Notizie dal mondo scientifico. Viaggio attraverso il tempo e nei processi evolutivi

Cos’è la malattia di Huntington

La còrea o malattia di Huntington è una malattia genetica neurodegenerativa che colpisce la coordinazione muscolare e porta a un declino cognitivo e a problemi psichiatrici [1].

Non sono un neuroscienziato e non ho la pretesa di comprenderne fino in fondo le implicazioni biologiche e cliniche, che sono spiegate molto meglio altrove [2,3]. Ne parlo qui perché ho letto un interessantissimo articolo della senatrice Elena Cattaneo [4], che riesce a descrivere con grande chiarezza (anche per chi, come me, non è esperto di genetica) le basi molecolari della malattia.

La tripletta CAG e la proteina huntingtina

La malattia di Huntington è legata a un’anomalia di un gene localizzato sul cromosoma 4 (Figura 1), dove si trova una sequenza ripetuta della tripletta CAG.

Figura 1. Corredo cromosomico umano. Ogni cromosoma è presente in coppia: dal numero 1 al 22 sono identici in entrambi i sessi, mentre i cromosomi sessuali differiscono (XY nei maschi, XX nelle femmine). Fonte: Ospedale Bambin Gesù.

Per i non addetti ai lavori: la tripletta CAG corrisponde a tre nucleotidi – citosina (C), adenina (A) e guanina (G) – e codifica per l’amminoacido glutammina (GLN) [5]. Sul cromosoma 4 questa tripletta si ripete molte volte (CAGCAGCAG…) e la sequenza codifica per una proteina che contiene un tratto con molte glutammine legate in fila.

La differenza sta proprio nel numero di ripetizioni:

  • meno di 36 triplette → la proteina funziona normalmente e non si sviluppa la malattia;
  • più di 36 triplette → la proteina subisce alterazioni strutturali che portano alla comparsa della malattia di Huntington.

Quando la sequenza è nella norma, la proteina stimola la produzione di una neurotrofina fondamentale per i neuroni striatali [4]. Se le ripetizioni superano la soglia critica, la produzione di questa neurotrofina può ridursi anche del 50% [4], causando gravi conseguenze per le cellule nervose.

Il dilemma evolutivo

A questo punto emerge la domanda cruciale: perché l’evoluzione ha conservato una sequenza così rischiosa, che nel tempo può diventare una condanna? [4]

Per rispondere, i ricercatori hanno dovuto fare un salto indietro nel tempo di circa 800 milioni di anni, fino ai primi organismi pluricellulari comparsi sulla Terra, come l’ameba sociale Dictyostelium [6]. Proprio lì è stato identificato il gene che, molto più tardi, nell’uomo, sarebbe stato associato all’Huntington.

Un vantaggio nascosto

La spiegazione suggerita è che questa sequenza ripetuta abbia avuto – e abbia ancora – un vantaggio evolutivo: nelle giuste quantità, la proteina che ne deriva sostiene lo sviluppo e la sopravvivenza dei neuroni, offrendo un beneficio che ha superato, almeno in termini evolutivi, il costo del rischio che le ripetizioni diventino eccessive.

Negli ultimi anni si è rafforzata l’idea che le ripetizioni CAG in numero non patologico non siano affatto neutre: studi su popolazioni sane hanno mostrato che variazioni nella lunghezza della sequenza, pur restando sotto la soglia critica, sono associate a differenze nelle strutture cerebrali e talvolta a prestazioni cognitive migliori [7,8]. Questo suggerisce che la sequenza poliglutaminica del gene HTT abbia un ruolo positivo nella plasticità e nello sviluppo del cervello.

Le espansioni somatiche

Un altro aspetto emerso di recente è quello delle espansioni somatiche: nel corso della vita, alcune cellule accumulano lentamente ulteriori ripetizioni CAG, senza che questo causi danni immediati. Tuttavia, quando la soglia viene superata in specifiche regioni cerebrali vulnerabili, il processo degenerativo si accelera bruscamente [9,10]. Questo meccanismo spiega perché la malattia si manifesta spesso in età adulta, dopo decenni di apparente normalità.

La prospettiva evolutiva

Analisi comparative in diverse specie hanno mostrato che la lunghezza della sequenza poliglutaminica nel gene HTT è stata oggetto di selezione naturale, a indicare che versioni con una certa estensione sono state probabilmente favorevoli allo sviluppo di funzioni nervose più complesse [11].

In altre parole, ciò che oggi leggiamo come malattia – la Huntington – potrebbe essere il rovescio della medaglia di un meccanismo che, nel corso dell’evoluzione, ha contribuito a plasmare la complessità del cervello umano, offrendo benefici cognitivi e adattativi a fronte di un rischio che si manifesta solo in alcune circostanze.

Riferimenti

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Malattia_di_Huntington

[2] http://www.uniroma2.it/didattica/MBND/deposito/lezione3.pdf

[3] http://www.telethon.it/…/malattie-tr…/huntington-malattia-di

[4] E. Cattaneo, Alla ricerca del gene perduto, Wired (Estate 2016), 77, 60-65

[5]  https://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK545250/

[6] https://it.wikipedia.org/wiki/Dictyostelium

[7] Schultz JL, et al. Association of CAG Repeat Length in the Huntington Gene With Cognitive Performance in Young Adults. JAMA Neurology (2021).

[8] Cattaneo E, et al. When repetita no-longer iuvant: somatic instability of the CAG triplet in Huntington’s disease. Nucleic Acids Research (2025).

[9] Handsaker RE, et al. Long somatic DNA-repeat expansion drives neurodegeneration in Huntington’s disease. Cell (2025).

[10] Scahill RI, et al. Somatic CAG repeat expansion in blood associates with biomarkers of neurodegeneration in Huntington’s disease decades before clinical motor diagnosis. Nature Medicine (2025).

[11] Iennaco R, et al. The evolutionary history of the polyQ tract in huntingtin sheds light on its functional pro-neural activities. Cell Death & Differentiation (2022).

Quando la mano fa scienza: gli scimpanzé e i fichi verdi

Il mercato della foresta

C’è un mercato nella foresta dove i venditori non urlano i prezzi e i clienti non pagano con monete ma con attenzione. I prodotti sono piccole sfere verdi appese ai rami: i fichi. Per un osservatore distratto molti di questi frutti sembrano uguali – verdi, anonimi, tutti lì a mezz’aria – eppure, per uno scimpanzé affamato, scegliere il fico giusto è questione di vita quotidiana. Non importa tanto il colore: è la mano che decide.

Un esperimento naturale

In uno studio molto elegante, Dominy e collaboratori hanno seguito gli scimpanzé di Kibale (Uganda) mentre esaminavano, palpavano e a volte incidevano con morsi i fichi della specie Ficus sansibarica. I ricercatori hanno misurato colore, elasticità, resistenza alla frattura e contenuto di zuccheri dei frutti, e hanno poi messo insieme comportamento e fisica con un semplice ma potente ragionamento statistico: ogni test sensoriale riduce l’incertezza su quanto dolce sia il frutto. In pratica, gli scimpanzé fanno Bayes con le dita.

Perché è interessante?

Per tre motivi.

  1. Il segnale visivo è debole. Molti fichi rimangono verdi anche quando sono maturi: il colore non tradisce la dolcezza. Per un animale che si affida alla vista, questo è un problema. Ma gli scimpanzé non rimangono fermi a guardare: si arrampicano, afferrano, premono. La palpazione dura una frazione di secondo – in media circa 1,4 s – e fornisce un’informazione meccanica che si correla molto meglio con il contenuto di fruttosio del frutto. In altre parole: il dito è più informativo dell’occhio.
  2. La sequenza sensoriale è modulare e razionale. Gli scimpanzé prima osservano (valutano dimensione e qualche indicazione cromatica), poi palpano – la mano misura elasticità – e infine, se serve, mordono per valutare la resistenza all’incisione (KIC, una misura meccanica della facilità con cui il tessuto si rompe). Ogni sensazione è un pezzo di informazione che, sommato agli altri, rende la decisione più affidabile.
  3. La ricerca suggerisce una lettura evolutiva intrigante: la mano come strumento di misura. Spesso colleghiamo la precisione della mano umana all’uso di utensili; questo lavoro propone invece che, almeno in parte, la selezione per mani sensibili e destre possa essere stata guidata anche da esigenze quotidiane di raccolta e valutazione del cibo — vale a dire: la mano non è nata solo per costruire strumenti, ma anche per saggiare il mondo.

Un piccolo laboratorio sensoriale

Questa visione sposta il centro dell’attenzione: non è solo l’innovazione tecnologica che plasma l’evoluzione della mano, ma anche la routine del foraggiamento. Pensalo come un piccolo laboratorio sensoriale: lo scimpanzé solleva un fico, lo preme con il polpastrello, percepisce la “cedibilità”, stima se dentro ci sono zuccheri a sufficienza e poi decide. Un segnale visivo vago (verde) viene corretto da informazioni meccaniche precise. Il risultato è una strategia efficiente: meno errori nella scelta di frutti importanti (i fichi sono una risorsa alimentare di riserva nelle stagioni difficili) e quindi un vantaggio per la sopravvivenza e la riproduzione.

La mano come utensile per conoscere

Per milioni di anni, fichi e altri frutti “criptici” hanno messo alla prova la capacità dei primati di distinguere il commestibile dal deludente. La pressione selettiva non ha riguardato soltanto occhi e cervello, ma anche la mano. La destrezza manuale, che oggi colleghiamo soprattutto all’uso degli strumenti, potrebbe avere radici ben più antiche: la necessità di valutare il cibo. La mano, prima di diventare utensile per costruire, è stata utensile per conoscere.

Un fotogramma della nostra storia

Il gesto dello scimpanzé che palpa un fico non è solo un dettaglio curioso di comportamento, ma un fotogramma della nostra stessa storia evolutiva. La precisione del pollice opponibile, la ricchezza sensoriale del polpastrello, la capacità di coordinare occhio e mano: tutto ciò che oggi ci permette di scrivere, scolpire, dipingere o operare, è nato anche da azioni semplici come scegliere il frutto giusto su un ramo.

Dalla foresta al mercato

Così, la foresta diventa laboratorio, la mano un sensore, il frutto una sfida evolutiva. E se ci pensiamo, la linea che ci separa dagli scimpanzé non è poi così netta: anche noi, al mercato, prima di comprare una pesca o un avocado, li osserviamo, li tocchiamo, li premiamo leggermente con le dita. In fondo, facciamo la stessa cosa: riduciamo l’incertezza con la complessità della mano.

Conclusione

La prossima volta che vedrai uno scimpanzé contemplare un frutto, immaginalo come un piccolo scienziato improvvisato: non sta solo mangiando, sta raccogliendo dati. Con il polpastrello riduce l’incertezza, proprio come noi davanti a una confezione con etichetta sbiadita.

E allora si capisce: la mano è nata per conoscere, prima ancora che per costruire. È questa complessità – fatta di tatto, intelligenza e memoria – che ha guidato la nostra evoluzione.

Dal fico della foresta alla penna, allo scalpello, al bisturi: ogni gesto umano porta ancora impressa quella prima funzione. La mano che oggi crea, cura, scrive e dipinge è la stessa che, milioni di anni fa, imparava a saggiare un frutto. In fondo, la nostra evoluzione è cominciata con un dito sul frutto.

Dimostrami che non esiste! La trappola preferita della pseudoscienza

Frequento i social network dal 2009 e, qualche anno dopo – era il 2015, ormai dieci anni fa – ho aperto il mio blog. All’inizio, da neofita, mi ritrovavo a discutere animatamente con persone di ogni tipo: rabdomanti convinti di sentire l’acqua con un bastoncino, cacciatori di fantasmi armati di telecamerine, fan dell’omeopatia pronti a difendere il niente travestito da nulla diluito e sostenitori dell’agricoltura biodinamica intenti a recitare formule magiche come i druidi di Asterix per aumentare la produttività dei campi.

Ogni volta che li mettevo davanti all’evidenza, la conversazione finiva invariabilmente con la stessa frase a effetto:
“Ah sì? Allora dimostrami [provami] che [argomento a piacere] non esiste!”

Oppure, in contesti diversi ma con identica logica capovolta: “Allora dimostrami [provami] che Dio non esiste”.

Chissà perché, ogni volta che ascolto queste argomentazioni, resto colpito dall’involuzione culturale che si sta diffondendo sempre di più. Sono frasi che potevano avere un senso quando ero in terza elementare, quando ci si appellava alla maestra per dirimere questioni vitali come: “Non sono stato io a mettere le mani nella marmellata, è stato lui!”.

Ma in età adulta mi aspetto qualcosa di diverso: argomentazioni più mature, meno retoriche e più legate alla razionalità. E invece questi trucchetti – vecchi come il mondo – continuano a funzionare con chi, pur avendo studiato, non si è abituato al pensiero critico e al metodo scientifico. Il punto è che la scienza, nel bene e nel male, non funziona così.

Provare: ma in che senso?

Ed è proprio qui che nasce la confusione: cosa significa davvero “provare”? Nel linguaggio quotidiano questa parola viene usata in mille modi diversi: provare un vestito, provare a fare una torta, provare un sentimento, provare a convincere qualcuno. E, lasciatemela passare, “provare un esame” – espressione tipica dei miei studenti, che poi però vengono puntualmente bocciati.

Ma in scienza non basta “fare un tentativo” o “avere un’impressione”: qui “provare” significa sottoporre un’idea a un controllo severo, verificare se regge quando viene messa di fronte ai dati.

La Treccani ci ricorda che “provare” significa sia “fare un tentativo” sia “dimostrare con prove la verità di un’affermazione”. Nel linguaggio scientifico, però, prevale il secondo significato: mettere alla prova un’ipotesi. In altre parole, valutare se un’ipotesi spiega davvero i fenomeni osservati e, soprattutto, se permette di fare previsioni verificabili.

Fare scienza significa:

  • osservare un fenomeno;
  • formulare un’ipotesi che lo spieghi e consenta di fare previsioni;
  • progettare esperimenti che possano confermare o smentire l’ipotesi;
  • accettare senza sconti il verdetto dei dati.

Se i dati non la confermano, l’ipotesi è falsificata. Punto. In altre parole, non è più utile: non spiega i fenomeni, non regge alla verifica, è semplicemente errata.

L’onere della prova

Rileggiamo l’elenco del paragrafo precedente, partendo dal primo punto:

  • osservare un fenomeno.

Qui sta il punto cruciale: se non posso osservare un fenomeno, tutto il resto non ha alcun senso. Come potrei formulare un’ipotesi su qualcosa che non vedo? E se non ho un’ipotesi, come potrei progettare esperimenti? Senza esperimenti non ottengo dati e, senza dati, non posso né confermare né confutare nulla.

In definitiva, se qualcosa non è osservabile, non posso applicare alcun metodo per “provarne” l’inesistenza. La scienza non funziona così: non dimostra l’inesistenza, ma mette alla prova ciò che si afferma di aver osservato. L’onere della prova, quindi, ricade sempre su chi fa l’affermazione, non su chi la mette in dubbio.

Mettiamola in un altro modo: se ipotizzo che una sostanza chimica acceleri la germinazione dei semi, posso progettare un esperimento. Se i dati non mostrano differenze, l’ipotesi cade. Ma se qualcuno sostiene che “una misteriosa energia invisibile accelera la germinazione solo in certe notti particolari”, senza dire quando, dove e come… beh, quella non è scienza: è una storia che non può essere né verificata né smentita, in altre parole non può essere falsificata.

Ecco perché fantasmi, energie occulte, biodinamica, draghi invisibili o divinità onnipresenti non possono essere oggetto di indagine scientifica: semplicemente non sono ipotesi falsificabili.

Un insegnamento dalla storia

Certo, gli amanti delle scienze occulte (che se sono occulte non sono scienze, ma va bene: usiamo pure l’ossimoro tanto caro ai fan di queste cose) potranno sempre dire: “Ma scusa, come fai a dire che qualcosa non funziona o non esiste se non lo provi? Non è compito dello scienziato verificare, sperimentare e, casomai, proporre o rigettare?”

Sì, certo. Ma solo se – ripeto – il fenomeno è osservabile o se esiste un impianto logico-matematico che consenta di formulare ipotesi verificabili con una progettazione sperimentale precisa.

Facciamo alcuni esempi. L’etere luminifero, ipotizzato come mezzo di propagazione della luce, è stato messo alla prova con esperimenti celebri come quello di Michelson e Morley (1887). I dati hanno detto chiaramente che non c’era nessuna evidenza a suo favore. Lo stesso destino è toccato al flogisto, sostanza immaginaria che avrebbe dovuto spiegare la combustione, spazzata via dalla chimica di Lavoisier.

E cosa dire della meccanica classica – sì, proprio quella sviluppata da Isaac Newton – che ha dominato per oltre due secoli e ancora oggi descrive benissimo il mondo macroscopico? All’inizio del Novecento, però, si è mostrata inadeguata a spiegare il comportamento delle particelle microscopiche e i fenomeni a velocità prossime a quella della luce. Da lì sono nate la relatività di Einstein e la meccanica quantistica, due teorie che hanno ampliato il quadro e che, pur con approcci diversi, permettono di fare previsioni in ambiti dove Newton non basta. Eppure, i razzi continuano a essere lanciati nello spazio grazie ai calcoli newtoniani: semplicemente, la sua fisica funziona finché si rimane dentro i suoi limiti di validità.

In tutti questi casi, la scienza non ha “provato l’inesistenza” di etere, flogisto o della validità universale della meccanica classica: ha mostrato che i dati non erano compatibili con quelle ipotesi, oppure che servivano modelli più ampi e predittivi per descrivere meglio la realtà.

La differenza tra scienza e pseudoscienza

Alla luce di tutto quanto scritto finora, si può ribadire con chiarezza che la scienza non fornisce verità eterne: propone modelli coerenti con le prove disponibili, validi finché i dati li confermano. Basta anche un solo dato contrario per metterli in crisi. In quel caso, il modello viene abbandonato oppure ampliato, formulando nuove ipotesi che ne estendano i limiti di validità.

La pseudoscienza, invece, gioca sporco: pretende di invertire l’onere della prova e chiede di dimostrare l’inesistenza dei suoi fantasmi. Non è un caso se, dopo più di due secoli, l’omeopatia è rimasta immobile, sempre uguale a se stessa, senza mai evolversi. O se l’agricoltura biodinamica – nonostante il supporto di figure accademiche che hanno scelto di accreditare l’esoterico come se fosse scienza – non sia mai riuscita a produrre una validazione sperimentale credibile. E l’elenco potrebbe continuare.

Come ammoniva Carl Sagan: affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie. Chi non porta prove, porta solo storie… e spesso nemmeno originali.

Conclusione

No, non si può provare l’inesistenza di qualcosa in senso assoluto. Quello che la scienza può fare, e che fa ogni giorno, è mostrare l’assenza di evidenze e smontare affermazioni che non reggono alla prova dei dati.

Per questo non ha senso chiedere di dimostrare che i fantasmi non infestano le vecchie case, che i preparati biodinamici non funzionano o che Dio non esiste. L’onere della prova spetta sempre a chi afferma, non a chi dubita.

La scienza non è un gioco di prestigio in cui si fanno sparire gli spettri: è un metodo per distinguere ciò che ha basi reali da ciò che resta soltanto una storia.

La Sindone e la scienza: dal Medioevo alla risonanza magnetica

Ormai lo sanno anche le pietre: mi occupo di risonanza magnetica nucleare su matrici ambientali. Tradotto per i non addetti: uso la stessa tecnica che in medicina serve a vedere dentro il corpo umano, ma applicata a tutt’altro – suoli, sostanza organica naturale, piante e materiali inerti. Ripeto: non corpi umani né animali, ma sistemi ambientali.

C’è un dettaglio curioso. I medici hanno tolto l’aggettivo “nucleare” dal nome, per non spaventare i pazienti. Peccato che, senza quell’aggettivo, l’espressione “risonanza magnetica” non significhi nulla: risonanza di cosa? elettronica, fotonica, nucleare? Io, che non ho pazienti da rassicurare, preferisco chiamare le cose con il loro nome: risonanza magnetica nucleare, perché studio la materia osservando come i nuclei atomici interagiscono con la radiazione elettromagnetica a radiofrequenza.

Non voglio dilungarmi: non è questa la sede per i dettagli tecnici. Per chi fosse curioso, rimando al mio volume The Environment in a Magnet edito dalla Royal Society of Chemistry.

Tutto questo per dire che in fatto di risonanza magnetica nucleare non sono proprio uno sprovveduto. Me ne occupo dal 1992, subito dopo la laurea in Chimica con indirizzo Organico-Biologico. All’epoca iniziai a lavorare al CNR, che aveva una sede ad Arcofelice, vicino Pozzuoli, in provincia di Napoli. È lì che cominciai a usare l’NMR per studiare la relazione struttura-attività dei metaboliti vegetali: un banco di prova perfetto per capire quanto questa tecnica potesse rivelare.

Successivamente passai all’Università degli Studi di Napoli Federico II, dove estesi l’uso della risonanza magnetica nucleare non solo alla fase liquida, ma anche a quella solida e semisolida. Non più soltanto metaboliti vegetali, dunque, ma matrici molto più complesse dal punto di vista chimico: il suolo e la sostanza organica ivi contenuta.

Con il mio trasferimento all’Università di Palermo ho potuto ampliare ulteriormente le competenze in NMR: dall’uso di strumenti a campo magnetico fisso sono passato allo studio delle stesse matrici naturali con spettrometri a campo variabile. Un passo avanti che mi ha permesso di guardare i sistemi ambientali con ancora più profondità e sfumature.

Ed eccomi qui, dopo più di trent’anni di esperienza, a spiegare perché chi immagina di usare la risonanza magnetica nucleare sulla Sindone di Torino forse ha una visione un po’… fantasiosa della tecnica.

Andiamo con ordine.

La Sindone di Torino: simbolo religioso e falso storico

La Sindone

La Sindone di Torino è un lenzuolo di lino lungo circa quattro metri che reca impressa l’immagine frontale e dorsale di un uomo crocifisso. Per il mondo cattolico rappresenta una delle reliquie più importanti: secondo la tradizione, sarebbe il sudario che avvolse il corpo di Cristo dopo la crocifissione. Attorno ad essa si è sviluppato un culto popolare immenso, fatto di pellegrinaggi e ostensioni pubbliche che ne hanno consacrato il valore spirituale.

Ma che cosa ci dice la scienza su questo straordinario manufatto?

La datazione al radiocarbonio

Il dato più solido arriva dalla datazione con il radiocarbonio. Nel 1988 tre laboratori indipendenti – Oxford, Zurigo e Tucson – pubblicarono sulla rivista Nature i risultati delle loro analisi: il lino della Sindone risale a un periodo compreso fra il 1260 e il 1390 d.C., cioè in piena epoca medievale (Damon et al., 1989). La conclusione degli autori fu inequivocabile: “evidence that the linen of the Shroud is mediaeval”.

Riproduzioni sperimentali

A rafforzare questa interpretazione è intervenuto anche il lavoro del chimico Luigi Garlaschelli, che ha realizzato una riproduzione della Sindone utilizzando tecniche compatibili con l’arte medievale: applicazione di pigmenti su un rilievo, trattamenti acidi per simulare l’invecchiamento, lavaggi parziali per attenuare il colore. Il risultato, esposto in varie conferenze e mostre, mostra come un artigiano del Trecento avrebbe potuto ottenere un’immagine con molte delle caratteristiche dell’originale (Garlaschelli, 2009).

Le conferme della storia

Anche le fonti storiche convergono. Un documento recentemente portato alla luce (datato 1370) mostra che già all’epoca un vescovo locale denunciava il telo come un artefatto, fabbricato per alimentare un culto redditizio (RaiNews, 2025). Questo si aggiunge al più noto documento del 1389, in cui il vescovo di Troyes, Pierre d’Arcis, scriveva a papa Clemente VII denunciando la falsità della reliquia.

Le contro-argomentazioni sindonologiche

Naturalmente, chi sostiene l’autenticità della Sindone non è rimasto in silenzio. Le principali obiezioni riguardano:

  1. Il campione del 1988 – secondo alcuni, la zona prelevata sarebbe stata contaminata da un rammendo medievale, o comunque non rappresentativa dell’intero telo (Karapanagiotis, 2025).
  2. L’eterogeneità dei dati – alcuni statistici hanno osservato che i tre laboratori non ottennero risultati perfettamente omogenei, segnalando possibili anomalie (Karapanagiotis, 2025).
  3. Eventi successivi – l’incendio di Chambéry del 1532, o la formazione di patine microbiche, avrebbero potuto alterare la concentrazione di carbonio-14, facendo sembrare il tessuto più giovane (Karapanagiotis, 2025).

Sono ipotesi discusse ma che non hanno mai trovato prove decisive: nessuna spiegazione è riuscita a giustificare in modo convincente come un tessuto del I secolo potesse apparire medievale a tre laboratori indipendenti.

Le nuove analisi ai raggi X

Negli ultimi anni si è parlato di nuove tecniche di datazione basate sulla diffusione di raggi X ad ampio angolo (WAXS). L’idea è di valutare il grado di cristallinità della cellulosa del lino: più il tessuto è antico, maggiore è la degradazione della sua struttura cristallina. Applicata a un singolo filo della Sindone, questa metodologia ha suggerito un’età più antica di quella medievale (De Caro et al., 2022).

Tuttavia, i limiti sono evidenti: si è analizzato un solo filo, e la cristallinità della cellulosa dipende non solo dal tempo, ma anche da condizioni ambientali come umidità, calore o contatto con sostanze chimiche. Inoltre, il metodo è recente e richiede ulteriori validazioni indipendenti. In sintesi: interessante come indicatore di degrado, ma non ancora un’alternativa solida al radiocarbonio.

Una nuova frontiera? L’NMR

Accanto a tutto ciò è emersa anche la proposta di applicare la risonanza magnetica nucleare (NMR) alla Sindone (Fanti & Winkler, 1998). Alcuni autori suggeriscono che questa tecnica possa rivelare “concentrazioni atomiche” di idrogeno, carbonio o azoto nel telo, o addirittura produrre mappe tomografiche.

Nel prossimo paragrafo entrerò nel dettaglio di questa prospettiva “NMR”, analizzando perché, alla luce dell’esperienza maturata in oltre trent’anni di lavoro su queste tecniche, considero queste proposte non solo irrealistiche, ma anche profondamente fuorvianti.

I limiti della prospettiva NMR

Tra le tante proposte avanzate negli anni, c’è anche quella di usare la risonanza magnetica nucleare per studiare la Sindone. Nel lavoro di Giulio Fanti e Ulf Winkler si ipotizza di applicare tecniche NMR per “vedere” la distribuzione di atomi come idrogeno, carbonio e persino azoto sul telo, o addirittura per ottenere mappe tomografiche simili a quelle della risonanza magnetica medica. Sulla carta può sembrare affascinante, ma nella pratica questa prospettiva presenta numerosi limiti.

Nel caso dei protoni (1H), ad esempio, gran parte del segnale in un lino asciutto deriva dall’acqua residua o da componenti volatili: un parametro che può variare fino all’80% semplicemente cambiando le condizioni ambientali. Inoltre, in un solido come il lino della Sindone, l’analisi 1H-NMR non offre risoluzione: lo spettro mostra soltanto due contributi sovrapposti, un picco stretto e intenso dovuto alle zone cristalline della cellulosa e una larga campana sottostante, tipica delle frazioni amorfe. È chiaro, quindi, che non solo è arduo quantificare i protoni, ma è del tutto irrealistico pensare di usarli per una datazione del tessuto.

Per quanto riguarda l’analisi al carbonio-13 (13C), ci sono diversi punti da sottolineare. La tecnica più usata è la CPMAS 13C-NMR: in questo caso una piccola quantità di campione, dell’ordine dei milligrammi, viene inserita in un porta-campioni invisibile all’NMR, posto nel campo magnetico secondo una geometria precisa, e il carbonio viene “visto” sfruttando l’abbondanza dei protoni. Si tratta però di una tecnica qualitativa: non consente una vera quantificazione del nucleo osservato. Inoltre, richiede tempi di misura molto lunghi, con costi elevati e il rischio concreto di non ottenere informazioni davvero utili.

L’alternativa sarebbe la DPMAS 13C-NMR. Qui, a differenza della CPMAS, non ci si appoggia ai protoni e quindi bisogna fare affidamento solo sull’abbondanza naturale del 13C, circa l’1%: troppo bassa. Di conseguenza i tempi macchina si allungano ulteriormente, con dispendio sia di tempo sia economico. E in più la tecnica è priva di risoluzione: i segnali dei diversi nuclei si sovrappongono in un unico inviluppo indistinguibile, rendendo impossibile perfino la stima del rapporto fra cellulosa cristallina e amorfa.

Quanto all’azoto-14 (14N), il nucleo è quadrupolare e produce linee larghissime e difficilmente interpretabili: in pratica, misure affidabili non sono realistiche.

Nel lavoro di Fanti e Winkler, ci sono poi anche problemi di coerenza interna. Nel testo, ad esempio, si ipotizzano tempi di rilassamento e acquisizione non compatibili con i valori sperimentali reali, e si propongono scenari come la “tomografia NMR dell’intero telo” che, per un materiale rigido e povero di mobilità come il lino secco, sono semplicemente impraticabili: i tempi di decadimento del segnale sono troppo brevi perché si possa ricostruire un’immagine come in risonanza magnetica medica.

Infine, il lavoro suggerisce di estendere le misure addirittura a mappature di radioattività con contatori Geiger o a esperimenti di irraggiamento con neutroni, ipotizzando collegamenti con la formazione dell’immagine. Si tratta di congetture prive di fondamento sperimentale, più vicine a un esercizio di fantasia che a un protocollo scientifico realistico.

In sintesi, Fanti e Winkler hanno portato il linguaggio della NMR nel dibattito sulla Sindone, ma le applicazioni che propongono si scontrano con limiti tecnici insormontabili e interpretazioni sbagliate.

L’NMR è uno strumento potentissimo per lo studio di suoli, sostanza organica e sistemi complessi, ma applicarlo alla Sindone nei termini proposti non ha basi scientifiche solide: rischia anzi di trasformare una tecnica seria in un’arma retorica al servizio di ipotesi precostituite.

Conclusioni

Alla fine dei conti, la Sindone di Torino resta ciò che la scienza ha già dimostrato da tempo: un manufatto medievale. Lo dice la datazione al radiocarbonio pubblicata su Nature; lo confermano le riproduzioni sperimentali di Luigi Garlaschelli e i documenti storici del Trecento che la denunciavano come artefatto devozionale; lo ribadiscono i limiti delle nuove tecniche “alternative” che, per quanto presentate come rivoluzionarie, non hanno mai scalfito la solidità del verdetto del 1988. Le contro-argomentazioni dei sindonologi — campioni non rappresentativi, rammendi invisibili, incendi o contaminazioni miracolose — sono ipotesi suggestive, ma prive di prove concrete e incapaci di spiegare perché tre laboratori indipendenti abbiano ottenuto lo stesso responso: Medioevo. Le proposte più recenti, come l’uso dei raggi X o addirittura della risonanza magnetica nucleare, non fanno che spostare il problema, avanzando idee tecnicamente fragili e spesso concettualmente errate.

La Sindone rimane dunque un oggetto straordinario, ma non perché testimoni la resurrezione di Cristo: straordinaria è la sua forza simbolica, straordinaria è la devozione che suscita, straordinaria è la capacità che ha avuto per secoli di alimentare fede, immaginazione e perfino business. Ma sul piano scientifico la questione è chiusa. Continuare a spacciarla per “mistero insoluto” significa ignorare le evidenze e trasformare la ricerca in propaganda. E questo, più che un atto di fede, è un insulto all’intelligenza.

Quando il rischio svanisce, cresce la paura: giudizio, percezione e vaccini

Nel mio articolo Dal Voltaren al vaccino: perché temiamo ciò che ci salva e ignoriamo ciò che ci nuoce mi sono chiesto come mai la sicurezza dei vaccini venga percepita come dubbia, quando invece le evidenze scientifiche mostrano l’opposto.

Un indizio ci arriva da un curioso fenomeno psicologico, studiato qualche anno fa da un gruppo di ricercatori di Harvard e pubblicato su Science: il prevalence-induced concept change, o, per dirla in breve, la tendenza ad ampliare i confini di un concetto man mano che il problema, cui il concetto si riferiva, diventa sempre meno visibile.

Gli autori dello studio – condotto attraverso sette esperimenti su centinaia di volontari – hanno utilizzato compiti molto diversi, dai più semplici ai più complessi. In uno di questi, ad esempio, hanno mostrato ai partecipanti migliaia di puntini colorati che variavano lungo un continuum dal viola al blu e hanno chiesto, test dopo test, di stabilire se ciascun puntino fosse blu oppure no. Al diminuire del numero di puntini blu, i soggetti cominciavano a essere più inclusivi nella definizione: anche puntini che in precedenza avrebbero classificato come viola cominciavano a essere etichettati come blu.

Lo stesso schema si è ripetuto in altri contesti. Per esempio, la valutazione delle espressioni facciali tendeva ad ampliare la definizione di minacciosità quando il numero di volti realmente minacciosi diminuiva. In altre parole, i partecipanti finivano per giudicare come “minacciose” anche espressioni neutre.

Lo stesso si è osservato quando ai volontari è stato chiesto di valutare l’eticità di proposte di ricerca: quando quelle eticamente discutibili diventavano sempre meno numerose, i volontari finivano per giudicare “non etiche” perfino proposte del tutto innocue.

Insomma, al calare della frequenza del problema reale, la mente dei volontari spostava i confini della definizione, includendo dentro la categoria situazioni che in precedenza ne sarebbero rimaste fuori.

È facile capire perché questo meccanismo, utile in altri contesti evolutivi – ad esempio nel riconoscere possibili predatori a partire da indizi minimi, nello scartare cibi anche solo vagamente simili a quelli velenosi o nell’individuare segnali di ostilità nei rapporti sociali – oggi possa giocarci brutti scherzi. Applicato ai vaccini, diventa quasi lampante. Più le malattie infettive diventano rare grazie all’immunizzazione, più tendiamo a ingigantire i rischi, anche minimi, dei vaccini stessi. Eppure, di morbillo si può morire: ancora oggi nei paesi dove la copertura vaccinale è insufficiente si registrano decessi. Il vaiolo, invece, è stato eradicato proprio grazie alla vaccinazione di massa: per secoli ha seminato terrore e morte, oggi non fa più paura solo perché non esiste più nella nostra esperienza quotidiana. Lo stesso vale per malattie come la poliomielite, che può lasciare paralisi permanenti, o la difterite, che ostruisce le vie respiratorie: patologie che i vaccini hanno reso quasi invisibili in gran parte del mondo, al punto che molti non le percepiscono più come minacce reali.

In questo vuoto di percezione, ogni piccolo segnale post-vaccinazione viene sovradimensionato. Un dolore al braccio o una febbriciattola diventano indizi di pericolo grave. Episodi rarissimi finiscono in prima pagina e assumono un peso sproporzionato rispetto all’enorme beneficio collettivo. La percezione si deforma: non vediamo più il quadro generale – la scomparsa o il contenimento di malattie mortali – ma inseguiamo il dettaglio marginale.

E qui entra in gioco la disinformazione. Basta prendere un evento raro, magari un caso clinico eccezionale, e presentarlo come se fosse frequente. L’effetto è immediato: chi legge o ascolta ha l’impressione che i vaccini siano pieni di insidie, anche se i dati mostrano l’esatto contrario. Anzi, paradossalmente la loro stessa sicurezza – dimostrata da miliardi di dosi somministrate senza conseguenze gravi – alimenta la nostra disponibilità a credere alle paure: siccome le malattie non le vediamo più, ci concentriamo sul resto.

La disinformazione, però, non è mai neutrale. C’è sempre qualcuno che ha interesse a diffonderla o, quantomeno, a cavalcarla. Cui prodest? Chi ci guadagna? A volte sono gruppi organizzati che vendono prodotti alternativi, dalle cure miracolose agli integratori “rinforzanti” da assumere al posto dei vaccini. Altre volte sono influencer e canali che cercano visibilità, like, condivisioni: la paura è un potente amplificatore di traffico. E non mancano attori politici che, agitando lo spettro di un presunto complotto, riescono a costruire consenso e identità contro il “sistema”.

Il risultato è che un successo straordinario della scienza – i vaccini che hanno ridotto poliomielite, difterite, morbillo e tante altre infezioni – rischia di apparire, nella percezione comune, come una minaccia anziché come una protezione. È l’ennesima dimostrazione che i dati, da soli, non bastano: servono anche strumenti culturali per difendersi dalla manipolazione del giudizio.

E allora, la prossima volta che qualcuno ci racconta un aneddoto allarmistico, proviamo a fermarci un istante e chiederci: sto giudicando i dati o sto cedendo a un’illusione della percezione?
Perché non sempre ciò che vediamo riflette la realtà. Spesso riflette i tranelli della nostra mente.

Ed è proprio su questi tranelli che i movimenti no-vax costruiscono la loro narrazione: ingigantiscono casi marginali, ignorano le prove scientifiche e alimentano paure che non hanno alcun fondamento. Ma i dati parlano chiaro: i vaccini salvano milioni di vite ogni anno, hanno debellato il vaiolo, ridotto la poliomielite e reso rare malattie che per secoli hanno mietuto vittime. Rifiutarli non è un atto di libertà: è un atto di incoscienza che mette a rischio non solo chi li rifiuta, ma anche chi non può vaccinarsi.

La vera libertà non è cedere a una menzogna rassicurante. La vera libertà è scegliere sulla base delle evidenze, senza farsi manipolare da chi, per interesse o ideologia, lucra sulla paura degli altri.

Dal Voltaren al vaccino: perché temiamo ciò che ci salva e ignoriamo ciò che ci nuoce

Uno dei cavalli di battaglia degli antivaccinisti, soprattutto durante la pandemia di Covid, è stato: Non sappiamo cosa ci iniettano. Una frase che sembra prudente, ma che in realtà nasconde il vuoto più assoluto. In rete, e purtroppo anche in certi palchi mediatici, si sono lette e ascoltate fandonie indegne: vaccini pieni di grafene, di materiale “fetale”, di microchip. Panzane. Bufale. Balle cosmiche spacciate per verità scomode.

Il punto è che la percezione del rischio, quando si parla di vaccini, viene distorta fino al ridicolo. Gli stessi che si indignano davanti a una fiala di vaccino non si fanno problemi ad abusare di Voltaren per un mal di schiena, di Tachipirina per un raffreddore o di Aspirina a stomaco vuoto. Farmaci che, se presi male o in dosi eccessive, hanno effetti collaterali ben documentati e tutt’altro che lievi. Ma nessuno apre gruppi Telegram per denunciare il “complotto della Tachipirina”.

E allora torniamo alle basi. La differenza tra pericolo e rischio.
Il pericolo è una proprietà intrinseca di una sostanza: la candeggina, per esempio, è pericolosa. Ma il rischio dipende dall’uso: se non la bevi, se non la respiri, la candeggina non ti ammazza. Lo stesso vale per i farmaci. Aspirina e Tachipirina hanno pericoli reali, ma li consideriamo a basso rischio perché li usiamo con buon senso.

Con i vaccini si è creata la tempesta perfetta: un farmaco nuovo, un’emergenza sanitaria mondiale e un esercito di disinformatori pronti a manipolare la paura. Eppure, i dati clinici erano chiari già nel 2021: i vaccini anti-Covid erano molto più sicuri di tanti farmaci da banco. I rischi di complicazioni gravi erano rarissimi, infinitamente inferiori rispetto a quelli legati alla malattia. Ma invece di guardare i numeri, ci si è lasciati spaventare dai fantasmi.

C’è chi liquida la pandemia come una “farsa”, chi parla di “censura” e di “virostar” in televisione. È il classico copione: invece di discutere sui dati, si attacca chi li porta. Roberto Burioni e altri virologi sono stati accusati di essere “ospiti fissi” senza contraddittorio. Ma davvero serve un contraddittorio tra chi studia i virus da decenni e chi diffonde complotti sui microchip nei vaccini? Sarebbe come chiedere di contrapporre un astrologo a un astronomo quando si parla di orbite planetarie.

La realtà è che i dati c’erano, e chiunque poteva consultarli: studi clinici, report di farmacovigilanza, pubblicazioni scientifiche. Non erano nascosti – erano ignorati. La vera censura è quella che gli antivaccinisti applicano a se stessi e ai loro seguaci: censura dei numeri, censura dei fatti, censura del pensiero critico.

Il risultato? Una percezione capovolta: farmaci familiari diventano “innocui per definizione”, mentre vaccini che hanno salvato milioni di vite vengono descritti come “veleni sperimentali”. Non è prudenza, è ignoranza travestita da saggezza.

Chiariamo una volta per tutte: i vaccini non sono perfetti, ma nessun farmaco lo è. La differenza è che i vaccini non curano soltanto: prevengono, riducono i contagi, salvano intere comunità. Attaccarli con menzogne non è opinione, è irresponsabilità sociale.

In fondo, la chimica e la farmacologia ci dicono una cosa semplice: nessuna sostanza è innocua, nemmeno l’acqua. È il contesto, la dose, l’uso che fanno la differenza. Non capirlo – o, peggio, fingere di non capirlo per ideologia – significa giocare con la salute propria e quella altrui.

Il vero pericolo, oggi, non sono i vaccini. Sono gli antivaccinisti.

Alochimica o Chelichimica? La scienza quotidiana dietro gli aloni delle magliette

Cari lettori vicini e lontani,

vi siete mai chiesti perché si formano gli aloni gialli sotto le ascelle delle maglie chiare? È tutta questione di chimica.

Oltre alla normale igiene personale – uso di acqua e sapone – facciamo molto ricorso a quelli che chiamiamo deodoranti ascellari. In realtà, molti di essi sono deodoranti nel senso che contengono profumi che servono a coprire i cattivi odori che produciamo dopo una giornata intensa. Tuttavia, la maggior parte dei prodotti in commercio contiene anche sostanze chimiche in grado di ridurre la produzione di sudore. In altre parole, sono veri e propri antitraspiranti.

I miei amici biologi e medici mi perdonino se uso un linguaggio un po’ semplificato: il mio obiettivo qui non è fare un trattato, ma spiegare in modo chiaro ciò che accade sotto le nostre ascelle.

Il sudore: un condizionatore naturale

Innanzitutto. diciamo che il sudore ha un ruolo fisiologico molto importante. Per capire meglio, proviamo con un esempio semplice: avete mai bagnato le mani con alcol etilico in estate? Ricorderete la sensazione di fresco che si avverte subito dopo. Perché succede?

L’evaporazione di un liquido – cioè, il passaggio dalla fase liquida a quella gassosa – è un processo che richiede energia. In termini fisici, il sistema assorbe calore dall’ambiente circostante, ovvero la pelle su cui abbiamo messo l’alcol etilico: ecco perché, dopo applicazione di alcol, abbiamo una sensazione di freschezza.

Il sudore funziona allo stesso modo. È composto principalmente da acqua, che evaporando sulla nostra pelle porta via calore e ci aiuta a regolare la temperatura corporea. A questo si aggiungono sali (soprattutto cloruro di sodio), piccole quantità di proteine, lipidi e altre molecole prodotte dal metabolismo.

Da solo, il sudore non ha un odore particolarmente sgradevole. Quell’odore tipico che associamo alle “ascelle sudate” nasce in realtà dall’azione dei batteri che vivono normalmente sulla nostra pelle: essi degradano alcune delle sostanze organiche contenute nel sudore, producendo composti maleodoranti.

Il ruolo dei deodoranti e degli antitraspiranti

Ed eccoci ai deodoranti e agli antitraspiranti. Molti prodotti contengono sali di alluminio (come il cloruro o il cloridrato di alluminio), che riducono la traspirazione formando una sorta di tappo temporaneo nei dotti sudoripari. In questo modo restiamo “asciutti” più a lungo, ma si innescano anche conseguenze meno gradite per i nostri vestiti. Gli aloni gialli, infatti, non derivano semplicemente dal sudore, bensì da una vera e propria orchestra di reazioni chimiche che coinvolgono diversi attori: i sali di alluminio presenti negli antitraspiranti interagiscono con le proteine e i metaboliti azotati del sudore, generando complessi stabili dalle sfumature giallo-brune che si fissano nelle fibre del cotone. Una parte dell’ingiallimento ricorda, in scala ridotta, le reazioni di Maillard, le stesse che fanno dorare pane e biscotti: qui entrano in gioco gli amminoacidi del sudore e i carboidrati della cellulosa del tessuto, catalizzati dal calore corporeo e dalla presenza di metalli. Anche i lipidi e gli acidi grassi secreti dalle ghiandole apocrine danno il loro contributo, andando incontro a processi di ossidazione che producono composti colorati, simili a quelli che rendono irrancidito un olio da cucina. Infine, i residui organici dei deodoranti stessi – fragranze, tensioattivi, polimeri – possono degradarsi e ossidarsi, consolidando l’alone. È, in definitiva, una piccola “reazione chimica da guardaroba”, in cui si intrecciano almeno quattro sistemi: complessi metallo-proteici, reazioni zuccheri-proteine, ossidazioni lipidiche e trasformazioni dei composti organici residui.

Dall’alone al buco: la lenta agonia del cotone

C’è poi un’altra conseguenza meno evidente ma altrettanto fastidiosa: con il tempo le fibre di cellulosa del tessuto, sottoposte a sudore e residui di deodorante, tendono a irrigidirsi e a diventare fragili. Anche qui la chimica ha un ruolo chiave. I sali di alluminio si comportano come veri e propri agenti reticolanti: creano legami incrociati tra le catene della cellulosa, irrigidendo la trama del tessuto. A questo si aggiunge l’effetto dei prodotti di ossidazione del sudore e dei lipidi, che modificano la struttura superficiale delle fibre, rendendole meno elastiche e più inclini a rompersi sotto stress meccanico. È per questo che, oltre agli aloni gialli, le magliette “storiche” finiscono spesso per bucarsi proprio nella zona delle ascelle: le fibre non cedono più in modo elastico, ma si spezzano come se fossero diventate fragili.

Alochimica o chelichimica?

Traendo spunto dall’intervista impossibile a Herr Goethe, potremmo battezzare questo intreccio di reazioni quotidiane con un nome nuovo: Alochimica, la chimica degli aloni, che ci accompagna tanto nel cielo quanto nell’armadio. Il termine deriva dal greco ἅλως, “alone luminoso”, riferito agli astri. In realtà, a voler essere più precisi, dovremmo guardare a κηλίς, che significa “macchia”: da qui il possibile neologismo Chelichimica. In italiano, però, Alochimica suona più evocativo e musicale, mentre Chelichimica è forse più corretto dal punto di vista etimologico sebbene meno immediato. A voi la scelta: quale vi piace di più?

Come prevenire gli aloni (o almeno ridurli)

Alcuni semplici accorgimenti possono limitare il problema:

Conclusione

Dietro un alone giallo c’è molta più chimica di quanto immaginiamo. È la stessa chimica che ci permette di sudare e sopravvivere al caldo, che regola l’equilibrio del nostro corpo e ci difende dallo stress termico. Ma è anche quella che, una volta trasferita sui tessuti insieme ai deodoranti, avvia una catena di reazioni che finisce per lasciare un segno visibile e, a volte, indelebile. Così una semplice maglietta bianca diventa una piccola lavagna su cui si scrivono storie di evaporazione, ossidazione, complessi metallici e fibre irrigidite.

Ecco allora che possiamo parlare, con un pizzico di ironia, di una vera e propria chimica degli aloni domestica: qualcuno la chiamerebbe Alochimica, dal greco ἅλως, “alone luminoso”; altri preferirebbero Chelichimica, da κηλίς, “macchia”. Due nomi diversi per lo stesso intreccio di reazioni quotidiane, che non si manifesta solo nel cielo quando guardiamo il sole o la luna, ma anche nel nostro armadio, tra i vestiti di tutti i giorni. Una scienza silenziosa che ci accompagna ovunque e che, a saperla leggere, trasforma persino un alone giallo sotto l’ascella in un piccolo racconto di meraviglia chimica.

Il fascino segreto dei complotti: tra mitologia e realtà

Chiunque navighi un po’ sui social sa che prima o poi finirà per imbattersi in una teoria del complotto. Le scie chimiche, il 5G, i vaccini, società segrete che tirerebbero i fili del mondo: racconti affascinanti che spesso viaggiano più veloci delle notizie verificate. A volte fanno sorridere, altre volte mettono i brividi. Ma il punto interessante è un altro: perché sembrano così attraenti? E perché, nonostante viviamo nell’epoca della massima disponibilità di informazioni, hanno tanto successo?

Che cos’è una teoria del complotto

Una teoria del complotto non è semplicemente un sospetto o un dubbio legittimo. È un racconto strutturato, che propone una spiegazione alternativa di eventi complessi attribuendone la responsabilità a un gruppo ristretto e potente che agirebbe nell’ombra. In sé, l’idea di complotto non è assurda: la storia è piena di trame segrete e accordi illeciti che hanno avuto un impatto reale. Basti pensare al Watergate negli Stati Uniti o a Tangentopoli in Italia, episodi che hanno mostrato come politici e imprenditori possano effettivamente cospirare per i propri interessi.

La differenza fondamentale tra un complotto reale e una teoria complottista sta nelle prove. Nel primo caso disponiamo di documenti, testimonianze, indagini giornalistiche e processi che permettono di ricostruire i fatti. Nel secondo, invece, le “prove” sono spesso vaghe: interpretazioni arbitrarie o coincidenze cucite insieme in un’unica trama.

Come si è visto, nella nostra lingua il termine complotto viene usato in entrambi i sensi, generando ambiguità. Una distinzione più chiara sarebbe parlare di cospirazione quando ci riferiamo a eventi storici reali e documentati, e riservare l’espressione teoria del complotto ai racconti speculativi privi di fondamento.

Indipendentemente dal lessico scelto, resta il fatto che il fascino delle teorie complottiste non nasce dalla loro solidità logica, ma dalla loro capacità di trasformare frammenti sparsi in storie suggestive e coinvolgenti.

Psicologia dei complotti: perché ci crediamo

Molti studiosi hanno mostrato come le teorie del complotto facciano leva su meccanismi profondi della nostra mente. Uno dei più radicati è la tendenza a riconoscere schemi anche dove non ci sono: è ciò che lo psicologo Michael Shermer ha chiamato patternicity. Collegare eventi casuali in una trama coerente ci dà l’impressione di capire meglio il mondo, anche quando in realtà stiamo solo costruendo connessioni inesistenti.

A questo si aggiunge il cosiddetto confirmation bias, il pregiudizio di conferma: una volta che abbiamo un’idea in testa, siamo portati a cercare solo le informazioni che la confermano, scartando quelle che la contraddicono. È un meccanismo che funziona inconsciamente e che rende molto difficile cambiare opinione. E non riguarda solo le persone comuni: anche scienziati illustri vi sono caduti. Linus Pauling, due volte premio Nobel, rimase convinto per decenni che la vitamina C fosse una sorta di rimedio universale, nonostante le evidenze contrarie. Luc Montagnier, scopritore del virus HIV, ha sposato in tarda carriera teorie prive di fondamento come la “memoria dell’acqua”. Perfino James Watson, co-scopritore del DNA, ha difeso posizioni discutibili sull’intelligenza e la genetica. Sono esempi che mostrano come il fascino delle proprie idee possa resistere ai dati più solidi.

Non bisogna poi dimenticare un altro aspetto fondamentale: le teorie del complotto rispondono a un bisogno psicologico di controllo. Eventi grandi e imprevedibili – come una pandemia o una crisi economica – possono generare ansia e senso di impotenza. Pensare che ci sia qualcuno “dietro le quinte” che orchestra tutto può sembrare paradossalmente più rassicurante che accettare la realtà caotica e complessa. Infine, c’è il fascino della narrazione: un complotto è, in fondo, una storia. Ha i suoi eroi, i suoi nemici, i suoi colpi di scena. E spesso, dal punto di vista narrativo, è molto più attraente della verità semplice e disordinata.

Quando sapere poco sembra sapere tanto

Un altro ingrediente che contribuisce al successo dei complotti è quello che gli psicologi David Dunning e Justin Kruger hanno descritto ormai più di vent’anni fa: il cosiddetto effetto Dunning-Kruger. Si tratta della tendenza, molto diffusa, delle persone con competenze limitate a sopravvalutare le proprie conoscenze. Chi conosce poco un argomento non ha gli strumenti per valutare la propria ignoranza e finisce per sentirsi molto più competente di quanto sia.

Sui social media questo fenomeno è evidente: chi non ha una formazione scientifica solida può mostrarsi estremamente sicuro di “aver capito” meccanismi complessi che, in realtà, studiosi con anni di esperienza trattano con cautela. È la paradossale sicurezza di chi sa poco, contrapposta al dubbio metodico di chi sa di più.

Accanto a questo, esiste un problema culturale più ampio: il cosiddetto analfabetismo di ritorno. Non significa non saper leggere o scrivere, ma non essere in grado di comprendere testi complessi, grafici, numeri, concetti logici. È un fenomeno documentato anche nei Paesi sviluppati: molte persone diplomate o laureate hanno difficoltà a interpretare correttamente un articolo scientifico o un’informazione statistica. Questo rende più facile affidarsi a slogan semplici, a video emozionali o a frasi ad effetto che non richiedono uno sforzo di analisi.

Quando la sovrastima di sé si unisce alla scarsa comprensione dei contenuti complessi, il terreno è fertile per i complotti. Una spiegazione semplice, anche se sbagliata, risulta più convincente di una realtà intricata che richiede studio e pazienza per essere compresa.

Il megafono dei social media

I social media non hanno inventato i complotti, ma li hanno resi virali come mai prima d’ora. Gli algoritmi che regolano la visibilità dei contenuti tendono a premiare ciò che suscita emozioni forti: indignazione, paura, rabbia. E poche cose funzionano meglio di una buona teoria del complotto.

Così, una voce marginale può crescere rapidamente fino a diventare un fenomeno di massa. Le comunità online che si formano intorno a queste narrazioni funzionano come camere dell’eco: chi ne fa parte trova continuamente conferme, rafforzando la propria convinzione e allontanandosi progressivamente da fonti alternative. L’effetto è quello di una polarizzazione crescente, dove chi prova a introdurre dubbi o dati correttivi viene percepito come un nemico o un ingenuo “complice del sistema”.

Quando il complotto diventa pericoloso

Le teorie del complotto non sono soltanto curiosità folkloristiche della rete: possono avere conseguenze molto concrete e spesso gravi. Un esempio evidente lo abbiamo vissuto durante la pandemia di COVID-19: la diffusione di narrazioni false sui vaccini o sull’origine del virus ha alimentato paure irrazionali, rallentato le campagne di prevenzione e, in alcuni casi, messo a rischio la salute pubblica. Ma non si tratta solo di medicina.

I complotti possono minare la fiducia nelle istituzioni democratiche, spingere le persone a rifiutare dati scientifici fondamentali – come quelli sul cambiamento climatico – e perfino fomentare conflitti sociali. Non mancano esempi in cui comunità online complottiste hanno alimentato forme di odio, radicalizzazione e violenza. In fondo, ogni complotto funziona un po’ come una lente distorta: divide il mondo in “noi” e “loro”, i pochi illuminati contro i tanti manipolati, creando una frattura che si allarga nella società reale.

La pericolosità sociale delle teorie del complotto sta proprio qui: non solo diffondono disinformazione, ma indeboliscono il tessuto di fiducia reciproca su cui si reggono le comunità. Il movimento QAnon, ad esempio, ha eroso la fiducia nelle istituzioni democratiche fino a culminare nell’assalto al Campidoglio; le false narrazioni sul cambiamento climatico hanno rallentato le politiche di mitigazione globale; durante l’epidemia di Ebola in Africa occidentale, i complotti sulla presunta origine artificiale del virus portarono a diffidenza e ostilità verso le squadre mediche. Senza fiducia, diventa molto più difficile collaborare, prendere decisioni condivise, affrontare sfide collettive.

Un problema epistemologico: critica o sfiducia?

A questo punto, il discorso si sposta su un piano più profondo: quello epistemologico, cioè del modo in cui costruiamo e valutiamo la conoscenza. Qui il pensiero di Evandro Agazzi, filosofo della scienza che ha riflettuto molto sul rapporto tra razionalità e verità, può essere illuminante. Agazzi distingue tra razionalità critica e sfiducia generalizzata.

La razionalità critica è l’atteggiamento che dovrebbe guidare ogni scienziato: dubitare, verificare, controllare le fonti. È un esercizio sano, indispensabile, che permette di correggere errori e migliorare le nostre conoscenze. La sfiducia generalizzata, invece, è un atteggiamento diverso: non è un dubbio metodico, ma un rifiuto sistematico di qualunque autorità o dato ufficiale. È l’idea che tutto ciò che viene dalle istituzioni, dagli esperti, dai ricercatori sia per definizione falso o manipolato.

La differenza è sottile, ma decisiva. La scienza vive della prima, mentre le teorie complottiste prosperano sulla seconda. In altre parole, non è lo spirito critico a generare complotti, ma la sua caricatura: una sfiducia cieca che porta a credere solo a ciò che si adatta al proprio pregiudizio.

Conclusione: la verità è meno spettacolare, ma più solida

Ridicolizzare chi crede ai complotti è una tentazione comprensibile, ma spesso controproducente. Le persone finiscono per sentirsi attaccate e si rifugiano ancora di più nelle proprie convinzioni. È più utile capire i meccanismi che portano a credere in certe narrazioni e proporre alternative: una buona educazione al pensiero critico, la capacità di distinguere tra scetticismo sano e sfiducia totale, la diffusione di una cultura scientifica accessibile ma rigorosa.

La verità, ammettiamolo, non avrà mai il fascino di un grande intrigo segreto: non promette trame lineari né colpi di scena spettacolari. È frammentaria, complessa, a volte persino noiosa. Ma ha un vantaggio che nessun complotto inventato può vantare: resiste al tempo. L’ombra seducente dei complotti svanisce alla luce dei fatti, e alla lunga, è sempre quella luce a illuminare la strada.

Dal lisenkoismo ai “fatti alternativi”: un monito per l’Italia

Introduzione

Mi accingo a scrivere questo articolo prendendo spunto da un recente pezzo del mio amico e collega Enrico Bucci, pubblicato su Il Foglio e disponibile anche sul suo blog al seguente link: Contro il populismo sanitario.

Ad Enrico va il merito di aver messo a fuoco con grande chiarezza un nodo cruciale del dibattito contemporaneo: l’uso distorto di parole come libertà e pluralismo per giustificare la presenza, nei tavoli scientifici, di opinioni che nulla hanno a che vedere con la solidità delle prove.

Partendo dalle sue riflessioni, vorrei proporre un parallelismo storico che ci aiuta a comprendere meglio la posta in gioco, ma che al tempo stesso mostra come noi italiani non abbiamo mai fatto buon uso delle lezioni che la storia ci consegna.

Non è un caso, del resto, se oggi viviamo in una realtà che, a mio avviso, ricorda la fine dell’Impero Romano e preannuncia gli anni più bui dell’alto medioevo. Pur disponendo di una tecnologia senza precedenti e di possibilità di conoscenza mai così ampie, siamo circondati da ignoranza bieca e da un populismo slogan-based che erode secoli di evoluzione culturale.

Il parallelismo di cui voglio discutere ci porta indietro di quasi un secolo, nell’Unione Sovietica di Stalin, quando un agronomo di nome Trofim Denisovič Lysenko riuscì a piegare la scienza alle esigenze della politica, con conseguenze drammatiche.

Chi era Lysenko

Trofim Denisovič Lysenko nacque in Ucraina nel 1898, in un’epoca in cui la genetica mendeliana stava già gettando basi solide in Europa e negli Stati Uniti, aprendo una nuova stagione di scoperte che avrebbe cambiato per sempre la biologia. Mentre il mondo avanzava verso la modernità scientifica, egli imboccò una via diversa: più comoda per la retorica del potere che per la verità sperimentale.

Convinto che i caratteri acquisiti dalle piante durante la loro vita – come l’adattamento al freddo – potessero essere trasmessi alle generazioni successive, Lysenko resuscitava sotto nuove vesti un lamarckismo ormai screditato. Non era innovazione, ma regressione: una costruzione ideologica spacciata per scienza, utile a chi voleva piegare la natura alla volontà politica.

La sua pratica più celebre, la cosiddetta vernalizzazione, prometteva raccolti miracolosi. “Educando” i semi al gelo, sosteneva, li si sarebbe resi più fertili e produttivi. Una favola travestita da metodo, priva di fondamento sperimentale, che però parlava il linguaggio dei sogni collettivi e delle promesse facili: quello stesso linguaggio che i regimi totalitari e i populismi di ogni epoca amano usare per sedurre le masse e zittire la scienza.

L’appoggio di Stalin

Il destino di Lysenko cambiò radicalmente nel 1935, quando presentò le sue teorie davanti al vertice del regime. In quell’occasione, Stalin lo incoraggiò pubblicamente con un secco ma inequivocabile: «Bravo, compagno Lysenko!». Quelle parole, apparentemente banali, furono in realtà una sentenza: da quel momento, la sua ascesa divenne inarrestabile.

Non contavano più le prove, non contavano i dati, non contava la comunità scientifica internazionale: ciò che contava era la fedeltà ideologica. Lysenko incarnava perfettamente il messaggio che Stalin voleva trasmettere al popolo: la natura, come l’uomo sovietico, era malleabile, poteva essere piegata e trasformata a piacere dal potere politico.

In un Paese dove il dissenso significava prigione o morte, l’agronomo ucraino divenne il simbolo della “scienza ufficiale”, il vessillo di una biologia che non cercava la verità, ma l’approvazione del dittatore. La fedeltà alla linea sostituiva la fedeltà ai fatti: e da quel momento, in URSS, non era più la scienza a guidare la politica, ma la politica a decidere che cosa fosse scienza.

Il crimine contro la ragione

Il prezzo di questa deriva fu immenso, pagato non solo dalla comunità scientifica ma da milioni di cittadini sovietici.

La genetica mendeliana venne bandita come “scienza borghese” e i libri che la insegnavano finirono al macero. Le cattedre universitarie furono svuotate, i laboratori costretti ad abbandonare ricerche rigorose per piegarsi alle direttive di regime. In un colpo solo, l’Unione Sovietica si amputò di decenni di progresso scientifico.

Gli scienziati che osavano resistere pagarono un prezzo terribile. Il caso più emblematico fu quello di Nikolaj Vavilov, uno dei più grandi genetisti del XX secolo, che aveva dedicato la vita a raccogliere semi da ogni angolo del pianeta per assicurare all’umanità la sicurezza alimentare. Arrestato, processato come “nemico del popolo” e internato in un gulag, morì di stenti nel 1943. La sua fine è il simbolo di una scienza libera sacrificata sull’altare della fedeltà ideologica.

Le pratiche agricole di Lysenko, prive di fondamento, furono applicate su larga scala e condannarono intere regioni alla fame. Le promesse di raccolti miracolosi si infransero nella realtà dei campi sterili, e carestie devastanti falciarono milioni di vite.

Così, nel nome di un dogma politico, la verità fu soffocata, la scienza ridotta a propaganda e la popolazione trasformata in vittima sacrificale. Il lisenkoismo non fu soltanto un errore scientifico: fu un crimine storico contro la ragione e contro il popolo.

Le ombre di casa nostra

Il fascismo italiano

E non è necessario guardare soltanto a Mosca per cogliere questo meccanismo. Anche l’Italia fascista impose il suo controllo alle università attraverso il giuramento di fedeltà al regime. Solo dodici professori ebbero il coraggio di rifiutare: un numero esiguo, che mostra quanto fragile diventi la libertà accademica quando il potere politico pretende obbedienza invece di pensiero critico.

Il fascismo non si fermò lì: con il Manifesto della razza, firmato da accademici italiani compiacenti, la scienza fu ridotta a strumento di propaganda, piegata a giustificare l’ideologia razzista del regime. È un precedente che dovrebbe farci rabbrividire, perché dimostra che anche nel nostro Paese la comunità scientifica può essere sedotta, intimidita o resa complice.

L’Italia di oggi

E oggi? Il controllo non passa più attraverso giuramenti di fedeltà o manifesti infami, ma attraverso nuove forme di ingerenza: la burocratizzazione estrema, la trasformazione dell’università in un apparato amministrativo svuotato di senso critico, e persino la proposta – inquietante – di introdurre i servizi segreti all’interno degli atenei (Servizi segreti nelle università: i rischi del ddl sicurezza; Ricerca pubblica, servizi segreti: il ddl sicurezza e l’università). Cambiano le forme, ma la logica resta la stessa: soffocare la libertà del sapere sotto il peso del controllo politico.

Pluralismo o propaganda?

Oggi nessuno rischia più il gulag, ma il meccanismo che vediamo riproporsi ha la stessa logica corrosiva.

Ieri, in Unione Sovietica, l’accesso al dibattito scientifico era subordinato alla fedeltà ideologica al regime.
Oggi, in Italia e in altre democrazie occidentali, il rischio è che l’accesso ai tavoli scientifici sia garantito non dalla forza delle prove ma dalla forza delle pressioni politiche e mediatiche, camuffate sotto la parola rassicurante di pluralismo.

Qui sta l’inganno: confondere due piani radicalmente diversi.

  • Il pluralismo politico è un pilastro della democrazia: rappresenta valori, interessi, visioni del mondo.
  • Il pluralismo scientifico invece non è questione di sensibilità o di opinioni: è confronto tra ipotesi sottoposte allo stesso vaglio, alla stessa verifica, alla stessa brutalità dei fatti.

Se i due piani vengono confusi, allora ogni opinione – per quanto priva di fondamento – reclama pari dignità. È così che la pseudoscienza trova la sua sedia accanto alla scienza: l’omeopatia diventa “alternativa terapeutica”, la biodinamica “agricoltura innovativa”, il no-vax “voce da ascoltare”. È il falso equilibrio, l’illusione che esista sempre una “controparte” legittima anche quando le prove hanno già da tempo pronunciato il loro verdetto.

Ecco il punto: quando la politica impone la par condicio delle opinioni in campo scientifico, non difende la democrazia, ma la tradisce. Toglie ai cittadini la bussola della conoscenza verificata e li abbandona in balìa delle narrazioni. È la stessa logica che portò Lysenko al trionfo: non contavano i dati, contava il gradimento del potere.

Oggi, in un’Italia soffocata da slogan e da populismi che si travestono di democrazia mentre erodono la cultura, questo monito pesa come un macigno. La lezione di Lysenko ci dice che non esiste compromesso tra scienza e ideologia: o la scienza resta fedele al metodo e ai fatti, o smette di essere scienza e diventa propaganda.

Conclusione

La vicenda di Lysenko non è un reperto da manuale di storia della scienza: è un monito vivo, che parla a noi, oggi. Ci ricorda che ogni volta che la politica pretende di piegare la scienza a logiche di consenso, ogni volta che si invoca il “pluralismo” per spalancare le porte a tesi già smentite, ogni volta che l’evidenza viene relativizzata in nome della rappresentanza, non stiamo ampliando la democrazia: stiamo segando il ramo su cui essa stessa si regge.

La scienza non è perfetta, ma è l’unico strumento che l’umanità abbia costruito per distinguere il vero dal falso in campo naturale. Se la sostituiamo con il gioco delle opinioni, ci ritroveremo non in una società più libera, ma in una società più fragile, più manipolabile, più esposta all’arbitrio dei potenti di turno.

Ecco perché il parallelismo con il lisenkoismo non è un eccesso retorico, ma un allarme. Allora furono milioni le vittime della fame; oggi rischiamo vittime diverse, più silenziose ma non meno gravi: la salute pubblica, l’ambiente, la fiducia stessa nelle istituzioni.

La domanda che dobbiamo porci, senza ipocrisie, è semplice:
vogliamo una scienza libera che guidi la politica, o una politica che fabbrica la sua scienza di comodo?

La storia ci ha già mostrato cosa accade quando si sceglie la seconda strada. Ignorarlo, oggi, sarebbe un crimine non meno grave di quello commesso ieri. Oggi l’Italia deve scegliere se vuole una scienza libera o un nuovo lisenkoismo democratico

 

«I really believe deeply in science; it is my life and the purpose of my life. I do not hesitate to give my life even for the smallest bit of science.»
– Nikolai Vavilov, parole attribuite a Vavilov durante la prigionia

Così parlò Bellavite: quando la retorica si traveste da scienza

Introduzione

Di recente Paolo Bellavite, professore associato presso l’Università di Verona, in pensione dal 2017 e noto per le sue posizioni critiche verso le vaccinazioni e per la promozione dell’omeopatia, ha pubblicato un post sui social (Figura 1) in cui denuncia presunte “censure” e un rifiuto del confronto scientifico da parte delle istituzioni sanitarie. Il pretesto è lo scioglimento del comitato NITAG (National Immunization Technical Advisory Group) da parte del Ministero della Salute.

Il NITAG fornisce indicazioni basate su prove per le strategie vaccinali a livello nazionale, valutando costantemente rischi e benefici in relazione a età, condizioni di salute e contesto epidemiologico. Di questo tema ho già parlato in un mio precedente articolo (Nomine e cortocircuiti: quando l’antiscienza entra nei comitati scientifici).

Al di là della cronaca, però, il post di Bellavite si rivela soprattutto un insieme di slogan e artifici retorici non supportati da evidenze scientifiche solide, costruito sui più classici argomenti cari ai critici delle vaccinazioni. Ed è proprio qui che torna utile un altro parallelismo: le stesse strategie comunicative – indipendentemente dal campo, che si tratti di vaccini o di agricoltura – le ritroviamo nell’universo della “scienza alternativa”. Ne ho dato esempio in un altro articolo, Agricoltura biodinamica e scienza: il dialogo continua… con i soliti equivoci.

I toni retorici possono apparire convincenti a chi non ha dimestichezza con il metodo scientifico ma non reggono alla prova dei fatti. Proviamo dunque a smontare, punto per punto, le argomentazioni dell’ex professore Paolo Bellavite.

Figura 1. Screenshot dalla pagina facebook del Dr. Bellavite.

Il mito della “censura”

Uno degli argomenti più frequenti nella retorica tipica dei critici dei vaccini è l’idea che la comunità scientifica “censuri” le voci “fuori dal coro” per paura o per difendere interessi di un qualche tipo.

Per rafforzare questa immagine, viene spesso evocata la vicenda di Ignác Semmelweis, il medico che nell’Ottocento intuì l’importanza dell’igiene delle mani per ridurre la febbre puerperale. Il paragone, però, è fuorviante. Semmelweis non fu osteggiato perché considerato “eretico” ma perché il contesto scientifico dell’epoca non disponeva ancora degli strumenti teorici e sperimentali necessari a comprendere e verificare le sue osservazioni. La teoria dei germi non era stata ancora formulata e l’idea che “qualcosa di invisibile” potesse trasmettere la malattia appariva inconcepibile. Nonostante ciò, i dati raccolti da Semmelweis erano solidi e difficilmente confutabili: nelle cliniche in cui introdusse il lavaggio delle mani la mortalità scese in maniera drastica. Quei numeri, alla lunga, hanno avuto la meglio.

Oggi, il confronto scientifico avviene tramite peer-review, conferenze specialistiche e comitati di valutazione sistematica delle evidenze (ne ho parlato qualche tempo fa in un articolo semiserio dal titolo Fortuna o bravura? osservazioni inusuali sul metodo scientifico). In definitiva, la scienza non mette a tacere: filtra. Ogni idea può essere proposta e discussa, ma per sopravvivere deve poggiare su dati riproducibili, verificabili e coerenti con l’insieme delle conoscenze disponibili. In mancanza di queste condizioni, non viene esclusa per censura, bensì perché non regge al vaglio delle prove.

Trasformare questo processo di selezione in un racconto di “persecuzione” significa confondere il metodo scientifico con un tribunale ideologico, quando in realtà è solo il meccanismo che permette alla conoscenza di avanzare.

La falsa richiesta di “prove definitive”

Un espediente retorico molto diffuso tra chi vuole mettere in discussione i vaccini è quello di pretendere “prove definitive” – come se esistesse una singola evidenza in grado di dimostrare in modo assoluto l’utilità di un vaccino. La verità è che nessuna terapia medica è vantaggiosa sempre e comunque, ma le raccomandazioni vaccinali si basano su analisi robuste e ben documentate di rapporto rischio/beneficio.
Ecco alcuni esempi concreti e supportati da fonti autorevoli:

Chiedere quindi una singola prova assoluta significa distogliere l’attenzione da un ampio corpus di evidenze solide e riproducibili, e puntare invece su un vuoto nella narrazione che non corrisponde alla realtà scientifica.

“I bambini vaccinati non sono più sani”

Alcuni insinuano che non esistano prove che i bambini vaccinati siano “più sani” o addirittura suggeriscono l’opposto. Ma qui il trucco retorico sta nella vaghezza del concetto di “salute” che può essere interpretato in molti modi.
I dati concreti parlano chiaro: i bambini vaccinati hanno un rischio nettamente ridotto di contrarre malattie infettive gravi e le evidenze epidemiologiche mostrano riduzioni significative della mortalità, delle complicanze e degli accessi ospedalieri.

Questi dati si legano strettamente al paragrafo precedente in cui si evidenziava che vaccinare i bambini – come con il caso del vaccino anti-COVID e la prevenzione del morbillo – non solo limita le infezioni specifiche, ma contribuisce a migliorare la salute complessiva della popolazione infantile.

La retorica dei “vaccini meno tossici”

Un argomento ricorrente tra chi mette in dubbio le vaccinazioni è l’appello a “vaccini meno tossici, monovalenti e senza alluminio”. In realtà, gli adiuvanti a base di alluminio – utilizzati da oltre 90 anni per potenziare la risposta immunitaria – sono presenti in quantità molto inferiori a quelle assunte quotidianamente con l’alimentazione: tra 7 e 117 mg nei primi 6 mesi di vita, a seconda dell’alimentazione, mentre un singolo vaccino ne contiene tra 0.125 e 0.85 mg. In particolare, numerosi studi e monitoraggi hanno evidenziato che, sebbene possano causare arrossamento, dolore o un piccolo nodulo nel sito di iniezione, non esistono evidenze di tossicità grave o effetti duraturi legati ai sali di alluminio. Anche la Fondazione Veronesi conferma: non c’è motivo di dubitare della sicurezza degli adiuvanti, che hanno superato con successo gli studi di sicurezza.

Va, inoltre, sottolineato che proporre vaccini monovalenti (cioè che proteggono da una sola malattia) in alternativa a quelli combinati riduce l’efficacia complessiva delle campagne vaccinali. Le formulazioni polivalenti (come l’esavalente) permettono di proteggere contemporaneamente da più malattie con meno somministrazioni, semplificando i calendari vaccinali e migliorando la copertura.

Questo si traduce in una maggiore efficienza delle campagne, minori costi logistici e un impatto complessivo più forte sulla salute pubblica. Lo confermano anche diversi studi su riviste di settore. Per esempio, un trial pubblicato su Lancet ha documentato un’efficacia del 94.9 % contro la varicella e fino al 99.5 % contro altre forme virali moderate o severe, mentre una meta-analisi del 2015 ha evidenziato che le formulazioni combinate mantengono un profilo di sicurezza e immunogenicità paragonabile, ma più efficiente rispetto alle somministrazioni separate. Infine, in un recente studio caso-controllo, il vaccino Priorix‑Tetra (MMRV) ha mostrato un’efficacia dell’88‑93 % contro la varicella dopo una sola o due dosi, e del 96 % contro le ospedalizzazioni.

Come ogni farmaco, i vaccini possono avere effetti collaterali, ma sono rari e attentamente monitorati tramite sistemi di farmacovigilanza che possono intervenire tempestivamente in caso di sospetti. Definire i vaccini “tossici” senza distinguere fra effetti lievi e transitori (come febbre o gonfiore locale) e eventi gravi, ma estremamente rari, è un artificio retorico che induce confusione. In realtà, i benefici delle vaccinazioni – prevenire malattie gravi, complicanze e morti – superano di gran lunga i rischi, grazie anche a un sistema di sicurezza ben strutturato.

Le “analisi pre-vaccinali”

Uno dei cavalli di battaglia dei critici dei vaccini è l’utilizzo di analisi pre‑vaccinali – come test genetici, tipizzazione HLA o dosaggi di anticorpi – per valutare il rischio individuale o l’immunità naturale. A prima vista può sembrare una precauzione intelligente ma in realtà è un’idea infondata e controproducente. Gli eventi avversi gravi legati alle vaccinazioni sono estremamente rari e non correlabili a marcatori genetici o immunologici conosciuti. Al momento non esistono esami in grado di prevedere in anticipo chi potrebbe sviluppare una reazione avversa significativa.

Studi su varianti genetiche e reazioni avverse da vaccino (come studi su polimorfismi MTHFR o antigeni HLA) hanno dimostrato che l’uso di questi test non è scientificamente rilevante, né affidabile per prevenire eventi avversi.
La Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici ha ribadito con forza che:
«La richiesta di esami diagnostici da eseguire di routine prima della vaccinazione non ha alcuna giustificazione scientifica».
In altre parole, valutare il rischio da vaccinazione è responsabilità del medico curante, basata su anamnesi e valutazioni cliniche, non su test di laboratorio preliminari.

Nel suo magazine di divulgazione, la Fondazione Veronesi – attraverso l’esperto Pier Luigi Lopalco – risponde chiaramente alla domanda “Esistono test pre‑vaccinali per valutare possibili effetti collaterali?”, la risposta è netta: non esistono.

L’introduzione obbligatoria di esami prevaccinali renderebbe logisticamente impossibili le campagne, ostacolando la copertura diffusa necessaria per l’immunità di gregge. Le vaccinazioni funzionano proprio perché applicate su larga scala, creando uno scudo comunitario che riduce la circolazione dei patogeni.

L’inversione retorica: “noi siamo la vera scienza”

Un tratto distintivo della comunicazione di chi contesta le vaccinazioni è la pretesa di incarnare la “vera scienza”, accusando al tempo stesso le istituzioni di rifiutare il confronto. È un vero rovesciamento di prospettiva: si imputa alla comunità scientifica un atteggiamento dogmatico, mentre ci si propone come gli unici detentori delle “vere prove”. In pratica, si pretende di cambiare le regole del gioco scientifico, così che affermazioni prive di fondamento possano essere messe sullo stesso piano delle evidenze prodotte e validate dall’intera comunità. È come voler riscrivere le regole del Monopoli per far sì che a vincere non sia chi accumula dati e dimostrazioni, ma chi urla di più o pesca la carta giusta al momento opportuno.

La realtà è un’altra: il confronto scientifico non si svolge sui social o nei talk show, ma nelle riviste peer-reviewed, nei congressi specialistici e nei comitati di valutazione delle evidenze. Ed è in questi contesti che certe tesi non trovano spazio, non per censura, ma per una ragione molto più semplice: mancano dati solidi che le sostengano.

Conclusione: la scienza contro gli slogan

Il caso Bellavite mostra come il linguaggio della scienza possa essere piegato e trasformato in uno strumento di retorica ideologica: un lessico apparentemente tecnico usato non per chiarire ma per confondere; non per spiegare ma per insinuare dubbi e paure privi di basi reali.

I vaccini rimangono uno dei più grandi successi della medicina moderna. Hanno ridotto o eliminato malattie che per secoli hanno decimato intere popolazioni. Certo, come ogni atto medico comportano rischi, ma il rapporto rischi/benefici è da decenni valutato e aggiornato con metodi rigorosi ed è incontrovertibile: il beneficio collettivo e individuale supera enormemente i rari effetti collaterali.

In politica, come nei discorsi attraverso cui si criticano le vaccinazioni, accade spesso che a prevalere siano slogan facili e interpretazioni personali. Il dibattito si trasforma così in un’arena di opinioni precostituite, dove il volume della voce sembra contare più della solidità delle prove. Ma la scienza non funziona in questo modo: non si piega alle opinioni, non segue le mode e non obbedisce agli slogan. È un processo collettivo, autocorrettivo e guidato dai dati, che avanza proprio perché seleziona ciò che resiste alla verifica e scarta ciò che non regge all’evidenza.

Chi tenta di manipolare questo processo dimentica un punto essenziale: la verità scientifica non appartiene a chi urla più forte, ma a chi misura, dimostra e sottopone i risultati al vaglio della comunità. È questo meccanismo che, tra errori e correzioni, consente alla scienza di progredire e di migliorare la vita di tutti.

Nota a margine dell’articolo

Sono perfettamente consapevole che questo scritto non convincerà chi è già persuaso che i vaccini siano dannosi o chi si rifugia dietro un malinteso concetto di “libertà di vaccinazione”. Desidero però ricordare ai miei quattro lettori che l’Art. 32 della nostra Costituzione recita:

“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

La Corte Costituzionale, interpretando questo articolo, ha più volte ribadito che la salute pubblica può prevalere su quella individuale. Già con la sentenza n. 307/1990 e la n. 218/1994 ha chiarito che l’obbligo vaccinale è compatibile con la Costituzione se proporzionato e giustificato dall’interesse collettivo. La sentenza n. 282/2002, pur riguardando i trattamenti sanitari obbligatori in ambito psichiatrico, ribadisce il principio generale: un trattamento sanitario può essere imposto per legge, purché rispettoso della dignità della persona. Infine, la più recente sentenza n. 5/2018 ha confermato la piena discrezionalità del legislatore nell’introdurre obblighi vaccinali a tutela della salute pubblica.

Il mio intento non è convincere chi non vuole ascoltare, ma offrire strumenti a chi esita, a chi è spaventato. La paura è umana, comprensibile, ma non ha fondamento: i dati dimostrano che vaccinarsi significa proteggere sé stessi e, soprattutto, la comunità di cui facciamo parte. È questo il senso profondo dell’art. 32: la salute non è mai solo un fatto privato, ma un bene comune.

Share