Oli, sali e zuccheri

Oggi ho trovato una bella sorpresa on line. La C1V edizioni ha reso disponibili le presentazioni fatte nel 2018 in occasione del secondo Convegno Nazionale Medicina e Pseudoscienza (CNMP).  Durante il convegno ho fatto una lunga lezione divulgativa sulle false informazioni in merito agli oli, ai sali ed agli zuccheri. Qualche mese dopo avrei pubblicato “Frammenti di Chimica” in cui si trovano molte delle cose che ho detto in quel convegno.
Se volete divertirvi ad ascoltarmi, qui sotto ci sono i miei tre interventi.

Prima parte

Seconda parte

Terza parte

In realtà il congegno del 2018 è stato molto ricco. Hanno partecipato tutti gli scienziati attivi nella lotta alle bufale: da Silvio Garattini a Piero Angela, da Roberto Burioni a Francesco Galassi e tanti tanti altri. Se volete fare un viaggio nel tempo e partecipare al convegno, potete iscrivervi al canale YouTube della C1V e ascoltare tutte le presentazioni. Basta cliccare sull’immagine qui sotto.

 

Glifosato: miti e leggende

Il glifosato oggi rappresenta il demone da sconfiggere.

Ormai giornali di ogni tipo, dai quotidiani a tiratura nazionale ai giornalini di quartiere, fanno a gara ad indicare il Roundup®,  il fitofarmaco che contiene il glifosato quale principio attivo,  come il nemico da sconfiggere perché responsabile di tutti i mali di questa terra.

Un po’ di tempo fa, tempo recente, mi è capitato di leggere in una di quelle pagine di complottisti che imperversano in rete, che il glifosato è responsabile anche dell’insorgenza della pandemia da SARS-CoV-2. Insomma, manca solo il gomito della lavandaia ed il ginocchio del tennista (citazione liberamente ispirata a “Tre uomini in barca per non parlar del cane” di Jerome K. Jerome) per incoronare il glifosato come principe del male.

Chi mi conosce e mi segue da un po’ di tempo, sa che non sono nuovo a prendere posizioni in merito al glifosato. Per esempio, ne parlai già a suo tempo in un articolo che potete trovare qui:

Glifosato sì, glifosato no: è veramente un pericolo?

Un po’ più recentemente, invece, ho anche evidenziato la faziosità di certi scienziati che pubblicano lavori sulla tossicità di questo composto con dubbia (si fa per dire) qualità sia progettuale che sperimentale. L’articoletto lo potete trovare qui:

Il glifosato nei lavori medici

“Allora perché ci ritorni su?”, mi potreste chiedere.

Semplicemente perché ogni tanto bisogna ricordare che la chimica è una scienza e non tiene conto delle opinioni di nessuno, anche se a parlare è un premio Nobel. Le sciocchezze sono tali anche se a dirle è il padreterno sceso in terra. La scienza si basa sui fatti ed i fatti sono quelli che vi descrivo adesso. Peraltro questi sono anche i fatti che racconto ai miei studenti nelle mie lezioni sia di Chimica del Suolo che di Recupero delle Aree Degradate.

Cos’è il glifosato?

Solo per completezza, il nome IUPAC del glifosato è N-(fosfonometil)-glicina. La sua struttura è quella rappresentata in Figura 1.

Figura 1. Struttura del glifosato

Benché nel suo nome compaia il termine “glicina”, che è un amminoacido che assolve a diverse funzioni importantissime nel nostro organismo (Figura 2), esso ha delle funzioni biochimiche che sono completamente diverse da quelle dell’amminoacido glicina.

Figura 2. Funzioni biochimiche della glicina
La via sintetica dell’acido shichimico

Quello che gli scienziati della domenica non sanno, o fanno finta di non sapere, è che esiste una relazione diretta tra struttura ed attività biochimica. Questo vuol dire che la N-(fosfonometil)-glicina non ha le stesse caratteristiche dell’amminoacido da cui essa deriva. Ed infatti, se andiamo a studiare il meccanismo di funzionamento di questo composto, ci accorgiamo che esso è un “competitore” del fosfoenolpiruvato per i siti attivi di un enzima che è coinvolto nel metabolismo dell’acido shichimico (Figura 3).

Figura 3. Processo del metabolismo dell’acido shikimico in cui il glifosato compete con il foosfoenolpiruvato (da: Schönbrunn et al., 2001, Interaction of the herbicide glyphosate with its target  enzyme 5-enolpyruvylshikimate 3-phosphate synthase in atomic detail, PNAS, 98:1376–1380)

Traduco quanto detto in termini più semplici. Il metabolismo dell’acido shichimico è una parte del metabolismo vegetale grazie alla quale le piante sintetizzano degli amminoacidi che abbiamo deciso di chiamare “essenziali”. Ricordo che tutti gli amminoacidi sono importanti perché sono coinvolti nei processi di sintesi delle proteine. Senza certi amminoacidi, proteine che svolgono numerose funzioni importantissime nel nostro organismo non possono essere sintetizzate. Questo implica insorgenza di patologie più o meno mortali.  La “essenzialità” degli amminoacidi citati discende dal fatto che noi animali non siamo in grado di auto-produrceli e li dobbiamo assimilare dalla dieta mangiando proprio i vegetali. Il fatto che noi non auto-produciamo gli amminoacidi essenziali e dobbiamo assumerli dalla dieta, ci consente di intuire immediatamente che nel nostro metabolismo non è compresa la via sintetica dell’acido shichimico. Se noi non “godiamo” di questa meravigliosa (in senso chimico per chi è in grado di apprezzare i passaggi chimici in essa coinvolti) via sintetica, vuol dire che anche tutti gli enzimi che mediano le reazioni comprese nella via dell’acido shichimico non sono presenti nel nostro organismo. In definitiva, quindi,  il glifosato non è in grado di agire nell’organismo umano come fa, invece, nelle piante.

La tossicità del glifosato.

Ora, però, non mettetemi in bocca quello che non ho detto. Ho detto che il glifosato è in grado di inibire la via metabolica dell’acido shichimico, tipica delle piante. Questo non vuol dire che esso non sia tossico ad elevate concentrazioni per gli animali. Infatti, per esempio, recentemente è stato pubblicato un lavoro in cui sono stati studiati gli effetti teratogeni di “dosi da cavallo” di glifosato iniettate direttamente nei feti di alcuni ratti (riferimento). Il lavoro, che immediatamente è stato usato dagli amici della natura (come se gli scienziati odiassero il mondo che li circonda) come cavallo di battaglia per dar contro a tutti quelli che fanno uso di questo erbicida, è stato, in realtà, messo sotto la lente di ingrandimento dalla comunità scientifica a livello mondiale. Ciò che tutti gli addetti ai lavori hanno stigmatizzato è stato l’uso strumentale e fazioso di questo studio che dimostra solo che se i feti vengono esposti a dosi massicce di glifosato subiscono degli effetti deleteri. In altre parole, questo studio non dimostra nulla se non che è la dose che fa il veleno. Ma questo è noto fin dai tempi di Paracelso. In Campania, regione dalla quale provengo, c’è un modo di dire molto caratteristico quando si vuole evidenziare la lapalissianità di uno studio. Tuttavia, per ovvi motivi di decenza, evito di usare il turpiloquio. In ogni caso, per avere un’idea delle critiche circostanziate al lavoro di cui sto parlando, rimando al blog del mio amico Enrico Bucci che ha scritto l’articolo che trovate qui sotto.

Glifosate e bugie

Quanto è tossico il glifosato?

Poco fa ho scritto che il glifosato è tossico ad alte concentrazioni. Ma chiunque mastichi un poco il linguaggio scientifico sa benissimo che “elevato”, “grande”, “piccolo”, “alto”, “basso” etc. sono tutti aggettivi privi di significato. Da un punto di vista scientifico, noi dobbiamo sempre quantificare l’ammontare di un certo composto chimico oltre il quale si possono avere effetti negativi sulla salute. A tale scopo abbiamo definito la cosiddetta LD50, ovvero la dose di composto che somministrata per via orale, per contatto dermale, per inalazione etc. uccide il 50% (ovvero la metà) della popolazione di animali usati come target di riferimento.  Più elevato è il valore della LD50, meno tossico è il composto preso in considerazione se paragonato ad altri composti chimici.  Ed allora se cerchiamo le schede di sicurezza del glifosato e di altri prodotti chimici di uso comune, possiamo elaborare il grafico che è mostrato in Figura 4.

Figura 4. Confronto tra i valori di LD50 del glifosato con quelli di sostanze di uso comune

In questo grafico ho paragonato la tossicità orale (espressa in milligrammi di principio attivo per chilogrammo in peso dei target animali usati per misurare la LD50) del glifosato con quella dell’acido acetico (presente nell’aceto), dell’acido citrico (presente negli agrumi), dell’alcol etilico (presente, per esempio, nei vini), dell’aspirina, dell’ibuprofene (il principio attivo dell’OKI o del Moment, farmaci di uso comune), della caffeina (presente nel thé e nel caffè) e della nicotina (presente nelle foglie di tabacco). A colpo d’occhio si evidenzia subito che il glifosato è molto meno tossico (il valore della LD50 è il più alto) di composti che vengono ritenuti innocui. Evidentemente, l’esposizione mediatica a cui è stato sottoposto il glifosato negli ultimi anni, ha alterato sia la percezione del pericolo che quella del rischio legate all’assunzione per via orale dell’erbicida rispetto a quella di altri sistemi di uso più comune e quotidiano.

Pericolo e rischio: una definizione

Occorre sottolineare per i non addetti ai lavori che pericolo e rischio non sono sinonimi e non possono essere considerati interscambiabili. Riprendendo una bella definizione che ho trovato sul sito della Società Chimica Italiana (qui), il pericolo è una qualità intrinseca di un determinato fattore avente il potenziale di causare danni​, mentre il rischio è la probabilità di raggiungere il livello potenziale di danno nelle effettive condizioni di impiego​. In altre parole, un composto può essere pericoloso ma non rischioso, ossia avere una valenza mortale ma non essere concentrato a sufficienza. Come detto in precedenza: è la dose che fa il veleno​.

A cosa è dovuta la tossicità del glifosato?

In realtà, sarebbe meglio chiedere a cosa non è dovuta la tossicità di tale principio attivo. Infatti, girando un po’ per la rete internet, è venuto fuori che quando la concentrazione di glifosato supera certe dosi, esso compete con l’amminoacido glicina per la sintesi proteica. Avendo una struttura un po’ diversa dalla glicina, le proteine che si ottengono hanno delle conformazioni (ovvero delle caratteristiche strutturali tridimensionali) che non le rendono adatte ad assolvere i compiti per cui esse sono sintetizzate. Si innescano, quindi, patologie mortali. Devo dire la verità. Leggendo questa informazione ho ritenuto che essa fosse verosimile. In realtà, sicuro di me, ho dimenticato che la chimica è una scienza e, per questo, prima di ritenere verosimile una informazione occorre andare a verificare da dove questa informazione è scaturita. Ebbene, devo aggiungere che studiare per scrivere gli articoli in questo blog mi fa bene. Infatti, proprio per cercare le fonti della notizia in merito alla competizione glicina/glifosato, mi sono imbattuto in un bellissimo studio dal titolo: “Glyphosate does not substitute for glycine in proteins of actively dividing mammalian cells”. Il lavoro lo potete scaricare liberamente cliccando direttamente sull’immagine di Figura 5.

Figura 5. Studio in cui si dimostra che glicina e glifosato non competono tra loro per la sintesi proteica

In questo lavoro si evidenzia che la intercambiabilità glicina/glifosato è un mito. Una falsa informazione messa in giro ad arte per supportare delle posizioni antiscientifiche. Per semplicità riporto solo le conclusioni, piuttosto chiare, presenti alla fine dell’abstract dello studio anzidetto: “the assertion that glyphosate substitutes for glycine in protein polypeptide chains is incorrect“. Come potete leggere voi stessi, gli autori parlano di “assertion” che in inglese vuol dire “a declaration that is made emphatically (as if no supporting evidence were necessary)” (da: “Advanced English Dictionary and Thesaurus”, app per iPad).   In conclusione, se navigando in rete vi imbattete in qualcuno che dice che il glifosato si sostituisce alla glicina, potete cancellare la pagina dalla memoria del computer. Se invece leggete la notizia sulla stampa…beh…sapete adesso che potete bruciare quel giornale. Se è un vostro amico/contatto in Facebook…cancellatelo. Non vale la pena leggere quello che scrive.

Ma allora come funziona il glifosato negli animali?

La mia risposta è: non lo so. Non ho la più pallida idea di quali siano i meccanismi chimici alla base della tossicità del glifosato oltre una certa dose limite. Fino ad ora, per quanto ho potuto verificare in rete, sono pubblicati lavori che riportano di effetti negativi e fanno ipotesi (per esempio qui) che non sono sperimentalmente verificate se non in vitro. L’unica cosa che mi è chiara è che il glifosato può complessare micronutrienti metallici che funzionano da co-fattori in molti processi metabolici inibendone, quindi, l’utilizzo negli enzimi in cui essi dovrebbero essere presenti. Ma questa è una informazione che potete già leggere nel mio articolo del 2017 (qui) e che riprende le conclusioni di un lavoro del 2013 che potete liberamente scaricare qui. Peraltro, la particolare natura chimica del glifosato lo rende molto polare e, di conseguenza, particolarmente solubile in acqua. Come spiega Donatello Sandroni nel suo libro “Orco glifosato“, esso viene espulso per 2/3 nelle feci e 1/3 nelle urine​. In altre parole, se rimaniamo al di sotto delle concentrazioni limite previste per legge (in Europa la concentrazione limite assimilabile dagli organismi umani è 0.3 mg/kg/d​), il glifosato non si accumula nell’organismo.

Da tutto quanto avete letto fino ad ora, appare chiaro che non è possibile semplificare il comportamento del glifosato quando entra a contatto con il nostro organismo. Dire che il glifosato è un demone che innesca patologie di ogni tipo, semplicemente non corrisponde a verità.

Perché si possa avere un effetto tossico è necessario superare di gran lunga le soglie limite di cui abbiamo discusso fino ad ora.

Dalla Figura 4 abbiamo imparato che la LD50 di glifosato per assunzione orale è di 5 g per kg di peso corporeo. In altre parole, per cominciare ad avere effetti negativi un individuo di peso medio pari a 80 kg deve ingerire almeno 400 g di glifosato in un unico shot. Ma adesso abbiamo anche imparato che il limite massimo di glifosato che un individuo può assumere ogni giorno è 0.3 mg/kg. Se una persona pesa 80 kg, può ingerire al massimo 24 mg di glifosato al giorno. In altre parole si tratta di una quantità di glifosato circa 200 volte inferiore a quella necessaria per avere problemi di salute.

Impatto ambientale del glifosato.

Uno dei problemi che vengono spesso presi in considerazione da chi demonizza il glifosato è legato alla sua persistenza al suolo che influenzerebbe la comunità microbica presente ed al fatto che è solubile in acqua per cui può facilmente arrivare a contaminare le acque potabili.  In realtà anche quella appena indicata è una semplificazione del comportamento del glifosato. Essa è fatta in modo strumentale e fazioso ad uso e consumo di chi, non avendo strumenti adeguati, non può comprendere a fondo che si tratta di mezze verità.

Il glifosato (con la struttura rappresentata in Figura 1) è una molecola che ha almeno tre siti con i quali si può agganciare alle componenti organiche ed inorganiche presenti nei suoli. Questo, da un punto di vista ambientale, vuol dire che esso può essere lisciviato verso le falde acquifere abbastanza difficilmente rimanendo a disposizione dei microorganismi del suolo che lo possono degradare a molecole più semplici e meno tossiche. Infatti, è noto già da parecchio tempo (per esempio qui) che il glifosato subisce nei suoli processi di degradazione microbica, mentre sono poco importanti quelli di tipo fotochimico (ovvero ad opera della luce del sole) e meccanico (ovvero ad opera delle lavorazioni del suolo). È, comunque, anche vero che l’elevata solubilità del glifosato in acqua possa portare a dei concreti problemi alle forme di vita acquifere qualora esso fosse utilizzato in prossimità di tali fonti. In ogni caso, i microorganismi che vivono in acqua possono “lavorare” come quelli terrestri per decomporre il glifosato a sistemi più semplici e meno tossici. In altre parole, sia che finisca in acqua, sia che finisca al suolo, il glifosato non rimane in quei comparti a tempo indefinito, ma viene degradato microbiologicamente. Il problema è capire quali sono le concentrazioni limite di glifosato oltre le quali l’attività dei microorganismi viene inficiata. Vi ricorda qualcosa? Ma certo. È la dose che fa il veleno. Oltre un certo limite il glifosato diventa tossico anche per i microorganismi. Questo vuol dire che per evitare problemi di tipo ambientale non possiamo usare il glifosato tutti i giorni a tutte le concentrazioni possibili. Occorre una gestione oculata dell’uso di tale erbicida. Del resto…voi mangereste una sacher torte da 5 kg tutta assieme sapendo che subito dopo dovreste essere portati in pronto soccorso per intossicazione alimentare? Non è meglio centellinare la torta in modo da evitare i problemi di salute e godere del dolce per un tempo più prolungato?

Adesso permettetemi di entrare in qualche dettaglio chimico che mi serve per capire cosa bisogna fare per progettare un uso oculato del glifosato.

Volete sapere come si degrada nei suoli il glifosato? Seguendo lo schema della Figura 6.  Qui, il pathway più importante è quello riportato nella parte sinistra della figura.

Il glifosato viene prima degradato ad acido amminometilfosfonico  (AMPA) ed acido gliossilico. Mentre il primo viene trasformato in fosfato e metilammina e quest’ultima in ammonio ed anidride carbonica, l’acido gliossilico si ossida completamente ad acqua ed anidride carbonica. In definitiva i prodotti finali di questa via di degradazione sono fosfato, ammonio, anidride carbonica ed acqua.

Il meccanismo di degradazione riportato nella parte destra di Figura 6 è stato individuato in laboratorio ed avviene ad opera di microorganismi che vengono isolati dal suolo e studiati in vitro. In pratica, il glifosato viene decomposto a fosfato e sarcosina. La sarcosina viene, poi, trasformata in glicina.

Figura 6. I due pathway di degradazione del glifosato. Il primo a sinistra è la via biochimica che avviene nei suoli, il secondo a destra è la via biochimica che è stata studiata in microorganismi isolati dal suolo e studiati in vitro (da Giesy et al., 2000, Ecotoxicological risk assessment for Roundup® herbicide, Rev. Environ. Contam. Toxicol., 167: 35-120)

Il meccanismo di degradazione riportato a sinistra nella Figura 6 si può semplificare anche in questo modo: G→A→M, dove la G indica il glifosato, la A l’acido amminometilfosfonico e la M la metilammina. Se facciamo l’assunzione che la velocità di degradazione da G ad A e da A a M segua in entrambi i casi una cinetica del primo ordine, dopo calcoli più o meno complicati, si ottengono delle equazioni che possono essere graficate come in Figura 7.

Figura 7. Variazione della quantità di glifosato (curva e punti in blu) e acido amminometilfosfonico (curva e punti in arancione) nel tempo dopo deposizione al suolo di 193 mg ha-1 di una soluzione di Roundup® con concentrazione di principio attivo pari a 57.1 mM.

La curva blu indica la scomparsa nel tempo del glifosato, mentre quella in arancione l’andamento temporale di AMPA. La concentrazione di quest’ultimo prima aumenta, poi, man mano che il glifosato diminuisce, comincia a diminuire perché i microorganismi del suolo cominciano ad utilizzarlo come nutrimento per ricavare energia per il loro metabolismo.

Nelle condizioni descritte nella didascalia della figura, occorrono circa 100 giorni per arrivare a un contenuto di glifosato pari a circa 20 mg ha-1, mentre ne occorrono circa 250 per arrivare ad una analoga concentrazione di AMPA.

I diagrammi di Figura 7 sono stati ottenuti utilizzando i parametri dei suoli forestali riportati in Giesy et al., 2000, Ecotoxicological risk assessment for Roundup® herbicide, Rev. Environ. Contam. Toxicol., 167: 35-120. Questo vuol dire che a seconda del pH, temperatura, tessitura etc (ovvero le caratteristiche dei suoli soggetti alla contaminazione da glifosato), le tempistiche di degradazione possono cambiare.

Come va usato il glifosato?

Alla luce di quanto scritto fino ad ora, possiamo dire che le applicazioni di glifosato devono essere progettate in modo tale da tener conto delle caratteristiche chimico fisiche dei suoli sui quali esso verrà applicato. Due applicazioni successive non si possono fare a pochi giorni di distanza. Occorre attendere che i microorganismi facciano il loro “lavoro” portando la concentrazione dei contaminanti a livelli predefiniti, prima di poter fare una seconda applicazione.

Conclusioni

Da tutto quanto scritto in questo articolo, si capisce che non è il glifosato ad essere un problema. I problemi sono l’ignoranza e la superficialità che impediscono di capire che, se non si seguono le indicazioni degli esperti nell’uso di un erbicida, si possono avere seri problemi sia ambientali che di salute.

Cosa rispondere a tutti coloro che sono per il “NO” a tutto? Semplicemente che devono studiare. Il “no” non risolve i problemi, anzi li incrementa. La semplificazione estrema di cui essi si fanno portavoce, non consente di comprendere che i problemi ambientali (e non solo quelli) sono complessi. Problemi complessi ammettono solo risposte/soluzioni complesse.

Immagine di copertina: By W.carter – Own work, CC0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=86493357

Così riciclò Bellavite

di Enrico Bucci, Pellegrino Conte, Salvo Di Grazia

Riassunto

Il plagio scientifico è un problema attuale e molto studiato. Consiste nel copiare e usare di nuovo, riciclare, intere parti di uno studio per comporne uno diverso. Come si può capire, questo è un comportamento molto scorretto, dannoso per la ricerca e che dimostra atteggiamento antiscientifico, tanto da essere considerata una vera e propria forma di frode scientifica, perché con il plagio si “gonfia” l’evidenza a favore di una propria idea. Questo comportamento può avvenire o con il riciclo di propri lavori o con quello di altri ed è spesso usato in studi di basso livello e in riviste predatorie, allo scopo di aumentare il numero di propri lavori (visto lo sforzo minimo nel produrre studi “copiati”). Ovviamente, per definire “plagiato” o riciclato uno studio, esistono diversi criteri e anche dei software che li analizzano automaticamente. Devono essere ripetute un certo numero di parole, di frasi, di successioni di frasi, con regole stabilite e precise. Analizzando uno degli ultimi studi sugli effetti dell’omeopatia si è scoperto come questo fosse successo in maniera ripetuta ed estesa, soprattutto da quando l’autore ha pubblicato in riviste predatorie. Utilizzando un software (ithenticate o altri, ma si può verificare anche personalmente, vista l’entità del gesto) si noteranno ripetuti blocchi di testo riciclati nei vari studi dell’autore, cosa ripetuta nel tempo. Un altro aspetto preoccupante emerso da questa analisi è il fatto che l’autore ha deliberatamente eliminato informazioni importanti nei testi da lui usati per le pubblicazioni, informazioni che cambiano radicalmente le caratteristiche degli studi e quindi le conclusioni che lui descrive in maniera personale e non attinente alla realtà. Stiamo analizzando quindi un vero e proprio lavoro di manipolazione dei dati non dichiarato, fatto molto grave e da rendere pubblico; se poi l’abbondante riciclo di testo ritrovato costituisca plagio e frode scientifica, lo lasciamo decidere al lettore.

Introduzione

Una delle tecniche attraverso le quali la pseudoscienza manipola l’evidenza ad essa favorevole è quello di utilizzare riviste cosiddette “predatorie” per ingrossare le fila delle pubblicazioni in supporto. Queste riviste hanno la precipua caratteristica di garantire la pubblicazione di qualunque sciocchezza in cambio di denaro, producendo dei documenti che hanno tutta l’apparenza di pubblicazioni scientifiche, salvo il fatto che essi non sono passati attraverso una revisione dei pari (peer review) degna di questo nome, e dunque sono privi di ogni garanzia di qualità.
È questo il caso dell’ultima pubblicazione in supporto dell’uso dell’omeopatia prodotta dal pensionato ed ex medico Paolo Bellavite, il quale crede di poter dare supporto all’uso dell’omeopatia invece che degli antibiotici anche nell’otite media acuta, la condizione che ha portato a morte il piccolo Francesco a cui il medico omeopata Mecozzi ha negato gli antibiotici in favore di rimedi omeopatici.
Questa pubblicazione, approvata in una settimana dalla sottomissione, è stata già analizzata da due gruppi del Patto Trasversale per la scienza, dedicati rispettivamente all’omeopatia e all’integrità nella ricerca scientifica, che ne hanno sottolineato le numerose manchevolezze anche di contenuto; tuttavia, un aspetto finora non è stato trattato, e sarà discusso di seguito.
Detta in due parole, la review risulta consistere in un pastiche di testi riciclati molteplici volte, le cui fonti temporalmente più prossime sono lavori dello stesso Bellavite, ma che in realtà possono essere ricondotti originariamente a testi di altri autori.
Inoltre – e questo è forse un aspetto ancora più grave – vi sono alcune evidenze di riuso selettivo dei testi originali, fatto in modo da distorcerne gravemente il significato originario e da fornire evidenze inesistenti alle ipotesi di Bellavite che l’omeopatia sia migliore del placebo – una forma di falsificazione inaccettabile.
Attraverso questi due mezzi – la pubblicazione predatoria e il riutilizzo di materiali già pubblicati, anche dagli stessi autori – si ottiene il doppio scopo di produrre lavori apparentemente “nuovi” in supporto dell’omeopatia e di aumentare citazioni e impatto dell’autore principale, il quale non a caso ha anche recentemente vantato il suo H-index rispetto a quello di altri ricercatori critici del suo lavoro.

Riciclo testuale in Bellavite et al., 2019: analisi generale

Una semplice analisi mediante software (ithenticate) permette di identificare larghe porzioni di testo riciclate all’interno del lavoro in questione. Di seguito sono mostrate le aree di testo riciclate per ciascuna pagina, colorate secondo il gruppo di fonti che le contiene; le pagine della review sono mostrate consecutivamente in gruppi di tre. Si noti che per l’analisi sono state considerate solo quelle fonti che contengano almeno 100 parole in comune con la review in analisi, e non sono stati considerate valide identità testuali di meno di 5 parole consecutive. Dall’analisi è stata ovviamente esclusa la bibliografia della review.

Sebbene soventemente il software utilizzato possa non riconoscere alcune identità testuali – per esempio le parole spezzate per andare a capo interrompono il riconoscimento– si può notare che la gran parte del testo risulta ripreso da fonti precedenti.
In particolare, le zone evidenziate in rosso ed in magenta nel testo di Bellavite risultano essere presenti reiteratamente nelle seguenti fonti dello stesso autore:

  1. Bellavite P, Marzotto M, Chirumbolo S, Conforti A. Advances in homeopathy and immunology: A review of clinical research. Front Biosci – Sch. 2011;3 S(4):1363-1389.
  2. Bellavite P, Chirumbolo S, Magnani P, Ortolani R, Conforti A. Effectiveness of homeopathy in immunology and inflammation disorders: a literature overview of clinical studies. Homoeopath Herit. 2008;33(3):35-58.
  3. Bellavite P, Ortolani R, Pontarollo F, Piasere V, Benato G, Conforti A. Immunology and homeopathy. 4. Clinical studies – Part 1. In: Evidence-Based Complementary and Alternative Medicine. Vol 3. ; 2006:293-301.

Come è agevole notare, si tratta del grosso del testo della review; in particolare, la prima delle fonti elencate, che possiede la maggior quantità di testo in comune con la successiva review del 2019, già include 20 dei 41 lavori poi selezionati per la review del 2019, utilizzando nelle descrizioni identico testo.

Le due pubblicazioni più recenti (la prima e la seconda), come la review del 2019 che ne ricicla il testo, sono pubblicate su riviste che non sono nemmeno indicizzate da PubMed. La cosa è particolarmente interessante, in quanto nella review che qui si analizza, per giustificare il fatto che i lavori non indicizzati su PubMed non saranno considerati nell’analisi, è scritto testualmente:

“Our previous systematic review on the effect of homeopathy in immunological disorders also included non-peer-reviewed papers published until 2010, but in this report we have restricted the report to clinical trials and observational studies cited by PubMed, which is considered the most important search system of bibliographic resources, also for homeopathy and other CAMs [38-40]. As it is known (see for example https://www.nlm.nih.gov/lstrc/jsel.html), the scientific merit of a journal’s content is the primary consideration in selecting journals for indexing in PubMed, especially on the explicit process of external peer review and adherence to ethical guidelines. The publication of a paper in a journal cited by PubMed is not in itself a guarantee of quality, but it can be considered an important criterion of validity, since it is certain that the work was judged by experts in the field before is accepted.”

Peraltro, a parte l’indicizzazione su PubMed, va detto che il lavoro del 2011, come quello del 2019, è pubblicato su rivista predatoria.

Quello del 2008 è pubblicata sulla rivista di un editore indiano, sospetta ed infatti non presente nel DOAJ (Directory of Open Access Journals); infine, il lavoro del 2006 è stata pubblicato da un giornale del gruppo egiziano Hindawi, considerato almeno fino al 2010 predatorio[1] (e successivamente border-line).

Se si considerano oltre alle tre principali anche tutte altre le fonti identificate (cioè tutte le sorgenti per il testo colorato sovrapposto alle pagine della review nelle figure precedenti), appare evidente che la review del 2019 è ridondante, in quanto ricicla in massima parte identici testi precedenti (come visto, spesso pubblicati su riviste di bassa qualità o francamente predatorie).

Riciclo testuale in Bellavite et al., 2019: modus operandi

La semplice analisi delle parti di testo riciclate, illustrata nella sezione precedente, non consente di identificare agevolmente se il riciclo testuale sia abitudine consolidata o eccezione da parte degli autori in questione.

Uno studio più approfondito, di tipo filogenetico, prevede l’identificazione delle eventuali sequenze di riciclo che hanno portato fino al testo che appare nella review del 2019. A titolo di esempio, si illustrerà quanto emerso per la pagina 5 della review in esame.

Il testo principale può essere considerato diviso in 4 blocchi, secondo la sua provenienza originale, come illustrato nell’immagine di seguito.

 

Per quanto riguarda il BLOCCO 1, esso risulta derivare attraverso 4 passaggi successivi di riciclo da un testo di Bellavite et al. del 2006, come illustrato nei passaggi indicati tra le linee tratteggiate di seguito (parti conservate con la review del 2019 in rosso; in blue parti originariamente conservate, che successivamente si perdono nei vari passaggi).

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Bellavite P, Ortolani R, Pontarollo F, Piasere V, Benato G, Conforti A. Immunology and homeopathy. 4. Clinical studies – Part 1. In: Evidence-Based Complementary and Alternative Medicine. Vol 3. ; 2006:293-301.

De Lange de Klerk (62) performed a double-blind, randomized study that evaluated the frequency, duration and severity of rhinitis, pharyngitis and tonsillitis in a group of children. The homeopathic prescription included ‘constitutional’ remedies for preventive purposes and remedies treating acute phases. The year-long therapy was continuously adjusted on an individual basis, and data were collected by means of diaries kept by parents and attending physicians. Results showed that homeopathic therapy was slightly but not significantly better than placebo.

Bellavite P, Chirumbolo S, Magnani P, Ortolani R, Conforti A. Effectiveness of homeopathy in immunology and inflammation disorders: a literature overview of clinical studies. Homoeopath Herit. 2008;33(3):35-58.

De Lange et al. (45) carried out a double-blind, randomized study which they evaluated the frequency, duration and severity of rhinitis, pharyngitis and tonsillitis in a group of childrenThe homeopathic prescription included “constitutional” remedies for preventive purposes and remedies for the treatment of acute phases. The year-long therapy was continuously adjusted on an individual basis, and the data were collected by means of diaries kept by the parents and attending physiciansThe results showed that the homeopathic therapy was slightly but not significantly better than placebo: the mean number of infective episodes was 7.9/year in the treated group and 8.4/year in the control group. The children in the active group experienced episodes that were generally shorter and less severe, and were disease-free for 53% of the days (as against 49% in the placebo group)

Bellavite P, Marzotto M, Chirumbolo S, Conforti A. Advances in homeopathy and immunology: A review of clinical research. Front Biosci – Sch. 2011;3 S(4):1363-1389.

Individualized homeopathy

De Lange and coworkers (38) carried out a double-blind, randomised study in which they evaluated the frequency, duration and severity of rhinitis, pharyngitis and tonsillitis in a group of childrenThe homeopathic prescription included “constitutional” remedies for preventive purposes and remedies for the treatment of acute phases. The year-long therapy was continuously adjusted on an individual basis, and the data were collected through diaries kept by the parents and attending physicians. The results showed that the homeopathic therapy was slightly but not significantly better than the placebo: the mean number of infective episodes was 7.9/year in the treated group versus 8.4/year in the control group. The children in the active group experienced episodes that were generally shorter and less severe; the percentage of children not requiring antibiotics was 62% for homeopathy against 49% for conventional therapyThe authors conclude that the differences between the two treatments are interesting but slight.

Bellavite P, Marzotto M, Andreoli B. Homeopathic Treatments of Upper Respiratory and Otorhinolaryngologic Infections: A Review of Randomized and Observational Studies. Altern Complement Integr Med. 2019;5(2):1-20.

Randomized Trials of Individualized homeopathy

De Lange and coworkers carried out a double-blind, randomized study which they used to evaluate the frequency, duration and severity of rhinitis, pharyngitis and tonsillitis in a group of children [44]. The homeopathic prescription included “constitutional” medicines for preventive purposes and medicines for the treatment of acute phases. The year-long therapy was continuously adjusted on an individual basis, and the data was collected by means of diaries kept by the parents and attending physicians. The results showed that the homeopathic therapy was slightly but not significantly better than the placebo: the mean number of infective episodes was 7.9/year in the treated group and 8.4/year in the control group. The children in the active group experienced episodes that were generally shorter and less severe; the percentage of children not requiring antibiotics was 62% vs. 49% in homeopathy and conventional therapy respectively. The authors concluded that the differences between the two treatments were interesting but small (odds ratio favoring homeopathy versus placebo: 1.67, 95% CI: 0.96-28.9).

Per quanto riguarda il BLOCCO 2, esso risulta derivare attraverso 5 passaggi successivi di riciclo da un testo di Jacobs et al. del 2001, come illustrato di seguito

Jacobs J, Springer DA, Crothers D. Homeopathic treatment of acute otitis media in children: A preliminary randomized placebo-controlled trial. Pediatr Infect Dis J. 2001;20(2):177-183.

METHODS:

A randomized double blind placebo control pilot study was conducted in a private pediatric practice in Seattle, WA. Seventy-five children ages 18 months to 6 years with middle ear effusion and ear pain and/or fever for no more than 36 h were entered into the study. Children received either an individualized homeopathic medicine or a placebo administered orally three times daily for 5 days, or until symptoms subsided, whichever occurred first. Outcome measures included the number of treatment failures after 5 days, 2 weeks and 6 weeks. Diary symptom scores during the first 3 days and middle ear effusion at 2 and 6 weeks after treatment were also evaluated.

RESULTS:

There were fewer treatment failures in the group receiving homeopathy after 5 days, 2 weeks and 6 weeks, with differences of 11.4, 18.4 and 19.9%, respectively, but these differences were not statistically significant. Diary scores showed a significant decrease in symptoms at 24 and 64 h after treatment in favor of homeopathy (P < 0.05). Sample size calculations indicate that 243 children in each of 2 groups would be needed for significant results, based on 5-day failure rates.

Bellavite P, Ortolani R, Pontarollo F, Piasere V, Benato G, Conforti A. Immunology and homeopathy. 4. Clinical studies – Part 1. In: Evidence-Based Complementary and Alternative Medicine. Vol 3. ; 2006:293-301.

A randomized double-blind placebo control pilot study was conducted (66) in children with otitis media. Subjects having middle ear effusion and ear pain and/or fever for no more than 36 h entered into the study. They received either an individualized homeopathic medicine or a placebo administered orally three times daily for 5 days, or until symptoms subsided. There were fewer treatment failures in the group receiving homeopathy, these differences were not statistically significant. Diary scores showed a significant decrease in symptoms after treatment in favor of homeopathy (P < 0.05).

Bellavite P, Chirumbolo S, Magnani P, Ortolani R, Conforti A. Effectiveness of homeopathy in immunology and inflammation disorders: a literature overview of clinical studies. Homoeopath Herit. 2008;33(3):35-58.

A randomized double-blind placebo control pilot study was conducted (49) in children with otitis mediaSubjects having middle ear effusion and ear pain and/or fever for no more than 36 h entered into the study. They received either an individualized homeopathic medicine or a placebo administered orally three times daily for 5 days, or until symptoms subsided. Outcome measures included the number of treatment failures after 5 days, 2 weeks and 6 weeks. Diary symptom scores during the first 3 days and middle ear effusion at 2 and 6 weeks after treatment were also evaluated. There were fewer treatment failures in the group receiving homeopathy after 5 days, 2 weeks and 6 weeks, with differences of 11.4%, 18.4% and 19.9%, respectively, but these differences were not statistically significant. Diary scores showed a significant decrease in symptoms at 24 and 64 h after treatment in favor of homeopathy (P < 0.05). 

Bellavite P, Marzotto M, Chirumbolo S, Conforti A. Advances in homeopathy and immunology: A review of clinical research. Front Biosci – Sch. 2011;3 S(4):1363-1389.

A randomised double-blind placebo controlled pilot study was carried out (46) on children with otitis mediaSubjects presenting middle ear effusion and ear pain and/or fever for no more than 36 h were enrolled in the trial. They received either an individualised homeopathic remedy or a placebo, administered orally three times daily for 5 days or until symptoms subsided. Outcome measures included the number of treatment failures after 5 days, 2 weeks and 6 weeks. Diary symptom scores during the first 3 days and middle ear effusion at 2 and 6 weeks after treatment were also evaluated. There were fewer treatment failures in the group receiving homeopathy after 5 days, 2 weeks and 6 weeks, however these differences were not statistically significant. Diary scores showed a significant decrease in symptoms at 24 and 64 h after treatment in favour of homeopathy (P < 0.05).

Bellavite P, Marzotto M, Andreoli B. Homeopathic Treatments of Upper Respiratory and Otorhinolaryngologic Infections: A Review of Randomized and Observational Studies. Altern Complement Integr Med. 2019;5(2):1-20.

A randomized double-blind placebo controlled pilot study was carried out on children with otitis media [51]. Subjects presenting middle ear effusion and ear pain and/or fever for no more than 36 h were enrolled in the trial. They received either an individualized homeopathic medicine or a placebo; administered orally three times daily for 5 days or until symptoms subsided. The 4 most commonly medicines prescribed included Pulsatilla, Chamomilla, Sulphur and Calcarea carbonica. Outcome measures included the number of treatment failures after 5 days, 2 weeks and 6 weeks. Diary symptom scores during the first 3 days and middle ear effusion at 2 and 6 weeks after treatment were also evaluated. There were fewer treatment failures in the group receiving homeopathy after 5 days, 2 weeks and 6 weeks. However these differences were not statistically significant. Diary scores showed a significant decrease in symptoms at 24 and 64 h after treatment, in favor of homeopathy (P < 0.05).

Per quanto riguarda il BLOCCO 3, esso risulta derivare attraverso 4 passaggi successivi di riciclo da un testo di Bellavite et al. del 1995, come illustrato di seguito.

Bellavite P, Signorini A, Society for the Study of Native Arts and Sciences. Homeopathy, a Frontier in Medical Science : Experimental Studies and Theoretical Foundations. North Atlantic Books; 1995.

and that of Wiesenauer and coworkers [Wiesenauer et al., 1989; score 60/100], who demonstrated the inefficacy, in the therapy of sinusitis, of a number of remedies prepared from various combinations of Luffa opercolata (dishcloth gourd), Kalium bichromicum (bichromate of potash), and Cinnabaris (cinnabar) (in 3x-4x dilutions).

Bellavite P, Ortolani R, Pontarollo F, Piasere V, Benato G, Conforti A. Immunology and homeopathy. 4. Clinical studies – Part 1. In: Evidence-Based Complementary and Alternative Medicine. Vol 3. ; 2006:293-301.

Wiesenauer et al. (54) compared the effects of three different homeopathic treatments and placebo in patients with acute and chronic sinusitis. In this randomized, double-blind study the patients were divided into four groups: group A: Luffa operculata 4x + Kalium bichromicum 4x + Cinnabaris 3x; group B: K. bichromicum 4x + Cinnabaris 3x; group C: Cinnabaris 3x; and group D: placebo. The study did not reveal any difference in therapeutic effects in the four groups. Their conclusion was that, unless other data emerge from a study of individual homeopathic prescriptions (‘repertorization’), the drugs should not be considered active in acute or chronic sinusitis in the general population; they also pointed out that similar negative results have been obtained with antibiotics, nasal decongestants and drainage of the nasal cavities.

Bellavite P, Marzotto M, Chirumbolo S, Conforti A. Advances in homeopathy and immunology: A review of clinical research. Front Biosci – Sch. 2011;3 S(4):1363-1389.

Wiesenauer and coworkers (32) demonstrated the inefficacy, in the treatment of sinusitis, of a number of remedies prepared from various combinations of Luffa opercolata, Kalium bichromicum, and Cinnabaris (in low homeopathic dilutions). Their conclusion is that, unless other data emerge from a study of individualised homeopathic prescriptions (“repertorisation”), the drugs should not be considered active in acute or chronic sinusitis in the general population; they also point out that similar negative results have been obtained with antibiotics, nasal decongestants and drainage of the nasal cavities.

Bellavite P, Marzotto M, Andreoli B. Homeopathic Treatments of Upper Respiratory and Otorhinolaryngologic Infections: A Review of Randomized and Observational Studies. Altern Complement Integr Med. 2019;5(2):1-20.

A series of medicines for non allergic rhinitis, prepared from various combinations of Luffa opercolata, Kalium bichromicum and Cinnabaris (in low homeopathic dilutions) were compared with a placebo in a double-blind trial [83]. Criteria for the therapeutic result were headache, blocked nasal breathing, trigeminal tenderness, reddening and swelling of nasal mucosa and postnasal secretion. All combinations were ineffective in the treatment of those sinusitis symptoms. The author’s conclusion was that, unless other data emerge from a study of individualized homeopathic prescriptions (“repertorisation”), the drugs should not be considered active in acute or chronic sinusitis in the general population. They also point out that similar negative results have been obtained with antibiotics, nasal decongestants and drainage of the nasal cavities.

Infine, il BLOCCO 4 rappresenta un caso particolarmente interessante. Sebbene in questo caso i passaggi di riciclo testuale, a partire da un articolo di Zabolotnyii et al del 2007, siano soltanto 3, si noti la frase in giallo nel lavoro originale ripreso da Bellavite et al. Quella frase, che mostra come lo studio non sia un paragone tra omeopatia e placebo (ciò che servirebbe per affermare un’efficacia superiore al placebo dell’omeopatia), spiega come i pazienti, in entrambi i gruppi paragonati, abbiano assunto paracetamolo e altri farmaci da banco, in modo che il controllo tra i due gruppi è, di fatto, sporcato, e certo non si può assumere la superiorità dell’omeopatia rispetto al placebo. Proprio questa frase viene eliminata dal testo altrimenti riciclato in entrambe le due successive review pubblicate da Bellavite su due riviste predatorie. Questo comportamento, oltre che il riciclo testuale, essendo distorsivo è definibile come falsificazione per omissione. Di seguito si fornisce l’evidenza per quanto affermato.

Zabolotnyi DI, Kneis KC, Richardson A, et al. Efficacy of a Complex Homeopathic Medication (Sinfrontal) in Patients with Acute Maxillary Sinusitis: A Prospective, Randomized, Double-Blind, Placebo-Controlled, Multicenter Clinical Trial. Explor J Sci Heal. 2007;3(2):98-109.

Interventions: Fifty-seven patients received Sinfrontal and 56 patients received placebo. Additionally, patients were allowed saline inhalations, paracetamol, and over-the-counter medications, but treatment with antibiotics or other treatment for sinusitis was not permitted.

Results: From day zero to day seven, Sinfrontal caused a significant reduction in the SSS total score compared with placebo (5.8 ± 2.3 [6.0] points vs 2.3 ± 1.8 [2.0] points; P< .0001). On day 21, 39 (68.4%) patients on active medication had a complete remission of AMS symptoms compared with five (8.9%) placebo patients. All secondary outcome criteria displayed similar trends. Eight adverse events were reported that were assessed as being mild or moderate in intensity. No recurrence of AMS symptoms occurred by the end of the eight-week posttreatment observational phase.

Bellavite P, Marzotto M, Chirumbolo S, Conforti A. Advances in homeopathy and immunology: A review of clinical research. Front Biosci – Sch. 2011;3 S(4):1363-1389.

A prospective, randomised, double-blind, placebo-controlled trial carried out in the Ukraine (57) investigated the efficacy of a complex homeopathic medication (Sinfrontal), compared to a placebo, in patients with maxillary sinusitis. Between day zero and day seven, Sinfrontal produced a significant reduction in the total symptom score compared to the placebo (p < 0.0001). Eight adverse events were reported, assessed as being of mild or moderate intensity. The authors suggest that this complex homeopathic medication is safe and appears to be an effective treatment for acute maxillary sinusitis.

Bellavite P, Marzotto M, Andreoli B. Homeopathic Treatments of Upper Respiratory and Otorhinolaryngologic Infections: A Review of Randomized and Observational Studies. Altern Complement Integr Med. 2019;5(2):1-20.

Sinfrontal is a complex homeopathic medication (containing Cinnabaris 4D, Ferrum phosphoricum 3D, Mercurius solubilis 6D) that is used for a variety of upper respiratory tract infections and has shown promise as a treatment for rhinosinusitis. A prospective, randomized, double-blind, placebo-controlled trial, carried out in Ukraine, investigated the efficacy of this complex homeopathic medication compared to a placebo, in patients with maxillary sinusitis [60]. Fifty-seven patients received Sinfrontal and 56 patients received placebo. Between  day zero and day seven, Sinfrontal produced a significant reduction in the total symptom score compared to the placebo (p < 0.0001). After three weeks, 68.4% patients on active medication had a complete remission compared with 8.9% of placebo patients. Eight adverse events were reported, assessed as being of mild or moderate intensity. The authors suggest that this complex homeopathic medication is safe and appears to be an effective treatment for acute maxillary sinusitis. A cost-utility analysis based on data from this trial calculated that Sinfrontal led to incremental savings of €275 per patient compared with the placebo over 22 days, essentially due to markedly reduced absenteeism from work [61].

_______________________________________________

Per avere una visione d’insieme, è possibile raggruppare i dati fin qui esposti circa l’origine dei blocchi di testo che costituiscono la pagina 5 della review di Bellavite recentemente pubblicata.

La situazione è ben rappresentata nello schema seguente, che illustra come l’autore sostanzialmente ricicli nelle sue varie pubblicazioni pezzi di testo propri ed altrui, ricomponendoli di volta in volta secondo necessità e con piccole variazioni.

Si noti come, considerando anche solo la pagina 5 della review del 2019, tutti i lavori sorgente posteriori al primo del 1995 contengono pezzi di testo riciclato, a testimonianza di un modus operandi reiterato.

Naturalmente, nello schema non si tiene conto del fatto che, come appena visto per il blocco 4, il riciclo di testo può essere selettivo e tale da distorcere il significato della fonte originale discussa nelle varie pubblicazioni dell’autore.

Conclusioni

Come è stato ampiamente dimostrato, la recente review pubblicata da Bellavite et al. su rivista predatoria rappresenta un evidente esempio di esteso riciclo testuale; inoltre, l’analisi ha consentito di evidenziare la costanza di tale comportamento nel tempo e anche l’abitudine, almeno recentemente, a pubblicare su riviste predatorie e non indicizzate su PubMed (contraddittoriamente considerata dallo stesso Bellavite standard di qualità).

Inoltre, almeno in un caso è stata documentata la distorsione dell’informazione originariamente pubblicata da altri autori, attraverso l’eliminazione nel testo riciclato di una parte importante di informazione, che indebolirebbe la tesi degli autori del riciclo; tale comportamento, in mancanza di chiare giustificazioni, si configura come falsificazione per omissione.

Il tipo di produzione scientifica esaminato non può quindi avere alcuna utilità nello stabilire l’efficacia dell’omeopatia, soprattutto se paragonato alle serie e metodologicamente solide meta-analisi di segno contrario pubblicate in altre sedi.

Note

[1] Nel 2010, un sottoinsieme delle riviste Hindawi, editore originariamente egiziano, era nella lista dei giornali predatori di Beall, a causa della sospetta cattiva qualità dei processi di revision e della solecitazione via mail di manoscritti; successivemente, Beall rimosse il publisher dalla sua lista, definendolo “border line”. Da allora, il miglioramento di Hindawi è stato continuo, ma non sono mancati numerosi scandali che hanno interessato riviste pubblicate da quell’editore scientifico.

Dal blog di Enrico Bucci; Dal blog di Salvo Di Grazia

Fonte dell’immagine di copertina

Omeopatia: aridaje

 

Pensavo fosse finita o, quantomeno, che i fan dell’omeopatia non utilizzassero sempre gli stessi argomenti, triti e ritriti, ormai da tempo sbufalati, e si rinnovassero nel loro repertorio in merito all’omeopatia che non mi stancherò mai di assimilare alle pratiche sciamaniche utilizzate dagli uomini di Neanderthal.

Perché scrivo questo? Semplicemente perché è comparsa sul Quotidiano Sanità una lettera al direttore (qui) in cui l’autrice, presidente ed amministratore delegato della Boiron (nota azienda di prodotti omeopatici), non fa altro che riutilizzare, per l’ennesima volta, a mo’ di mantra, le stesse argomentazioni che ho già avuto modo di confutare nel merito più volte anche in una lezione fatta qualche anno fa a Bassano del Grappa e visibile su YouTube (tutta la serie dei miei articoli divulgativi è qui, oltre che nel mio libro “Frammenti di Chimicaqui e qui).

Ma andiamo nei dettagli: data base e validità dei lavori scientifici

L’autrice scrive:

Il primo fatto oggettivo è che – al contrario di quanto continuano ad affermare gli oppositori dell’omeopatia – la letteratura scientifica sull’argomento, seppur lontana dall’essere esaustiva e ne siamo consapevoli, è ampia. Per rendersene conto basta consultare banche dati biomedicali quali PubMed e leggere i lavori scientifici pubblicati su riviste peer review, con Impact Factor. Tra questi, meta-analisi, studi osservazionali, clinici e preclinici, per citarne alcuni. E’ peraltro online da alcuni mesi anche un database nel quale sono raccolti gli studi pubblicati sul tema negli ultimi 70 anni. La mia impressione è che, spesso, chi dice che non esistono ricerche di qualità sull’omeopatia non le abbia mai cercate e tantomeno studiate. Un atteggiamento in completa antitesi a ciò che dovrebbe essere il pensiero scientifico, che spinge a studiare e sperimentare ciò che non si comprende fino in fondo

Vediamo dove sono le fallacie in quanto scritto.

L’autrice usa il classico “appello all’autorità” (qui) in base al quale se una fonte autorevole riporta delle affermazioni, queste automaticamente sono vere (laddove il “vero” scientifico non ha forza in senso assoluto).

L’autorevolezza di una rivista scientifica si misura mediante l’impact factor (IF), ovvero un numero che tiene conto della quantità di citazioni che gli articoli pubblicati nella rivista stessa ricevono. Se i lavori vengono molto citati, vuol dire che hanno un buon impatto nel settore scientifico di riferimento e la rivista che li pubblica, di conseguenza, ha essa stessa un buon impatto.

Come si calcola l’impact factor?

L’IF si calcola confrontando il numero di citazioni di tutti gli studi pubblicati in un biennio col numero totale di studi pubblicati nello stesso biennio. Per esempio, supponiamo che il numero di citazioni di tutti gli studi pubblicati sulla rivista “tal-dei-tali” nel biennio 2015-2016 sia 13000, mentre il numero di studi pubblicati nello stesso periodo sia 5000. L’impact factor si ottiene dal rapporto 13000/5000, ovvero IF=2.6. Questo valore di IF è alto o è basso? Preso da solo, non ha alcun significato. Per stabilire quanto una rivista sia importante, occorre confrontare l’IF di tutte le riviste che appartengono allo stesso settore scientifico. Per questo motivo le agenzie di indicizzazione stabiliscono delle classifiche di merito – o rating – in cui le riviste più prestigiose – perché pubblicano i lavori che hanno maggiore impatto sul mondo scientifico, ovvero sono i più citati – sono quelle che hanno IF più alto. 

Perché non ha senso quanto riportato nella lettera al direttore scritta dalla AD della Boiron?

Appare chiaro, da quanto detto, che l’autorevolezza di una rivista non si riflette in quella dei singoli lavori pubblicati nella stessa. Quindi, io posso scrivere un lavoro e poi pubblicarlo su una rivista autorevole come The Lancet, per esempio. Non per questo il mio studio diventa automaticamente importante. Ne volete un esempio? Vi ricordate di quella frode scientifica che correlava autismo e vaccini? Ebbene quel lavoro fu pubblicato proprio su The Lancet, una delle riviste più autorevoli in campo medico, ma fu poi ritirato quando, dopo una decina di anni, il mondo scientifico poté verificare l’inconsistenza dei risultati ivi riportati (ne ho anche parlato in uno dei miei tanti articoli sulle frodi scientifiche qui).

Di meta-analisi ed omeopatia.

La signora in questione, sempre per difendere le sue posizioni ideologiche – del tutto lecite vista la posizione che occupa, cita meta-analisi e studi osservazionali in cui si dimostrerebbe la validità dell’omeopatia. Per scrivere il mio libro “Frammenti di Chimica” (in cui un capitolo di 75 pagine è dedicato proprio a questo argomento), ho scaricato, letto e studiato i lavori più importanti e significativi del settore omeopatia. Inutile dire che le meta analisi più importanti riportino esattamente quello che non piace alla scrivente della lettera al direttore e che i cosiddetti lavori osservazionali pecchino di difetti sperimentali che li rendono del tutto inutili per trarre le conclusioni di cui la signora accenna nella sua lettera. Se volete leggere quello che ho scritto in merito, potete far riferimento anche al mio blog dove ho riportato un estratto di quanto scritto nel libro sotto forma di reportage in quattro puntate.

In breve, nella prima parte del reportage (qui) ho evidenziato i limiti dei lavori di Benveniste e Montagnier considerati i paladini dell’omeopatia. La seconda parte del reportage (qui) è  dedicata alla valutazione delle prove a sostegno dell’ipotesi “memoria” dell’acqua delizia dei fan dell’omeopatia. La conclusione è che si tratta solo di fantasia e di scienza patologica. Nella terza parte del reportage (qui) ho preso in considerazione le varie meta-analisi che nel corso degli anni sono state fatte per valutare, in modo statistico, l’eventuale efficacia dell’omeopatia. Ne è venuto che gli effetti dell’omeopatia sono ascrivibili al solo effetto placebo. Infine, nella quarta parte del reportage (qui) descrivo l’effetto placebo, l’unico effetto che i rimedi omeopatici hanno sugli organismi viventi.

Perché l’effetto placebo è malvisto dai sostenitori dell’omeopatia?

Più che dai sostenitori generici dell’omeopatia, l’effetto placebo sembra essere odiato soprattutto da coloro che a vario titolo sono coinvolti nella commercializzazione dei rimedi omeopatici. Mi sembra anche ovvio perché. Un rimedio omeopatico come l’Oscillococcinum, per esempio, contiene soltanto due tipi di zuccheri (saccarosio e lattosio) che costano la bellezza di 2000 € al chilogrammo. Insomma delle pillolette fatte di zucchero costano un occhio della testa. Come posso pretendere di vendere questo prodotto a qualcuno affermando che il suo effetto è solo di tipo placebo? Per poter giustificare il prezzo esorbitante, devo appellarmi a presunti meccanismi biochimici ancora sconosciuti che la cosiddetta “scienza ufficiale” (che ricordo NON esiste) si rifiuta di indagare. Indubbiamente troverò persone semplici che, per cultura, non sono in grado di affrontare ragionamenti scientifici complessi, a cui potrò far credere ciò che voglio e che possono rappresentare il mio bacino di utenti. Queste stesse persone diventeranno, poi, strenui difensori dell’omeopatia perché non sono sufficientemente preparate a poter distinguere ciò che è soggettivo da ciò che non lo è. Ho parlato dell’indotto economico della big pharma omeopatica in una intervista a Il Sole 24 Ore (qui).

Il database dell’omeopatia.

Alla luce di tutto quanto scritto, affermare che esiste un data base che raccoglie gli studi sull’omeopatia fatti negli ultimi 70 anni serve solo come specchietto per le allodole e distrarre l’attenzione del lettore dal vero problema: i rimedi omeopatici hanno solo effetto placebo. Anche se si raccogliessero i lavori fatti a partire da quando fu pubblicato l’Organon di Hannhemann nel 1810, nulla potrebbe cambiare questo dato di fatto.

Antiscienza.

Ha senso, allora, parlare di atteggiamento antiscientifico da parte di chi, come me, si oppone con forza a questi rimedi che non servono a nulla? No. La fondatezza di uno studio scientifico diventa progressivamente più forte col passare del tempo, man mano che l’accumulo delle prove sperimentali rende sempre più difficile la sua falsificazione. Mi dispiace moltissimo per i sostenitori dell’omeopatia, ma questa pratica ha basi scientifiche che sono state falsificate in senso popperiano. Di conseguenza essa è entrata a pieno titolo nella storia passata della scienza. Andiamo avanti e lasciamo il ramo secco dell’albero della scienza dove esso è: nel paradiso delle ipotesi sbagliate di cui il mondo scientifico è pieno.

La registrazione dei rimedi omeopatici.

L’autrice continua la sua disamina scrivendo:

Il secondo fatto oggettivo è relativo al processo di registrazione dei farmaci omeopatici. È fuorviante dire che “nessuna azienda omeopatica ha fatto richiesta di inserire i propri prodotti nel percorso autorizzativo per i farmaci con indicazione terapeutica”.  Se le aziende non lo hanno fatto, è perché mancano le linee guida per la registrazione non semplificata con indicazioni terapeutiche, possibile solo attraverso l’articolo 18 del D.Lgs. 219/2006, che afferma: “Per tali prodotti (ndr.: i farmaci omeopatici) possono essere previste, con decreto del Ministro della Salute, su proposta dell’AIFA, norme specifiche relative alle prove precliniche e alle sperimentazioni cliniche, in coerenza con i principi e le caratteristiche della medicina omeopatica praticata in Italia”. E’ in corso da alcuni anni un confronto con il Ministero della Salute perché si arrivi all’emanazione di queste linee guida, presenti in quasi tutti gli altri Paesi che hanno recepito in modo completo la Direttiva europea

Non ci vuole molto ad andare sul sito web dell’Agenzia Italiana del farmaco (AIFA) e trovare quanto riportato in questo link. Se avete la pazienza di leggere cosa è scritto lì, si capisce che le indicazioni su come effettuare la registrazione dei rimedi omeopatici sono state date. Evidentemente i problemi che le aziende che producono questi rimedi incontrano sono altri e non voglio indagare. In ogni caso, un articolo divulgativo in merito lo trovate anche sul sito web di Scienza in Rete (qui).

Le indicazioni terapeutiche.

L’autrice scrive ancora:

Il terzo fatto oggettivo è strettamente connesso al punto precedente. E’ vero che le indicazioni terapeutiche non si possono comunicare ai pazienti, ma è falso affermare che non esistono, tanto che proprio per legge esse vengono consegnate ai medici e ai farmacisti (art. 120, D.Lgs 219/2006), previa notifica all’Agenzia del Farmaco, esattamente come avviene per tutti gli altri farmaci“.

Sempre dal sito dell’AIFA è possibile trovare che le indicazioni terapeutiche sono “malattie o gruppi di malattie contro cui un farmaco è efficace” (qui). Per poter dire che un farmaco è efficace contro una data patologia è necessario condurre studi clinici in doppio cieco. Alla luce di quanto scritto fino ad ora, lascio al lettore le conclusioni in merito alla serietà progettuale degli studi clinici condotti con i rimedi omeopatici.

Il progetto EPI3.

E ci risiamo. L’autrice scrive:

i risultati del programma di ricerca EPI3, il più importante studio farmaco-epidemiologico realizzato nel campo della medicina generale in Francia, indicano che, per tutte le condizioni cliniche prese in esame, un paziente seguito da un medico che prescrive medicinali omeopatici ha un decorso clinico simile a quello di un paziente seguito da un medico che non lo fa, senza perdita di opportunità terapeutica e con un minor consumo di farmaci che possono provocare effetti indesiderati“.

Sfortunatamente per la signora, ho scaricato tutti i lavori del progetto EPI3 (sono circa una decina) e li ho studiati per bene. Ne parlo nel mio libro “Frammenti di Chimica“. Ma ne parlo anche nel mio blog: qui. Non voglio riscrivere cose di cui ho già discusso, per cui vi invito ad aprire il link precedentemente indicato ed a leggere perché il progetto EPI3 – finanziato dalla stessa Boiron con circa 6 milioni di euro –  è inconsistente e privo della solidità scientifica che un progetto di questa portata dovrebbe avere (del progetto EPI3 ho discusso con Francesco Mercadante nella mia intervista a Il Sole 24 Ore qui).

Conclusioni

Capite, ora, perché il titolo di questo lungo articolo è “aridaje”? Quando la lettera sul Quotidiano Sanità è venuta ai miei occhi, mi sono innervosito: possibile che non si faccia altro che ripetere sempre e continuamente le stesse cose? Possibile che questa storia non finisca mai? Perché volete ammantare di scientificità qualcosa che di scientifico ha nulla? Qual è il problema nell’ammettere che i rimedi omeopatici sono solo una moda che si inserisce in una mentalità new age che consente di occupare solo una nicchia di mercato più o meno florida? Nessuno vuol vietare l’uso di questi rimedi. Ciò che importa è che le scelte vengano fatte in modo consapevole sapendo che l’eventuale efficacia di un rimedio omeopatico è dovuta solo all’effetto placebo che è ben studiato e conosciuto in letteratura (a tal proposito cito il libro del mio amico Giorgio Dobrilla “Cinquemila anni di effetto placebo“, edra edizioni).

Ringraziamenti

Sono molto grato al mio amico Marco Cappadonia Mastrolorenzi per la consulenza sul romanesco usato nel titolo di questo articolo.

Fonte dell’immagine di copertina: available on Wikimedia Commons. The photo has been licensed under Creative Commons Zero (Source)

Un nuovo scoop

 

di Enrico Bucci e Pellegrino Conte

Il Tempo, che in questi giorni ci ha abituato ai suoi rilanci in tema di sicurezza di vaccini, riporta oggi a pagina 6 l’ennesimo articolo a firma dell’ex senatore e presidente dell’ordine dei biologi D’Anna, che ancora una volta ritorna a modo suo sulla questione della sicurezza vaccinale.

Il titolo recita così:

Ecco lo studio segreto sui vaccini

Segreto? Davvero? Trattasi di un lavoro così segreto da essere stato pubblicato nel 2013 su una rivista scientifica ad accesso libero, cosiddetta “OpenSource” (PlosOne), scaricabile qui; una presentazione da parte del dott. Pellegrino, uno degli autori, è presente pure sul sito di EpiCentro (AIFA), qui.

Giusto per essere chiari, al tempo della pubblicazione l’articolo fu ampiamente condiviso dalla comunità scientifica, è citato ed è ben noto a chi lavora nel settore.

Di cosa parla la pubblicazione? Di uno dei possibili effetti collaterali della vaccinazione, la cosiddetta ADEM, encefalomielite acuta disseminata, che può insorgere in soggetti probabilmente predisposti a seguito dell’esposizione ad antigeni diversi (non necessariamente quelli presenti in un vaccino). Ricordiamo che i vaccini sono farmaci, e come tali non son esenti da effetti collaterali (anche se per esempio molti di meno dell’aspirina).

Peraltro, nel lavoro di PlosOne gli autori onestamente ammettono che lo studio:

“suffers from lack of rigorous case verification due to the weakness intrinsic to the surveillance databases used”

Per chi non avesse dimestichezza con l’Inglese, vuol dire che i dati riportati nel lavoro vanno presi con le pinze.

In ogni caso, a dar retta agli autori dello studio cui fa riferimento l’ex senatore nel suo articolo di oggi sul Tempo, si parla di 205 e 236 casi di encefalomielite acuta disseminata riportati nel periodo 2005-2012 in due diversi database che contengono tutti gli eventi avversi da vaccino registrati negli USA e in Europa.

Ed ecco che qui si comincia a capire: poche centinaia di casi (di cui ancor meno fatali), in tutte le nazioni occidentali, in un periodo di 8 anni, su un insieme che contiene dati, a detta degli stessi autori, di questa dimensione:

“information on adverse events having occurred in over one billion people”

ovvero informazioni ottenute su più di un miliardo di persone.

Cosa vuol dire questo? Vuol dire che su oltre un miliardo di persone che hanno denunciato almeno un evento avverso, sono stati rilevati solo 441 casi di encefalomielite acuta disseminata. In altre parole, l’evento avverso preso in considerazione si presenta nello 0.0000441 % dei casi di evento avverso – circa 4-5 persone ogni 10 milioni di persone che hanno denunciato almeno un evento avverso.

Naturalmente, come è ben noto le persone che hanno riportato negli anni almeno un evento avverso da vaccino sono una piccola minoranza del totale dei vaccinati; per cui la domanda che sorge spontanea è quella relativa a quanti eventi di encefalomielite acuta disseminata si osservano sul totale dei vaccinati (non su quelli che riportano eventi avversi).

La risposta è contenuta in un apposito studio, che potete trovare qui: su un campione di 64 milioni di dosi vaccinali (di tutti i tipi di vaccini), si sono osservati 8 casi di encefalomielite acuta disseminata.

Sono tanti? Sono pochi?

Andiamo un attimo sulla pagina dell’ISTAT (qui). Si può vedere che nel 2016, per l’Italia, l’incidenza di incidenti domestici è stata di circa l’1.1 %. Questo numero vuol dire che su mille persone che svolgono una qualche attività domestica, 11 subiscono un qualche incidente più o meno grave.

Non è difficile a questo punto comprendere che fare una qualsiasi attività casalinga sia molto ma molto più pericoloso rispetto al rischio di incorrere in encefalomielite acuta disseminata dopo un qualsiasi vaccino.

Ma lasciamo stare le casalinghe: qual è la probabilità di morire colpiti da un fulmine in Italia? Ogni anno, secondo i dati disponibili, 10-15 persone muoiono per fulminazione (come riportato anche qui), che come abbiamo visto sono molte di più di quelle che rischiano di prendersi una encefalomielite acuta disseminata dopo un vaccino (considerando il numero di dosi di vaccino somministrate ogni anno in Italia). Aspettiamo quindi di vedere su “Il Tempo” il pubblicato quindi un articolo di cui ci sentiamo di suggerire il titolo: “Studio segreto sui fulmini”.

A questo punto si potrebbe obiettare che, sebbene il rischio di subire incidenti domestici o quello di essere fulminati siano molto maggiori dei rischi discussi da Il Tempo nell’articolo di oggi, essi sono rischi inevitabili, mentre la vaccinazione è comunque in linea di principio un atto che avviene per scelta del legislatore o dell’individuo.

Consideriamo allora la più blanda forma di trattamento volontario possibile, uno di quelli che abbiamo spesso entrambi criticato per la sua base pseudoscientifica: qual è il rischio di eventi avversi connesso all’assunzione di una pillola omeopatica, un prodotto cioè completamente privo di principi attivi e che in linea di principio dovrebbe essere assolutamente innocuo? Qui, per esempio, si riporta che circa 3 persone su 100 possono sperimentare effetti avversi anche molto gravi e potenzialmente letali, dovuti ad esempio all’allergia al lattosio delle pillole omeopatiche.

In conclusione: lancereste un allarme mettendo in guardia le persone dal bere acqua, perché l’acqua fresca può a volte avere effetti letali?

Link alla pagina di Enrico Bucci (qui)

7 domande ai firmatari della “Lettera aperta sulla libertà della scienza”

di Enrico Bucci e Pellegrino Conte

Quando un gruppo di oltre 50 ricercatori ha annunziato la firma di una lettera aperta in sostegno della libertà della scienza, siamo rimasti molto favorevolmente impressionati: finalmente – abbiamo pensato – in questi tempi bui di conformismo e pressioni per indirizzare, controllare e mortificare la ricerca scientifica nel nostro Paese, il mondo accademico si sta ridestando e sta facendo sentire la sua autorevolezza per la salvaguardia della libertà di pensiero.

Con grande stupore, invece, ci siamo accorti che il contenuto della lettera, lungi dall’essere una difesa del diritto costituzionale di investigare e comunicare i propri risultati senza limitazione alcuna, rappresenta un tentativo, peraltro maldestro, di proteggere una pratica pseudoscientifica quale è la cosiddetta agricoltura biodinamica.

Qui di seguito il testo completo della “Lettera aperta sulla libertà della Scienza”

Quest’anno, dal 15 al 17 novembre, l’Associazione per l’Agricoltura Biodinamica ha promosso il 35° congresso dedicato a “Innovazione e ricerca, alleanze per l’agroecologia” presso il Politecnico di Milano, sotto il patrocinio, tra gli altri, dello stesso Politecnico, del Comune di Milano e della Regione Lombardia. Si tratta di un congresso cui partecipano rappresentanti di centinaia di aziende e, come relatori del settore agrario, anche docenti di università italiane, ricercatori di centri di ricerca italiani e stranieri oltre al vicepresidente della commissione ambiente del Parlamento europeo, Paolo de Castro (pure lui accademico) e una serie di rilevanti personalità.

A seguito della pubblicazione dell’evento, un gruppo di docenti dell’Università di Milano ha diffuso una lettera indirizzata al Rettore del Politecnico, al Sindaco e ad altri, con considerazioni pesanti contro l’agricoltura biodinamica e sollecitandoli a non portare i saluti all’apertura del congresso, in modo da non avallare con la loro presenza i contenuti dell’evento.

L’invito a intervenire al convegno, successivamente inoltrato ai firmatari della lettera da parte dell’Associazione per Agricoltura Biodinamica, è stato rifiutato.

Negli ambienti accademici sono state diffuse altre lettere, anche di non esperti nei settori scientifici in oggetto [ndr: Elena Cattaneo] , nelle quali si evita accuratamente di prendere in considerazione i risultati delle numerose sperimentazioni disponibili, mentre ci si attacca a frasi di testi di altri tempi, accomunando così la biodinamica a posizioni antiscientifiche, come quelle dei No-vax.

Premesso che nessuno di noi fa parte dell’Associazione per l’Agricoltura Biodinamica e non ci interessa, in questo caso, entrare nel merito dei risvolti filosofici di questa associazione, dissentiamo profondamente da questo comportamento anzitutto perché denigra associazioni di agricoltori il cui modello di agricoltura, sensibile ai temi della salute e della sostenibilità, è comunque una realtà diffusa e riconosciuta istituzionalmente; in secondo luogo perché è scorretto nei confronti di quei colleghi, ottimi ricercatori italiani e stranieri anche di fama internazionale, competenti in materia, che senza pregiudizi hanno condotto ricerche sull’agricoltura biodinamica e biologica e pubblicato i risultati su riviste internazionali, anche di altissimo impatto (PLOS ONE, Nature).

 Chiunque abbia partecipato a congressi scientifici di qualsiasi disciplina sa che in essi vengono a volte presentate relazioni in disaccordo tra loro, che sollevano accesi dibattiti e discussioni; solo ricerche successive potranno stabilire quale sia la tesi corretta. Il compito della comunità scientifica è comunicare, dialogare, non disdegnare la pratica del dubbio, far circolare le idee e metterle alla prova con mente aperta e senza pregiudizi.

 L’approccio scientifico non sta nella scelta dell’oggetto, ma nel metodo che viene utilizzato. Il vero atteggiamento antiscientifico è semmai il dogmatismo di chi non vuole occuparsi di argomenti che ha personalmente condannato a priori come “ridicoli”.

 La comunità scientifica spesso lamenta il fatto di godere di scarso credito da parte della società civile. A nostro avviso questi comportamenti possono solo peggiorare la situazione, anche perché l’agricoltura biologica, in tutte le sue manifestazioni, continua a crescere con un ritmo inimmaginabile solo pochi anni fa e rappresenta uno dei pochi settori di successo del sistema agroalimentare italiano, così come aumenta il numero di uomini e donne di scienza interessati a studiarne meccanismi, processi e effetti sulla produzione e sull’ambiente.

 Oggi l’agricoltura, (integrata, di precisione, conservativa, biologica, biodinamica, agroecologica) ha il gravoso compito di nutrire il pianeta, di erogare servizi ecosistemici ed essere nello stesso tempo economicamente, ambientalmente e socialmente sostenibile. Il ruolo del mondo della ricerca è di fornire il supporto scientifico a questo importante percorso, senza sposare acriticamente posizioni di parte.

Per leggere le firme degli accademici che hanno concordato col testo su riportato basta leggere qui.

Dopo la lettura di un simile testo, alcuni interrogativi sono immediatamente occorsi ad entrambi. Ve li proponiamo nella speranza che qualcuno ci possa aiutare a trovare qualche risposta.

  1. I firmatari della lettera giocano continuamente di rimando tra agricoltura biologica e agricoltura biodinamica, accusando chi si oppone a quest’ultima di attaccarsi a frasi di testi di altri tempi. Lungi dall’essere priva delle vestigia di tempi passati, tuttavia, la biodinamica è definita da un disciplinare come una pratica che, integrando tutte quelle dell’agricoltura biologica senza modifiche, ad esse aggiunge l’influsso a distanza degli astri (specialmente quello lunare) e l’uso di alcuni preparati – tra cui anche il cornoletame – direttamente derivati dagli scritti di Rudolph Steiner, un esoterista del secolo scorso. Sono, quindi, i proponenti della biodinamica, non i suoi oppositori, che si aggrappano a scritti del secolo passato, così come fanno i proponenti di altre pseudoscienze quali l’omeopatia (che infatti ha molto influenzato la nascita della biodinamica). Dunque: dire che l’agricoltura biodinamica ha una sua ragion d’essere, significa ammettere che questi preparati esoterici e le rispettive pratiche magiche abbiano un effetto aggiuntivo rispetto alle pratiche diffuse in agricoltura biologica. Ma questo non è mai – e ribadiamo mai – stato accertato scientificamente. I motivi sono essenzialmente due: innanzitutto non è possibile sottoporre a controllo scientifico qualcosa di indefinito e non misurabile come le influenze astrali o altri effetti esoterici. In altre parole, quella che è la base teorica della biodinamica, laddove essa si differenzia dall’agricoltura biologica, non è sottoponibile a test scientifici. Inoltre, come dimostrato in tutte le più recenti analisi della magra letteratura disponibile sul tema (ovvero di quella in cui si parla esplicitamente dell’uso di preparati biodinamici), anche gli effetti, che in assenza di magia ed esoterismo potrebbero ancora essere addebitati a qualche “variabile sconosciuta”, scompaiono completamente se si paragona il trattamento biodinamico con il trattamento di controllo opportuno (per esempio, con un campo condotto in regime biologico concimato con uguale o superiore quantità di concime organico). Quindi chiediamo: di quale agricoltura realmente parlano i firmatari della lettera, quando usano il termine biodinamico?
  2. I firmatari della lettera accusano chi si oppone alla biodinamica di denigrare le associazioni di agricoltori il cui modello di agricoltura, sensibile ai temi della salute e della sostenibilità, è comunque una realtà diffusa e riconosciuta istituzionalmente. Tuttavia, compito della scienza è specialmente stabilire cosa sia falso (oltre che cosa sia vero almeno in via provvisoria); per questo, essa si fonda su un metodo che è in grado di limitare i nostri bias cognitivi quando proviamo ad acquisire conoscenza. Lo scienziato non si cura del fatto che molte aziende abbiano adottato un certo tipo di modello di produzione, giacché quest’ultimo, per esempio, potrebbe essere spinto puramente da ragioni di mercato, rinforzate dal messaggio del marketing al consumatore finale che, nel consumare biodinamico, parteciperebbe al benessere del pianeta insidiato dall’agroindustria speculativa (sono così sfruttati i cosiddetti bias emotivi nell’acquirente finale). L’etica dello scienziato consiste nel rifiutare ciò che è dimostrabilmente infondato o non provato; e se questo in ipotesi richiedesse la denuncia di una speculazione di mercato fondata su menzogne o su mezze verità, lo scienziato avrebbe il dovere di far sentire la sua voce, senza scartare di lato per non perturbare le vendite. Per questo chiediamo: se le maggiori associazioni di categoria in un determinato settore dovessero sostenere con false ragioni la superiorità di un certo modo di coltivare, aumentando i prezzi per il consumatore finale, utilizzando più suolo per ottenere la stessa produzione e fornendo prodotti che non sono superiori a quelli ottenibili con altri mezzi, la denuncia di questa pratica sarebbe denigrazione, o non piuttosto il campanello di allarme per bloccare l’ennesimo sfruttamento di una pseudoscienza per fini commerciali?
  3. I firmatari della lettera accusano gli oppositori della biodinamica di scorrettezza, perché nel chiedere che un’istituzione scientifica non legittimi una pseudoscienza, si colpirebbero ingiustamente quei colleghi, ottimi ricercatori italiani e stranieri anche di fama internazionale, competenti in materia, che senza pregiudizi hanno condotto ricerche sull’agricoltura biodinamica e biologica e pubblicato i risultati su riviste internazionali, anche di altissimo impatto (PLOS ONE, Nature). Ora, vorremmo innanzitutto sottolineare che, a dar retta per esempio ad uno dei firmatari (Gaio Cesare Pacini, professore associato di Agronomia e Coltivazioni Erbacee presso l’Università̀ di Firenze), dal 1990 ad oggi è possibile reperire al massimo (cioè essendo di manica larga) non più di 147 pubblicazioni scientifiche sul tema; questo numero è inferiore a quello che anche singoli ricercatori riescono a pubblicare nel corso della loro carriera, figuriamoci se basta a costituire un supporto scientifico di rilievo per una pratica che, se confermata nei suoi risultati, mostrerebbe addirittura l’efficacia di succussione, energie astrali, influenze cosmogoniche e altri esoterismi (oppure dimostrerebbe che vi è qualcosa di completamente sconosciuto alla scienza, in grado per esempio di far funzionar meglio il letame di vacca se trattato e applicato in certi modi). In ogni modo, per poter esprimere un giudizio su quanto sostengono vorremmo chiedere ai firmatari della lettera: quali sono le pubblicazioni scientifiche, di stretta pertinenza della biodinamica, che ne dimostrino la miglior efficacia in studi possibilmente in cieco, ma in cui certamente i controlli siano scelti nel modo più appropriato (cioè eliminando dal controllo solo ed esclusivamente le pratiche biodinamiche)? Ed in particolare, quali sarebbero gli studi pubblicati su Nature, visto che, senza dubbio per la nostra imperizia, non siamo riusciti a reperirne nessuno sul sito della rivista?
  4. Nel prosieguo della lettera, si pretende di dare la seguente lezioncina a chi si oppone alla pseudoscienza biodinamica: Chiunque abbia partecipato a congressi scientifici di qualsiasi disciplina sa che in essi vengono a volte presentate relazioni in disaccordo tra loro, che sollevano accesi dibattiti e discussioni; solo ricerche successive potranno stabilire quale sia la tesi corretta. Il compito della comunità̀ scientifica è comunicare, dialogare, non disdegnare la pratica del dubbio, far circolare le idee e metterle alla prova con mente aperta e senza pregiudizi. Ci si dimentica però che il disaccordo in ambito scientifico è tipicamente confinato non al metodo scientifico e ai dati sperimentali, ma semmai alla loro interpretazione, quando esistano spiegazioni plausibili di paragonabile potere esplicativo che siano in concorrenza fra loro; invece, sul perché la biodinamica dovrebbe funzionare non esistono nemmeno ipotesi – a meno di non voler prendere per buone le farneticazioni di Steiner – e i dati in supporto della superiorità su qualunque parametro ragionevole sono perlomeno fragili, se devono essere ricercati in un massimo di 147 pubblicazioni, delle quali non tutte discutono davvero di biodinamica. Dunque, chiediamo di sapere: quale sarebbe il dibattito acceso, ed in particolare su quali argomenti dovrebbe vertere, giacché, almeno per il momento, non esiste teoria scientifica alla base del funzionamento della biodinamica, né una sufficiente mole di dati per supportare una qualunque discussione degna di nota?
  5. I firmatari della lettera ci ricordano poi che L’approccio scientifico non sta nella scelta dell’oggetto, ma nel metodo che viene utilizzato. Per questo, rifiutare l’indagine su certi argomenti sarebbe segno di dogmatismo. Si tratta tuttavia di un non sequitur: infatti, sebbene possiamo essere ben d’accordo sulla prima parte di questa affermazione – ed anzi, chiediamo proprio che ogni teoria agronomica sia sottoposta al vaglio del metodo sperimentale – tuttavia, dall’assunzione di un rigoroso sperimentalismo non discende affatto che ogni ipotesi, per quanto balzana, sia sottoponibile all’analisi scientifica o sia degna di essere scrutinata. Dalla teiera di Russel in poi, tutti sappiamo che la ricerca scientifica si occupa innanzitutto di controllare ipotesi razionali. Queste discendono o dalla raccolta di fatti coerentemente osservabili oppure per derivazione da teorie scientifiche già consolidate; invece il processo di formulare ipotesi a caso e poi pretendere che siano sottoposte al vaglio sperimentale è il modo tipico di procedere degli avversari della scienza, che accusano i ricercatori di dogmatismo per il semplice fatto di non voler fare uso di una simile fallacia logica. Chiediamo quindi ai firmatari della lettera: chi sono i veri dogmatici, coloro che rifiutano di argomentare su teorie non scientifiche e in assenza di dati sperimentali, oppure coloro che, pur di difendere ad ogni costo delle fantasie intrise di pensiero magico, sono disposti ad inventare continuamente nuove ipotesi ad hoc, cercando di mantenere vivo un dibattito senza senso?
  6. Ancora, i firmatari ricordano che l’agricoltura biologica, in tutte le sue manifestazioni, continua a crescere con un ritmo inimmaginabile solo pochi anni fa e rappresenta uno dei pochi settori di successo del sistema agroalimentare italiano, così come aumenta il numero di uomini e donne di scienza interessati a studiarne meccanismi, processi e effetti sulla produzione e sull’ambiente. Di nuovo, per non affrontare il tema imbarazzante della biodinamica, ci si rifugia nella più confortevole e per certi versi razionale categoria del biologico; ma con questa logica, potremmo parlare di agricoltura tout-court negli stessi termini degli autori della lettera, senza nemmeno preoccuparci di indicare quella biologica. Tuttavia, qui ci interessa chiedere ai firmatari della lettera: in che cosa il successo dell’agricoltura biologica nel sistema agroalimentare italiano dovrebbe rappresentare un criterio di verità scientifica utile per definire l’agricoltura biodinamica, e non piuttosto lo specchio di una ottima operazione di marketing e propaganda, che ha portato al successo di certi prodotti presso il consumatore? Da quando in qua si stabilisce la fondatezza scientifica di una pratica, attraverso il numero di consumatori finali o il numero di aziende in essa impegnate?
  7. Per finire, i firmatari della lettera chiudono con un elogio dell’agricoltura, laddove scrivono che Oggi l’agricoltura, (integrata, di precisione, conservativa, biologica, biodinamica, agroecologica) ha il gravoso compito di nutrire il pianeta, di erogare servizi ecosistemici ed essere nello stesso tempo economicamente, ambientalmente e socialmente sostenibile. Il ruolo del mondo della ricerca è di fornire il supporto scientifico a questo importante percorso, senza sposare acriticamente posizioni di parte. Non potremmo essere più d’accordo, ma agli autori chiediamo: su quale base si è stabilito che la biodinamica – senza fare confusione con altre pratiche – sarebbe in assoluto la pratica più sostenibile, conveniente e sufficiente a sfamare il pianeta, vista la scarsità di pubblicazioni, la base pseudoscientifica e i dati che indicano esattamente il contrario?

Frammenti di Chimica è su “Gravità Zero”

Gravità Zero è un blog che riporta sempre delle interessantissime informazioni in ambito scientifico-tecnologico. Oggi pubblicano un’intervista che mi ha fatto Walter Caputo che, qualche giorno fa, ha anche recensito il mio “Frammenti di Chimica” per il blog “Cibo al microscopio“.

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INTERVISTA AL PROF. PELLEGRINO CONTE, AUTORE DI “FRAMMENTI DI CHIMICA”

di Walter Caputo

Ho recentemente letto il libro “Frammenti di Chimica“, scritto dal Prof. Pellegrino Conte, Ordinario di Chimica Agraria presso l’Università degli Studi di Palermo, e pubblicato da C1V Edizioni. Ho poi scritto una recensione – inerente soprattutto le bufale sullo zucchero – sul blog Cibo al microscopio.

Successivamente ho pensato a delle questioni generali che interessano tutti i lettori non chimici, e quindi ho posto alcune domande al Prof. Conte. Qui sotto potete leggere le sue risposte. Spero vi siano utili per individuare le bufale, capire quando un articolo scientifico è attendibile e – infine – trovare una strada per comprendere la chimica

Quando leggiamo una qualunque notizia, quali sono i principali elementi che ci fanno sospettare che si tratti di una bufala?

Non è facile. Le bufale ben costruite mescolano notizie vere, verosimili e false in modo tale che l’insieme appaia molto credibile. Chi non ha una preparazione tecnica, non è in grado di distinguere il vero dal falso e, di conseguenza, non è in grado di capire se ciò che legge/sente sia reale oppure no…[continua]

 

Frammenti di chimica. La recensione di Walter Caputo

Anche il mio amico Walter Caputo ha recensito “Frammenti di Chimica” per il blog “Cibo al Microscopio”.

GLI ZUCCHERI SPOGLIATI DI MITI, LEGGENDE E FAKE NEWS

di Walter Caputo

Quante persone entrano in un bar e scelgono di bere un caffè con zucchero di canna? Credo che siano molte, ma credo anche che non sappiano perché evitano lo zucchero bianco, ovvero il comune saccarosio. Probabilmente alcuni rifiutano lo zucchero bianco perché è raffinato e sono convinti che faccia male. Sicuramente tali persone non hanno conoscenze chimiche adeguate e hanno deciso di informarsi sullo zucchero da chi non è chimico o da chi ha interesse a vendere determinati prodotti o da chi mette in circolazione fake news su una certa categoria di prodotti, per avvantaggiare i prodotti “concorrenti” o alternativi. C’è poi anche chi si perde in mille commenti e sottocommenti di facebook, scritti da soggetti che non hanno alcun titolo inerente la materia e anche da qualcuno che il titolo ce l’ha, e magari anche le competenze e l’esperienza, ma viene attaccato ai polpacci da tutti gli altri, che sono tanti, agguerriti e spesso maleducati[continua]

Fonte dell’immagine di copertinahttps://ciboalmicroscopio.blogspot.com/

Frammenti di Chimica. La recensione di Nicola Porro

“Frammenti di chimica. Come smascherare falsi miti e leggende” è stato recensito da Nicola Porro, vicedirettore de Il Giornale. La recensione è apparsa il 4 Novembre 2018 sia in forma cartacea (Figura 1) che on line, qui.

Figura 1. “La biblioteca Liberale” di Nicola Porro. Il Giornale 04.11.2018

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La vera scienza ha solo un metodo corretto.

di Nicola Porro

Indro Montanelli aveva definito i bordelli come le uniche istituzioni italiane in cui la tecnica venisse rispettata e la competenza riconosciuta. Oggi che l’istituzione non esiste più (regolamentata, voglio dire), a seguire Montanelli non ve n’è alcuna ove la tecnica sia rispettata o la competenza, quando c’è, riconosciuta. Anzi, se ricordiamo che oltre trent’anni fa, ai tempi del primo referendum sul nucleare, ai competenti del tema era inibito parlare perché, in quanto competenti, erano considerati anche “di parte”, se ne deduce che si avesse titolo a tanto più “discettare su” e “occuparsi di” un problema solo quanto più incompetenti si fosse stati. Ma allora non c’era internet: oggi, dal basso di una tastiera, chiunque può assurgersi a competente di qualsiasi cosa. Potremmo chiamarla demcrazia dell’esternazione. Grazie a essa, casalinghe annoiate possono disquisire di vaccini e irriducibili santoni dire che il bicarbonato è ottimo per curare il cancro.

La democrazia è un delicatissimo fiore e, se non è maneggiato con la massima cura, appassisce fino a marcire. In particolare, la democrazia non si applica alla scienza, intendendo con ciò il metodo scientifico. E negli odierni tempi di malintesa democrazia, i rischi di deterioramento crescono col crescere degli incompetenti, alla cui voce internet concede ampia eco. Per fortuna ogni tanto siamo deliziati dalla voce, anche se non sufficientemente possente, dei veri competenti. Una di queste rare e flebili voci è quella del Prof. Pellegrino Conte, ordinario di Chimica Agraria dell’Università di Palermo, che ci aiuta a “smascherare falsi miti e leggende”, come recita il sottotitolo del suo “Frammenti di Chimica” (C1V edizioni).

Non è un libro di chimica tradizionale, sennò non saremmo qui a scriverne (diciamo che il sottotitolo è più appetitoso del titolo), ma è una cassetta degli attrezzi per distinguere il vero dal verosimile, o dal palesemente falso. Bisogna sempre diffidare, avverte l’autore, dei santoni che dicono di essere dei novelli Giordano Bruno o redivivi Galileo Galilei e che lamentano di essere vittime della scienza ufficiale: non esiste alcuna scienza ufficiale! Così come non esiste il consenso scientifico: esiste solo il metodo scientifico. Ed è proprio sulla natura del metodo scientifico che l’autore ci illumina, in modo accattivante e piacevole. Gli esempi trattati sono molteplici, dall’immancabile omeopatia (che ogni buon chimico vede come il fumo negli occhi), alle acque in bottiglia, allo zucchero (sapete la differenza tra zucchero bianco e zucchero bruno?). Il libro è un prontuario che insegna a leggere le etichette, ma che può anche essere un salvavita, come salvavita sono, ci stupisce l’autore, alcuni esplosivi. Eh, già, perché a volte crogiolarsi in fasle credenze è come pretendere di usare una mappa di Roma quando ci si trova a Milano: esercizio forse divertente, ma che può essere fatale a chi si è veramente perduto.

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Salute e Società. Tra scienza e pseudoscienza: lo streaming

Il 25 Ottobre 2018, presso il Dipartimento Scienze Agrarie, Alimentari e Forestali dell’Università degli Studi di Palermo, si è concluso il primo CNMP workshop dal titolo “Salute e Società. Tra scienza e pseudoscienza”. Tanti i relatori: il Prof. Dobrilla, il Prof. Fuso, il Dr. De Vincentiis,  il Prof. Cappello, il Prof. Burioni, il Dr. Saia, il Prof. Bonaccorsi, il Dr. Cartabellotta, il Dr. Mercadante, ed io stesso.

In Figura 1 si riporta il programma completo col titolo degli interventi.

Figura 1. Programma dettagliato del Workshop

Obiettivo dell’evento è stato quello di avvicinare il mondo accademico alla società civile per far comprendere in cosa consista il lavoro scientifico e in che modo poter riconoscere le fake news (o bufale, che dir si voglia). Tra i partecipanti oltre a professionisti di ogni settore, anche tantissimi studenti (Figura 3).

Figura 2. Il pubblico di studenti e professionisti intervenuti al Workshop

È stata una grande soddisfazione vedere un numero così elevato di studenti. Questo vuol dire che anche le menti più giovani sono curiose ed hanno voglia di apprendere i meccanismi attraverso cui si possono riconoscere le pseudoscienze così da poter dare esse stesse un contributo attivo alla lotta contro maghi, imbonitori e truffatori.

L’evento è stato condiviso in diretta streaming dalla pagina facebook della C1Vedizioni.

Qui di seguito trovate i filmati caricati sul mio canale YouTube personale delle singole presentazioni. Nello stesso canale potete anche trovare lo streaming completo nel caso aveste voglia e tempo di (ri)vivere tutte le emozioni e gli errori tecnici che, inevitabilmente, accompagnano l’organizzazione di un evento complesso come un Workshop.

Introduzione della Dr.ssa Tocci e intervento del Prof. Giorgio Dobrilla

 Medicina insolita nell’era 2.0

Intervento del Prof. Silvano Fuso

Chimica buona e chimica cattiva

Intervento del Dr. Armando De Vincentiis

Scienza e autoinganni

Intervento del Prof. Roberto Burioni

I vaccini, la scienza e le bugie

Intervento del Prof. Francesco Cappello

Il ruolo dell’anatomia umana nella battaglia contro la pseudoscienza

Intervento del Prof. Gugliemo Bonaccorsi

Prevenire le bufale con l’Health Literacy

Intervento del Dr. Nino Cartabellotta

Miti, presunzioni ed evidenze: un mix di ingredienti e le fake news sono servite!

Intervento del Dr. Sergio Saia

Le bufale scientifiche sul frumento e sui derivati

Intervento del Dr. Francesco Mercadante

Incubatori di devianze. Il linguaggio dei social network tra paradossi, cattiverie e mondi impossibili

Intervento Prof. Pellegrino Conte e conclusioni

La chimica contro le bufale

I patrocini

L’evento ha ricevuto il patrocinio morale dell’Università degli Studi di Palermo (UNIPA), del Dipartimento Scienze Agrarie, Alimentari e Forestali (SAAF), del Dottorato di Ricerca in Scienze Agrarie, Alimentari e Forestali, della Associazione Italiana Società Scientifiche Agrarie (AISSA), della Società Italiana di Chimica Agraria (SICA), della Associazione Italiana di Ingegneria Agraria (AIIA), della Società Italiana di Pedologia (SiPE), della Società Italiana di Scienza del Suolo (SISS), del CICAP Puglia, della Fondazione GIMBE, della Società Italiana di Biologia Sperimentale (SIBS), dell’associazione dei Biologi Forensi (BIOFOR), dell’Associazione Studentesca Agraria Palermo (ASAP) e Intesa Universitaria (Figura 3).

Figura 3. Loghi delle Società ed Associazioni che hanno dato il patrocinio morale al Workshop “Salute e Società. Tra scienza e pseudoscienza”

 

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