Notizie dal mondo scientifico. Viaggio attraverso il tempo e nei processi evolutivi

Cos’è la malattia di Huntington

La còrea o malattia di Huntington è una malattia genetica neurodegenerativa che colpisce la coordinazione muscolare e porta a un declino cognitivo e a problemi psichiatrici [1].

Non sono un neuroscienziato e non ho la pretesa di comprenderne fino in fondo le implicazioni biologiche e cliniche, che sono spiegate molto meglio altrove [2,3]. Ne parlo qui perché ho letto un interessantissimo articolo della senatrice Elena Cattaneo [4], che riesce a descrivere con grande chiarezza (anche per chi, come me, non è esperto di genetica) le basi molecolari della malattia.

La tripletta CAG e la proteina huntingtina

La malattia di Huntington è legata a un’anomalia di un gene localizzato sul cromosoma 4 (Figura 1), dove si trova una sequenza ripetuta della tripletta CAG.

Figura 1. Corredo cromosomico umano. Ogni cromosoma è presente in coppia: dal numero 1 al 22 sono identici in entrambi i sessi, mentre i cromosomi sessuali differiscono (XY nei maschi, XX nelle femmine). Fonte: Ospedale Bambin Gesù.

Per i non addetti ai lavori: la tripletta CAG corrisponde a tre nucleotidi – citosina (C), adenina (A) e guanina (G) – e codifica per l’amminoacido glutammina (GLN) [5]. Sul cromosoma 4 questa tripletta si ripete molte volte (CAGCAGCAG…) e la sequenza codifica per una proteina che contiene un tratto con molte glutammine legate in fila.

La differenza sta proprio nel numero di ripetizioni:

  • meno di 36 triplette → la proteina funziona normalmente e non si sviluppa la malattia;
  • più di 36 triplette → la proteina subisce alterazioni strutturali che portano alla comparsa della malattia di Huntington.

Quando la sequenza è nella norma, la proteina stimola la produzione di una neurotrofina fondamentale per i neuroni striatali [4]. Se le ripetizioni superano la soglia critica, la produzione di questa neurotrofina può ridursi anche del 50% [4], causando gravi conseguenze per le cellule nervose.

Il dilemma evolutivo

A questo punto emerge la domanda cruciale: perché l’evoluzione ha conservato una sequenza così rischiosa, che nel tempo può diventare una condanna? [4]

Per rispondere, i ricercatori hanno dovuto fare un salto indietro nel tempo di circa 800 milioni di anni, fino ai primi organismi pluricellulari comparsi sulla Terra, come l’ameba sociale Dictyostelium [6]. Proprio lì è stato identificato il gene che, molto più tardi, nell’uomo, sarebbe stato associato all’Huntington.

Un vantaggio nascosto

La spiegazione suggerita è che questa sequenza ripetuta abbia avuto – e abbia ancora – un vantaggio evolutivo: nelle giuste quantità, la proteina che ne deriva sostiene lo sviluppo e la sopravvivenza dei neuroni, offrendo un beneficio che ha superato, almeno in termini evolutivi, il costo del rischio che le ripetizioni diventino eccessive.

Negli ultimi anni si è rafforzata l’idea che le ripetizioni CAG in numero non patologico non siano affatto neutre: studi su popolazioni sane hanno mostrato che variazioni nella lunghezza della sequenza, pur restando sotto la soglia critica, sono associate a differenze nelle strutture cerebrali e talvolta a prestazioni cognitive migliori [7,8]. Questo suggerisce che la sequenza poliglutaminica del gene HTT abbia un ruolo positivo nella plasticità e nello sviluppo del cervello.

Le espansioni somatiche

Un altro aspetto emerso di recente è quello delle espansioni somatiche: nel corso della vita, alcune cellule accumulano lentamente ulteriori ripetizioni CAG, senza che questo causi danni immediati. Tuttavia, quando la soglia viene superata in specifiche regioni cerebrali vulnerabili, il processo degenerativo si accelera bruscamente [9,10]. Questo meccanismo spiega perché la malattia si manifesta spesso in età adulta, dopo decenni di apparente normalità.

La prospettiva evolutiva

Analisi comparative in diverse specie hanno mostrato che la lunghezza della sequenza poliglutaminica nel gene HTT è stata oggetto di selezione naturale, a indicare che versioni con una certa estensione sono state probabilmente favorevoli allo sviluppo di funzioni nervose più complesse [11].

In altre parole, ciò che oggi leggiamo come malattia – la Huntington – potrebbe essere il rovescio della medaglia di un meccanismo che, nel corso dell’evoluzione, ha contribuito a plasmare la complessità del cervello umano, offrendo benefici cognitivi e adattativi a fronte di un rischio che si manifesta solo in alcune circostanze.

Riferimenti

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Malattia_di_Huntington

[2] http://www.uniroma2.it/didattica/MBND/deposito/lezione3.pdf

[3] http://www.telethon.it/…/malattie-tr…/huntington-malattia-di

[4] E. Cattaneo, Alla ricerca del gene perduto, Wired (Estate 2016), 77, 60-65

[5]  https://www.ncbi.nlm.nih.gov/books/NBK545250/

[6] https://it.wikipedia.org/wiki/Dictyostelium

[7] Schultz JL, et al. Association of CAG Repeat Length in the Huntington Gene With Cognitive Performance in Young Adults. JAMA Neurology (2021).

[8] Cattaneo E, et al. When repetita no-longer iuvant: somatic instability of the CAG triplet in Huntington’s disease. Nucleic Acids Research (2025).

[9] Handsaker RE, et al. Long somatic DNA-repeat expansion drives neurodegeneration in Huntington’s disease. Cell (2025).

[10] Scahill RI, et al. Somatic CAG repeat expansion in blood associates with biomarkers of neurodegeneration in Huntington’s disease decades before clinical motor diagnosis. Nature Medicine (2025).

[11] Iennaco R, et al. The evolutionary history of the polyQ tract in huntingtin sheds light on its functional pro-neural activities. Cell Death & Differentiation (2022).

Riflessioni pre natalizie. Sviluppo scientifico e stasi tecnologica

Una delle riviste che mi piace leggere è Wired. Non sempre lo faccio perché è una rivista che esce un paio di volte all’anno e non sempre mi ricordo di prenderla in edicola. Stavolta sì; mi è capitata sotto gli occhi nell’edicola dell’aeroporto e l’ho presa. Capisco che sapere quali siano le mie letture preferite non è che importi a molti, così come non é particolarmente interessante sapere in che modo mi ricordi di prendere le riviste in edicola. Questo sproloquio introduttivo mi serve solo per dire che nell’ultimo numero di Wired, dedicato a come sarà il nostro futuro, ho trovato una introduzione di Carlo Rovelli, tra i fisici italiani più prestigiosi, che mi ha fatto molto riflettere.

Rovelli in sintesi afferma: “Il futuro non dipenderà da nuove prodigiose scoperte o inaspettate tecnologie ma sarà determinato dai governanti che ci sceglieremo: ragionevoli o irragionevoli”. Le sue argomentazioni sembrano molto ragionevoli e condivisibili: “parlare del futuro è sempre parlare del presente. Scienza e tecnologia continuano ad avanzare ma, fra le due, c’è uno scarto. Presto mi aspetto maggiori passi avanti nella conoscenza del mondo […]. Ma non credo che la tecnologia spiccherà grandi salti avanti. […] A me, in effetti, sembra che lo sviluppo tecnologico sia già in un periodo di forte rallentamento. Da quando sono nato ho visto arrivare l’uso di massa del trasporto aereo, i computer, internet. Sembra molto ma, se provo a confrontarlo coi cambiamenti che ha vissuto mia nonna le novità di oggi impallidiscono. Lei ha conosciuto la radio, la televisione, l’illuminazione stradale, le automobili, gli aeroplani, la penicillina, l’educazione generalizzata, l’uomo sulla Luna e la bomba atomica. E ci sono state, in passato, innovazioni tecnologiche che hanno sovvertito la vita del pianeta […]. Per esempio la diffusione dei trattori ha fatto sì che la percentuale di uomini che coltivava la terra passasse da più del novanta percento a meno del dieci, e ciò ha cambiato l’esistenza di milioni di esseri umani e sovvertito in modo radicale la struttura sociale della società”.

Devo dire che, probabilmente perché sono appassionato di fantascienza e per questo abbastanza sognatore, non sono molto d’accordo con Rovelli. Egli ha fatto una serie di esempi molto significativi, però a me non convincono molto.

Chi avrebbe potuto prevedere nel 1905 che la spiegazione dell’effetto fotoelettrico di Einstein avrebbe portato dopo più di ottanta anni ai cancelli automatici? E chi avrebbe potuto prevedere negli anni sessanta del novecento che le tavolette usate dal Dr. Spock in Star Trek, noto telefilm di fantascienza, sarebbero diventate reali con gli attuali e-reader e tablet? Vogliamo parlare degli attuali telefoni cellulari di cui si anticipa l’esistenza sempre in Star Trek?

Mi potreste dire: “ma di cosa stai blaterando? Stai confondendo finzione con realtà. Una cosa è l’effetto fotoelettrico altra è la fantasia degli sceneggiatori di Star Trek”. È vero. Solo che molte volte la realtà supera la fantasia come spiega Lawrence Krauss nel suo “La fisica di Star Trek”.

Dove voglio andare a parare? Voglio semplicemente dire che lo sviluppo delle nostre conoscenze scientifiche non ci consente di dire come, quando e quanto la tecnologia potrà subire salti in avanti. Quello che a Rovelli sembra un periodo di forte rallentamento tecnologico, io lo vedo in altro modo.

La tecnologia è indissolubilmente legata al progresso scientifico. Ma anche il progresso scientifico è legato allo sviluppo tecnologico. Cose che oggi sono possibili, solo qualche anno fa erano impensabili a partire da internet di cui parla Rovelli e dal World Wide Web. La necessità di superare la lentezza nello scambio di informazioni nel mondo scientifico portò Timothy John Berners-Lee ad inventarsi quello che a noi oggi sembra qualcosa di ovvio: il web a cui internet è legato a doppio filo. E col web oggi io posso lavorare sul mio tablet scrivendo questo articolo mentre sorseggio il mio caffè. Di esempi del genere ne potrei fare a bizzeffe. Solo per rimanere nel mio ambito settoriale che è quello della risonanza magnetica nucleare, chi potrà mai dire cosa ci consentirà di conoscere in termini scientifici l’applicazione della rilassometria NMR a ciclo di campo combinata con la risonanza magnetica per immagini? Questo che è uno sviluppo tecnologico non potrà fare altro che far avanzare le frontiere della nostra conoscenza. Con esse ci saranno altri sviluppi tecnologici che potranno consentire  ulteriori passi avanti nelle conoscenze in un ciclo senza fine.

La tecnologia che deriva dallo sviluppo scientifico non è neutra neanche nei nostri confronti. Essa influenza il nostro modo di pensare e di muoverci man mano che la utilizziamo. Faccio mie e rendo più generali le riflessioni di Nicholas Carr nel suo “Internet ci rende stupidi?”: quando facciamo uso di uno strumento, qualsiasi esso sia, il nostro cervello viene modificato. In altre parole, si modificano le nostre connessioni neuronali in modo tale da permetterci di adattarci allo strumento di cui facciamo uso. Lo sviluppo di strumenti sempre più innovativi ci porta ad una riprogrammazione continua del nostro computer interno – il nostro cervello – cosicché esso è di gran lunga differente rispetto a quello dei nostri nonni.

Pur non essendo il nostro hardware – il nostro aspetto fisico – differente da quello dei nostri antenati di 10000 anni fa, il nostro software – ovvero le connessioni neuronali nel nostro cervello – invece lo è perché si è dovuto riprogrammare progressivamente per poter adattarsi alle innovazioni avvenute nel corso dei secoli. Questa riprogrammazione richiede del tempo ed è, secondo me, quello che a Rovelli sembra il periodo di progressivo rallentamento tecnologico in cui viviamo.

La Figura 1 (fatta a mano in un rigurgito vintage scientifico) rappresenta quello che penso in merito al progresso scientifico – ovvero delle conoscenze – e tecnologico. Ogni volta che c’è una innovazione (segmenti con pendenza positiva) abbiamo bisogno di tempo per la riprogrammazione del nostro software interno (segmenti con pendenza quasi nulla). Dopo questo tempo si presentano nuove innovazioni seguite da nuovi periodi di apparente rallentamento.

Non sono un neuro-scienziato e so benissimo di essermi avventurato in un campo che non è il mio. È molto probabile che io abbia detto una serie di sciocchezze, ma è proprio questo lo scopo di queste riflessioni: intavolare una discussione proficua con chi è più esperto di me.

Immagine di copertina. Foto personale della copertina di Wired inverno 2017/18

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