L’influenza della scienza sulla società: il nostro governo ha, finalmente, modificato la legge sui fertilizzanti, inserendo anche il biochar come amendante dei suoli.

Chi mi segue sa che il mio lavoro di ricerca consiste nello studio delle dinamiche molecolari all’interfaccia solido liquido, laddove il solido è il biochar. Tradotto in parole più semplici, mi occupo di studiare come si muovono i liquidi (in particolare acqua) sulla superficie di un composto (il biochar) fatto prevalentemente di carbonio ottenuto come scarto dei processi industriali (o casalinghi) per la produzione energetica (per es. calore, gas etc).

Questo tema di ricerca è il centro dell’attenzione di numerosi gruppi di ricerca nazionali ed internazionali, tanto è vero che io stesso collaboro con persone ai quattro angoli del mondo (beh…quattro angoli è un modo di dire, ovviamente…non è che io pensi che la Terra sia piatta 😀 ).

I lavori di ricerca hanno dimostrato che il biochar ha numerosi effetti quando applicato come ammendante dei suoli. Recentemente il gruppo internazionale di cui faccio parte, ha pubblicato in merito alla quadruplicazione della produzione di zucche in Nepal quando biochar trattato con urina viene usato come fertilizzante. Lo stesso gruppo ha pubblicato anche i possibili meccanismi con cui il nitrato (uno dei principali nutrienti per le piante) viene catturato e, successivamente, lentamente rilasciato dal biochar quando questo viene applicato ai suoli.

Sebbene molti siano i lavori che dimostrino l’efficacia del biochar come ammendante, molti sono i detrattori di questo materiale. C’è chi prova che il biochar non ha alcun effetto sulla produzione agricola; c’è chi scrive che il biochar contamina i suoli attraverso il rilascio di sostanze tossiche (per es. gli idrocarburi policiclici aromatici) e potrei continuare.

Il punto fondamentale che, in genere, non è chiaro né ai detrattori né ai fautori dell’uso del biochar come ammendante, è che questo materiale va studiato accuratamente prima della sua applicazione come ammendante e non tutti i biochar sono buoni per tutto. In altre parole, i detrattori del biochar sono tali perché sono stati sfortunati: hanno sperimentato con biochar non adatti a quel tipo di piante di cui intendevano aumentare la produzione; i fautori del biochar sono in genere fortunati, ovvero studiano piante per cui il biochar selezionato funziona bene.

In generale le meta-analisi sul biochar (ovvero studi che considerano tutta la letteratura in merito ad un argomento) dimostrano che il biochar come ammendante dei suoli permette un aumento di produttività medio intorno al 18%.

Perché tutto questo? Che c’entra tutto questo discorso con l’impatto della scienza sulla società?

Il punto è che proprio grazie a tutto quanto scoperto sul biochar (sia effetti positivi che negativi), il nostro governo ha, finalmente, modificato la legge sui fertilizzanti, inserendo anche il biochar come possibile fertilizzante dei suoli.

Questo è avvenuto nemmeno un mese fa quando sulla Gazzetta Ufficiale serie generale n° 186 del 12-8-2015 è apparsa quella che viene conosciuta come “normativa biochar”. Questa legge è un grosso passo avanti perché permette a tutti l’uso del “carbone” come ammendante dei suoli sempre che vengano rispettati dei requisiti fondamentali sia sotto l’aspetto chimico che fisico. Infatti, l’uso del biochar è finalizzato non solo all’aumento della produttività dei suoli ma anche al sequestro del carbonio in modo da limitare le emissioni di anidride carbonica nell’atmosfera.

“la norma avrà riflessi che andranno ben oltre questi evidenti benefici tecnici ed economici” – spiega Vittorino Crivello, Presidente di ICHAR – “perchè il Biochar potrà entrare di diritto nei mercati volontari di riduzione delle emissioni di gas serra, stimolando un ciclo virtuoso in cui si potranno generare compensazioni delle emissioni per chi acquisterà crediti e redditi addizionali o risparmi per chi distribuirà il Biochar nel terreno”.

Informazioni complete in merito sono al sito: http://www.ichar.org/

commenti qui

Sulla correlazione casuale e non causale vaccini/autismo

Non sono un medico. Come scrivevo un po’ di tempo fa, questo potrebbe rendermi non credibile quando faccio invasione di campo e parlo di argomenti che non sono strettamente di carattere chimico o correlati in qualche modo alla salvaguardia ambientale o alla chimica fisica applicata all’ambiente (i miei campi di ricerca). Tuttavia, sono un tecnico, ovvero mi occupo di scienza da un po’ di tempo ed ho sviluppato, o almeno credo di aver sviluppato, quel senso critico che porta chiunque si occupi di scienza in modo serio a saper distinguere le scemenze da ipotesi più o meno attendibili.

Quando leggo di lavori ritrattati o ritirati dalla letteratura scientifica perché i dati sperimentali erano stati ottenuti alterando i risultati, inventandoli di sana pianta o frodando, sono certo che le ipotesi fatte sulla base di quei dati non possono essere più prese in considerazione a meno che non sopraggiungano dei lavori basati su dati oggettivi e meno attaccabili sotto l’aspetto metodologico. È il caso parecchio frequente oggigiorno della correlazione vaccini/autismo. Questa correlazione si basa su un lavoro di un medico britannico che, attraverso esperimenti pilotati, ha pensato di ottenere esattamente la correlazione anzidetta. Ma di questo ho già scritto e non vale la pena ripetermi.

La curiosità mi ha spinto stavolta a cercare nella letteratura scientifica se esistano studi che riescano ad individuare le possibili cause della sindrome autistica. Ho fatto una ricerca veloce in rete usando poche parole chiave e tra le centinaia di siti spazzatura sono riuscito a trovare un po’ di lavori nei quali è stato possibile evidenziare che i vaccini c’entrano nulla con tale sindrome.

Addirittura ben 3 anni prima del famigerato lavoro del medico britannico summenzionato, viene pubblicato un lavoro (http://journals.cambridge.org/action/displayAbstract…) nel quale si riporta testualmente

“The findings indicate that autism is under a high degree of genetic control and suggest the involvement of multiple genetic loci”.

Ovvero, già nel 1995 si sospettava una possibile causa genetica per l’autismo. Ciò è stato confermato qualche anno dopo da un altro lavoro in cui si riporta:

“Review of 2 major textbooks on autism and of papers published between 1961 and 2003 yields convincing evidence for multiple interacting genetic factors as the main causative determinants of autism”.

Il lavoro è qui: http://pediatrics.aappublications.org/content/…/5/e472.short. Ancora una volta fattori genetici sono responsabili della sindrome autistica. Ma la cosa più rilevante è che nel predetto lavoro è anche scritto:

“Autism is a complex, behaviorally defined, static disorder of the immature brain that is of great concern to the practicing pediatrician because of an astonishing 556% reported increase in pediatric prevalence between 1991 and 1997 […] This jump is probably attributable to heightened awareness and changing diagnostic criteria rather than to new environmental influences”.

Ovvero, l’aumento del numero di casi di bambini autistici si deve al miglioramento delle tecniche usate per la diagnosi della sindrome. In altre parole, i vaccini non c’entrano NULLA. Ma se anche questo non bastasse, o si ritenesse che le riviste linkate non siano sufficientemente autorevoli, un ulteriore lavoro (http://link.springer.com/article/10.1007/s10803-004-1038-2) riporta che

“Autism is a heterogeneous disorder that can reveal a specific genetic disease. This paper describes several genetic diseases consistently associated with autism (fragile X, tuberous sclerosis, Angelman syndrome, duplication of 15q11-q13, Down syndrome, San Filippo syndrome, MECP2 related disorders, phenylketonuria, Smith–Magenis syndrome, 22q13 deletion, adenylosuccinate lyase deficiency, Cohen syndrome, and Smith–Lemli–Opitz syndrome) and proposes a consensual and economic diagnostic strategy to help practitioners to identify them”.

In altre parole, la sindrome autistica ha origini genetiche e potrebbe essere legata ad altre sindromi genetiche come quella Down.

E veniamo ai giorni nostri. È di qualche giorno fa la pubblicazione di un lavoro fatto su dei primati in cui si rileva assenza di correlazione tra vaccino e autismo: http://www.pnas.org/content/112/40/12498.full.pdf. La cosa interessante di questo lavoro pubblicato su PNAS (rivista molto quotata) è che neanche la somministrazione di un derivato organico del mercurio, usato come stabilizzante nei vaccini, ha avuto alcun effetto sui primati. Sempre nel 2015, ovvero pochi mesi fa, un lavoro apparso su Cell (altra rivista quotatissima in ambito scientifico) riporta che la sindrome autistica può essere dovuta alle modifiche di un gene particolare indicato come UBE3A. Il lavoro è qui: http://www.cell.com/abstract/S0092-8674(15)00770-9.

Qualche altro lavoro, piuttosto che modifiche genetiche, attribuisce a fattori ambientali l’insorgenza della sindrome: http://archpsyc.jamanetwork.com/article.aspx…. In ogni caso i vaccini sembrano completamente scagionati. Non sono responsabili dell’autismo la cui diagnosi è solo casualmente fatta nel periodo delle vaccinazioni pediatriche.

Allora la domanda diventa d’obbligo. Perché tanta gente continua ostinatamente a voler attribuire ai vaccini la causa scatenante dell’autismo?

Non sono neanche uno psicologo, ma la mia opinione (e proprio per questo soggettiva) si basa su due ordini di fattori. Il primo è che se la sindrome autistica avesse cause genetiche, un genitore si sentirebbe direttamente, ma anche erroneamente, responsabile dell’autismo del figlio. Quale genitore si vorrebbe sentir dire che qualcosa è andato storto nei processi di replicazione del DNA durante la gestazione con la conseguente insorgenza (diagnosticata ben oltre il parto) della sindrome autistica? Quale genitore, ritenendosi erroneamente responsabile della sindrome del figlio, non pensa che, secondo natura, toccherà a lui morire per primo e lasciare un figlio non completamente autosufficiente privo di qualsiasi sostegno per il resto della sua, possibilmente, lunga vita? Non si è pronti. Non sono un padre, ma penso che non si sia mai pronti ad accettare qualcosa del genere. Meglio, molto meglio, incolpare il destino o un Dio qualunque. Oggi, e questo è il secondo dei due ordini di fattori citati prima, la scienza ha preso il posto della religione. La gente comune, ovvero chi non si occupa di scienza, ricerca in essa le certezze che una volta erano date dai preti. Il problema è che la scienza non dà certezze. La verità scientifica è tutt’altro che assoluta. Non è la verità immutabile della religione. Da qui la mancanza di fiducia generalizzata nei confronti di tutto il comparto scientifico che viene incolpato dell’incapacità di indicare una strada sicura ed immutabile per la comprensione di fenomeni che rispondono solo al caso.

#iovaccino, NO alla #disinformazione

 

per i commenti vedi qui

L’origine del nome degli elementi

Vi siete mai chiesti da dove originano i nomi degli elementi? Di tanto in tanto me lo sono chiesto anche io. Quando insegnavo la chimica generale e la chimica organica, era divertente sbalordire gli studenti con aneddoti curiosi e carini. Smorza la tensione per la lezione oggettivamente pesante e consente di andare avanti con più leggerezza.

Uno degli aneddoti che mi piaceva raccontare, ancora oggi lo faccio se ne ho la possibilità, è quello relativo all’azoto.

L’azoto è un elemento molto importante in natura. E’ presente in tantissimi composti organici che assolvono a funzioni metaboliche importantissime. E’ presente nelle proteine, nel RNA, nel DNA, in molte sostanze che i chimici definiscono composti naturali e compagnia cantando.

Ma perché si chiama azoto? Il nome è stato coniato da Lavoisier (https://it.wikipedia.org/wiki/Antoine-Laurent_de_Lavoisier) in Francia: “azote”. Significa “senza vita”. Deriva dal greco in cui al termine “zotos” (che viene da zoe, vivere) si associa la alfa privativa, da cui “a-zoto”, ovvero “azoto”. Sembra un paradosso, vero? Un elemento che è fondamentale per il metabolismo, ovvero per i processi alla base della vita, porta un nome che si riferisce alla morte.

Beh, ai tempi di Lavoisier non si conoscevano certo le molecole come si conoscono oggi. Non si conosceva l’importanza di questo elemento nei metaboliti. Si sapeva però che una atmosfera privata di ossigeno provocava la morte, da cui il termine “azote” che in Italiano è diventato “azoto”.

Ma se il nome è “azoto”, perché ha simbolo “N”?
In realtà,questo elemento ha un nome con doppia etimologia. Il termine “azoto” è usato prevalentemente nei paesi non anglosassoni.

Nei paesi anglosassoni “azoto” è indicato con “nitrogen”. Il nome fu coniato nel 1790 da Chaptal (https://it.wikipedia.org/wiki/Jean-Antoine_Chaptal), un altro chimico francese, che capì che l’elemento era uno dei costituenti del nitrato di potassio, un sale, comunemente noto come “salnitro” ed usato come sapone ai tempi dei Romani. “Nitro”-“gen” vuol dire quindi “genitore” del “nitron”, laddove “nitron” è l’antico nome del nitrato di Potassio.

In definitiva benché Paperino in questa vignetta http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.… si riferisca ad un certo “nitrogeno” commettendo un errore che molti chimici ritengono grave perché in Italiano N = azoto, posso dire che, in realtà, si tratta solo di un errore veniale perché sia “azoto” che “nitrogeno” sono i nomi che possiamo attribuire all’elemento di simbolo “N” con numero atomico 7 e peso atomico 14 g/mol.

Anche agli scienziati piace scherzare: il caso “Get me off Your Fucking Mailing List”

Mailing list: chi è impegnato in attività di ricerca conosce bene il problema. Ogni giorno riceviamo decine di e-mails con le quali veniamo invitati a sottoporre i nostri ultimi risultati a riviste open access dalle caratteristiche più improbabili. Per esempio io ricevo quasi ogni giorno inviti da Journal of Research Analytica, International journal of scientific and technical research in engineering, o addirittura da riviste del tipo BAOJ Diabetes che è una rivista medica. Cosa c’entri la mia attività con il diabete non è dato sapere, ma tant’è.

Come regola generale, la mattina, appena apro il mio programma di posta elettronica, perdo 5-10 min solo per selezionare e cancellare senza leggere tutta questa paccottiglia di posta eletronica. Questa posta è solo apparentemente innocua: occupa spazio di memoria che, per gli account istituzionali, è molto limitata, di conseguenza molto preziosa.

La cosa che colpisce molto in tutte le lettere è che tutte le riviste riportano su “otto colonne” l’informazione che esse sono soggette a peer review, ovvero revisione tra pari.

Per chi è poco informato, la procedura per la pubblicazione consiste nello scrivere ed inviare lo studio alla rivista prescelta; gli editor della rivista valutano la congruenza dello studio con gli obiettivi della rivista stessa; se il lavoro centra gli obiettivi, viene inviato a revisori anonimi che hanno il compito di valutare la congruenza tra i dati sperimentali e la loro interpretazione; i revisori possono suggerire la pubblicazione senza modifiche se i dati e la loro interpretazione sono congruenti tra loro; possono chiedere delle modifiche (che possono essere minor o major a seconda del livello di approfondimento richiesto); possono rifiutare il lavoro se dati ed interpretazione non sono congruenti.
Una volta che il lavoro è stato accettato per la pubblicazione, l’editor lo invia al comitato editoriale che ha il compito di formattare il lavoro secondo gli standard della rivista.

Adesso viene il bello.

La stragrande maggioranza delle riviste non chiede alcuna tassa di pubblicazione. Si tratta di riviste chiuse il cui accesso è garantito solo a chi paga un abbonamento annuale.

Esistono delle riviste, però, che consentono a tutti di poter accedere ai lavori pubblicati. Si tratta di riviste indicate semplicemente come open access. Tutte le riviste open access chiedono una tassa agli autori. Questa tassa serve per pagare le spese sostenute dal comitato editoriale che si occupa della formattazione dei lavori e della pubblicazione della rivista. La tassa di pubblicazione non è piccola. Si può andare dai 100 euro in su. Per esempio alcune riviste chiedono anche 1000 euro. Ne viene che se un ricercatore non ha fondi, si guarda bene dal pubblicare su riviste del genere.

Tutto bene, vero? Non c’è nulla di strano. Ognuno può scegliere come e dove pubblicare. Tuttavia, il sospetto che molte riviste open access siano solo uno specchietto per acchiappare soldi dai gonzi o per consentire la pubblicazione di sciocchezze è abbastanza forte.

Ciò che voglio evidenziare è che lo standard qualitativo delle riviste open access può essere abbastanza basso. I lavori possono essere accettati senza una seria revisione tra pari. Non tutte le riviste open access sono così. Ci sono riviste open access che, invece, sono molto serie: PlosOne, Scientific Reports, Agriculture etc etc etc (non faccio un elenco completo perché non è questo lo scopo del post).

Veniamo al punto.

Nel 2005, David Mazieres e Eddie Kohler, due ricercatori Statunitensi, scrissero un articolo dal titolo “Get me off Your Fucking Mailing List” (ho bisogno di tradurre?) [1].

Questo il titolo. Come ogni buon articolo scientifico, anche questo aveva un abstract, una introduzione e diversi altri paragrafi. A parte abstract ed introduzione che avevano i titoli canonici, tutti gli altri paragrafi erano intitolati “Get me off Your Fucking Mailing List” (ho sempre bisogno di tradurre?).

Ed il testo? Beh, tutto il testo di ogni singolo paragrafo e di ogni figura era solo ed esclusivamente “Get me off Your Fucking Mailing List” (a questo punto sono sicuro che non c’è bisogno di tradurre).

Peter Vamplew, un ricercatore dell’Università di Vittoria in Australia [2], pensò bene di inviare, per scherzo, il lavoro di questi due suoi colleghi alla rivista open access International Journal of Advanced Computer Technology, particolarmente molesta in quanto a spam. Con enorme sorpresa, dopo qualche tempo, arrivò la lettera di accettazione del lavoro con la richiesta della tassa di pubblicazione (qualcosa come 150$) come contributo per la pubblicazione open del lavoro accettato.

Siete curiosi vero? Volete conoscere il giudizio espresso dal revisore? Sì, perché pare che il lavoro sia stato inviato ad un solo revisore, piuttosto che ai 3-5 delle riviste più quotate. Ebbene la reviewer form la trovate nel riferimento [3]. In sintensi è scritto:

Accuracy: Excellent
Innovation: Very Good
Relevance: Very Good
Presentation: Good
Quality of writing: Very Good

Divertente, vero? Qualità del testo “molto buona”. Non c’è che dire; l’editor prima, il revisore, poi, hanno avuto un ottimo senso dell’umorismo. Ma l’hanno mai letto questo lavoro? Ne dubito fortemente così come dubito che esso sia mai stato inviato ad un qualsiasi revisore.

Inutile dire che lo scherzo ha fatto il giro del mondo ed è finito su molte testate giornalistiche [4-6] (basta cercare in Google e si trovano “vagonate” di pagine che riportano la notizia).

Morale della favola. Uno scherzo nato per caso e per fare un “dispetto” all’editor di una rivista open access particolarmente molesto nell’inviare posta indesiderata acchiappa-gonzi, ha smascherato un punto molto debole delle riviste open access: alcune di esse non effettuano alcuna peer review; sarebbe meglio dire che non solo non assicurano la peer review, ma i lavori possono passare i diversi filtri pre-pubblicazione senza nemmeno essere letti.

Questa storia è del 2005. Pensate che sia servita a qualcosa? Ebbene, no. Nel 2009, un articolo bufala sulla catastrofe del 11 Settembre 2001 fu pubblicato proprio su una rivista open access che oggi è chiusa e non pubblica più nulla [7]. Sulla validità di questo lavoro tornerò in un altro post. Stasera (sono in Canada in questo momento e qui sono solo le 20:25) sono stato fin troppo logorroico 🙂

Riferimenti

[1] http://www.scs.stanford.edu/~dm/home/papers/remove.pdf
[2] http://federation.edu.au/
[3] https://scholarlyoa.files.wordpress.com/…/11/review-form.pdf
[4] https://www.theguardian.com/…/journal-accepts-paper-request…
[5] http://www.skeptical-science.com/…/fucking-mailing-list-pe…/
[6] http://mobile.businessinsider.com/scientific-journal-accept…
[7] http://www.911research.wtc7.net/…/ActiveThermitic_Harrit_Be…

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