Evoluzione degli hard disk: dalle schede perforate agli SSD

Oggi il mondo è concentrato sul premio Nobel per la chimica assegnato ieri. Tutti a parlare dell’evoluzione tecnologica che ha cambiato la nostra vita negli ultimi 30 anni. Tuttavia, l’evoluzione tecnologica non è solo quella delle batterie al litio grazie alle quali sono possibili cose che fino a ieri erano impensabili.
 
Oggi mi è capitata sotto mano una scheda perforata. Chi se le ricorda? Nella Figura 1 vedete l’evoluzione degli hard disk: dalla scheda perforata (in questo caso intonsa e non ancora perforata), ad un hard disk da 740 MB fino ad arrivare ad un HD da 512 GB. Lasciamo perdere il fatto che il disco da 512 GB è in stato solido (SSD) mentre quello da 740 MB non lo è. Mi sono chiesto: quaranta e passa anni fa, quante schede perforate sarebbero state necessarie per immagazzinare la quantità di dati che oggi sono contenuti in un disco in stato solido da 512 GB?
Figura 1. Scheda perforata e due hard disk moderni
Per rispondere alla mia domanda ho assunto che la scheda pesi approssimativamente 1 g, abbia uno spessore di circa 0.2 mm ed una grammatura di circa 100 g/mq. La scheda contiene una quantità di informazioni corrispondenti a 100 B (mi scuso con gli informatici se ho sbagliato a contare i byte sulla scheda che vedete in Figura 1).
Facendo i calcoli con i dati approssimati summenzionati, è venuto che un SSD da 512 GB corrisponde a 5.12 miliardi di schede perforate. Questo ammontare corrisponde ad un peso di 5120 tonnellate, ovvero a circa il peso di una mandria di mille elefanti africani adulti come quello mostrato in Figura 2. Non voglio neanche pensare a cosa potrebbe succedere se i componenti di questa mandria di elefanti si inc…ehmmm…innervosissero e mi caricassero. 
Figura 2. Elefante africano che in media pesa 5 tonnellate (Fonte)
Ed il volume occupato da 5.12 miliardi di schede perforate? E’ pari a 10240 mc, ovvero un capannone di forma cubica avente lati di lunghezza di circa 22 m equivalente ad un palazzo di circa 7-8 piani.
 

Quante foreste abbiamo salvato e quanto spazio abbiamo risparmiato con lo sviluppo tecnologico e la miniaturizzazione informatica?

Pillole di scienza. Lieviti ed agenti lievitanti

Avete mai sentito parlare di cremor tartaro? Anche se sono un chimico, non mi interesso molto di cucina (se non come assaggiatore professionale…nel senso che mi piace mangiare) e solo recentemente ne ho sentito il nome. Mi è venuta la curiosità di sapere cosa fosse ed ho scoperto che è un banale sale potassico dell’acido tartarico. La struttura di quest’ultimo è riportata in Figura 1.

Figura 1. Acido tartarico. I pallini neri sono gli atomi di carbonio; i pallini rossi sono gli atomi di ossigeno; i pallini bianchi sono gli atomi di idrogeno. Le linee doppie sono i doppi legami carbonio-ossigeno. I gruppi -COOH sono detti gruppi carbossilici; i gruppi -OH sono chiamati gruppi ossidrilici o gruppi alcolici. L’acido tartarico è un acido dicarbossilico con due gruppi ossidrilici vicinali, ovvero posizionati su due atomi di carbonio adiacenti. La conformazione è stata ottenuta mediante ottimizzazione con la app WebMO per iPad Pro 9.2.

La Figura 2 riporta la struttura del sale potassico dell’acido tartarico, ovvero del cremor tartaro.

Figura 2. Bitartrato di potassio. Il codice colori è identico a quello di figura 1. La pallina viola è lo ione potassio. Il legame tratteggiato è un legame a idrogeno. La configurazione è stata ottenuta mediante ottimizzazione con la app WebMO per iPad Pro 9.2.

Il cremor tartaro (ovvero il bitartrato di potassio) è indicato anche come lievito chimico. Cosa vuol dire?

I lieviti

I lieviti sono degli esseri viventi. Più specificatamente sono dei microorganismi eucarioti monocellulari (Figura 3), estremamente importanti in molti processi legati alla trasformazione alimentare come la panificazione e la vinificazione.

Figura 3. Microfotografia di cellule di lievito di birra (Fonte)

Il loro ruolo è quello di ridurre il glucosio normalmente presente nelle fibre alimentari (per esempio l’amido) o nei liquidi (come quelli che si ottengono dalla spremitura dell’uva nel processo che inizia la vinificazione) in etanolo ed anidride carbonica  attraverso un processo che viene indicato come fermentazione alcolica (Figura 4).

Figura 4. Schema della fermentazione alcolica attraverso cui i lieviti riducono il glucosio ad alcol etilico ed anidride carbonica (Fonte)

L’anidride carbonica (Figura 5) che si sviluppa dalla fermentazione alcolica è la molecola che consente ai prodotti da forno, come il pane, la pizza ed i biscotti, di assumere quel loro caratteristico aspetto “gonfio” e una consistenza “sofficiosa”.

Figura 5. Molecola di anidride carbonica con la rappresentazione dei potenziali elettrostatici. La molecola ed i potenziali elettrostatici sono stati ottenuti mediante l’uso della app WebMO per iPad Pro 9.2.

In Figura 6 si riporta un esempio di pane lievitato e di pane non lievitato. Si può chiaramente vedere come il primo sia molto più “gonfio” del secondo proprio grazie all’azione dei lieviti che hanno consentito lo sviluppo della anidride carbonica che, imprigionata nel sistema, ha permesso di ottenere quella “mollica” soffice e gustosa.

Figura 6. A sinistra, pane casereccio ottenuto mediante panificazione con lievito. A destra, pane azzimo ottenuto mediante panificazione senza lievito (Fonte dell’immagine di sinistra. Fonte dell’immagine di destra).
Il lievito chimico

È possibile riprodurre gonfiore e sofficezza senza l’uso di lieviti? Certo che sì. La chimica ci aiuta. Il cremor tartaro è una molecola (Figura 2) che ha caratteristiche acide e che, sottoposta a riscaldamento, si decompone, attraverso un processo che si chiama decarbossilazione, in anidride carbonica e un derivato dell’acido propionico (Figura 7).

Figura 7. La decarbossilazione del bitartrato di potassio (ovvero del cremor tartaro) porta alla formazione di 1,2-diidrossi propionato di potassio (a sinistra) e anidride carbonica (a destra). Entrambe le molecole sono state ottenute mediante ottimizzazione energetica con la app WebMO per iPad Pro 9.2. Il codice dei colori è lo stesso che in Figura 1 e 2.

L’anidride carbonica che si ottiene dalla decarbossilazione del cremor tartaro ha la stessa funzione di quella che si sviluppa durante la fermentazione alcolica ad opera dei lieviti, ovvero garantisce gonfiore e sofficezza al prodotto (pane, pizza, dolce etc) a cui esso viene aggiunto. Questo è il motivo per cui questo sale dell’acido tartarico viene indicato come lievito chimico oppure, più correttamente, come agente lievitante. Esistono altri lieviti chimici? Assolutamente sì. Ci sono diverse molecole  che, sottoposte a trattamento termico – come quello che occorre durante la cottura di un alimento,  possono liberare anidride carbonica e conferire gonfiore e sofficezza al prodotto che prepariamo. Oltre al già citato cremor tartaro, agenti lievitanti sono il bicarbonato di ammonio, il bicarbonato di sodio, l’acido tartarico (Figura 1), il carbonato di calcio, il carbonato di magnesio ed i sali dell’acido pirofosforico (Figura 8).

Figura 8. Acido pirofosforico. Rosso e bianco sono i colori con cui vengono indicati rispettivamente ossigeno ed idrogeno. Le palline arancioni sono atomi di fosforo. La struttura è stata ottenuta mediante ottimizzazione energetica con la app WebMO per iPad Pro 9.2.
Note

Per i miei colleghi puntigliosi. Le configurazioni tridimensionali delle varie molecole riportate nelle varie figure sono solo dei minimi energetici relativi ottenuti mediante ottimizzazione con una app per iPad Pro 9.2 che ho appena scoperto e che sto imparando ad usare. Questo vuol dire che so benissimo che ci possono essere configurazioni ad energia minore e che quelle rappresentate possono essere sbagliate. Poiché questo NON è e NON vuole essere un lavoro scientifico da pubblicare su una rivista di alto impatto, ma solo una curiosità di carattere didattico divulgativo, non ho ritenuto necessario approfondire oltre le caratteristiche conformazionali delle diverse molecole. Grazie per la comprensione.

Per saperne di più

Lievitanti, tutti i segreti degli agenti chimici

 

Bere tanti succhi di frutta fa male

Sulla mia bacheca Facebook appaiono tante notizie. Sono soprattutto di carattere scientifico, dal momento che ho selezionato le cose in modo tale che mi appaiano prima queste rispetto ad altre. Tra le notizie scientifiche, oggi mi compare quella che dà il titolo a questo breve articoletto: “Bere tanti succhi di frutta fa male” (in basso lo screenshot dalla mia bacheca. Se cliccate sull’immagine si apre il link alla fonte della notizia)

Il web-magazine che riporta questa notizia è una fonte attendibile nell’ambito della divulgazione scientifica. Peraltro fa un lavoro egregio riportando notizie di lavori recenti in ambito medico senza alcuna inferenza soggettiva. Insomma, riportano le notizie che appaiono sulle riviste specialistiche traducendo il linguaggio tecnico in uno più facilmente comprensibile dalla massa delle persone che non hanno una preparazione specialistica. Fanno, in altre parole, quello che ci si aspetta da professionisti della divulgazione.

Ed allora perché sto scrivendo questa nota con termini che fanno chiaramente capire i miei intenti polemici? Non me la prendo con MedicalXpress, bensì con gli autori del lavoro che essi citano e che potete trovare cliccando sull’immagine qui sotto


Proviamo a leggerlo assieme.

Gli autori si chiedono ” Is the consumption of sugary beverages (ie, sugar-sweetened beverages and fruit juices) associated with an increased mortality risk?” ovvero: il consumo di bevande dolcificate – laddove per dolcificate intendono addizionate di zucchero (che si suppone sia il saccarosio) – tra cui i succhi di frutta, sono legate al rischio di una mortalità più elevata?

La domanda sembra legittima: se abusiamo di bevande zuccherate rischiamo o no di accorciare la nostra vita?

Per rispondere a questa domanda, gli autori hanno raccolto una serie di dati studiando il comportamento di ben 13 440 adulti con età ≥ 45 anni, specificando che hanno preso in considerazione sia bianchi che neri, nell’ambito di un progetto intitolato: “The Reasons for Geographic and Racial Differences in Stroke (REGARDS)“.

Considerazioni sul termine “razza”

Già il titolo del progetto, molto onestamente, mi dà fastidio.

Non sono un native English speaker, per cui mi faccio aiutare da un dizionario monolingue (TheSage, scaricabile liberamente qui) per capire cosa voglia dire “racial”. Qui sotto ciò che mi ha fornito la ricerca:

Da quanto si legge nella figura, il termine “racial” in inglese ha la stessa accezione di “razziale” in italiano.

Che il termine “razza” e gli aggettivi ad esso correlati vengano utilizzati da politici di varia estrazione per far leva sulla pancia di persone che hanno una visione della società civile che non va oltre il proprio ombelico, mi sta bene. Si tratta di politica. Secondo me andrebbe fatta in un altro modo, ma non si può pretendere che tutti abbiano il medesimo livello culturale. E’ compito del comparto istruzione, quindi anche il mio, fare in modo che certi concetti vengano diffusi e compresi, sempre che non ci sia asservimento al potere (qui il manifesto della razza del 1938 che fu firmato da “eminenti scienziati” dell’epoca, mentre qui  un eloquente documento che riporta anche la lista dei 12 professori universitari, gli unici, che rifiutarono il giuramento al fascismo – quindi al potere costituito – nel 1931).

Che il termine venga utilizzato da scienziati per dar titolo ad un progetto scientifico, mi infastidisce non poco. Cliccando sull’immagine qui sotto si apre un ottimo articolo apparso nel 2005 a firma del Prof. Luigi Cavalli Sforza e riproposto da Il Sole24Ore nel Settembre 2018 – per commemorare la morte del Prof. Cavalli Sforza avvenuta un paio di giorni prima – in cui si capisce come il concetto di “razza” applicato agli esseri umani non abbia alcun significato.

Tutti coloro che si occupano di scienza dovrebbero sapere ciò che dice il Prof. Cavalli Sforza, anche gli scienziati che hanno firmato l’articolo di cui si sta discutendo in questa sede e che lavorano ad Atlanta – capitale della Georgia (USA), uno dei sette stati che diedero vita alla Confederazione che scatenò la guerra civile americana e combatté contro l’abolizione della schiavitù.

Ma la mia vena polemica non è destinata all’uso inopportuno dell’aggettivo “razziale”. Va ben oltre.

Continuiamo la lettura.

Gli autori dichiarano

On enrollment in the REGARDS study, diet was assessed using a self-administered Block 98 food frequency questionnaire (FFQ), a validated semiquantitative FFQ that assesses the usual dietary consumption of 110 food items (NutritionQuest). For each food item included in the FFQ, participants were asked about their usual consumption patterns during the preceding year, with response options ranging from never to every day. In addition to frequency of consumption, participants were asked to estimate the usual quantity of food consumed as either the number of specified units or the portion of food served on a plate. The FFQ survey form was given to participants during the baseline in-home visit. Once completed, they were mailed by participants in preaddressed envelopes to the REGARDS operations center. Questionnaires were verified for completeness and sent to NutritionQuest for analysis”.

In pratica è stato somministrato un questionario al quale i candidati al progetto hanno dovuto dare risposta. A questo questionario che ha consentito la selezione dei pazienti, hanno fatto seguito interviste telefoniche a cadenza semestrale:

Study participants (or their family members) were interviewed by telephone every 6 months to log all hospital visits or death events“.

Il resto dello studio è tutta una descrizione dei risultati ed una discussione che mi ricorda molto da vicino quella fatta per il progetto EPI3 di cui ho parlato sia nel mio libro “Frammenti di chimica” che nel mio blog (qui sotto):

Omeopatia e fantasia. Parte V. Aggiornamenti

Manca un controllo, un bianco, da usare come riferimento per capire se, effettivamente, l’abuso delle bevande dolcificate sia veramente correlato ad una elevata probabilità di morte. Inoltre, il lavoro si basa su interviste (come per il progetto EPI3 già ampiamente criticato) in cui si dà una grande importanza alla componente soggettiva di chi viene intervistato. Come conseguenza dei pochi limiti che ho evidenziato, viene elaborata una correlazione che potrebbe essere senza causazione tra mortalità e bevande dolcificate.

Correlazione e casusazione

Immaginiamo di elaborare un progetto nel quale è previsto che vengano intervistate qualcosa come 50000 persone. Le domande vertono sull’uso di prodotti da agricoltura biologica e sulla eventuale presenza, in ogni famiglia, di individui con disturbi dello spettro autistico. Una possibile correlazione è quella riportata nella seguente figura:

fonte

Da questa figura si può concludere che il consumo di cibo biologico è correlato ai disturbi dello spettro autistico. Invito, tuttavia, i lettori a voler leggere la fonte prima di trarre conclusioni in merito.

Immaginiamo ora un altro progetto in cui, attraverso interviste telefoniche, si cerca di comprendere quanti suicidi attraverso impiccagione, strangolamento e soffocamento siano avvenuti in un certo lasso di tempo e quale tipologia di rivista stessero leggendo i malcapitati nel periodo immediatamente precedente la loro morte. Potrebbe venir fuori una cosa come quella della figura qui sotto:

fonte

Da questa figura si capisce che le spese per finanziare la scienza, lo sviluppo delle tecnologie in generale e quelle per andare nello spazio, in particolare, sono direttamente responsabili dei suicidi per impiccagione, strangolamento e soffocamento. Anche in questo caso invito i lettori ad accedere alla fonte della figura prima di esprimere ogni opinione in merito.

Di correlazioni senza causazioni ne possiamo fare parecchie. Anche un paio di anni fa avevo evidenziato come il consumo abitudinario di mozzarelle fosse direttamente responsabile della capacità degli studenti statunitensi di conseguire un dottorato in ingegneria civile (qui sotto il link)

Correlazioni e causalità ovvero delle fallacie degli antivaccinisti

Conclusioni

A onor del vero, gli autori dello studio concludono il loro lavoro scrivendo:

Despite the availability of a large national sample, the number of participants who died during the relatively short follow-up period was small. This increases the risk of a type 2 error, particularly in stratified analyses. In addition, sugary beverage consumption was based on self-report, which is subject to an underreporting bias, specifically for SSBs, that has been shown to differ by a respondent’s weight status, among other factors.25 In addition, beverage exposure estimates were available only at baseline. The extent to which that measure reflects consumption throughout the follow-up period is unknown. Furthermore, we were unable to estimate consumption of all types of SSBs, including sweetened teas, which is known to be high among some adults. Nevertheless, it is important to note that the absence of these data is likely to have biased the observed associations toward the null. Third, nearly one-third of the REGARDS cohort did not complete an FFQ, which may have led to selection bias, compromising the interval validity of our study“.

In altre parole, gli stessi autori si rendono perfettamente conto che le loro conclusioni non sono definitive e che lo studio avrebbe dovuto essere fatto prendendo in considerazione un approccio differente.

Nonostante questa conclusione che consente di dire che lo studio deve essere preso con le mollette, cosa pensate titoleranno le migliori testate giornalistiche quando si accorgeranno di poter scrivere “contrordine compagni. I succhi di frutta fanno male“, potendo in questo modo ottenere tanti like e tante condivisioni che vuol dire anche tanta pubblicità?

Ai posteri l’ardua sentenza. Intanto io mi vado a sbafare un ottimo succo di frutta. Visto che aumento la mia possibilità di morire (cosa che comunque accadrà), che almeno possa avvenire mentre si sviluppa in me la sensazione di soddisfazione conseguente all’aver assunto una bevanda dolcificata.

Fonte dell’immagine di copertina

Fart chemistry

Stavolta il titolo è in inglese. “Fart chemistry” dà l’idea di qualcosa legato alla fantascienza. Invece si tratta di una chimica legata alla salute umana, e che, prosaicamente, può essere identificata come “chimica delle scoregge“. Ebbene sì. Le flatulenze con odori più o meno forti sono inquadrate nell’ambito di quel ramo della chimica/biochimica/medicina che viene indicato come “flatologia“. Gli scienziati che si occupano di flatologia sono indicati come “flatologi“.

Fart composition

La composizione chimica di una flatulenza cambia da individuo ad individuo in funzione delle caratteristiche del suo metabolismo e da ciò che mangia.

La composizione tipica, ma anche più semplice, è: azoto molecolare, idrogeno molecolare, anidride carbonica, ossigeno molecolare e metano. Si tratta, insomma, della composizione dell’aria che respiriamo, sebbene con rapporti relativi alquanto differenti. Per esempio il metano può raggiungere l’ammontare del 10% in volume nei casi più estremi.

Nessuno dei gas citati ha odore. Allora la domanda nasce spontanea: come mai le flatulenze hanno odori sgradevoli che vanno da quello delle uova marce a quello del pesce e della carne in putrefazione?

Ebbene, tutto dipende da ciò che mangiamo, come dicevo. La Figura 1 mostra le molecole più importanti che sono state identificate nei gas prodotti dal nostro intestino

Figura 1. Molecole tipiche presenti nei gas prodotti dal nostro intestino

Tra tutte le molecole mostrate in Figura 1, il tipico odore di uova marce è dovuto ai composti contenenti zolfo, l’odore di feci è dovuto a scatolo e indolo, le ammine volatili “sanno” di pesce andato a male, mentre l’odore degli acidi grassi a catena corta assomiglia a quello del burro rancido.

La cosa “simpatica” è che quando ero studente, i professori ci dicevano di fare attenzione quando maneggiavamo sistemi volatili contenenti zolfo. Questi hanno non solo la peculiarità del cattivo odore, ma anche quella di attaccarsi ai tessuti. Per questo motivo, i profs ci invitavano caldamente ad usare le cappe ed i camici per non rischiare di impestare i vestiti ed essere costretti a denudarci prima di poter entrare in casa. Insomma…se vi scappano flatulenze dal caratteristico odore di uova marce mentre siete seduti sul divano, ricordatevi che l’odore può persistere nel tempo perché le molecole descritte nella Figura 1 possono attaccarsi al tessuto del divano allontanandosi da esso molto lentamente.

Non c’è che dire. Una miscela micidiale in quanto a “profumo”. Apriamo le finestre

Fonte: http://ilsilenziodielia.blogspot.com/2010/07/finestre-aperte.html
Per saperne di più

What Is a Fart Made Of?

The chemistry of farts

The composition of human fart gas

Fonte dell’immagine di copertinahttps://m.baklol.com/baks/Health/12-Shocking-Reasons-Why-You-Sh-_2236/1

Orbitali e premi Nobel

Mettendo ordine nel mio ufficio, mi è capitato tra le mani un articolo che avevo stampato tempo fa ed apparso su Angewandte Chemie International Edition English nel 1969. Chi si occupa di scienza nel campo chimico sa che si tratta di una delle riviste più accreditate del settore: i chimici farebbero carte false pur di veder pubblicato un lavoro su questa rivista. Il lavoro in questione è quello che vedete nell’immagine seguente: The conservation of Orbital Symmetry.

Roald Hoffmann ha vinto il premio Nobel nel 1981 per i suoi studi sui meccanismi di reazione assieme a Kenichi Fukui. I due scienziati svilupparono, indipendentemente l’uno dall’altro, la teoria in base alla quale si sviluppano le reazioni chimiche. Sul sito di Ang. Chemie Int. Ed. En. si trovano sia la Nobel lecture di Fukui dal titolo The Role of Frontier Orbitals in Chemical Reactions (immagine qui sotto)

che quella di Hoffmann dal titolo Building Bridges Between Inorganic and Organic Chemistry (immagine qui sotto)

Se Hoffmann e Fukui hanno vinto il premio Nobel per le loro ricerche nell’ambito della chimica teorica che hanno consentito l’elaborazione dei meccanismi di reazione come oggi li conosciamo, Robert B. Woodward (il primo autore della prima immagine riportata in questa breve nota) vinse il premio Nobel quattro anni prima del predetto articolo su Angew. Chemie Int. Ed. En. “for his outstanding achievements in the art of organic synthesis“.  Da notare: “art of organic synthesis“. Eh…sì…perché la sintesi chimica è a metà tra scienza ed arte. Occorre una enorme fantasia associata ad una profonda conoscenza chimica per poter sintetizzare un qualsiasi composto chimico. Il contributo di Woodward va dall’elaborazione della via sintetica della chinina, a quella del colesterolo, passando per il cortisone, la stricnina, l’acido lisergico e la cefalosporina. Sicuramente notevole è la via che egli elaborò per ottenere in laboratorio la vitamina B12 di cui potete trovare un pezzo nella figura qui sotto e nel link ad essa associato (basta cliccare sull’immagine).

Come dicevo altrove, la chimica ci è amica. Non tutti i prodotti di sintesi sono pericolosi, ma del resto la pericolosità di un prodotto è solo legata al cattivo uso che di esso si fa, come scrivevo già un po’ di tempo fa:

Contraddizioni culturali e paradossi cognitivi. Naturale / buono = chimico / tossico

Fonte dell’immagina di copertinahttps://www.unidformazione.com/orbitali-ibridi/

Pillole di chimica: il Bitrex

 

Bitrex. Sebbene sia l’anagramma di brexit, non ha nulla a che vedere con la politica. Si tratta del nome commerciale del benzoato di denatonio la cui struttura è riportata nella figura qui sotto e nell’immagine di copertina.

Cos’è il bitrex?

Come si evince dalla struttura, si tratta di un sale di ammonio quaternario. Questo lo rende solubile in acqua. Ma ciò che è più interessante è che esso non è tossico ed ha un sapore estremamente sgradevole. In effetti, sembra che questo sale sia entrato nel Guinness dei primati come la sostanza più amara in assoluto (qui).

La sua scoperta risale al 1958 ad opera dei chimici della T & H Smith, una casa farmaceutica di Edimburgo, che in quel periodo stava studiando la sintesi di nuovi prodotti antidolorifici (qui).

A cosa serve il bitrex?

Quale può essere l’utilità commerciale di un composto così amaro che appena messo sulla lingua fa venir voglia di sputarlo subito via?

Quanti sono i prodotti pericolosi che abbiamo a casa e che possono attirare l’attenzione dei bambini per il loro colore, le confezioni che li contengono o semplicemente perché i bambini sono curiosi per natura e hanno la tendenza a mettere tutto quello che trovano in bocca?

Chi ha bambini sa certamente rispondere: shampoo, medicinali, detersivi per la disinfezione e la pulizia della casa e chi più ne ha più ne metta.

Ebbene, il bitrex è sicuramente uno degli additivi più usati in questi prodotti per renderli di sapore disgustoso ed evitare una loro possibile ingestione accidentale.

Ne volete qualche esempio?

Qui il link al Luma KL un agrofarmaco che viene usato per la lotta a limacce, lumache, chiocciole e gasteropodi che possono infestare gli orti nei quali vengono coltivati asparagi, carciofi, cavolo cappuccio, finocchi, porro e sedano. Potete facilmente individuare la presenza del bitrex, ovvero denatonio benzoato, che viene addizionato proprio per limitare l’ingestione casuale di questo prodotto che può portare a danni epatici e renali molto seri.

Altro esempio?

Quanti di noi hanno genitori o nonni che preparano bevande alcoliche in casa? Magari qualcuno di voi può essere appassionato di limoncello ed ogni anno va al mercato per comprare limoni IGP di Sorrento la cui buccia viene estratta in alcol etilico per ottenere questa bevanda  molto apprezzata nelle regioni del Sud Italia (qui una interessante ricetta per produrlo in casa). E quanti si sono chiesti perché bisogna comprare alcol etilico per uso alimentare, che costa un occhio della testa a causa delle accise che gravano su di esso, e non è possibile, invece, approntare un piccolo distillatore casalingo per purificare l’alcol etilico denaturato che costa pochi centesimi di euro al litro?

Come si denatura l’alcol etilico

L’alcol etilico denaturato, quello che si vende nei supermercati ed è di colore rosso, costa pochi centesimi al litro perché, non potendo essere usato per l’alimentazione, non viene gravato dalle accise che pesano, invece, sull’alcol puro che usiamo in cucina. L’alcol etilico viene denaturato aggiungendo il bitrex, così da produrre un sapore disgustoso, un colorante e tanti altri composti a seconda dell’uso a cui l’alcol etilico è destinato . Per esempio la denaturazione si può ottenere aggiungendo anche canfora, olio di ricino, acetone, kerosene metanolo, aldeidi varie, isopropanolo e benzene.

È possibile distillare l’etanolo denaturato per ottenere quello alimentare?

È vero che si potrebbe distillare la miscela descritta e dal sapore disgustoso per tentare di isolare l’alcol etilico. Tuttavia, ciò che è poco noto ai non chimici è che la distillazione non riesce ad eliminare completamente le sostanze che si aggiungono all’alcol etilico per denaturarlo. Dopo un certo numero di cicli di distillazione si ottiene una miscela che si chiama “azeotropo” nella quale sono ancora presenti gli additivi summenzionati che rendono il prodotto ottenuto per distillazione ancora non adatto all’alimentazione umana. Nel caso della denaturazione dell’etanolo, l’addizione di piccole quantità di acetone è quella che non consente di purificare oltre l’azeotropo.

Chimico amico

Beh, il titolo del paragrafo è fuorviante. Non è detto che tutti i chimici siano simpatici. So di sicuro di essere antipatico almeno ad una persona: a chi ha fatto una recensione su Amazon al mio libro “Frammenti di Chimica” scrivendo che non compra il libro perché non si comprano i libri di chi offende gli ignoranti indicandoli come tali. Questo la dice lunga sull’onestà intellettuale di omeopati, biodinamici e compagnia bella: parlano senza cognizione di causa e senza leggere ciò di cui sentono il bisogno di discutere. Tuttavia, la chimica è amica di tutti. È un corpo di conoscenze che ci permette di comprendere il mondo che ci circonda: come è fatto, perché è fatto così e come funziona.

Ed ora: buon limoncello a tutti!

Fonte: https://ricette.giallozafferano.it/Limoncello.html

 

C’è nessunooooooo? Giocare con i numeri

Quando ero più giovane andava per la maggiore una simpatica pubblicità sulla particella di sodio. Ve la ricordate?

Era simpatica, in effetti.

Il sodio in acqua

Il sodio è un elemento del primo gruppo della tavola periodica che ha la caratteristica di reagire violentemente con l’acqua in una reazione di ossido-riduzione che porta alla formazione dello ione Na+.

Ma non è di questo che voglio parlavi.

Il sodio e la salute umana

Che lo ione sodio sia coinvolto nei problemi cardiovascolari è ben acclarato nella letteratura medica. Di conseguenza, quando un individuo è affetto da ipertensione, il medico può consigliare l’uso di acque adatte alle diete iposodiche.

In base al D.L. n. 176 del 8/10/2011, su G.U.  Serie Generale n. 258 del 5/11/2011, possono essere definite acque adatte alle diete povere di sodio tutte quelle in cui il contenuto dello ione Na+ è ≤ 20 mg L-1. L’ho scritto anche nel mio libro “Frammenti di Chimica. Come smascherare falsi miti e leggende“, dove riporto  che se anche le acque hanno un contenuto di sodio ≥ 20 mg L-1 sono comunque potabili. L’unico inconveniente è che possono avere un sapore non necessariamente gradito.

Lo stesso D.L. n. 176 del 8/10/2011, su G.U.  Serie Generale n. 258 del 5/11/2011 citato poco fa, prende in considerazione la possibilità che un’acqua potabile possa avere un elevato contenuto di ione sodio. Infatti viene riportato che quando un’acqua ha un contenuto di sodio ≥ 200 mg L-1 essa deve essere obbligatoriamente indicata come “acqua sodica”.  Come riportato nell’Enciclopedia Medica, le acque sodiche “sono indicate in stati di carenze specifiche”.

Consigli del Ministero della Salute

Se andiamo sul sito internet del Ministero della Salute (qui), leggiamo che “l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomanda un consumo massimo di 5 grammi al giorno di sale, corrispondenti a circa 2 grammi al giorno di sodio“. Questo vuol dire che dobbiamo limitare il consumo di sodio nell’alimentazione giornaliera utilizzando una corretta pratica alimentare. Si parla di ione sodio, non dell’elemento metallico che dà l’esplosione a contatto con l’acqua che avete visto nel secondo filmato di quest’articolo.

In che modo tenere sotto controllo l’assunzione di ione sodio? È lo stesso Ministero della Salute a suggerircelo:

  • Leggiamo attentamente l’etichetta nutrizionale per scegliere, in ciascuna categoria, i prodotti a minore contenuto di sale e cercare i prodotti a basso contenuto di sale, cioè inferiore a 0.3 grammi per 100 g (corrispondenti a 0.12 g di sodio)
  • Riduciamo l’uso di sale aggiunto in cucina, preferendo comunque, ove necessario, minime quantità di sale iodato.
  • Limitiamo l’uso di altri condimenti contenenti sodio (dadi da brodo, maionese, salse, ecc.) e utilizziamo in alternativa spezie, erbe aromatiche, succo di limone o aceto per insaporire ed esaltare il sapore dei cibi.
  • Non portiamo in tavola sale o salse salate, in modo che non si acquisisca l’abitudine di aggiungere sale sui cibi, soprattutto tra i più giovani della famiglia.
  • Riduciamo il consumo di alimenti trasformati ricchi di sale (snack salati, patatine in sacchetto, alcuni salumi e formaggi, cibi in scatola).
  • Scoliamo e risciacquiamo verdure e legumi in scatola, prima di consumarli.
  • Evitiamo l’aggiunta di sale nelle pappe dei bambini, almeno per il primo anno di vita.
Giocare con i numeri

Ritorniamo ai consigli dell’OMS.  Dobbiamo scegliere quegli alimenti che  contengano meno di  1200 mg kg-1 di sodio.

A questo punto quelli di voi che leggono solo distrattamente mi daranno del pazzo: da dove è venuto fuori questo numero così elevato? È scritto sopra: 0.12 g di sodio per 100 g di sale corrispondono a 1200 mg di sodio ogni chilogrammo (cioè 1000 g) di sale; è molto semplice fare i calcoli per cui non offendo la vostra intelligenza proponendoveli.

In parole povere mi sono messo a giocare coi numeri. Questo vezzo di giocare coi numeri per dare l’impressione che qualcosa sia diverso da quello che effettivamente è, è tipico di quanti, per lavoro, impostano le campagne pubblicitarie di tanti prodotti alimentari come le acque destinate al consumo umano introdotte col filmato sulla particella di sodio inserito all’inizio di questo articolo.

Ne volete un esempio? Eccovi la foto dell’etichetta dell’acqua che ho preso oggi a pranzo

Figura 1. Etichetta di una nota acqua minerale. Si noti il modo in cui viene espressa la concentrazione di sodio

È perfettamente evidenziato che la quantità di sodio è < 0.0005 %. Un numero spaventosamente piccolo, vero? Uno che legge distrattamente pensa: “WOW, praticamente non c’è sodio. Deve essere particolarmente adatta per gli ipertesi”. Ma guardando con attenzione, poco più su nell’etichetta è scritto che il contenuto di sodio è 4.1 mg L-1. Alla luce del D.L. n. 176 del 8/10/2011, su G.U.  Serie Generale n. 258 del 5/11/2011 questa è un’acqua adatta per diete iposodiche.

Ma, adesso, dite la verità: 0.0005 non dà l’impressione di essere di gran lunga più piccolo di 4.1?

In realtà sono esattamente la stessa cosa. Sono state usate due unità di misura differenti per indicare lo stesso valore numerico (in realtà il valore percentuale è approssimato, ma non è importante ai fini della discussione). La legge impone di indicare il contenuto di sodio in mg L-1 ; l’azienda di imbottigliamento ha scelto di riportare, evidenziandolo a bella posta, anche il contenuto percentuale cosicché il consumatore distratto possa essere portato a pensare che la quantità di sodio sia molto più bassa di quella che effettivamente è. Si tratta di un escamotage che fa leva sulle sensazioni che nascono in noi quando leggiamo i numeri.

Conclusioni

Giocare con i numeri per suscitare sensazioni in modo da indirizzare le scelte dei consumatori è cosa molto comune. Non è una cosa grave. Non bisogna, tuttavia, farsi trarre in inganno. Le scelte, soprattutto alimentari, vanno fatte con oculatezza e sapendo ciò che si fa.

Fonte dell’immagine di copertina: https://commons.wikimedia.org/wiki/Water#/media/File:Water_Impact_0.jpg

I linguaggi della scienza

E’ con grande piacere che presento oggi l’apertura del canale Youtube dedicato alla scienza e al suo linguaggio:

I linguaggi della scienza

Cercherò di pubblicare con una certa frequenza interventi sulle bufale scientifiche e sulle manipolazioni dei dati e del linguaggio che spesso si trovano in giro. Come sicuramente è ormai risaputo i social sono lo strumento ideale per poter propagare una serie di bugie e male interpretazioni su argomenti scientifici che poi generano paure, comportamenti scorretti e letture non adeguate.

In questo sarò aiutato da Francesco Mercadante,  specialista in analisi del linguaggio (la sua presentazione professionale qui), con cui cercheremo di approfondire un tema, una parola, una questione sia dal punto di vista scientifico che da quelli delle aree semantiche  e delle strutture che vengono utilizzate.

Nel primo video parliamo di zucchero e delle bufale che girano attorno a questo argomento:
https://www.youtube.com/channel/UCwv3omA6MEJRKOnOYErEfsg

Buona visione!

Frammenti di chimica su Oxygen

Ed eccomi qui in una trasmissione on line. Grazie a Carolina Sellitto per l’intervista nella sua Oxygen con la quale mi ha dato modo di poter parlare di chimica,  di scienza e di presentare il mio Frammenti di chimica. La corretta divulgazione si fa con tutti i mezzi possibili in modo da raggiungere le menti curiose del pubblico di ogni fascia di età ed estrazione culturale.

 

Fonte dell’immagine di copertina: https://www.keeptheplanet.org/divulgazione-scientifica/

La chimica del pulito

Vi siete mai chiesti come mai per lavare qualcosa bisogna usare il sapone e, preferibilmente, acqua calda? È tutta questione di chimica fisica.

Più volte ho scritto in merito all’acqua ed alle sue proprietà. Per esempio, qui e qui potete leggere in merito alle proprietà dei legami a idrogeno, qui in merito al ruolo dei legami a idrogeno nell’innalzamento ebullioscopico, qui trovate il significato di pH e la sua dipendenza dalla temperatura.

La chimica dei saponi

Il funzionamento dei saponi è molto semplice e lo ho già descritto qui, quando ho parlato di acqua micellare. In sintesi, un sapone è fatto da molecole anfifiliche, ovvero che hanno caratteristiche sia idrofiliche che idrofobiche. In particolare, le molecole si arrangiano in modo tale da permettere che le teste idrofiliche, rimanendo a contatto con l’acqua, isolino dall’acqua le code idrofobiche che non hanno con essa una buona affinità (Figura 1).

Figura 1. Struttura di una micella. Le teste idrofiliche formano una “pellicola” che separa le code idrofobiche dal contatto con l’acqua (Fonte)

La natura delle micelle è tale da “indebolire” i legami a idrogeno dell’acqua con la conseguenza che si riduce la tensione superficiale del liquido stesso (Figura 2).

Figura 2. La tensione superficiale permette alle zanzare di “camminare” sull’acqua (Fonte)

La riduzione della tensione superficiale consente alle molecole di acqua di penetrare meglio all’interno dei pori dei tessuti degli abiti o della pelle (in generale di tutti i sistemi porosi) così da permettere alle micelle del sapone di interagire meglio con lo sporco.

Quando ciò accade, le micelle “inglobano” lo sporco nella parte idrofobica mentre le teste polari a contatto con l’acqua fanno in modo che lo sporco venga trascinato via dall’acqua stessa (Figura 3).

Figura 3. Funzionamento dei saponi. I punti rossi sono le teste idofiliche, i bastoncini gialli sono le code idrofobiche (Fonte)

Cosa c’entra la temperatura?

Ormai anche le pietre sanno che l’acqua è una molecola polare. La polarità dell’acqua è dovuta alla distribuzione degli elettroni all’interno della stessa molecola. Essa è tale che il centro delle cariche negative è preferenzialmente localizzato sull’ossigeno, mentre quello delle cariche positive sugli atomi di idrogeno (Figura 4).

Figura 4. Distribuzione della densità elettronica nella molecola di acqua (Fonte)

Alla polarità della molecola di acqua, in genere, si attribuisce la “responsabilità” dei legami a idrogeno summenzionati. La polarità dell’acqua è legata anche a quella che si chiama costante dielettrica. La costante dielettrica è una misura della capacità delle molecole di un mezzo (in questo caso l’acqua) di allineare il proprio dipolo elettrico secondo le linee di forza di un campo elettrico applicato (Figura 5).

Figura 5. Orientamento del dipolo acqua all’interno di un campo elettrico. Il centro delle cariche positive del dipolo si orienta verso il polo negativo mentre quello delle cariche negative si orienta verso il polo positivo (Fonte)

Più elevata è la costante dielettrica, più facilmente le molecole si allineano al campo elettrico applicato.

Da un punto di vista sperimentale, la costante dielettrica dell’acqua riduce di circa 80 volte la forza con cui interagiscono gli ioni presenti in un composto chimico. È per questo motivo che i sali tendono a sciogliersi bene in acqua.

Il valore della costante dielettrica è anche una misura della tensione superficiale del sistema liquido per cui esso è misurato. Più elevato è il valore di questa costante, maggiore è la tensione superficiale del liquido.

La Figura 6 mostra come varia il valore della costante dielettrica dell’acqua al variare della temperatura. In parole povere, l’aumento della temperatura comporta una diminuzione della costante dielettrica, ovvero una diminuzione della polarità dell’acqua ed una riduzione della sua tensione superficiale.

Figura 6. Variazione della costante dielettrica relativa dell’acqua con la temperatura

Come già spiegato nel paragrafo precedente, la riduzione della tensione superficiale permette all’acqua di “interagire” meglio con la superficie dei mezzi porosi (per esempio la pelle o un tessuto di un abito).

Conclusioni

L’uso combinato dei saponi e dell’alta temperatura permette una drastica riduzione della tensione superficiale dell’acqua aumentandone la capacità pulente. L’aumento della temperatura consente anche di sterilizzare gli “oggetti” che vengono lavati. La sterilizzazione, naturalmente, ha luogo solo se i microorganismi che contaminano gli oggetti non sono termofili, ovvero in grado di resistere alle classiche temperature usate negli elettrodomestici di casa (gli organismi termofili sono in grado di resistere anche a temperature di 80-90 °C).

Simpatico, vero, l’effetto della temperatura sulle proprietà dell’acqua?

 

Per saperne di più

Fonte dell’immagine di copertina

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