Bustine di Scienza. Come si scrive un lavoro scientifico? Parte 1. La scelta del titolo

In questo periodo di emergenza e di clausura obbligatoria necessaria per evitare il diffondersi di una epidemia che sta facendo molti morti, ognuno di noi è impegnato in attività che nella vita frenetica pre-pandemia erano passate in secondo piano. Per questo, tra una lezione e l’altra che mi trovo a preparare facendo uso del tablet (sto imparando ad usare il mio tablet in un modo che non avrei mai immaginato), ho deciso di riprendere la rubrica “Bustine di Scienza” e di fornire degli strumenti ready-to-use a tutti coloro che, a vario titolo, studenti in primis, sono coinvolti nella scrittura di un lavoro scientifico (sia esso un rapporto breve, una tesina, una tesi di laurea o un lavoro destinato ad una rivista scientifica vera e propria).

Questa “bustina” è dedicata alla scelta del titolo di un lavoro

Sembra una stupidaggine. Mi direte: ma cosa vuoi che sia un titolo? Beh…posso dire che il titolo è una parte importantissima di un qualsiasi lavoro scritto. Basta ricordare che nella redazione dei giornali esiste la figura  del titolista che ha il compito di “inventarsi” dei titoli per gli articoli che vengono pubblicati. Quante volte avete letto dei titoli acchiappaclick che non avevano alcuna relazione col contenuto dell’articolo stesso? Ecco…questa è una cosa da evitare come la peste. E sapete perché? Perdete di credibilità. Ora…questo può non importare a certi giornalisti privi di scrupoli, ma la credibilità per una persona che vuole entrare nel mondo scientifico è fondamentale. La credibilità è direttamente legata all’etica scientifica, ovvero a tutta quella serie di comportamenti che consentono di affrontare con oggettività, al meglio delle proprie conoscenze, la discussione dei propri dati sperimentali. Affrontare con oggettività la discussione dei propri dati sperimentali significa evitare il cherry-picking e riconoscere i propri bias cognitivi così da evitarli. Significa anche non “innamorarsi” delle proprie idee e rigettarle se esse non sono funzionali alla spiegazione di ciò che è venuto fuori dagli esperimenti. Sapete quanti pseudo scienziati sono quelli che si innamorano delle proprie idee? A me vengono in mente tutti quelli che si dedicano all’omeopatia e non hanno il minimo senso etico a suggerire l’uso di rimedi inutili per la cura di patologie anche gravi (ma ne ho parlato, per esempio, qui).

Cos’è un titolo?

Il titolo deve riportare col più piccolo numero di parole possibile il contenuto del proprio articolo. Esso deve consentire di vendere il prodotto del proprio pensiero al pubblico più ampio possibile, invitandolo alla lettura. Questo è tanto più vero se il lavoro viene indicizzato nei database che non consentono di leggerne l’abstract così da decidere se vale la pena o meno scaricarlo e perdere tempo a trovare le informazioni che si cercano.

Da un punto di vista “operativo” il titolo deve contenere delle parole chiave che descrivano accuratamente quanto contenuto nel lavoro. Le parole chiave sono anche quelle che consentono al lavoro di essere facilmente trovato in una ricerca su internet. Parole chiave inesatte o inaccurate impediscono al lavoro di essere trovato in rete e di raggiungere l’audience desiderata.

Ci sono poche utili regole da seguire per trovare un buon titolo per il proprio lavoro:

  1. Un titolo provvisorio va scritto prima di iniziare la propria elaborazione
  2. È importante non affezionarsi ad esso, ma criticarlo e cambiarlo se non risponde più al contenuto del proprio lavoro
  3. Deve contenere poche parole. Diciamo che al massimo devono essere 10-12 parole
  4. Il titolo deve contenere il messaggio che si vuole dare col proprio lavoro
  5. Bisogna usare come prima parola un termine importante che possa colpire e che possa essere facilmente individuabile nei motori di ricerca
  6. Non bisogna usare nel titolo le parole che poi verranno indicate come key-words. Questo perché le parole contenute nel titolo vengono usate come key-words addizionali a quelle indicate a parte
  7. Bisogna evitare di usare acronimi e non bisogna mai usare cose del tipo “uno studio di…”, “Osservazioni su…”, etc etc
  8. Bisogna evitare le ridondanze
  9. Nei lavori di carattere chimico, non usare la nomenclatura IUPAC, ma il nome commerciale o di uso comune di un determinato composto chimico
  10. Nel caso di lavori divisi in più parti, evitare l’uso dei numeri romani (es. Part II) che possono essere interpretati male in campi di ricerca diversi dal proprio
  11. Verificare, prima di inviare il lavoro, che il titolo rifletta quanto scritto nell’abstract e nel resto del lavoro

    Qui sotto si riportano pochi esempi di titoli di lavori scientifici:


 

 

 

Azoto e nitrogeno. È veramente un errore?

Vi siete mai chiesti da dove originano i nomi degli elementi? Di tanto in tanto me lo sono chiesto anche io. Quando insegnavo la chimica generale e la chimica organica, era divertente sbalordire gli studenti con aneddoti curiosi e carini. Smorza la tensione per la lezione oggettivamente pesante e consente di andare avanti con più leggerezza. Uno degli aneddoti che mi piaceva raccontare, ancora oggi lo faccio se ne ho la possibilità, è quello relativo all’azoto.
L’azoto è un elemento molto importante in natura. E’ presente in tantissimi composti organici che assolvono a funzioni metaboliche importantissime. E’ presente nelle proteine, nel RNA, nel DNA, in molte sostanze che i chimici definiscono composti naturali e compagnia cantando.

Perché si chiama azoto?

Il nome è stato coniato da Lavoisier (https://it.wikipedia.org/wiki/Antoine-Laurent_de_Lavoisier) in Francia: “azote”. Significa “senza vita”. Deriva dal greco in cui al termine “zotos” (che viene da zoe, vivere) si associa la alfa privativa, da cui “a-zoto”, ovvero “azoto”. Sembra un paradosso, vero? Un elemento che è fondamentale per il metabolismo, ovvero per i processi alla base della vita, porta un nome che si riferisce alla morte. Beh, ai tempi di Lavoisier non si conoscevano certo le molecole come si conoscono oggi. Non si conosceva l’importanza di questo elemento nei metaboliti. Si sapeva però che una atmosfera privata di ossigeno provocava la morte, da cui il termine “azote” che in Italiano è diventato “azoto”.

Se il nome è “azoto”, perché ha simbolo “N“?

In realtà,questo elemento ha un nome con doppia etimologia. Il termine “azoto” è usato prevalentemente nei paesi non anglosassoni.
Nei paesi anglosassoni “azoto” è indicato con “nitrogen”. Il nome fu coniato nel 1790 da Chaptal (https://it.wikipedia.org/wiki/Jean-Antoine_Chaptal), un altro chimico francese, che capì che l’elemento era uno dei costituenti del nitrato di potassio, un sale, comunemente noto come “salnitro” ed usato come sapone ai tempi dei Romani. “Nitro”-“gen” vuol dire quindi “genitore” del “nitron”, laddove “nitron” è l’antico nome del nitrato di Potassio.

Paperino e la traduzione sbagliata

In definitiva benché Paperino nella vignetta di copertina si riferisca ad un certo “nitrogeno” commettendo un errore che molti chimici ritengono grave perché in Italiano N = azoto, posso dire che, in realtà, si tratta solo di un errore veniale perché sia “azoto” che “nitrogeno” sono i nomi che possiamo attribuire all’elemento di simbolo “N” con numero atomico 7 e peso atomico 14 g/mol.

fonte dell’immagine di copertina http://scienze-como.uninsubria.it/bressanini/divulgazione/paperino-chimico.html

Scienza patologica

Nel 1953, Irving Langmuir coniò la locuzione “scienza patologica” per indicare le convinzioni pseudo scientifiche dure a morire. In pratica si tratta di una condizione secondo la quale un autore, innamorato delle sue idee, fatica a vedere che le prove sperimentali non confermano il suo modello, ma, anzi, lo smontano di sana pianta. Quando si verifica questa situazione, la perseveranza diventa scienza patologica o quella che oggi può essere chiamata pseudo scienza.  Nell’idea originale di Langmuir, la scienza patologica sí identificava con una involontaria cattiva pratica scientifica per cui uno scienziato non era in grado di distinguere i fatti reali dalla sua immaginazione.

Oggi, ad oltre sessanta anni di distanza dall’introduzione di questa locuzione, il concetto di “scienza patologica” ha assunto significati molto più ampi. Infatti, essa si riferisce non solo alla involontaria perseveranza in posizioni indifendibili attraverso quello che viene indicato come “cherry picking” [1], ma anche alla sciente volontà di perpetrare frode scientifica attraverso l’invenzione ex novo di dati sperimentali, oppure col plagio, oppure con l’approfittare di una propria posizione dominante per imporre la citazione impropria di studi già pubblicati. In quest’ultimo caso la volontà è quella di incrementare artificialmente il fattore di impatto di una rivista oppure quello di uno o più autori particolari [2, 3].

Nonostante l’esecrabilità del comportamento di scienziati che dovrebbero agire con onestà intellettuale il sistema immunitario del mondo scientifico riesce a lavorare bene e ad isolare le mele marce. Ma fino a quando potrà funzionare? Non sarebbe, forse, il caso di cambiare approccio per la valutazione della qualità della ricerca e fare in modo che i parametri quantitativi come impact factor e h-index perdano un poco della loro significatività?

Riferimenti e note

  1. Il cherry picking è l’azione in base alla quale, di un insieme di dati sperimentali, vengono presi in considerazione solo quelli che confermano le proprie idee
  2. http://www.pellegrinoconte.com/2017/03/11/caso-di-scorrettezza-scientifica/
  3. https://www.journals.elsevier.com/geoderma/news/from-the-editors-letter-to-the-geoderma-community

Fonte dell’immagine di copertina: http://www.physics.mcgill.ca/physics-matters/

Università per tutti. Considerazioni “qualunquiste”

L’università non fa la felicità

Mi è appena capitato sotto gli occhi un articolo su Linkiesta dal titolo: Avviso ai maturandi: l’università non fa la felicità, anzi [qui].

Leggendolo mi sono venute in mente un po’ di cose, tante considerazioni anche sul mio ruolo di docente e di quello che sono stato prima di esserlo.

E’ vero. Le differenze sociali si possono appianare se il figlio dell’operario è in grado di competere, a livello culturale, col figlio della Contessa o del Dottore.

pezzo di carta

A parità di “pezzo di carta” vale il “merito”. Se il figlio della Contessa o quello del Dottore non sono capaci, ben venga il figlio dell’operario che, invece, quella capacità la ha.

Ciò che non viene considerato nell’articolo de Linkiesta è che “università aperta a tutti” è una locuzione monca. L’università non deve essere aperta a tutti. Cosa manca? Manca un pezzo. Manca la considerazione che l’università deve essere aperta “a tutti coloro che vogliono migliorare”.

Sacrifici

Adesso parlo da docente universitario che ha a che fare con tanti giovani studenti. Lo sono stato anche io. Sono stato studente anche io, intendo. Avevo un sogno: fare il professore universitario; volevo studiare per soddisfare la mia curiosità interna e, poi, condividere con gli altri le cose che mi sembrava di aver compreso. Ho fatto tanti sacrifici e con me anche tutti quelli che, a vario titolo, mi hanno circondato e mi circondano di affetto. Avevo deciso il mio obiettivo e l’ho raggiunto. Oggi sono dall’altro lato della cattedra, ma a quanto ho dovuto rinunciare? A tanto. Anche ad essere una persona diversa da quella che sono oggi.

Motivazione

Ma il punto non è questo. Il punto è che vedo studenti senza motivazione. Vedo studenti che dicono di studiare – e non posso fare altro che prenderne atto – ma che non rendono per quanto dicono di aver studiato. Non si tratta solo di non aver capito un concetto, un passaggio di un libro o una dimostrazione. Si tratta di qualcosa di diverso. Si tratta della consapevolezza di non avere un sogno, un obiettivo da raggiungere. Prendo la laurea. E poi? Cosa faccio? Perché devo dare tanto per raccogliere poco dalla vita se la vita mi riserva un lavoro da centralinista, commesso o “schiavo” sottopagato?

Mancano i sogni. Mancano le motivazioni. Mancano gli obiettivi.

Conclusioni

La laurea, il famoso “foglio di carta”, ha perso di significato non perché sia vuota. Il contenuto lo diamo noi ad un pezzo di carta. Se riesco a prendere la laurea, ma il mio percorso di studi è stato men che mediocre perché mi sono accontentato del minimo ogni volta che ho “tentato” un esame, sarò una persona che nella vita “tenterà” la fortuna davanti ad ogni difficoltà e non avrò alcun obiettivo da raggiungere se non la mera sopravvivenza. Se questi sono i presupposti, allora meglio, molto meglio, essere onesti con se stessi e rinunciare all’università. Un percorso di studi men che mediocre non serve a nulla se non ad alimentare i propri sensi di frustrazione. Lasciamo l’università a chi ha veramente voglia di migliorare se stesso; a chi ha veramente voglia di perseguire un obiettivo nella propria vita. Questo non necessariamente deve essere rappresentato da un lavoro adeguato al proprio piano di studi; l’obiettivo deve essere quello di poter diventare una persona che ha desiderio di migliorare non solo se stessa, ma anche la società in cui si trova a vivere, fornendo il proprio contributo – al meglio delle proprie forze e conoscenze – a tutti coloro che vogliono migliorare a loro volta.

L’immagine di copertina è da qui: http://arte.sky.it/2017/01/il-nord-america-celebra-rodin-a-cento-anni-dalla-scomparsa/

Bustine di scienza. La creatività

Questa Bustina è dedicata ad una concezione errata che molti – che non hanno familiarità con la scienza – hanno in merito alla creatività in ambito scientifico.

Molte volte leggo o sento dire che gli scienziati non hanno creatività perché sono abituati al pensiero analitico. Il pensiero analitico si sviluppa grazie al fatto che, durante i propri studi, gli scienziati imparano a leggere i numeri ed a ragionare in modo estremamente logico, senza alcuno spazio per voli pindarici.

In realtà questa è una concezione errata che si ha del pensiero scientifico.

In generale, si associa la creatività con il pensiero artistico o quello sportivo, per esempio. Ma pensate veramente che un individuo possa diventare un virtuoso del pianoforte o un eccezionale calciatore senza anni passati ad esercitarsi in noiosi e ripetitivi esercizi musicali o allenamenti? Allo stesso modo, uno scienziato spende la prima parte della sua vita imparando ed esercitando la mente con noiosissimi esercizi analitici. Solo dopo aver creato la base mentale, uno scienziato può dare sfogo alla sua creatività proponendo modi nuovi ed eccitanti di investigare la realtà che ci circonda.

Einstein, che tanto affascina chi la scienza non la vive, non è stato un genio nato dal nulla. Le sue teorie estremamente affascinanti nascono da anni di studi e di esercizi mentali.

Creatività non vuol dire elaborare una teoria attraverso la prima cosa che passa per la testa. Creatività vuol dire proporre soluzioni innovative sulla base di una conoscenza condivisa. La creatività è fondamentale per la scienza. Per esercitarla nel modo corretto, occorre saper leggere le note, saper fare le scale, saper usare la tecnica. Solo dopo aver imparato le basi, ci si può dilettare nella composizione musicale e suonare il jazz.

Bustine di scienza. La popolarità

Inizio una nuova “rubrica” in questo blog dal titolo “Bustine di scienza”. L’idea nasce sulla falsariga delle “Bustine di Minerva” che Umberto Eco scriveva su L’Espresso. L’intento  delle “Bustine di scienza” è quello di fornire delle brevi e semplici informazioni sul metodo scientifico in modo da consentire a quante più persone possibile, principalmente studenti delle scuole inferiori e superiori, di avvicinarsi al fantastico mondo scientifico che ci consente di spiegare come avvengono i fenomeni intorno a noi.

Questa prima bustiona è dedicata alla fallacia secondo cui le teorie scientifiche sarebbero accettate dalla maggioranza della comunità scientifica in base alla loro popolarità.

Non è così.

Sebbene sia possibile leggere ovunque che “la maggioranza degli scienziati è d’accordo che…” non vuol dire che gli scienziati si riuniscano annualmente e decidano per alzata di mano quale debba essere il modello scientifico in voga per quell’anno.

I modelli scientifici non sono approvati in base alla loro popolarità, quanto piuttosto in base alle evidenze in grado di supportarli o di contraddirli.

Una teoria scientifica viene considerata valida dopo anni, talvolta anche dopo decine di anni, una volta che le diverse evidenze che la supportano hanno passato il vaglio critico dell’intera comunità scientifica.

Dire che una teoria è accettata dalla maggioranza degli scienziati, non vuol dire che esiste una comunità che a maggioranza accetta il modello teorico sulla base di gusti personali; vuol dire, al contrario, che la maggioranza degli scienziati ritiene che la teoria descriva accuratamente i fatti osservati.

E la minoranza della comunità scientifica? Semplicemente ritiene che le evidenze a supporto del modello teorico non siano sufficientemente accurate da poter suggerire quella determinata teoria.

Gli scienziati che appartengono a questa minoranza propongono teorie alternative ma sempre partendo dall’osservazione degli stessi fatti.

Vi dice qualcosa la contrapposizione tra i modelli cosmologici in voga qualche secolo fa?

Accanto al modello geocentrico fu sviluppato quello eliocentrico e quello elio-geo-centrico. Tutti i modelli avevano un impianto matematico di tutto rispetto e tutti descrivevano in egual modo gli stessi fatti osservati. Il modello geocentrico e quello elio-geo-centrico furono abbandonati quando nuove osservazioni (quelle di Galileo Galilei) consentirono di dimostrare che la Terra non era il centro di nulla.

Da tutto questo si conclude che i fantomatici ricercatori indipendenti, pseudo-emuli di Galileo Galilei, che propongono teorie alternative per spiegare fenomeni che vedono solo loro (lettura del pensiero, rabdomanzia, telecinesi, fantasmi, paranormale in genere) non sono altro che degli imbonitori che sfruttano l’ingenuità di persone che non hanno strumenti per distinguere fenomeni reali da pura fantasia.

Libertà di espressione

Libertà di espressione

Ho preso l’immagine di copertina da un post del Prof. Burioni. Si evidenzia come un gruppo, non so quanto ristretto, di antivaccinisti convinti stia cercando di attaccare il libro del Prof. Burioni inserendo commenti negativi nella sezione “Recensioni” di Amazon.com. Se il numero di commenti negativi è molto alto, pare che Amazon chieda conto e ragione a chi ha inserito l’articolo in vendita e, se non vengoni fornite spiegazioni convincenti, si può arrivare anche al ritiro dal sito di Amazon.

Inutile dire che sto partecipando anche io alla discussione avendo letto il libro dopo averlo acquistato in libreria. Il tono medio delle risposte che ricevo è di questo tipo:

Commento tipico di un antivaccinista

in altre parole si invoca libertà di giudizio, libertà di opinione e libertà di espressione contro un non  meglio specificato pensiero unico.

Libertà di giudizio, pensiero, opinione, espressione sono tutte sacrosante. Ci mancherebbe altro. Sono, peraltro anche sancite dalla nostra costituzione oltre che da ogni carta per i diritti dell’uomo. Ed è giusto che sia così. Questa è l’essenza del mondo libero: ognuno può dire la sua su ogni cosa.

Qual è il problema?

Il problema è che quando ci si riferisce alle libertà fondamentali dell’uomo non lo si fa considerando il mondo scientifico.

Cerco di spiegarmi meglio perché detta così  sembrerebbe che il mondo scientifico  sia tutt’altro che libero. Non è così. Il mondo scientifico è quanto di più democratico esista. Chiunque, dal grande luminare al più umile degli uomini sono alla pari. Il punto è che questo è vero solo sulla base di un background comune. Nel mondo scientifico a dati e tabelle si risponde con dati e tabelle.

Se mi dicessero che l’acqua non è H2O, ma SiO2, io porterei innanzitutto le analisi a dimostrazione del fatto che la molecola di acqua contiene 2 atomi di idrogeno e uno di ossigeno. Pretenderei, inoltre, che il mio interlocutore, sia  grande luminare che umile ciabattino, portasse altrettante analisi per suffragare la sua affermazione secondo cui la molecola di acqua è fatta da un atomo di silicio e 2 di ossigeno. Questo perché? Perché la formula H2O spiega tantissime cose, mentre quella SiO2 andrebbe contro una serie innumerevole di evidenze. È chiaro che mi aspetto che chi fa certe affermazioni, le faccia in modo circostanziato. Se l’unica argomentazione è che la formula dell’acqua è SiO2 perché  è giusto avere un contraddittorio ed evitare il pensiero unico, ebbene io tratto questo soggetto per quello che è: un emerito ignorante.

E’ vero che la scienza è fatta di contraddittorio, ma è anche vero che il contraddittorio si basa su delle conoscenze di base comuni sulle quali si costruisce il confronto.

Io posso dire che il libro del Prof. Burioni non mi piace perché il colore della copertina non incontra i miei gusti; perché trovo che sia poco maneggiabile oppure perché è scritto male ed io non lo capisco. Ma di certo non posso dire che riporta informazioni false perché per farlo ho bisogno di andare a cercare nella letteratura scientifica gli articoli citati, li devo leggere e capire e poi entrare nel merito dei singoli esperimenti lì descritti. Per fare questo non basta la mia laurea in chimica, il mio dottorato in chimica del suolo ed il fatto che io insegni all’università la chimica del suolo dopo aver insegnato vari anni la chimica organica e la chimica generale. Non basta perché le mie specializzazioni non mi consentono di capire i dettagli dei lavori citati, per cui, come il prof. Burioni si affiderebbe a me per avere un’idea sulla dinamica dei nutrienti nel suolo, io mi devo affidare a lui per avere una idea dell’utilità dei vaccini.

Immaginiamo ora un laureato in giurisprudenza che ha una specializzazione in diritto civile o penale o qualunque altra nel campo legislativo. Immaginiamo anche una persona che, per motivi che non mi interessano, non sia andata a scuola o si sia fermata al diploma superiore. Queste persone sarebbero in grado di giudicare la validità dei dati riportati dal prof. Burioni? Senza una attenta valutazione dei lavori che Burioni cita, l’unica cosa che possono dire è: mi affido alla buona fede ed alla preparazione di Burioni. Invece, queste persone vanno oltre. Il loro malinteso senso della democrazia e della libertà di espressione ed opinione li rende così arroganti da pensare che la loro ignoranza sia del tutto equivalente alla preparazione di chi si esprime nel merito del settore in cui ha passato la vita prima come studente, poi come studioso.

Alla luce di tutto questo posso riaffermare con forza che la scienza è libera e democratica, ma in ambito scientifico il concetto di “democrazia”  o “libertà di espressione” non vuol dire che sono libero di aprire bocca e dire quello che mi pare. Ovvero posso anche farlo, ma devo avere la consapevolezza di poter essere additato come un arrogante ignorante se dico sciocchezze. Se voglio dire la mia liberamente ed essere preso sul serio, lo devo fare con cognizione di causa salendo io sul piano degli esperti e non pretendendo il contrario. Altrimenti meglio stare zitti.

Conclusioni

Quanto ho appena scritto, ai tempi dei miei genitori o dei miei nonni, appariva qualcosa di sensato. Se io non sono esperto di qualche cosa, mi rimetto all’esperto per risolvere un mio problema. Del resto se ho un problema ai tubi di casa chiamo l’idraulico.  Se questi mi dice  che bisogna fare un certo tipo di lavoro, ho due possibilità: accetto quello che mi propone oppure mi rivolgo ad un altro idraulico. Se quest’ultimo mi dà la stessa risposta, prendo atto e confronto i preventivi. Se la risposta è diversa, interpello un terzo idraulico e confronto le risposte. È nel mio pieno diritto stare a sentire più campane e scegliere quella che economicamente è più conveniente. Nel mondo scientifico ed in quello dei vaccini, in particolare, funziona allo stesso modo. Se un insieme di professionisti mi dice che la pericolosità dei vaccini è praticamente nulla e che se si verificasse un inconveniente sarebbe assolutamente sotto controllo, non starei certamente a sentire l’unica voce fuori dal coro che mi dice il contrario. Mi chiederei perché la voce fuori dal coro è tale e lo considererei un ignorante. Questo si chiama buon senso. Purtroppo, però, devo constatare con enorme dispiacere che, al giorno d’oggi, il buon senso è diventato non solo merce rara ma anche un modo di pensare controintuitivo.

 

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