Scienza open access e riviste predatorie. Parte I. Il sistema chiuso

L’articolo che leggete è un mio contributo alla Newsletter n. 12  della Società Italiana di Scienza del Suolo. Si tratta della prima parte di un reportage sui predatory journals.

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Oggi la rete internet è alla portata di tutti. Basta pagare un abbonamento flat ad una qualsiasi delle innumerevoli aziende telefoniche del nostro paese per avere un accesso illimitato a siti di ogni tipo, inclusi quelli di carattere scientifico. Tuttavia, chi non fa parte di un ente (pubblico o privato) che ha accesso alle banche dati scientifiche non può scaricare e leggere lavori che non siano di tipo “open access”.

“Open access”. Sembra essere una moda. Anche la valutazione delle università passa attraverso l’esame del numero di pubblicazioni di tipo “open” dei ricercatori che in esse operano. È per questo che tante istituzioni, anche a livello trans-nazionale, invitano i ricercatori a pubblicare su riviste accessibili a tutti. Devo dire che la questione delle pubblicazioni scientifiche accessibili a tutti è un argomento spinoso.

Vediamo perché.

Nel business editoriale scientifico chiuso, gli editori sono gli unici ad attuare una politica di tipo Win1-Win2-Win3-Win4.

La situazione di Win1 si riferisce al fatto che le case editrici fanno pagare al singolo ricercatore il download di un unico articolo da pochi dollari a qualche centinaio. Tuttavia, questo accade quando l’istituzione di appartenenza non ha pagato nessun abbonamento per l’accesso alle riviste di interesse. Nel caso in cui l’istituzione abbia sottoscritto un abbonamento, il singolo dipendente non è costretto a pagare di tasca sua gli articoli che gli servono per tenersi aggiornato. Gli abbonamenti, che in genere sono per pacchetti di riviste che gli enti di ricerca non possono scegliere, costano un occhio della testa. Si parla di decine di migliaia di euro all’anno. Si badi bene: non si possono scegliere le riviste da inserire nei pacchetti. Ma soprattutto, vengono scelti i pacchetti con le riviste più famose e di copertura più ampia possibile. Questo vuol dire che chi si occupa di nicchie di ricerca ha una probabilità molto alta che le riviste che gli interessano non siano comprese nel pacchetto. Questo che sto scrivendo è valido per ogni casa editrice. Quindi considerando che nel panorama scientifico esistono case come la Elsevier, la Springer, la ACS etc., per ognuna di esse bisogna pagare un abbonamento di diverse decine di migliaia di euro. Si fa presto ad arrivare ad un budget di spesa che vola verso le centinaia di migliaia di euro all’anno. Diciamo che non è poco, considerando la crisi permanente in cui versano da anni le casse delle università e degli enti di ricerca italiani.

Ma non è finita. Le case editrici dei sistemi chiusi si trovano anche nella condizione che io definisco di Win-2. In cosa consiste?  Affinché  possa essere pubblicato, uno studio deve essere sottoposto a revisione tra pari. Gli editor-in-chief di ogni rivista chiedono ad esperti di settore di fare la revisione dei lavori. Il punto è che chiedono ai revisori un surplus di lavoro gratuito. Quindi, ognuno di noi si sobbarca l’onere di leggere e commentare nel merito gli studi dei propri colleghi a discapito del poco tempo libero che ognuno di noi ha. E questo gratuitamente. In altre parole, tutti noi prestiamo la nostra competenza professionale alle case editrici senza remunerazione. Perché lo facciamo? La scusa che abbiamo trovato è che il sistema richiede il nostro apporto. Se non lo facessimo, si pubblicherebbe di tutto. Ma mi chiedo: va bene; evitiamo che venga pubblicato di tutto facendo la revisione tra pari. Ma perché gratis? C’è qualcuno che dice che se non fosse gratis, saremmo corruttibili. E su questo avrei qualcosa da ridire considerando gli scandali che stanno venendo fuori nel mondo scientifico in merito ai plagi, alle pubblicazioni con dati inventati e ai cartelli delle citazioni. Ma, per ora, lasciamo perdere questi aspetti. Rimane la domanda: perché lo facciamo? La mia personale opinione è che lo facciamo per avere una parvenza di potere, ovvero per soddisfare il nostro ego ipertrofico che ci fa pensare che siamo i migliori e che più lavori da referare riceviamo, più siamo bravi. Posso dire che ci vuol molto poco a smontare questa convinzione. Basta fare il rapporto tra numero di riviste che nascono ogni giorno e numero di ricercatori. Gioco forza, ognuno di noi è chiamato a fare da revisore ad un certo numero di studi all’anno. Non siamo bravi. Siamo semplicemente troppo pochi rispetto alla quantità di sciocchezze che vengono inviate per la pubblicazione alle riviste scientifiche.

Arriviamo, ora, alla condizione che io definisco di  Win-3. I lavori che vengono inviati alle riviste scientifiche sono finanziati dalle stesse istituzioni che pagano l’abbonamento alle riviste. In altre parole, la mia università paga la mia ricerca attraverso l’erogazione di fondi (minimi e quando sono disponibili) e di stipendio. Io lavoro per la mia università, ma nello stesso tempo lavoro senza remunerazione, attraverso la mia opera di revisore, per le stesse case editrici alle quali invio i miei studi da pubblicare ed ai quali io stesso non posso accedere se la mia università non ha pagato un abbonamento. La cosa è un po’ contorta, se ci pensiamo bene. C’è qualcuno che stampa su carta (oggi potremmo dire pubblica on line) qualcosa che non gli appartiene perché è di proprietà del ricercatore che l’ha pensata e dell’istituzione che paga il ricercatore per pensare. Certo la stampa costa. Costa la carta, costa il personale necessario alla gestione del flusso di lavori in entrata, costa l’elettricità necessaria a sostenere l’organizzazione della casa editrice etc. etc etc. L’unica cosa che non costa è il lavoro di peer review. Ma ne ho già parlato. Sorge una riflessione: se le case editrici di tipo scientifico rientrano in un ambito imprenditoriale, perché non riescono a ricavare introiti dalla pubblicità o dalla vendita al dettaglio dei loro prodotti? In realtà, di pubblicità sulle riviste ce ne è a iosa, quello che manca è la vendita al grande pubblico. Solo alcune riviste di carattere generalista si possono trovare in edicola. Mi riferisco a Science e Nature che molto spesso trovo esposte nelle edicole degli aeroporti. Eppure sarebbe veramente utile, secondo me, vendere al grande pubblico le riviste specialistiche. Pensiamo solo allo sforzo che i più curiosi dovrebbero fare per masticare l’inglese. Si parla tanto del provincialismo degli italiani che non parlano fluentemente l’inglese, ma nessuno ha mai pensato di diffondere al grande pubblico le riviste con contenuti specialistici per incrementare lo sforzo nella lettura dell’inglese. Parliamo tanto dell’analfabetismo di ritorno che porta le persone più impensabili ad essere delle vere e proprie capre in ambito scientifico, e nessuno ha mai pensato che la vendita al dettaglio, al di fuori dei circuiti istituzionali, potrebbe aiutare le persone a ragionare meglio secondo la logica del metodo scientifico. Tutti questi accorgimenti potrebbero forse essere utili per abbassare i costi degli abbonamenti che le istituzioni sono costrette a pagare per leggere gli studi dei propri ricercatori. In ogni caso, io sono un sognatore, non mi intendo di economia e non ho idea se I sogni di cui sto parlando siano realizzabili o meno.

Veniamo ora alla chiusura del cerchio con la condizione Win4 che è un po’ la summa di quanto discusso fino ad ora.  Le case editrici vendono un prodotto che non comprano. La cosa bella è che lo rivendono, a costi maggiorati, agli stessi che gliene fanno dono. Le università pagano i ricercatori per studi che vengono donati alle case editrici. Queste ultime, a loro volta, chiedono agli stessi ricercatori una valutazione gratuita degli studi anzidetti. Infine, ricercatori ed istituzioni devono comprare il prodotto che loro stessi hanno donato. Fa girare la testa, vero?

Come risolvere il problema?

Ne discuto nel prossimo numero della Newsletter.

Note

Articolo apparso nella Newsletter n. 12 della Società Italiana di Scienza del Suolo

Fonte dell’immagine di copertina 

Questo articolo è un aggiornamento ed un approfondimento di quanto scritto qui.

Come funzionano le maschere filtranti

In questi giorni di crisi in cui siamo costretti ad essere chiusi in casa per salvaguardare la salute nostra e di chi ci è caro, ci si annoia, si legge un libro, si gioca al computer, si vede un film, si lavora (i più fortunati come me possono farlo dal computer), si cucina…si fanno, insomma, tutte quelle attività che per i nostri nonni in tempo di guerra  erano “normali”.

In questa situazione di crisi sanitaria capita di vedere di tutto. Quello che colpisce me è il gran numero di persone che fa uso di mascherine anche in situazioni in cui risultano inutili. Quanti di voi hanno visto automobilisti circolare da soli con la mascherina? E quanti sono quelli che portano a spasso il cane indossando la mascherina in zone solitarie dove è facile tenersi a distanze di sicurezza?

Al di là di ogni tipo di considerazione personale in merito all’uso delle mascherine, tutti noi siamo sicuramente venuti a conoscenza delle disposizioni delle autorità sanitarie che raccomandano l’uso delle mascherine solo a persone infette da coronavirus o a coloro che si trovano ad assistere queste persone. Per tutti gli altri le mascherine sono inutili.

Ma ci siamo mai chiesti come funziona una mascherina e perché le autorità danno certi consigli?

Io mi sono chiesto come diavolo funziona una mascherina ed è per questo che scrivo questo post: ho deciso di annoiarvi ancora più di quel che già non siete annoiati cercando di spiegarvi in cosa consiste questo oggetto che viene catalogato sui luoghi di lavoro come “dispositivo di protezione individuale” o “DPI” ed il cui uso è normato dal D.Lgs. 81/08.

Le dimensioni delle polveri sottili

In molti luoghi di lavoro il personale si trova ad operare in presenza di aerosol e polveri sottili. Queste ultime vengono in genere indicate come PMx, dove la x indica le dimensioni delle particelle espresse in μm.

Quando parliamo di aerosol e polveri sottili stiamo intendendo sistemi che, indipendentemente dalla loro composizione chimica, hanno delle dimensioni molto variabili. Se esse sono comprese tra 2 nm e 2 μm stiamo avendo a che fare con sistemi colloidali che rimangono dispersi in aria per effetto delle loro dimensioni. Grazie ad esse, infatti, la forza di gravità non è in grado di prevalere sulle forze dispersive  come, per esempio, la repulsione tra cariche elettriche oppure le interazioni con le molecole di aria. Come conseguenza, le suddette particelle rimangono disperse in aria fino a che non intervengono fattori che consentono alla forza di gravità di predominare e permettere la deposizione al suolo delle stesse.

Le dimensioni delle polveri sottili in parole povere

Per darvi una idea di cosa significhino i numeri scritti sopra, tenete presente che il nm (si legge nanometro) corrisponde ad un miliardesimo di metro, mentre il μm (si legge micrometro) corrisponde ad un milionesimo di metro. Considerando che la lunghezza di un legame chimico, come il legame C-H, è di circa 0.1 nm, ne viene che 2 nm è una dimensione che corrisponde a circa 20 volte la distanza carbonio-idrogeno, mentre 2 μm corrisponde a circa 20000 volte la stessa distanza. Questo non vi dice ancora nulla, vero? In effetti, se uno non ha studiato chimica non si rende conto di quanto sia piccolo un legame chimico. Allora guardiamo la foto di Figura 1. Si tratta di un acaro della polvere le cui dimensioni sono di circa 0.5 mm, ovvero circa 250 volte più grande di 2 μm che rappresenta il limite superiore dell’intervallo dimensionale in cui ricadono le particelle colloidali. La foto di Figura 1 è stata ottenuta al microscopio elettronico. In altre parole, gli acari della polvere non sono visibili ad occhio nudo. Potete, ora, facilmente immaginare che neanche le particelle colloidali lo siano.

Figura 1. Immagine di un acaro della polvere (Fonte)

Mi potreste dire: “ma cosa dici? Non è vero. Io posso vedere le particelle di smog” (queste nell’immaginario comune sono intese come polveri sottili). Mi dispiace informarvi che le particelle che voi vedete a occhio nudo hanno dimensioni molto più elevate di quelle comprese nell’intervallo 2 nm-2 μm (diciamo almeno più di 1000 volte più grandi), mentre le particelle le cui dimensioni ricadono nell’intervallo anzidetto non le potete vedere se non con la microscopia elettronica. Quando le particelle sono così piccole, l’unico effetto visibile è quello che va sotto il nome di “Effetto Tyndall”. In pratica, la luce che “incontra” le particelle colloidali viene dispersa in tutte le direzioni (Figura 2) con la conseguenza che una soluzione appare opaca o l’aria appare “nebulosa”.

Figura 2. Rappresentazione schematica dell’Effetto Tyndall
Ma cosa c’entra questo con le maschere filtranti?

Come vi dicevo, in molti posti di lavoro, il personale entra in contatto con le polveri sottili. Queste sono pericolosissime per noi dal momento che possono innescare tante patologie, prime tra tutte quelle di tipo respiratorio. I datori di lavoro, quindi, sono obbligati a fornire ai propri dipendenti i dispositivi di protezione individuale tra cui le mascherine. Queste sono in grado di filtrare le polveri sottili che sono presenti nell’aria e di impedire che esse vengano inalate. Esistono almeno tre tipologie di maschere filtranti che vengono indicate con le sigle FFP1, FFP2 e FFP3. La sigla “FFP” sta per “Face Filtering Piece” mentre i numeri da 1 a 3 indicano l’efficacia del filtraggio. In particolare, le maschere FFP1 proteggono da polveri atossiche e non fibrogene la cui inalazione non causa lo sviluppo di malattie, ma può, comunque, irritare le vie respiratorie e rappresentare un inquinamento da cattivi odori. Le maschere FFP2 proteggono da polveri, fumo e aerosol solidi e liquidi dannosi per la salute. In questo caso le maschere intercettano anche particelle fibrogene, ovvero sistemi che, a breve termine, causano irritazione delle vie respiratorie, mentre a lungo termine comportano una riduzione dell’elasticità del tessuto polmonare. Le maschere FFP3 proteggono da polveri, fumo e aerosol solidi e liquidi tossici e dannosi per la salute. Queste maschere sono in grado di proteggere da sostanze nocive cancerogene e radioattive.

La protezione assicurata da queste maschere è di tipo fisico. Più spesso è lo strato di materiale filtrante, più efficace è la protezione. Le maschere di tipo FFP1 consentono di “intercettare” particelle più grandi di 5 μm; le maschere FFP2 consentono di “intercettare” particelle di dimensioni maggiori di 2 μm; le maschere di tipo FFP3 sono capaci di “intercettare” particelle di dimensioni  maggiori di 0.6 μm, ovvero particelle di dimensioni circa 1000 volte più piccole dell’acaro in Figura 1. Tuttavia, le particelle colloidali le cui dimensioni sono comprese tra 0.2 nm e 0.6 μm possono ancora arrivare ai nostri polmoni e causare danni.

E virus e batteri?

Come avrete capito, è tutta questione di dimensioni. In genere i batteri hanno dimensioni pari a circa 0.45 μm, mentre i virus dimensioni comprese nell’intervallo 0.020-0.300 μm. Questo significa che nessuna delle mascherine di cui si è discusso finora sarebbe in grado di trattenere sistemi aventi le predette dimensioni. Tuttavia, se virus e batteri “viaggiano” attaccati a particelle colloidali le cui dimensioni sono almeno superiori a 0.6 μm, allora essi possono essere bloccati dalle maschere filtranti di tipo FFP3. In effetti, le case produttrici di mascherine riportano che le maschere di tipo FFP3 vanno bene per proteggere da esposizione a legionella (un batterio largo tra 0.3 e 0.9 μm e lungo tra 1.5 e 5 μm) e virus quali quelli dell’influenza aviaria, dell’influenza A/H1N1, SARS, e tubercolosi. Bisogna comunque tener presente che lo strato filtrante della mascherina tende ad esaurirsi. La maschera perde la sua efficacia e va sostituita. Cosa vuol dire questo? Che le mascherine FFP sono monouso. Se le si usa in città, magari durante una passeggiata, non vi state difendendo da virus e batteri, ma semplicemente dal particolato sospeso dovuto alla contaminazione ambientale.  Quando tornate a casa dovete buttare via la mascherina e sostituirla con un’altra. Se la usate per difendervi da virus e batteri è perché non state facendo una passeggiata in mezzo ai gas di scarico, ma siete operatori sanitari che devono entrare in contatto con le gocce di saliva di pazienti infetti. La maschera, grazie alla sua azione filtrante, impedisce che questi mezzi veicolanti di patogeni finiscano nel nostro organismo. Dopo l’uso, la maschera va comunque buttata via e sostituita.

E le maschere chirurgiche?

Queste non hanno nulla a che vedere con le maschere di tipo FFP. Mentre queste ultime proteggono dall’inalare sistemi tossici, le maschere chirurgiche hanno il compito di impedire che i chirurghi possano contaminare le ferite dei pazienti durante gli interventi chirurgici. Quindi, le maschere chirurgiche servono per difendere il paziente, non il medico.

Mascherina sì, mascherina no?

Alla luce di tutto quanto scritto, ne viene che è meglio tenersi lontani dalle mascherine fai da te: no carta da forno, no assorbenti, no altre robe raffazzonate. Non servono a nulla. L’unico modo per proteggersi da virus e batteri è seguire le istruzioni di chi ne capisce di più, ovvero dell’Istituto Superiore di Sanità.

Altre letture e riferimenti

Se volete conoscere la fonte delle dimensioni dei pori delle maschere filtranti, cliccate qui: https://www.uvex-safety.it/it/know-how/norme-e-direttive/respiratori-filtranti/significato-delle-classi-di-protezione-ffp/ e qui: http://www.antinfortunisticaroberti.it/news-dett.php?id_news=133 

Se volete avere notizie aggiuntive in merito alle caratteristiche delle maschere filtranti, cliccate qui: https://www.lubiservice.it/blog/mascherine-ffp1-ffp2-e-ffp3-differenze-e-consigli

Se volete sapere quali sono i meccanismi di funzionamento di una maschera filtrante, potete accedere a questa interessante serie di diapositive: http://www.ausl.fe.it/azienda/dipartimenti/sanita-pubblica/servizio-prevenzione-sicurezza-ambienti-di-lavoro/materiale-informativo/corso-utilizzo-dpi-per-operatori-dsp-ottobre-2016/faccaili-filtranti-uso-corretto

Se volete conoscere la fonte da cui è presa l’informazione in merito al filtraggio di alcuni  batteri e virus, cliccate qui: https://www.seton.it/dpi-protezione-respiratoria.html

Se volete conoscere la fonte delle dimensioni dei virus, cliccate qui: https://www.chimica-online.it/biologia/virus.htm

Se volete conoscere la fonte delle dimensione del batterio della legionellosi, cliccate qui: http://www.unpisi.it/docs/PUBBLICAZIONI/ARTICOLI/bonucci%20badii%20legionella.pdf

Se volete sapere di più sull’utilità dei DPI, cliccate qui: https://medicalxpress.com/news/2020-03-masks-gloves-dont-coronavirus-experts.html

Fonte dell’immagine di copertina

Ringraziamenti.

Grazie a Paolo Alemanni e Francesca Santagata per avermi aggiornato sulle norme relative alla sicurezza sul lavoro

 

Pillole di scienza. Alla ricerca degli elettroni di Dirac

Cosa è un elettrone di Dirac?

Si tratta di un elettrone che è descritto dall’equazione di Dirac (Figura 1).

Figura 1. Equazione di Dirac

Semplice vero? Certo come no! Questa è la classica spiegazione a ciambella, ovvero un giro di parole che non spiega nulla se non si è un addetto ai lavori.

Cerchiamo di capire cos’è e perché è importante l’equazione di Dirac.

Ormai è noto a tutti che l’inizio del XX secolo è stato molto prolifico in termini scientifici. È nata, infatti, la meccanica quantistica (MQ) grazie alla quale oggi tutti hanno sentito parlare almeno una volta nella vita dell’equazione di Schoeredinger che, tra le tante cose, permette di descrivere il comportamento degli elettroni.

Una delle cose che viene insegnata a livello semplicistico a tutti gli studenti dei primi anni di corsi di studio scientifici è che l’equazione di Schoeredinger permette di definire gli orbitali come quella zona di spazio in cui esiste una buona probabilità di trovare gli elettroni. Come ho già scritto, questa è una supersemplificazione. Tuttavia fatemela passare per buona perché qui non si sta facendo una lezione di meccanica quantistica, bensì si cerca di fare un po’ di divulgazione per avvicinare concetti complessi a chi non è del settore.

Negli stessi anni in cui nasceva e si sviluppava la MQ, nasceva e si sviluppava anche la teoria della relatività ristretta (RR) di Albert Einstein. Questa si basa sostanzialmente su due postulati. Il primo postulato stabilisce che le leggi della fisica sono le stesse in tutti i sistemi di riferimento inerziali, il secondo afferma che la luce si propaga nel vuoto ad una velocità ben definita pari a 2.99 x 108 m s-1.

”Bene. Bravo. Ed ora? Dove vuoi arrivare mettendo assieme MQ e RR?” vi starete chiedendo.

Abbiate un attimo di pazienza, per favore. Lasciatemi ancora poche parole per arrivare al punto.

Meccanica quantistica e relatività ristretta sono due facce della stessa medaglia.

Fin da quando le due teorie, della MQ e della RR, si sono affermate, gli studiosi hanno cercato di unificarle. Tuttavia, tra le tante difficoltà che essi hanno incontrato, una particolarmente “ostica” è stata quella relativa alla asimmetria tra spazio e tempo della teoria di Schoeredinger che mal si conciliava con la simmetria spazio-temporale di Einstein. In altre parole, mentre Schoeredinger trattava spazio e tempo come se fossero due cose distinte e separate, Einstein considerava le dimensioni spaziali alla stessa stregua della dimensione temporale (prego i miei amici fisici di non essere troppo severi con me se sto semplificando troppo. Anzi, vi invito a correggermi se ritenete che io stia andando fuori dal seminato).

Solo Dirac, grazie alla sua genialità, riuscì a risolvere il problema elaborando una equazione (quella dell’immagine di Figura 1) con la quale riuscì a trattare le particelle quantistiche (quindi anche gli elettroni) nel regime relativistico.

Ma allora, a cosa serve sapere cosa sono gli elettroni di Dirac?

L’equazione di Dirac descrive molto bene il comportamento degli elettroni nei semiconduttori ed in sistemi quali il grafene. Per associazione, anche se studi del genere non sono stati ancora condotti, l’equazione di Dirac dovrebbe descrivere bene anche il comportamento di sistemi simil-grafene quali il biochar. Tuttavia, bisogna aggiungere che il numero di tecniche analitiche capaci di confermare sperimentalmente il comportamento degli elettroni secondo Dirac si può contare sulla punta delle dita di una sola mano. Si tratta di tecniche che sono “maneggiate” con una certa familiarità dai fisici, ma che per un chimico sono alquanto “ostiche”.

La risonanza magnetica nucleare (NMR) e gli elettroni di Dirac.

È di pochi giorni fa la notizia che su Nature Communication è apparso uno studio attraverso cui, per la prima volta, sono stati osservati mediante NMR (una tecnica molto amata dai chimici, incluso me che faccio l’NMR-ista sin dal 1992) gli effetti che gli stati elettronici di Dirac (ovvero quelli descritti dall’equazione di Figura 1) hanno sul comportamento dei nuclei di una lega metallica fatta da Bismuto e Tellurio (Bi2Te3) che viene utilizzata come isolante.
Se avete voglia di leggere l’articolo originale basta cliccare sull’immagine qui sotto.

Figura 2. Immagine tratta dall’articolo di Nature Communications.
Ed allora?

Bella domanda. Intanto si aggiunge una nuova tecnica a quelle già usate per lo studio del comportamento degli elettroni e la verifica sperimentale dell’equazione di Dirac. Inoltre, si aprono nuovi scenari per la progettazione di nuovi materiali con proprietà sempre più sofisticate da poter utilizzare nei campi più disparati come la ricerca spaziale o quella medica.

Per approfondire

What the heck is a Dirac electron?

Dirac electrons

The metal-insulator transition depends on the mass of Dirac electrons

Relatività ristretta

Giorgio Chinnici, Assoluto e relativo, Hoepli ed. 

Giorgio Chinnici, La stella danzante, Hoepli ed. 

Fonte dell’immagine di copertina

 

 

 

 

 

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