Pillole di scienza. Intolleranza al lattosio (Parte II)

Tempo fa ho scritto una nota sull’intolleranza al lattosio [1] in cui ho evidenziato che essa è dovuta all’assenza di un enzima (la lattasi) che è in grado di scindere il legame glicosidico che unisce glucosio e galattosio a formare la molecola anzidetta. La conseguenza di questa deficienza è l’insorgere di meteorismo, distensione addominale, digestione lenta, stanchezza, pesantezza di stomaco, senso di gonfiore gastrico e forti crampi in seguito ai processi di fermentazione a carico del lattosio che avvengono nel nostro stomaco [1].

Oggi completo la nota evidenziando come l’intolleranza non sia distribuita in modo uniforme tra le popolazioni del pianeta. Infatti, come indicato nella mappa a corredo di questa nota, ci sono popolazioni che riescono a “digerire” il lattosio come quelle del Nord Europa e dell’Nord-Est Asiatico, ed altre che mostrano una elevata intolleranza come quelle del Sud-Est Asiatico (le zone rosse o tendenti al rosso nella mappa indicano forte intolleranza, le zone verdi bassa intolleranza).

Circa 9000 anni fa l’uomo ha cominciato la domesticazione degli animali sviluppando, tra le tante cose, la pastorizia. Questa attività ha reso disponibile in grandi quantità anche agli adulti un alimento molto nutriente (il latte) utilizzato principalmente dai neonati prima dello svezzamento.

Indagini condotte su resti fossili datati tra i 3000 e gli 8000 anni fa, hanno dimostrato inequivocabilmente che la tolleranza/intolleranza al lattosio è legata proprio alla pastorizia [2]. Quelle popolazioni che hanno sviluppato prima la pastorizia risultano anche oggi più tolleranti al lattosio. Quelle popolazioni che, invece, hanno sviluppato più tardi la pastorizia hanno una capacità di digerire il lattosio più bassa [3].

La lattasi è un enzima prodotto grazie all’azione di un gene presente nel nostro DNA. La produzione di questo enzima richiede un lavoro biochimico enorme, per cui se il latte non è facilmente disponibile, come quando siamo in età pre-svezzamento, il gene per la produzione dell’enzima anzidetto viene disattivato. In altre parole, il nostro metabolismo, piuttosto che consumare risorse per produrre una molecola sotto utilizzata per mancanza di latte, preferisce chiudere l’attività e dedicare le proprie risorse alla produzione di sistemi molecolari più utilizzati e, di conseguenza, più utili al sostentamento della vita. Ecco perché da adulti noi possiamo risultare intolleranti al lattosio.

Il metabolismo delle popolazioni nelle quali il latte viene consumato in abbondanza anche da adulti perché facilmente disponibile, trova conveniente, sotto il profilo energetico, continuare a produrre la lattasi determinando, quindi, una maggiore tolleranza al disaccaride citato.

La presenza/assenza della lattasi nell’organismo umano è un bellissimo esempio di co-evoluzione genetico-culturale. In altre parole lo sviluppo puramente “culturale” della pastorizia, ha permesso l’adattamento e, quindi, l’evoluzione di popolazioni atte a digerire un alimento altamente nutriente.

Riferimenti

[1] https://www.facebook.com/RinoConte1967/photos/a.1652785024943027.1073741829.1652784858276377/1851447868410074/?type=3

[2] https://it.wikipedia.org/wiki/Pastorizia

[3] https://www.facebook.com/RinoConte1967/posts/1897417257146468

Notizie dal mondo scientifico. Mais antico e mais moderno

Quante volte sentiamo dire che i sapori di una volta erano migliori? Quante volte siamo costretti ad ascoltare che ciò che esisteva in passato era di gran lunga più “sano” di ciò che mangiamo oggi? Quante volte sentiamo dire che ciò che è naturale è certamente migliore di quanto otteniamo dall’agricoltura tradizionale?

Un lavoro appena pubblicato su Current Biology (una rivista molto accreditata con IF di 8.983 per il 2015) rivela che il corredo genetico del mais (Zea mays L. ssp. mays) di 5310 anni fa è del tutto simile a quello del mais moderno [1] ed è molto differente dal mais selvatico che è quello che oggi potrebbe essere indicato come “naturale” e, per questo, più salubre secondo l’accezione comune del concetto di “naturale”. In realtà, ciò che rende il mais domestico qualitativamente migliore rispetto a quello selvatico è la presenza di un gene che impedisce la formazione di un tegumento duro e, di conseguenza, difficile da mangiare e quella di un gene che impedisce alle pannocchie di sgretolarsi per effetto della maturazione. La caratterizzazione del genoma del mais evidenzia come fin dall’antichità (stiamo parlando di oltre 5000 anni fa) l’intento dell’uomo è stato quello di selezionare le caratteristiche genetiche per produrre alimenti facilmente digeribili e dalla elevata produttività; questo è esattamente ciò che ancora oggi facciamo con tecniche certamente diverse e più efficienti in termini economici e temporali [2].

Non esiste un prodotto “naturale” migliore di uno ottenuto mediante l’attività antropica; non esiste un sapore antico migliore di uno moderno. Questa tipologia di pensiero si basa su niente altro che il desiderio inconscio di ritrovare la spensieratezza di quando eravamo “piccoli” e senza alcuna responsabilità: i sapori di una volta diventano il nostro Paradiso perduto.

Riferimenti

[1] Ramos-Madrigal et al. (2016), Genome Sequence of a 5,310-Year-Old Maize Cob Provides Insights into the Early Stages of Maize Domestication, Volume 26, Issue 23, p 3195–3201, dx.doi.org/10.1016/j.cub.2016.09.036

[2] https://www.facebook.com/RinoConte1967/posts/1882838181937709

Notizie dal mondo scientifico. Cervello fossile

Non c’è che dire! Quando camminate per sentieri e valli dove esiste una buona possibilità di trovare fossili, fate molta attenzione perché potreste ritrovarvi tra le mani un reperto molto interessante di cui potreste non capire l’importanza scientifica. Se possibile fate ispezionare il vostro reperto da esperti…a meno che non siate voi stessi degli esperti paleontologi. È appena apparsa la notizia che l’impronta fossile del cervello di un dinosauro è stata individuata in un ciottolo. Questa è una scoperta molto importante perché dallo studio delle caratteristiche di questo cervello fossile si potrebbero capire quali sono le vie evolutive che hanno portato ad uccelli e coccodrilli. Sembra infatti che questo cervello fossile assomigli proprio a quello di uccelli e coccodrilli.

La notizia per intero con i riferimenti al lavoro pubblicato è al seguente link:

http://www.sciencemag.org/…/dinosaur-s-brain-preserved-pebb…

Nascita di una nuvola di ghiaccio

Nascita di una nuvola di ghiaccio

Quando si studia la chimica analitica, una delle cose che vengono insegnate è che i processi di cristallizzazione, ovvero la transizione da una fase liquida ad una solida, avvengono per crescita progressiva del cristallo intorno ad una “gemma” che si ottiene quando prevalgono forze di aggregazione su quelle di dispersione [1].

E’ notizia appena apparsa [2, 3] che ricercatori Statunitensi sono stati in grado di filmare i primi stadi del processo di nucleazione alla base della formazione del ghiaccio. Il video molto affascinante è a questo link

Le frodi scientifiche (Parte III)

Le frodi scientifiche (Parte III)

Ho già scritto in merito alle frodi scientifiche. Basta andare a leggere ai links riportati nei riferimenti [1] e [2]. Sono i comportamenti scorretti di scienziati, che appellare con questo aggettivo è offensivo nei confronti di chi fa onestamente il proprio lavoro, a rendere un cattivo servizio alla scienza e permettere il proliferare di pseduoscienza come antivaccinismo ed omeopatia. Nel mondo moderno in cui i non addetti ai lavori si sono allontanati dalle religioni tradizionali e pretendono dalla scienza e dagli scienziati quelle risposte certe che, in realtà, nessuno scienziato serio è in grado di dare, frodare in ambito scientifico significa solo alimentare il terreno di coltura dell’antiscientificità.

Ho appena appreso la notizia che dei colleghi di due Istituzioni pubbliche del Sud (Potenza, nella fattispecie) hanno commesso l’illecito più grave che uno scienziato potesse compiere. Tra l’altro è la prima volta che accade una cosa del genere. La fonte da cui ho tratto la notizia è al riferimento [3], ma ho controllato ed ai riferimenti [4] e [5] si trovano i fatti descritti in [3].

Cosa è accaduto?

Uno dei compiti di tutti noi coinvolti in ambito scientifico è prestarsi a fare da revisori per lavori che rientrino nel proprio ambito di competenze. E’ una grande responsabilità perché si tratta di valutare le congruenze tra i dati sperimentali e i modelli descritti, oltre che suggerire modelli alternativi a quelli proposti dagli autori. E’ un lavoro gravoso ed anonimo per il quale non si viene pagati. Più si viene richiesti per effettuare revisioni, più elevato è il nostro credito nella comunità scientifica di riferimento. In altre parole, fare da revisori è, sì, un lavoro “seccante”, ma denota che il nostro lavoro di ricerca è riconosciuto anche a livello internazionale.

Ebbene, i colleghi della Fondazione Stella Maris Mediterraneum e dell’ospedale di Lagonegro, hanno pensato bene di rifiutare un lavoro sottoposto da Michael Dansinger a Annals of Internal Medicine, di sostituire il loro nome a quello di Dansinger e di pubblicarlo su EXCLY Journal.

Nella sua normale attività lavorativa Dansinger ha scoperto il suo lavoro su cui comparivano altri nomi ed ha scritto ad Annals of Internal Medicine denunciando il misfatto.

Ritengo che questo comportamento sia veramente inqualificabile. Oltre a sporcare l’attività scientifica di tutti noi, getta l’ombra di molti dubbi sulla serietà non solo delle riviste su cui vengono inviati i lavori, ma anche sull’onestà intellettuale di chi è chiamato a fare da revisore.

Come può una persona al di fuori del mondo scientifico avere fiducia in chi fa un lavoro che dovrebbe essere alla base dello sviluppo della società? Come possiamo pretendere di alzare la voce quando non ci vengono assegnati fondi per fare ricerca? Come possiamo permetterci di suggerire in scienza e coscienza cose che non ci appartengono?

Penso che queste persone debbano essere severamente punite. La mia opinione è che dovrebbero essere allontanate dal posto che ricoprono. Sono severo? Sì. Lo sono. Non ammetto una disonestà di questo tipo. Io NON sono un loro collega. Anzi meglio: loro NON sono miei colleghi. Loro appartengono a quella piccola schiera di disonesti a cui NON appartiene la maggior parte di chi fa scienza. Purtroppo, è proprio questa piccola minoranza di disonesti che fa più rumore e opera a detrimento di uno dei lavori più affascinanti che ci sia: lo sviluppo della conoscenza umana.

Riferimenti

[1]https://www.facebook.com/RinoConte1967/photos/a.1652785024943027.1073741829.1652784858276377/1873586482862879/?type=3&permPage=1
[2]https://www.facebook.com/RinoConte1967/photos/a.1652785024943027.1073741829.1652784858276377/1843890612499133/?type=3
[3] http://motherboard.vice.com/…/plagio-scientifico-dansinger-…
[4] http://annals.org/…/dear-plagiarist-letter-peer-reviewer-wh…
[5] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5138495/

Perché si diventa scienziati? Considerazioni personali sullo sviluppo di una personalità scientifica

Chi di noi non ha mai letto la biografia, magari romanzata, di un grande scienziato? Io ho letto, per esempio, quella di Born (sapevate che era il nonno di Olivia Newton John, l’attrice protagonista di Grease di cui tutti quelli della mia età erano innamorati da piccoli?), quella di Rutheford, quella di Feynman e tante altre ancora. In genere, si impara molto leggendo queste biografie. Forse è anche dalla lettura delle vite di queste persone assurte all’Olimpo della scienza che ho ricevuto l’input per la passione per la chimica, oltre alla curiosità più profonda di capire come è fatto il mondo e quali sono i meccanismi che lo muovono al di là delle semplici risposte di natura religiosa che non mi hanno mai soddisfatto. Avrei potuto essere un fisico, ma, a dire la verità, ai tempi in cui ho fatto le mie scelte di vita, la fisica non mi attirava molto. Ero molto più attratto dagli intrugli e da come essi si combinavano tra loro.

Ciò a cui, però, il mondo della lettura e della fantasia non preparano è la quantità enorme di delusioni, intervallate da sporadici successi, che costituiscono il pane quotidiano per chi fa scienza. Sono più le domande che rimangono senza risposta che quelle alle quali si riesce a rispondere. Ed anche quando viene data una risposta, essa è sempre aleatoria; non si sa mai se la risposta è arrivata perché è solo una costruzione delle proprie aspirazioni o perché, fatti salvi gli errori che tutti possono commettere, si è giunti ad una conclusione oggettiva.

Solo il tempo può dire se una certa risposta è sbagliata ed è soggetta al pregiudizio di conferma.

Che cosa spinge una persona a percorrere una strada irta di difficoltà fin da quando intraprende i suoi studi? Sì, perché se uno decide di non “parcherggiarsi” all’università, deve sacrificare vita sociale, divertimento e tutto quello che può attirare un ragazzino di una ventina di anni, sull’altare di un futuro incerto fatto solo di aspirazioni. Venticinque anni fa, quando mi sono laureato, non avrei mai pensato che oggi sarei stato un professore ordinario in una università Italiana intento a fare ricerca, didattica e, da poco, anche tentativi di divulgazione scientifica generalista.

Forse la risposta alla mia domanda l’hanno già data in molti. Ci sono certamente diversi fattori che concorrono. Uno l’ho già citato. La curiosità di scoprire come funziona la “macchina” mondo. Ho trovato una risposta? Sì, ma non è questo il momento di parlarne.

L’altro fattore che spinge una persona ad incamminarsi nel mondo scientifico è la sua voglia di non crescere mai. Quello che accomuna tutti gli scienziati, ed io non faccio eccezione, è l’eterno fanciullo che è in noi che ci fa chiedere sempre la stessa cosa: “perché?”. Il punto è che mentre da piccoli abbiamo come riferimento gli adulti (nella maggioranza dei casi i genitori) nel nostro giochetto dei perché, man mano che cresciamo (e le domande diventano sempre più complesse) i punti di riferimento vengono a mancare. Per questo motivo siamo costretti a rispondere noi stessi alla nostra eterna domanda. Da qui nasce l’esigenza di fare esperimenti e di “giocare” in laboratorio.

Ma proprio come tutti i bambini, abbiamo dei comportamenti e dei difetti che sappiamo mascherare più o meno bene.

Cosa fa un bambino quando gli viene offerto un giocattolo? Se ne appropria e lo abbraccia evidenziandone il possesso con “è mio!”. Uno scienziato si comporta nello stesso modo. Una delle più grandi soddisfazioni di uno scienziato è la consapevolezza di essere l’unico detentore di una data conoscenza (la sua scoperta) nell’intervallo di tempo che occorre tra il momento della scoperta e la sua divulgazione mediante una pubblicazione scientifica. Lo scienziato abbraccia virtualmente il suo “giocattolo” e tra sé e sé urla “è mio!”.

Proprio come un bambino, però, la consapevolezza del possesso non basta. Un bambino ha bisogno di ribadire al mondo che l’oggetto è suo. Per questo motivo il bambino cerca di richiamare l’attenzione dei “grandi” facendo i capricci. Il bambino si sente osservato e con piglio deciso grida “è mio”. Gli scienziati fanno lo stesso. Mentre nei bambini, entro certi limiti, questo comportamento può essere divertente, negli adulti si tratta di personalità narcisistica.

Certo divulgare le proprie scoperte implica l’accrescimento delle conoscenze umane. Questa è la giustificazione etica che ognuno di noi dà del proprio comportamento perché non ammette che, in realtà, tutti noi, come i bambini, siamo dotati di un ego, più o meno sviluppato, che ci impedisce di “stare buoni”. Dobbiamo primeggiare; dobbiamo richiamare l’attenzione; odiamo essere trascurati. Proprio come i bambini che fanno i capricci per richiamare l’attenzione dei grandi appartati a parlare di cose “da grandi”, noi abbiamo bisogno del nostro mondo scientifico e dei nostri “giochetti” (è il nostro modo di fare i capricci) per rigenerare continuamente la nostra autostima. Insomma abbiamo quella che ho prima definito “personalità narcisistica”.

Se il giochetto ci viene tolto, facciamo i capricci, gridiamo “dammelo è mio”. Da qui nasce, per esempio, una certa disonestà intellettuale che fa agire certi revisori in modo scorretto ritardando la peer review di lavori di “bambini” concorrenti che sono arrivati prima al possesso del “giocattolo” o addirittura bocciando lavori per impossessarsene mediante la sostituzione del nome dei veri autori col proprio [1]. “Il giocattolo è mio!”

Perché si diventa scienziati? Perché non si vuole uscire dal mondo dei sogni e si vuole restare bambini. Questo, tuttavia, comporta che, accanto alla capacità di “volare alto”, si acuiscono, piuttosto che scomparire, i difetti legati all’egocentrismo ed all’autostima tipici dei bambini.

Quanti dei miei colleghi che mi leggono sono d’accordo con questa analisi?

Riferimenti

[1]https://www.facebook.com/RinoConte1967/photos/a.1652785024943027.1073741829.1652784858276377/1905050496383144/?type=3&theater

FAO e cattiva informazione

La foto che uso a corredo di questa nota mostra un post sulla pagina Facebook della FAO e la uso in merito alla cattiva informazione che sovente capita di leggere anche nelle pagine più titolate. Non ho bisogno di spiegare cosa sia la FAO. Perché questo post merita una nota? Per il semplice motivo che è l’esempio perfetto di come si propagano le sciocchezze. L’intestazione del post riporta di chemical-free pesticides. Tradotto vuol dire pesticidi non chimici. Sono perplesso, se non addirittura offeso, per il fatto che una organizzazione internazionale usi in modo inopportuno la parola “chimica”. Tutto è “chimica”. La semplice acqua è una sostanza chimica; la nostra pelle è fatta di sostanze chimiche; il nostro sangue contiene sostanze chimiche; insomma tutto quanto ci circonda contiene sostanze il cui comportamento segue delle leggi chimiche ben precise e sono classificate come “sostanze chimiche”. Cosa vuol dire, allora, chemical-free pesticides? Nulla. Non vuol dire nulla. È solo un modo molto populistico di indicare delle sostanze potenzialmente tossiche. Diciamolo. I pesticidi, ma più in generale i fitofarmaci, sono tossici, ma diventano un problema se usati in modo inopportuno nella comune pratica agricola.

Questo modo di fare comunicazione da parte dei social media manager della FAO denota tanta ignoranza, cosa che non mi sarei mai aspettato da tale organizzazione internazionale.

Riusciamo a sbucciare un’arancia senza sporcarci?

Riusciamo a sbucciare le arance senza sporcarci?
Inverno, tempo di freddo e di agrumi. Buone le arance, i mandarini ma buone soprattutto le clementine senza semi. Per uno come me, non dover “sputazzare” semi in giro per la stanza, è una gran cosa!

Avete mai fatto caso che quando si sbuccia un frutto del genere le mani si sporcano di succo? C’è stato qualcuno che si è chiesto se sia possibile trovare un metodo per evitare di sporcarsi quando si sbucciano gli agrumi. La notizia è apparsa nelle news di Science [1]. Ebbene è stato evidenziato che non c’è modo di non sporcarsi quando si sbucciano gli agrumi. Pare che basti una minima pressione per far schizzare via gocce di succo ad una velocità di circa 10 m/s, ovvero una velocità più elevata di quella degli insetti, con una accelerazione circa 1000 più intensa di quella che “sentono” gli astronauti quando lasciano la Terra.

Interessante, vero? Immagino che se qualcuno ha fatto uno studio del genere, c’è stato un committente che ha fatto una specifica richiesta. Magari in futuro potranno essere prodotti agrumi che non sporcano le mani mentre vengono sbucciati, con buona pace di quelli come me a cui piace sentire l’odore “agrumoso” sulle dita.

Riferimenti
[1] http://www.sciencemag.org/…/video-reveals-why-there-s-no-cl…

Come fanno gli animali a scambiare informazioni?

Come fanno gli animali a scambiare informazioni?

È da un po’ troppo tempo che non faccio post. Il lavoro di quest’ultimo periodo mi tiene un po’ occupato per cui non ho molto tempo da dedicare alla divulgazione. Ho letto una notizia su National Geographic che mi ha molto incuriosito [1].

Facebook, twitter, instagram e chi più ne ha più ne metta sono i classici social systems che usiamo per scambiarci informazioni o semplicemente “cazzeggiare”.

Ebbene anche gli animali superiori come i mammiferi si scambiano informazioni. Come fanno? Attraverso le urine. È noto fin dalle elementari che i gatti, per esempio, marcano il loro territorio con la pipì. Se un gatto estraneo arriva in zona, riconosce l’odore lasciato dal “padrone” del territorio e si defila [2].

Tuttavia, a quanto pare i mammiferi non usano solo l’urina per marcare il territorio, ma anche le feci. Sì, proprio la cacca. Un recente studio pubblicato su Proceedings of the Royal Society B [3] sulle componenti volatili delle feci di rinoceronte bianco (una specie protetta) ha evidenziato che tre molecole particolari hanno un significato ben preciso nell’organizzazione sociale di questi mammiferi. Il 2,3-dimetil-undecano (un idrocarburo alifatico) serve per il riconoscimento del sesso dell’individuo, l’eptanale (una aldeide) discrimina per la classe sociale, mentre il 2,6-dimetil-undecano (altro idrocarburo, isomero del precedente) serve per riconoscere lo stato estrale delle femmine del branco.

I ricercatori che hanno effettuato lo studio concludono che dal momento che i rinoceronti bianchi defecano comunitariamente, i cumuli di feci, probabilmente, servono come centri di informazione, ovvero: alte concentrazioni di 2,3-dimetil-undecano indicano potenziale minaccia per la presenza di un maschio concorrente nelle vicinanze; alte concentrazioni di 2,6-dimetil-undecano indicano presenza di femmine in calore per cui il maschio deve essere vigile per trovare la potenziale compagna.

Interessante, vero?

Riferimenti

[1] http://news.nationalgeographic.com/…/rhinoceroses-poop-mi…/…
[2] http://www.aspca.org/…/common-cat-behavi…/urine-marking-cats
[3] http://rspb.royalsocietypublishing.org/cont…/…/1846/20162376

Fonte dell’immagine: http://www.agraria.org/faunaselvatica/rinoceronte-bianco.htm

Dalla natura spunti per migliorare la tecnologia

Un po’ più di un anno fa ho scritto un post sul geco in cui spiegavo i segreti legati alla sua capacità di vincere la forza di gravità [1].

Il mondo che ci circonda è molto complesso e da esso possiamo attingere non poco per migliorare la qualità della nostra vita.

Leggo ora che chimici hanno messo a punto un adesivo che è in grado di fornire le proprietà antigravità tipiche delle zampette del geco [2, 3].

In pratica, un materiale fotosensibile (ovvero sensibile alla radiazione luminosa ed in particolare a quella UV) è stato inserito tra due strati di un materiale polimerico a base di silicio (il polimetilsilossano [4]). Il materiale fotosensibile (si tratta di elastomeri a cristalli liquidi [5] dopati con azobenzene [6]) quando sottoposto alla radiazione luminosa cambia velocemente forma e dimensione permettendo la flessione del polimero a base di silicio.
Questa flessione consente al tessuto su cui è il polimero è “spalmato” di staccarsi dalle superfici esattamente come fanno le zampette dei gechi che perdono velocemente adesività durante il movimento.
In assenza di luce, il sistema fotosensibile si trasforma di nuovo consentendo l’adesione del polimetilsilossano.

Qual è la novità? La rapidità con cui le trasformazioni anzidette possono avvenire. Si tratta di pochi istanti, un intervallo di tempo molto più breve di quello necessari ad altri materiali adesivi per fornire le stesse caratteristiche. A parte i costumi da uomo ragno, questi sistemi possono essere usati anche per il trasporto di grossi pesi.

La natura non finisce mai di stupirci…ma devo aggiungere che neanche la fantasia dei chimici è da meno!

Riferimenti

[1] https://www.facebook.com/RinoConte1967/photos/a.1652785024943027.1073741829.1652784858276377/1835671356654392/
[2] https://www.chemistryworld.com/…/gecko-insp…/2500275.article
[3] http://robotics.sciencemag.org/content/2/2/eaak9454
[4] http://www.fao.org/…/jecf…/specs/Monograph1/Additive-315.pdf
[5] http://nlcmf.lci.kent.edu/About_the_NLCMF/whatR1.htm
[6] https://it.wikipedia.org/wiki/Azobenzene

Fonte dell’immagine: https://www.chemistryworld.com/…/gecko-insp…/2500275.article

Share