzati dal calore corporeo e dalla presenza di metalli. Anche i lipidi e gli acidi grassi secreti dalle ghiandole apocrine danno il loro contributo, andando incontro a processi di ossidazione che producono composti colorati, simili a quelli che rendono irrancidito un olio da cucina. Infine, i residui organici dei deodoranti stessi – fragranze, tensioattivi, polimeri – possono degradarsi e ossidarsi, consolidando l’alone. È, in definitiva, una piccola “reazione chimica da guardaroba”, in cui si intrecciano almeno quattro sistemi: complessi metallo-proteici, reazioni zuccheri-proteine, ossidazioni lipidiche e trasformazioni dei composti organici residui.

Dall’alone al buco: la lenta agonia del cotone

C’è poi un’altra conseguenza meno evidente ma altrettanto fastidiosa: con il tempo le fibre di cellulosa del tessuto, sottoposte a sudore e residui di deodorante, tendono a irrigidirsi e a diventare fragili. Anche qui la chimica ha un ruolo chiave. I sali di alluminio si comportano come veri e propri agenti reticolanti: creano legami incrociati tra le catene della cellulosa, irrigidendo la trama del tessuto. A questo si aggiunge l’effetto dei prodotti di ossidazione del sudore e dei lipidi, che modificano la struttura superficiale delle fibre, rendendole meno elastiche e più inclini a rompersi sotto stress meccanico. È per questo che, oltre agli aloni gialli, le magliette “storiche” finiscono spesso per bucarsi proprio nella zona delle ascelle: le fibre non cedono più in modo elastico, ma si spezzano come se fossero diventate fragili.

Alochimica o chelichimica?

Traendo spunto dall’intervista impossibile a Herr Goethe, potremmo battezzare questo intreccio di reazioni quotidiane con un nome nuovo: Alochimica, la chimica degli aloni, che ci accompagna tanto nel cielo quanto nell’armadio. Il termine deriva dal greco ἅλως, “alone luminoso”, riferito agli astri. In realtà, a voler essere più precisi, dovremmo guardare a κηλίς, che significa “macchia”: da qui il possibile neologismo Chelichimica. In italiano, però, Alochimica suona più evocativo e musicale, mentre Chelichimica è forse più corretto dal punto di vista etimologico sebbene meno immediato. A voi la scelta: quale vi piace di più?

Come prevenire gli aloni (o almeno ridurli)

Alcuni semplici accorgimenti possono limitare il problema:

Conclusione

Dietro un alone giallo c’è molta più chimica di quanto immaginiamo. È la stessa chimica che ci permette di sudare e sopravvivere al caldo, che regola l’equilibrio del nostro corpo e ci difende dallo stress termico. Ma è anche quella che, una volta trasferita sui tessuti insieme ai deodoranti, avvia una catena di reazioni che finisce per lasciare un segno visibile e, a volte, indelebile. Così una semplice maglietta bianca diventa una piccola lavagna su cui si scrivono storie di evaporazione, ossidazione, complessi metallici e fibre irrigidite.

Ecco allora che possiamo parlare, con un pizzico di ironia, di una vera e propria chimica degli aloni domestica: qualcuno la chiamerebbe Alochimica, dal greco ἅλως, “alone luminoso”; altri preferirebbero Chelichimica, da κηλίς, “macchia”. Due nomi diversi per lo stesso intreccio di reazioni quotidiane, che non si manifesta solo nel cielo quando guardiamo il sole o la luna, ma anche nel nostro armadio, tra i vestiti di tutti i giorni. Una scienza silenziosa che ci accompagna ovunque e che, a saperla leggere, trasforma persino un alone giallo sotto l’ascella in un piccolo racconto di meraviglia chimica.

“Acqua che squilli, acqua che brilli, dacci l’ossigeno senza rovelli” ovvero: perché l’acqua ricca di ossigeno è una bufala

Lo ammetto: come poeta non valgo molto. Niente a che vedere con Gabriele D’Annunzio, che in pochi versi seppe rendere l’acqua una creatura viva, brillante, sempre in movimento:

Acqua di monte,
acqua di fonte,
acqua piovana,
acqua sovrana,
acqua che odo,
acqua che lodo,
acqua che squilli,
acqua che brilli,
acqua che canti e piangi,
acqua che ridi e muggi.
Tu sei la vita
e sempre sempre fuggi.

(“Acqua” di G. D’Annunzio)

Io, invece, mi fermo a un modesto gioco di rime:

“Acqua che squilli, acqua che brilli,
dacci l’ossigeno senza rovelli.”

Ma se io non sono un poeta, nel campo della chimica c’è chi riesce a fare ancora peggio di me con le parole – e soprattutto con i numeri. Nonostante la mia attività divulgativa (o forse proprio a causa di essa), mi capita ancora di imbattermi nei suggerimenti di Facebook che pubblicizzano la cosiddetta “acqua arricchita di ossigeno”, presentata come un toccasana universale.

Ora, tralasciando l’iperbole pubblicitaria, proviamo a capire: a cosa servirebbe tutta questa abbondanza di ossigeno disciolto nell’acqua.

L’ossigeno disciolto e la vita acquatica

Da un punto di vista ambientale, la presenza di ossigeno disciolto in acqua è fondamentale. I pesci, i crostacei e la maggior parte degli organismi acquatici hanno bisogno di ossigeno per vivere, proprio come noi terrestri. La differenza è che loro lo ricavano dall’acqua grazie alle branchie, mentre noi lo ricaviamo dall’aria grazie ai polmoni.

Quando un pesce respira, fa passare l’acqua attraverso sottilissime membrane branchiali: da un lato c’è l’acqua con l’ossigeno disciolto, dall’altro il sangue povero di ossigeno. Per semplice diffusione, l’ossigeno passa nelle cellule del pesce (Figura 1).

Figura 1. Meccanismo di respirazione di un pesce: l’acqua con ossigeno disciolto attraversa le branchie e, per diffusione, l’ossigeno passa nel sangue povero di O₂.

Per questo motivo, i chimici quando valutano la qualità di un’acqua non guardano solo alla sua purezza, ma anche a due parametri legati all’ossigeno:

  • il BOD (Biochemical Oxygen Demand), che indica quanta parte dell’ossigeno disciolto viene consumata dai microrganismi per decomporre la sostanza organica;
  • il COD (Chemical Oxygen Demand), che misura quanta parte dell’ossigeno è necessaria per ossidare la sostanza organica, indipendentemente dai microrganismi.

Più alti sono BOD e COD, meno ossigeno resta a disposizione degli organismi acquatici. Insomma, per un pesce l’ossigeno disciolto è questione di vita o di morte.

E per noi terrestri?

Qui arriva il punto dolente. Noi abbiamo bisogno di ossigeno come gli organismi acquatici, ma senza branchie e con un fluido diverso: i nostri polmoni catturano l’ossigeno dall’aria, lo legano all’emoglobina e lo trasportano in tutto il corpo (Figura 2). Se ci immergessimo nell’acqua tentando di respirare come un pesce, non estrarremmo neppure una molecola di ossigeno perché semplicemente non abbiamo le branchie.

Figura 2. Meccanismo della respirazione polmonare: l’ossigeno viene inspirato, catturato dai polmoni, legato all’emoglobina nei globuli rossi e trasportato in tutto il corpo.

In altre parole, l’ossigeno disciolto nell’acqua che beviamo non ci serve a nulla.

Eppure, le aziende che vendono “acqua ricca di ossigeno” promettono ogni genere di beneficio: più energia, digestione facilitata, migliore resistenza fisica, addirittura un gusto esaltato delle pietanze. Sembra quasi di leggere il bugiardino di un olio di serpente moderno.

La realtà è molto più banale: quando beviamo, l’acqua raggiunge lo stomaco e l’intestino, non i polmoni. Da lì non può passare ossigeno nel sangue: l’assorbimento avviene solo attraverso l’apparato respiratorio. Se vogliamo ossigenare i tessuti, l’unico modo resta respirare.

Quanta aria può davvero entrare nell’acqua?

La chimica ci offre uno strumento molto semplice per rispondere: la legge di Henry, secondo la quale la quantità di gas che si scioglie in un liquido dipende dalla pressione parziale del gas stesso e dalla temperatura.

Tradotto:

  • più alta è la pressione, più gas si può sciogliere;
  • più bassa è la temperatura, maggiore è la solubilità;
  • la presenza di altri soluti (come i sali) riduce la quantità di gas che può sciogliersi.

Per dare un numero concreto: a 25 °C e alla normale pressione atmosferica, la quantità massima di ossigeno che si può sciogliere in acqua pura è circa 8–9 milligrammi per litro. Anche spremendo al massimo le condizioni di pressione e temperatura, non si arriva certo a quantità “miracolose”. Eppure, non di rado, si trovano in rete percentuali di ossigeno disciolto così esagerate da sembrare uscite da un fumetto, ben oltre il 100%: numeri che la chimica smentisce senza appello.

Inoltre, una volta che apriamo una bottiglia di acqua “ossigenata” e la riportiamo alle condizioni di pressione e temperatura ambientali, l’ossigeno in eccesso tende a liberarsi, esattamente come accade con le bollicine di una bibita gassata. Ciò che resta, in definitiva, è una comunissima acqua potabile.

Conclusione: acqua arricchita o arricchita di marketing?

Possiamo anche saturare un litro d’acqua con più ossigeno del normale, ma quando la beviamo il nostro corpo non ne ricava alcun vantaggio: non abbiamo branchie e non possiamo estrarre ossigeno dall’acqua come i pesci.

Queste bevande, quindi, non sono altro che acqua — buona e potabile, certo — ma identica a quella del rubinetto o delle bottiglie del supermercato, con l’unica differenza che costano di più.

In sintesi: l’ossigeno per vivere continuiamo a prenderlo dall’aria. Per l’idratazione basta la normale acqua. Per il resto, fidiamoci dei nostri polmoni: sono molto più efficienti di qualsiasi “acqua ricca di ossigeno”.

Le interviste impossibili: incontriamo Johann Wolfgang von Goethe

Ormai i pochi lettori che mi seguono lo sanno. Sto conducendo un reportage avanti e indietro nei secoli per incontrare le figure più note e impattanti del mondo scientifico. Ho incontrato Boyle, Lavoisier, Faraday e Franklin. Ognuno di essi ha dato un’impronta impagabile allo sviluppo della scienza. Ma, come abbiamo capito dalle interviste, tutti questi personaggi erano molto eclettici: si sono interessati di tante cose, dalla letteratura alla filosofia naturale, dalla filosofia alle arti figurative fino alla politica. Ora, però, voglio cambiare prospettiva. Voglio provare a intervistare qualcuno che non era uno scienziato vero e proprio, ma aveva una mente eclettica esattamente quanto quella degli scienziati già intervistati.

Siamo nel suo studio di Weimar, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Scaffali colmi di volumi di botanica, filosofia e poesia fanno da cornice a un tavolo ingombro di carte, calamai ed erbarî. Prismi di cristallo catturano la luce della finestra, mentre accanto riposano conchiglie e minerali raccolti nei suoi viaggi. Un globo e alcune mappe richiamano la sua curiosità geografica, e alle pareti schizzi di piante e figure anatomiche dialogano con disegni di architetture classiche.

Goethe mi accoglie in questo microcosmo con il suo sguardo inconfondibile: curioso, penetrante e sereno, come se in lui convivessero il poeta, il filosofo e il naturalista.

– Buongiorno Herr Goethe, lei è stato un viaggiatore indefesso ed un osservatore attento delle abitudini e degli usi delle popolazioni i cui paesi ha visitato. Celebre il suo “Viaggio in Italia”. Cosa mi dice di noi italiani?
– L’Italia fu per me rivelazione e rinascita. Vi trovai non solo la luce e i colori che nutrono l’anima, ma anche un popolo che viveva con naturalezza ciò che noi tedeschi spesso smarrivamo nella teoria: la gioia dell’arte, il gusto del convivere, l’intreccio fra bellezza e vita quotidiana. Scrissi che “qui finalmente mi sento uomo intero”, perché in Italia compresi che la cultura non è un ornamento, ma respiro stesso dell’esistenza. Ogni strada, ogni piazza, ogni rovina mi insegnava qualcosa che nessun libro avrebbe potuto contenere. E fu proprio osservando la luce che accarezzava i marmi di Roma o il cielo che si specchiava sul mare di Napoli che la mia attenzione si rivolse sempre più ai colori: non solo come fenomeni naturali, ma come linguaggio segreto della vita stessa.

– Ecco. I colori. Lei è celebrato come poeta e letterato, ma spesso viene ricordato per la sua “Teoria dei colori”. Perché?
– Perché in essa vi è la mia vera vocazione: comprendere la natura nel suo intreccio con l’esperienza umana. Newton aveva mostrato con grande rigore matematico che la luce bianca si scompone in fasci colorati; io non contesto la precisione dei suoi strumenti, ma credo che la verità della natura non si esaurisca nei calcoli. La luce non è un’entità fredda: è esperienza vissuta, è emozione. Per questo osservai i colori non solo come fenomeni fisici, ma come espressioni del rapporto fra luce e oscurità, mediate dai nostri sensi. Guardando attraverso un prisma, non vedevo angoli e raggi, ma bordi vivi, sfumature, vibrazioni che parlavano direttamente all’anima. Per me i colori sono il linguaggio segreto della natura: ci rivelano non ciò che la materia è soltanto, ma ciò che essa significa nell’esperienza umana.

– Sa che io sono uno scienziato. La mia forma mentis è molto limitata perché io vedo la luce e, quindi, i colori in modo diverso da lei. Per me rappresentano il fascino del microscopico: una danza incessante legata al movimento di fotoni ed elettroni che innescano delle reazioni chimiche non meno affascinanti attraverso cui riusciamo a vedere. Purtuttavia, la sua visione è utilizzata ancora oggi nella moderna fotografia.
– Mi rallegra sentirlo. Sì, la mia teoria dei colori ha trovato eco anche in tempi a me lontani, persino nella vostra arte fotografica. Io attribuii a ciascun colore un diverso valore di luminosità percepita: il giallo, il più radioso, lo stimai pari a nove; l’arancione a otto; il rosso e il verde a sei; il blu a quattro; e il viola a tre. Questa scala non è un gioco numerico, ma un modo per bilanciare l’occhio e l’animo. E ancora oggi, so che alcuni fotografi la utilizzano per creare armonia nelle immagini: se accostano il giallo e il viola, ad esempio, sanno che il viola deve occupare più spazio per compensare la potenza luminosa del giallo, così che l’insieme risulti equilibrato e piacevole. La fisica moderna vi parla di fotoni ed elettroni, ma io volevo ricordare che i colori non sono soltanto reazioni della materia: sono emozioni visive, proporzioni di bellezza, strumenti per parlare all’anima. È per questo che i fotografi e gli artisti ancora oggi vi trovano un valore, al di là dei vostri schemi tecnici come RGB o CMYK.

– Quello che lei dice è molto evocativo. Mi viene in mente un fisico moderno, Richard Feynman, premio Nobel per la fisica, noto non solo per le sue scoperte ma anche per la capacità di comunicare la scienza con passione. Egli sosteneva che la bellezza della natura non diminuisce con la conoscenza scientifica, ma anzi cresce: più comprendiamo i meccanismi profondi, più aumenta la meraviglia. Lei, Herr Goethe, come guarda a questa idea di bellezza che nasce dall’intreccio tra conoscenza e stupore?
– Ah, Feynman… un uomo di straordinaria vivacità d’intelletto, mosso da una passione per la scoperta che è di per sé poeta, seppure nel linguaggio dei numeri e delle particelle. Mi risuona particolarmente quel titolo che gli fu dedicato: Il piacere di scoprire. Perché il sapere non è solo una cattura della verità, ma una danza gioiosa nell’ignoto. Ho letto che egli sosteneva che più si scopre, più aumenta la meraviglia, il mistero, l’ammirazione stessa per quel che ci circonda, e che nutriva una profonda onestà intellettuale, pronta a confessare l’ignoranza quando necessario. Un tratto raro: riconoscere che il sapere vero richiede non solo logica, ma stupore. Feynman vedeva nella bellezza della natura – nei suoi schemi eleganti, nelle sue leggi sorprendenti – non una decorazione, ma una guida. Credeva che in questo universo il sapere ci spalancasse la bellezza, rendendo la realtà non meno incantata dell’immaginazione stessa. Io, che ho brandito il pennino e il prisma con pari fervore, comprendo bene: la bellezza non è accessoria nella scienza, ma è segno di quel respiro vitale che lega il cuore dell’uomo alla natura. Feynman la cercava nei grafici, nei calcoli, nelle particelle – io la cercavo nei colori, nei versi, nei fiori –, ma entrambi sognavamo lo stesso: un sapere che fosse anche stupore.

– Herr Goethe, lei non si limitò a osservare i colori. Nei suoi studi botanici parlò anche della “metamorfosi delle piante” e dell’idea di una pianta originaria, la Urpflanze. Che cosa intendeva?
– Io vedevo nelle forme vegetali un principio unitario: foglie, fiori, sepali non erano che metamorfosi di un’unica idea, varianti di una stessa forma primordiale. La chiamai Urpflanze, la pianta originaria. Non la immaginavo come un oggetto reale da trovare in natura, ma come un archetipo che spiega la molteplicità delle forme. Per me, la scienza non era contare petali o descrivere radici, ma cogliere il ritmo profondo della trasformazione. E ancora una volta, ciò che vale per le piante vale anche per la vita umana: cambiamo forma, ma restiamo sempre.

– Il suo eclettismo culturale l’ha portata ad essere viaggiatore, osservatore di popoli e costumi, studioso della natura, fisico e persino chimico. Proprio dalla chimica nasce una delle sue opere più celebri, “Le affinità elettive”. Vuole raccontarci come la scienza si è trasformata in letteratura?
– Nella chimica del mio tempo, il concetto di “affinità” era centrale: le sostanze non si univano a caso, ma seguivano attrazioni precise, come se fossero chiamate l’una dall’altra da un segreto magnetismo. Io vi scorsi un’immagine potente dell’animo umano. Così nacque Le affinità elettive: un romanzo, certo, ma anche un esperimento, in cui gli uomini e le donne diventano elementi di una reazione. Ogni personaggio, come una sostanza, porta con sé un potenziale nascosto che, al contatto con un altro, si libera irresistibile. Lì non c’è solo passione, ma una sorta di legge naturale che governa i rapporti, spesso al di là della nostra volontà. È la stessa forza che nel laboratorio unisce acidi e basi, sali e metalli: un dramma di attrazioni e separazioni. Scrivendo quel libro, non intendevo soltanto raccontare un amore impossibile: volevo mostrare che l’uomo non è separato dalla natura. Le leggi chimiche che osserviamo nelle fiale e nei crogioli parlano anche dei nostri legami più intimi. Scienza e poesia, qui, non si contraddicono: si specchiano l’una nell’altra.

– La sua è una visione alquanto atipica se la confrontiamo con la mentalità chimica moderna, improntata principalmente alla razionalità esasperata. Tuttavia, anche se in modo atipico, lei anticipava l’idea del legame chimico.
– È vero, la mia prospettiva era insolita, ma non priva di fondamento. Nelle Affinità elettive non cercavo di descrivere reazioni in un manuale di laboratorio: volevo mostrare come dietro ogni legame, sia esso tra molecole o tra persone, si celino forze invisibili e potenti. Noi amiamo credere di governare sentimenti e decisioni, ma spesso siamo come elementi che obbediscono a una necessità silenziosa: l’attrazione, il desiderio, la passione. In questo senso, sì, ho anticipato l’idea del legame chimico, ma ho anche voluto suggerire che la chimica non parla solo dei flaconi e dei crogioli, parla anche di noi. È il linguaggio della natura che, con regole misteriose, unisce e separa.

– Herr Goethe, dalle sue parole emerge che per lei la scienza non è mai stata separata dalla vita, dall’arte e dalla poesia. Oggi invece si tende a distinguere nettamente: da un lato le discipline scientifiche, dall’altro quelle umanistiche. Si parla molto di lauree STEM, considerate essenziali, mentre filosofia, letteratura e storia vengono spesso relegate a orpelli marginali. Lei che visione avrebbe di questo rapporto tra saperi?
– Vede, la separazione che oggi amate tracciare tra “scienze” e “umanesimo” mi pare una povertà più che una conquista. La natura non si lascia prendere tutta con il goniometro, né tutta con la lira: chiede entrambe le mani. Con una misurate, con l’altra interpretate. Se togliete il pensiero storico, la lingua, l’etica, la filosofia, la scienza diventa un calcolo senza criterio; se togliete l’osservazione e il metodo, la cultura diventa parola senza mondo. Io stesso non conobbi confini: la Farbenlehre (Teoria dei colori, N.d.A.) nacque da esperimenti e da sguardo educato alle arti; la Urpflanze (La metamorfosi delle piante, N.d.A.) è insieme ipotesi morfologica e immagine poetica; le Affinità elettive prendono dalla chimica una legge di attrazioni e la restituiscono alla vita. Questo non è un capriccio: è il modo in cui la verità si rivela, per metamorfosi, passando da forma a forma senza perdere l’unità. Capisco l’utilità dell’iperspecializzazione: costruisce strumenti fini. Ma gli strumenti, senza un orizzonte, diventano padrini di illusioni. Non crediate che una laurea STEM immunizzi dal delirio: nel vostro secolo ho visto giganti cadere in tentazioni di pensiero ristretto. Pauling innamorato della vitamina C come panacea; Montagnier sedotto dalla “memoria dell’acqua”; Mullis nel negare la relazione fra HIV e AIDS; Watson che piega la biologia a pregiudizi razziali; Zichichi che confonde devozione e prova; Rubbia che sottrae all’uomo la responsabilità del clima. Tutti uomini d’abilità somma! Dunque, non è la tecnica a salvare dall’errore, ma l’ampiezza dell’animo e della mente: capacità di dubitare, di ascoltare i dati e la loro storia, di dare alle parole il peso che meritano. Ricordate: Aristotele fu osservatore prima che sistema; il basso Medioevo, con scuole e traduzioni, preparò il Rinascimento; Galileo non sorge in un deserto, ma in una tradizione che impara a interrogare la natura con esperimenti e con lingua. L’umanesimo scientifico, come oggi lo chiamate, non è un compromesso tiepido: è un principio di fecondità. Date al giovane scienziato algebra e Omero, laboratorio e biblioteca; insegnategli a descrivere con precisione e a chiamare per nome ciò che vede; abituatelo alla bellezza, perché la bellezza è un indizio di ordine, non un fronzolo. La mia massima, se volete, è semplice: lasciate che il prisma e la poesia stiano sullo stesso tavolo. Il primo separa per capire; la seconda ricongiunge per comprendere. Solo così la conoscenza non si fa arrogante e l’incanto non si fa cieco. E la luce – che per Newton si scompone e per me si vive – potrà finalmente illuminare anche gli occhi che la guardano.

– In parole ancora più chiare: come si costruisce un pensiero robusto, secondo lei?
– Un pensiero robusto non nasce mai da un sapere unico, ma dall’intreccio di molti. La matematica vi insegna il rigore, il latino e il greco vi danno la radice delle parole con cui pensate, la poesia vi educa a cogliere sfumature, la storia vi ricorda che non siete soli né primi nel tempo. Chi poi sceglie di specializzarsi deve farlo, certo, ma portando con sé questa ricchezza: è ciò che impedisce all’esperto di diventare cieco al di fuori del suo piccolo campo. Non si tratta di “decorazioni”, ma di fondamenta. Perché un sapere che non sa parlare la lingua dell’altro si impoverisce e si espone all’errore. La scienza senza immaginazione diventa meccanica; l’arte senza conoscenza diventa vuota. Persino nei vostri tempi avete coniato un termine curioso, tricochimica: la chimica del capello. Ebbene, perfino un capello, se osservato con attenzione, può rivelare storie di bellezza, di salute, di vita quotidiana. Questo mi conferma che ogni dettaglio, anche il più minuto, può diventare punto d’incontro fra scienza e umanesimo, se lo si guarda con occhi capaci di vedere oltre la superficie. Un pensiero robusto nasce quando la precisione dei numeri incontra la profondità delle parole, la memoria della storia e perfino i segreti nascosti in un filo di capelli. È allora che lo specialista diventa anche cittadino del mondo: capace non solo di misurare, ma di comprendere.

– Cosa direbbe oggi a un giovane che si avvicina alla scienza?
– Direi: non guardare la natura come un oggetto da dominare, ma come una sorella da comprendere. Coltiva la ragione, ma anche l’immaginazione e la memoria storica: i numeri sono fondamenta, ma senza poesia diventano pietre fredde. Ricorda che ogni scoperta non è solo conquista, ma anche responsabilità. Perché la luce che illumina il mondo non è completa se non illumina anche gli occhi che la vedono, e il cuore che li guida.

L’intervista è finita. Mi sento frastornato e insieme illuminato dalla grandezza della mente di Herr Goethe. Ci stringiamo la mano e mi allontano lungo le strade di Francoforte sul Meno. E mentre penso alle sue parole, che mi serviranno come linee guida per quello che mi resta ancora da vivere, mi preparo all’incontro con l’infinito…

Share