Università per tutti. Considerazioni “qualunquiste”

L’università non fa la felicità

Mi è appena capitato sotto gli occhi un articolo su Linkiesta dal titolo: Avviso ai maturandi: l’università non fa la felicità, anzi [qui].

Leggendolo mi sono venute in mente un po’ di cose, tante considerazioni anche sul mio ruolo di docente e di quello che sono stato prima di esserlo.

E’ vero. Le differenze sociali si possono appianare se il figlio dell’operario è in grado di competere, a livello culturale, col figlio della Contessa o del Dottore.

pezzo di carta

A parità di “pezzo di carta” vale il “merito”. Se il figlio della Contessa o quello del Dottore non sono capaci, ben venga il figlio dell’operario che, invece, quella capacità la ha.

Ciò che non viene considerato nell’articolo de Linkiesta è che “università aperta a tutti” è una locuzione monca. L’università non deve essere aperta a tutti. Cosa manca? Manca un pezzo. Manca la considerazione che l’università deve essere aperta “a tutti coloro che vogliono migliorare”.

Sacrifici

Adesso parlo da docente universitario che ha a che fare con tanti giovani studenti. Lo sono stato anche io. Sono stato studente anche io, intendo. Avevo un sogno: fare il professore universitario; volevo studiare per soddisfare la mia curiosità interna e, poi, condividere con gli altri le cose che mi sembrava di aver compreso. Ho fatto tanti sacrifici e con me anche tutti quelli che, a vario titolo, mi hanno circondato e mi circondano di affetto. Avevo deciso il mio obiettivo e l’ho raggiunto. Oggi sono dall’altro lato della cattedra, ma a quanto ho dovuto rinunciare? A tanto. Anche ad essere una persona diversa da quella che sono oggi.

Motivazione

Ma il punto non è questo. Il punto è che vedo studenti senza motivazione. Vedo studenti che dicono di studiare – e non posso fare altro che prenderne atto – ma che non rendono per quanto dicono di aver studiato. Non si tratta solo di non aver capito un concetto, un passaggio di un libro o una dimostrazione. Si tratta di qualcosa di diverso. Si tratta della consapevolezza di non avere un sogno, un obiettivo da raggiungere. Prendo la laurea. E poi? Cosa faccio? Perché devo dare tanto per raccogliere poco dalla vita se la vita mi riserva un lavoro da centralinista, commesso o “schiavo” sottopagato?

Mancano i sogni. Mancano le motivazioni. Mancano gli obiettivi.

Conclusioni

La laurea, il famoso “foglio di carta”, ha perso di significato non perché sia vuota. Il contenuto lo diamo noi ad un pezzo di carta. Se riesco a prendere la laurea, ma il mio percorso di studi è stato men che mediocre perché mi sono accontentato del minimo ogni volta che ho “tentato” un esame, sarò una persona che nella vita “tenterà” la fortuna davanti ad ogni difficoltà e non avrò alcun obiettivo da raggiungere se non la mera sopravvivenza. Se questi sono i presupposti, allora meglio, molto meglio, essere onesti con se stessi e rinunciare all’università. Un percorso di studi men che mediocre non serve a nulla se non ad alimentare i propri sensi di frustrazione. Lasciamo l’università a chi ha veramente voglia di migliorare se stesso; a chi ha veramente voglia di perseguire un obiettivo nella propria vita. Questo non necessariamente deve essere rappresentato da un lavoro adeguato al proprio piano di studi; l’obiettivo deve essere quello di poter diventare una persona che ha desiderio di migliorare non solo se stessa, ma anche la società in cui si trova a vivere, fornendo il proprio contributo – al meglio delle proprie forze e conoscenze – a tutti coloro che vogliono migliorare a loro volta.

L’immagine di copertina è da qui: http://arte.sky.it/2017/01/il-nord-america-celebra-rodin-a-cento-anni-dalla-scomparsa/

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