Perché studiare chimica e fisica? L’innalzamento ebullioscopico

Avete presente la classica robetta sul mettere il sale prima o dopo che l’acqua ha cominciato a bollire? Questa cosa mi ha sempre lasciato perplesso perché ho sempre pensato che chiunque abbia frequentato con profitto le scuole superiori conosca le proprietà colligative e sa cosa significa innalzamento ebullioscopico. Traduco per i meno esperti: l’innalzamento ebullioscopico è l’innalzamento della temperatura di ebollizione di un solvente quando in esso vengano aggiunti dei soluti. Nel caso specifico, il solvente è l’acqua mentre il soluto è il cloruro di sodio (NaCl), popolarmente conosciuto come sale da cucina.

La solubilità in acqua del cloruro di sodio a 100 °C è di circa 400 g L-1.

L’innalzamento ebullioscopico si calcola usando la formuletta:

ΔT=keb · m · i                                                                                         (1)

dove ΔT è la variazione della temperatura di ebollizione tra il solvente che contiene il soluto e quella del solvente puro; keb è una costante che si chiama costante ebullioscopica. Essa è tabulata per ogni solvente. Per l’acqua, la keb assume il valore di 0.512 °C kg mol-1. Infine, m è la cosiddetta molalità, ovvero la concentrazione di soluto espressa in mol kg-1, dove il peso si riferisce al solvente usato, mentre i è il cosiddetto coefficiente di Vant’Hoff.

Adesso possiamo applicare la formuletta (1) per calcolare quale quantità di cloruro di sodio permette di alzare la temperatura di ebollizione dell’acqua di quantità note. Quelle che che ho preso in considerazione sono le seguenti:

ΔT = 0.01; 0.025; 0.05; 0.075; 0.1; 0.25; 0.5; 0.75; 1; 1.25; 1.5; 1.75; 2; 2.25; 2.5; 2.75; 3; 3.25; 3.5

Dal grafico riportato nella figura qui sotto, ne viene che per aumentare di un solo grado centigrado la temperatura di ebollizione di un litro di acqua occorrono circa 114 g di NaCl. In realtà, noi non aggiungiamo mai oltre 100 g di sale nell’acqua che mettiamo a bollire per la pasta. Tutt’al più ne usiamo un decimo, ovvero circa una decina di grammi. Dallo stesso grafico si evince come l’aggiunta di una decina di grammi di NaCl ad un litro di acqua innalza il punto di ebollizione nell’intervallo 0.075 – 0.1 °C. In altre parole, la temperatura di ebollizione passa da 100 °C all’intervallo di temperature compreso tra 100.08 e 100.1 °C.

Ancora pensate, voi adulti, che chiedere se aggiungere il sale prima o dopo l’ebollizione sia una domanda seria?

Edit: nel calcolo dell’innalzamento ebullioscopico non ho tenuto conto del coefficiente di Vant’Hoff che, per il cloruro di sodio, è pari a 2. Questo vuol dire che, introducendo questo fattore di correzione, l’aumento di temperatura dell’acqua a cui si aggiungono grosso modo una decina di grammi di NaCl è intorno a 0.1-0.2 °C. Insomma, da 100 °C si passa a 100.1-100.2 °C. Rimane sempre valida la domanda: ancora pensate, voi adulti, che chiedere se aggiungere il sale prima o dopo l’ebollizione sia una domanda seria?

 

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Incontri con persone straordinarie: Cristina Fazzi

Preludio.

È da un po’ di tempo che non scrivo articoli nel blog. Non c’è un motivo particolare se non quello relativo al fatto che penso che troppo presenzialismo sia nocivo: trovo molto più utile scrivere quando ho qualcosa di curioso ed interessante da raccontare come in questo caso. Ho deciso di aprire una nuova rubrica dedicata alle persone straordinarie che ho avuto la fortuna di incontrare nella mia vita.

Da dove parto? Da Cristina Fazzi.

Brevi note biografiche.

Molti di voi si chiederanno chi sia mai Cristina Fazzi. È un medico. Si è laureata in chirurgia a Catania e, dopo alcune esperienze nella sua Sicilia, ha deciso, per puro caso, di trasferirsi in Zambia dove aiuta come medico le popolazioni locali. Ha dato vita ad una ONG che si occupa, tra le tante cose, di trovare fondi e gestire progetti per costruire ospedali ed ambulatori nelle zone più o meno accessibili dello Zambia. Ha adottato un bambino (oggi giovane uomo) in Zambia e, grazie alla sua determinazione, è stata capace di aprire la strada – in realtà ancora impervia – alle adozioni dei single in Italia. Infatti, per circa tre anni ha portato avanti una battaglia per far riconoscere l’adozione del suo Joseph – del tutto regolare in Zambia – anche in Italia; e ci è riuscita. Ad oggi ha in affido altri sette bambini Zambiani che sta crescendo con grande amore.

Ma non è delle sue avventure di mamma single che voglio parlarvi. Né voglio illustrarvi le peripezie che si è trovata a vivere e che tuttora vive in Zambia per la realizzazione dei suoi progetti umanitari. Tutto questo lo potete leggere nella sua biografia dal titolo “Karìbu. Lo Zambia, una donna, una grande avventura” scritto a quattro mani con Lidia Tilotta (qui).

I miei ricordi.

Ho avuto modo di incontrare la dottoressa Fazzi in occasione della presentazione del suo libro al Policlinico di Palermo. Ho partecipato a quell’incontro spinto da un mio collega che, sentendomi parlare del biochar, oggetto, come ben sapete, della mia attività di ricerca, ha pensato che fosse utile una mia partecipazione alla presentazione del libro di Cristina Fazzi e Lidia Tilotta. Non avevo eccessive aspettative, in realtà. Pensavo che sarebbe stata la solita presentazione noiosa con gli autori che fanno la solita passerella per promuovere il solito libro dalla tiratura limitata destinato ad essere la solita meteora nel panorama della letteratura divulgativa del nostro paese. Ed invece…

Invece è stata un’illuminazione. Non appena la Dottoressa Fazzi ha cominciato a raccontare perché si è trasferita in Zambia mi sono venuti in mente i racconti di mio padre che negli anni Trenta del secolo scorso (sì, mio padre nacque nel 1922 e quest’anno, fosse stato ancora in vita, avrebbe compiuto 100 anni. Un’età ragguardevole. Ma, per un figlio, un genitore non ha mai un’età ragguardevole e dovrebbe essere immortale…ma questo non c’entra con quanto voglio scrivere) si trasferì assieme ad alcuni zii nell’Eritrea italiana in cerca di opportunità di lavoro. Lì fu fatto prigioniero dagli inglesi (come il nonno della dottoressa Fazzi) e, campo di concentramento dopo campo di concentramento, sopravvisse, prigioniero, fino al 1946, anno in cui fu liberato e, pesando una quarantina di chili scarsi, tornò in Italia. Nonostante le sue traversie, egli ha sempre raccontato del suo mal d’Africa e della nostalgia che quel continente gli provocava. Ovviamente, la storia di mio padre non c’entra nulla con la dottoressa Fazzi. Il punto è che la dottoressa, col suo incipit, mi ha portato alla mente tante cose e mi ha commosso. Mi ha commosso non solo perché ha fatto emergere dalla profondità dei miei ricordi cose che erano sedimentate e messe da parte perché, nonostante la mia età, non ho ancora superato la perdita di mio padre, ma anche perché mi ha illuminato e reso veramente chiaro il concetto di “aiutiamoli a casa loro”.

Aiutiamoli a casa loro. Parte I

Vi ricorda qualcosa questa locuzione? Ormai va di moda. E pur di “aiutarli a casa loro” raccogliamo qualsiasi cosa e, sotto forma di aiuti umanitari, mandiamo tutto nei paesi in via di sviluppo, convinti che quanto “racimoliamo” possa davvero essere utile. In realtà, questa è un’operazione che serve solo a noi stessi. Serve per lenire i sensi di colpa che ci attanagliano perché sappiamo benissimo che, per usare tutte le comodità di cui disponiamo, deprediamo le risorse naturali di paesi lontanissimi da noi rendendoli sempre più poveri.

Come ha raccontato la dottoressa Fazzi, a cosa mai potranno servire gli omogeneizzati nelle zone povere dei paesi africani, tra cui lo Zambia? Perché sto citando gli omogeneizzati? Perché uno dei racconti della dottoressa Fazzi ha riguardato il rifiuto da parte sua di un carico di aiuti umanitari fatto da omogeneizzati.

Gli omogeneizzati.

Sappiamo tutti che cosa sono gli omogeneizzati. Sappiamo benissimo che sono utilissimi per lo svezzamento dei bambini e per ottimizzare la loro crescita. Eppure, in Zambia – ma anche negli altri paesi poveri – questa tipologia di prodotti è inutile: in questi paesi non è possibile produrre omogeneizzati. Quindi, una volta consumati, le popolazioni locali non avrebbero più cibo utile per lo svezzamento dei bambini. Ed allora? Dovrebbero attendere altri aiuti ed altri ancora in un loop infinito che non farebbe altro che implementare la loro dipendenza dai paesi più ricchi dell’emisfero.

Aiutiamoli a casa loro. Parte II

“Aiutiamoli a casa loro”, quindi, significa rimboccarsi le maniche e andare lì, nei paesi poveri, per insegnare a quelle popolazioni a usare al meglio le risorse disponibili in loco. Esattamente come sta facendo la dottoressa che ha costruito non so più quanti pozzi e quanti ambulatori/cliniche/ospedali per “aiutare a casa loro” persone che vivono ai margini del mondo moderno. Meglio ancora se, accanto alle opere fisiche, si provvede anche all’educazione, cioè alla corretta divulgazione scientifica per convincere le popolazioni locali della inutilità delle superstizioni utili solo formalmente ma non sostanzialmente alla sopravvivenza in zone veramente impervie del globo.

Come ha sapientemente evidenziato la dottoressa Fazzi, se “riesco ad istruire 10 persone delle popolazioni locali sulla utilità dei vaccini nella prevenzione delle malattie, queste 10 persone a loro volta potranno convincere, ognuna, altre 10 persone e così via di seguito, fino ad arrivare a una situazione in cui la conoscenza potrà ricacciare indietro le credenze tribali e fornire le basi per il reale sviluppo del paese” (ho virgolettato le parole che, però, riportano i concetti espressi dalla dottoressa Fazzi).

Educare.

Alla luce di quanto espresso, l’educazione deve giocare un ruolo primario per “aiutare a casa loro” le persone che vivono in condizioni estreme. L’educazione, però – e questa è una mia considerazione personale che viene dall’aver conosciuto la dottoressa Fazzi – deve riguardare non solo le popolazioni locali, ma anche noi. Dobbiamo imparare che non è sgravandoci la coscienza dai sensi di colpa mediante l’invio di qualsiasi cosa nei paesi in via di sviluppo che possiamo risolvere i loro problemi. Dobbiamo imparare ad ascoltare le persone come la dottoressa Fazzi per capire quali sono le reali esigenze delle popolazioni locali e quali sono le loro risorse naturali. Sono queste ultime a dover essere messe al centro dell’attenzione per poter consentire un vero sviluppo culturale e “fisico” di popoli poveri quali quello dello Zambia.

E la ricerca scientifica?

E questo è il punto, adesso. Cosa facciamo noi in concreto per aiutare i paesi come lo Zambia? L’Agraria di Palermo ha cercato e cerca di operare nei paesi in via di sviluppo per “aiutare a casa loro” le popolazioni locali.

Agli inizi degli anni ’10 di questo secolo è stato sviluppato il  progetto Burundi (qui) grazie al quale la professionalità dei docenti dell’attuale Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Forestali è stata messa a disposizione per la realizzazione di opere concrete affinché le popolazioni locali potessero “crescere” da sole utilizzando le risorse locali.

Poco prima della pandemia del 2020, lo stesso Dipartimento ha realizzato una convenzione col vescovado di Mbulu in Tanzania per la realizzazione di un video divulgativo da diffondere tra le popolazioni del posto in modo da spiegare come risolvere i problemi più comuni legati alle tecniche agricole locali.

Io stesso faccio parte di un gruppo di ricerca internazionale che qualche anno fa ha condotto delle sperimentazioni in Nepal per valutare l’efficienza del biochar nell’aumentare la produzione agricola locale (qui). In particolare, abbiamo potuto verificare che il biochar (se volete sapere che cos’è basta cliccare qui) prodotto con residui vegetali locali (qui per sapere come si produce il biochar in zone in via di sviluppo) e funzionalizzato con urina di vacca, era in grado di incrementare di quattro volte la produzione di zucca.

Potremmo fare altro? Certo che sì. Potremmo fare molto di più che progetti estemporanei che si concretizzano con elaborati utili allo sviluppo di tesi di laurea o di pubblicazioni su riviste più o meno qualificate. Tuttavia, questo richiede non solo la volontà personale di ognuno di noi, ma anche una vera e propria coordinazione globale che coinvolga sia le autorità italiane che quelle dei paesi in via di sviluppo in modo da supportare le attività dei ricercatori ed evitare le esperienze negative molto ben descritte nel libro della dottoressa Fazzi.

Il formaggio non ha più segreti

Il titolo di questo articoletto è un po’ eccessivo, ma non l’ho scelto io. Si tratta del titolo apparso sulla rivista “Formaggi e Consumi” per una intervista all’Ing. Gianni Ferrante della Stelar che parla degli ultimi sviluppi della rilassometria NMR a ciclo di campo per le analisi dei prodotti lattiero-caseari. Si tratta di un progetto ambizioso in cui è coinvolta anche l’Università degli Studi di Palermo nelle figure dei Professori Paolo Lo Meo, Delia Chillura-Martino del Dipartimento STEBICEF, del Prof. Luciano Cinquanta e me del Dipartimento SAAF. L’articolo lo trovate a questo link, oppure cliccando sull’immagine qui sotto.

Fonte dell’immagine di copertina

Un esperimento sulla validità delle mascherine

Chi mi segue sa che ho già pubblicato un paio di articoli sulla validità delle mascherine che stiamo utilizzando per proteggerci dalla diffusione del Sars-Cov2.

Il primo di essi era una lettera aperta ad Enrico Montesano che, tempo fa, affermò in pubblico che le mascherine ci fanno respirare la nostra anidride carbonica e, quindi, sono pericolose. La mia lettera aperta è qui sotto:

Lettera aperta ad Enrico Montesano

Scrissi, poi, un secondo articolo per ribadire ancora una volta che le mascherine non sono in grado di trattenere l’anidride carbonica. Questo articolo fu scritto per rispondere a quelli che affermavano che la barriera posta davanti alla bocca non era in grado di far passare i miliardi di molecole di CO2 che espiriamo in ogni istante della nostra vita. Se siete curiosi, qui sotto c’è il link all’articolo:

Ancora su anidride carbonica e mascherine

Tuttavia, come sapete, le prove sperimentali regnano sovrane nel mondo scientifico. Qualche settimana fa, Daniel Puente ha pubblicato un interessantissimo video in cui ha provato che il livello di saturazione di ossigeno nel sangue non cambia quando si usa la mascherina (sia chirurgica che FFP2) in diverse condizioni fisiche: camminata normale e veloce. Qui sotto il filmato di una decina di minuti che vi consiglio di vedere.

https://www.youtube.com/watch?v=2xiiTNNXwfg

Fonte dell’immagine di copertina

La risonanza magnetica nucleare nell’analisi degli alimenti

Siete curiosi di avere informazioni dettagliate sulla risonanza magnetica nucleare? Volete sapere in che modo può aiutare nelle analisi degli alimenti? Queste e molte altre domande avranno risposta domenica 28 Febbraio alle ore 16:00 sul canale YouTube BioLogic di Daniel Puente. Vi aspetto per la diretta streaming e per rispondere alle vostre domande e soddisfare le vostre curiosità scientifiche.

Per la diretta basta cliccare sull’immagine qui sotto

https://www.youtube.com/watch?v=zoZlb4cz7tE&ab_channel=BioLogic&fbclid=IwAR09hZz8QWYWGz91qXtpsDFz0jhe05wfw1tk0lUUf9cGKLs9wMpxL_Bw8Q0

Foto di copertina gentilmente concessa dal Prof. Paolo Lo Meo dell’Università degli Studi di Palermo

Sugli insetti e sui parabrezza

Avete mai sentito parlare del widescreen phenomenon? No? Eppure, tra gli ecologisti della domenica va per la maggiore. Si tratta della constatazione che il numero di insetti stia diminuendo perché i parabrezza delle auto non sono più così sporchi di insetti spiaccicati come quando eravamo piccoli.

Sono le classiche elucubrazioni di gente che di scienza non capisce niente e capisce ancor meno di come si realizza un disegno sperimentale per trovare una risposta alla domanda “la popolazione di insetti su scala globale sta veramente diminuendo?” oppure “esiste una relazione tra l’uso di agrofarmaci e numerosità della popolazione di insetti?”, e potrei continuare, naturalmente. È la stessa tipologia di approccio pseudoscientifico che viene usato dai fantastici fautori di quella robaccia che si chiama omeopatia e che si riassume con “su di me funziona” (ne ho già scritto qui).

La cosa bella è che queste elucubrazioni vengono diffuse da siti molto seguiti (per esempio qui e qui) che contribuiscono alla cosiddetta disinformazione o cattiva divulgazione scientifica.

Vediamo perché la relazione tra parabrezza, numero di insetti spiaccicati e popolosità degli stessi sia una bufala.

Innanzitutto, dobbiamo cominciare col dire che uno studio su scala globale relativo alla perdita di biodiversità (non solo, ma limitiamoci alla biodiversità) va disegnato in modo tale da ottenere risultati non solo replicabili, ma anche riproducibili[1]. Alla luce di quanto scritto, è possibile pensare che il numero di volte in cui puliamo il parabrezza delle nostre automobili sia un dato attendibile? La risposta è no. Il motivo è abbastanza semplice: percorriamo sempre la stessa strada? Sempre alla stessa velocità? Sempre nelle stesse condizioni climatiche? Sempre con la stessa auto?

Esistono strade di tantissime forme, dimensioni e condizioni, tutti fattori che vengono sempre ignorati quando il windscreen phenomen è usato come indice per misurare la popolazione degli insetti. Non dimentichiamoci, inoltre, che le strade generano i cosiddetti bordi nel paesaggio. Come sanno tutti quelli che si interessano di indagini analitiche di ogni tipo, gli effetti dei bordi sono sempre difficili da misurare e generalizzare.

E come facciamo il campionamento? Guidiamo verso i bordi della carreggiata? Allora ci dobbiamo aspettare di campionare una popolazione di insetti di corporatura più massiccia di quelli che potremmo rilevare sul parabrezza se guidassimo esattamente al centro della strada. E a che ora pensiamo di fare il campionamento? Persino io che non sono un entomologo so che la tipologia di insetti che vivono negli ambienti intorno alle strade differisce a seconda del periodo della giornata in cui ci muoviamo. E cosa andiamo a misurare? Il numero di resti presenti sul parabrezza? La loro densità? La forza che usiamo per staccare i poveri resti degli insetti spiaccicati?

Ma non basta. Se io guido sempre nella stessa microzona del pianeta, mi posso permettere di estrapolare le mie pseudo-osservazioni ad altre zone del pianeta? Ovviamente no, perché le mie pseudo-osservazioni sono valide solo per la strada che percorro abitualmente, non per le altre. Chi mi assicura che gli insetti non si siano evoluti in modo tale da andare a popolare le zone limitrofe a quelle che io frequento abitualmente con la mia auto, solo perché hanno imparato che la zona che frequento è quella più pericolosa del sistema in cui essi vivono?

Eh, sì. Tutte quelle elencate, ed anche di più, sono le domande a cui dobbiamo rispondere per rendere un dato attendibile. Sfido tutti gli pseudo-ambientalisti che usano il windscreen phenomenon a rispondere in modo coerente a tutte le domande sopra elencate.

Letture aggiuntive e note

The windscreen phenomenon: anecdata is not scientific evidence

More than 75 percent decline over 27 years in total flying insect biomass in protected areas

Declining abundance of beetles, moths and caddisflies in the Netherlands

Parallel declines in abundance of insects and insectivorous birds in Denmark over 22 years

[1] Replicabilità e riproducibilità non hanno lo stesso significato. La prima si riferisce alla capacità del medesimo ricercatore (o gruppo di ricerca) di ottenere i medesimi risultati nello stesso laboratorio in tempi differenti. La seconda si riferisce alla capacità di ricercatori differenti in laboratori differenti e fisicamente lontani tra loro, di ottenere i medesimi risultati di una data ricerca scientifica.

Fonte dell’immagine di copertina

Ancora su anidride carbonica e mascherine

Vi ricordate la lettera aperta che all’inizio di ottobre ho scritto ad Enrico Montesano? No!? Eccola nel link qui sotto:

Lettera aperta ad Enrico Montesano

In questa lettera facevo notare al mai dimenticato Rugantino che quanto asseriva in merito alla pericolosità delle mascherine erano tutte sciocchezze. Lo facevo con la solita metodica scientifica, ovvero considerando gli aspetti quantitativi relativi alla dimensione delle molecole di anidride carbonica e quella dei pori delle mascherine attraverso cui il gas passa.

Per darvi una idea grafica delle conclusioni in merito al rapporto dimensionale tra la molecola di anidride carbonica e un poro di una mascherina chirurgica, potete far riferimento alla Figura 1.

Figura 1. Il puntino a sinistra è la rappresentazione di una molecola di anidride carbonica. Il cerchio a sinistra è la rappresentazione di un poro di una mascherina chirurgica.

In questa figura, considerando unitaria la dimensione della molecola di CO2 (il puntino a sinistra), un poro di una mascherina chirurgica risulta circa 800 volte più grande della molecola di anidride carbonica (cerchio a sinistra in Figura 1).

Nei giorni successivi alla pubblicazione della lettera aperta c’è stato un delirio di interventi (tra messaggi nel blog e lettere ai miei indirizzi e-mail) tutti a carattere monotematico. Ad eccezione di tre/quattro persone che si sono complimentate per aver finalmente evidenziato, numeri alla mano, l’incongruenza di quanto detto da Montensano e i figuri a cui egli si ispira, c’è stata gente che, per lo più in un italiano stentato e dimostrando di aver saltato tutte le lezioni sulle equivalenze fatte alle scuole elementari, pretendeva di mettere in dubbio i numeri riportati nella mia lettera aperta. Le argomentazioni andavano dall’aver usato concetti di chimica troppo complicati (SIC!), alla matematica troppo difficile (SIC!), al fatto che io non uso la mascherina in modo continuativo e non so cosa vuol dire stare tutto il giorno con questo dispositivo di protezione individuale, al fatto che non soffro di patologie che mi impediscono di indossare la mascherina. E potrei continuare.

Nel marasma di commenti tutti sulla falsariga di quanto appena riportato, ci sono stati alcuni interventi che meritano la mia attenzione. In sintesi, si tratta di commenti che evidenziano come le mie argomentazioni siano corrette considerando una singola molecola di CO2 ed un singolo poro di una mascherina chirurgica. Tuttavia, avrei dovuto considerare che noi espiriamo milioni di miliardi di molecole di anidride carbonica. I pori della mascherina rappresentano, quindi, un “collo di bottiglia” attraverso cui tutte quelle molecole non riescono a fuoriuscire tra un respiro e l’altro, con la conseguenza che reimmettiamo nel nostro organismo la CO2 che abbiamo appena espirato.

Purtroppo, la logica che ci ha consentito di sopravvivere alle belve feroci per arrivare fino ad oggi, non si può applicare in ambito scientifico dove i modelli che vengono sviluppati sono tutti, ma proprio tutti, controintuitivi. Inoltre, fare  affermazioni senza il supporto di dati numerici non è esattamente corretto sotto il profilo scientifico. Infatti, tutti i commenti in merito all’azione “collo di bottiglia” esercitata dalle mascherine erano di tipo aneddotico. Nessuno, ma proprio nessuno, si è mai peritato di fornire un modello matematico per spiegare i propri ragionamenti.

Vediamo perché l’idea del “collo di bottiglia” che non permette il passaggio della CO2 che espiriamo è completamente sbagliata.

Basta una banale ricerca in rete per trovare che la permeabilità (intesa come il flusso di gas che passa attraverso le mascherine per unità di superficie) è di circa 10 litri al minuto (L min-1) per le mascherine chirurgiche e di circa 5 L min-1 per le mascherine tipo FFP2 (qui). Volete sapere cosa significano questi numeri? Semplicemente che per ogni centimetro quadrato di mascherina, passano 10 L min-1 e 5 L min-1 (a seconda della tipologia di mascherina) di aria. Questi numeri sono stati misurati usando una pressione di esercizio di circa 20 mbar, ovvero la pressione esercitata dall’apparato respiratorio a riposo (qui). In ogni caso, più alta è la pressione esercitata contro le mascherine, maggiore è la loro permeabilità (qui). Considerando che il flusso di aria che espiriamo mediamente è di circa 6 L min-1 (qui), ne viene che di anidride carbonica tra la mascherina ed il viso non rimane nulla. In altre parole, non c’è alcun rischio di respirare la propria anidride carbonica.

Da dove viene, allora, la convinzione che le mascherine consentirebbero di respirare la propria “aria usata”?

Si tratta solo di fattori psicologici che nulla hanno a che fare con la reale capacità di una qualsiasi mascherina di impedire il passaggio dell’aria che fuoriesce dai nostri polmoni (qui e qui). In pratica, chi afferma che non riesce a respirare è solo vittima delle proprie impressioni personali che non hanno niente a che vedere con la realtà chimico-fisica delle mascherine il cui uso è fortemente consigliato (assieme alle distanze di sicurezza e ad elementari norme igieniche) per ridurre la dffusione del contagio da SARS-COV-2.

Note

Alcuni lettori del blog mi hanno chiesto come mai le mascherine chirurgiche vanno indossate in un ben preciso verso, ovvero con la parte colorata rivolta verso l’esterno. La risposta è stata data qualche tempo fa in questo link. In sintesi, la parte colorata di una mascherina chirurgica è fatta da materiale idrorepellente. Questo riduce la possibilità che le eventuali goccioline di saliva espirate da persone con cui, per esempio, stiamo parlando, possano penetrare attraverso lo strato colorato e raggiungere gli strati interni con possibilità di contaminarci.

Altri lettori mi hanno chiesto come mai gli occhiali si appannano quando indossiamo la mascherina. L’appannamento è dovuto al fatto che l’aria che espiriamo è calda. Quando le molecole di acqua calda che espiriamo entrano a contatto con la superficie fredda dei nostri occhiali, condensano dando luogo al fenomeno dell’appannamento (qui).

Letture e riferimenti

Characterization of face masks

An overview of filtration efficiency through the masks: Mechanisms of the aerosols penetration

Air permeability and pore characterization of surgical mask and gowns

On respiratory droplets and face masks

Characteristics of Respirators and Medical Masks

FONTE DELL’IMMAGINE DI COPERTINA

Dubbi sul vaccino anti-Covid russo

Recentemente è apparso su The Lancet, autorevole rivista scientifica di carattere medico, un lavoro che illustra l’efficacia di un vaccino anti-Covid sviluppato da ricercatori russi. Il lavoro è disponibile qui. Tuttavia, dall’analisi dei dati riportati nel lavoro, sono venuti fuori alcuni limiti che fanno dubitare della serietà del lavoro. È per questo che alcuni scienziati, tra cui il sottoscritto, si sono fatti latori di una lettera aperta in cui chiedono di poter analizzare i dati bruti da cui sono state ottenute le figure che sembrano artefatte.

La lettera è disponibile cliccando sulla figura qui sotto


La stessa lettera è stata pubblicata su Il Foglio (qui)

Dormire nella stazione spaziale ISS

Oggi ero in auto. In genere mentre guido ascolto la radio. In uno dei tanti zapping veloci, mi capita di ascoltare un programma in cui l’ospite è un astrofisico. Questi parla della stazione spaziale ISS e della vita che si conduce a bordo.

Stazione spaziale ISS (Fonte)

Ciò che mi ha colpito moltissimo è stata la descrizione del come dormono gli astronauti.

Sapete che quando dormono in condizioni di assenza di peso, gli astronauti devono trovarsi in un ambiente con ottima aerazione?

La domanda vi sembrerà banale, ma ogni volta che ascolto notizie scientifiche mi trovo ad essere come un bambino di fronte ad un giocattolo. Anche se già lo conosce perché lo ha usato altre volte, lo guarda con meraviglia e pensa a cosa si possa ancora nascondere in quei meccanismi che ha visto centinaia di volte.

In effetti, siamo così abituati a vivere sulla Terra che neanche ci rendiamo conto che la vita in condizioni chimico-fisiche differenti richiede delle attenzioni particolari senza le quali essa non potrebbe esistere.

Quando ci sentiamo stanchi ed andiamo a letto, ci addormentiamo ma non per questo smettiamo di vivere. Continuiamo a respirare. Durante questa azione inspiriamo ossigeno ed espiriamo anidride carbonica. L’aria che circonda il nostro corpo, inclusa quella ricca di anidride carbonica che esce mentre respiriamo, è calda. Per questo motivo, si generano delle correnti convettive grazie alle quali l’aria calda (e per questo meno densa, ovvero più leggera) ricca di anidride carbonica che espiriamo si allontana verso l’alto venendo sostituita da aria fredda e più ricca di ossigeno.

Nelle condizioni di microgravità presenti nella stazione spaziale ISS, questi moti convettivi non si realizzano perché la microgravità porta ad assenza di peso e, quindi, non esistono zone di aria più leggere rispetto ad altre. La conseguenza è che durante il sonno, la testa degli astronauti viene circondata da una nuvola di anidride carbonica. Senza una corrente d’aria artificiale come, per esempio, quella generata da un ventilatore, la nuvola anzidetta non si disperderebbe turbando il sonno degli astronauti o, addirittura, portando alla morte, nel caso più drammatico.

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Svelato il mistero dei venti da eclisse

FONTE DELL’IMMAGINE DI COPERTINA

Oli, sali e zuccheri

Oggi ho trovato una bella sorpresa on line. La C1V edizioni ha reso disponibili le presentazioni fatte nel 2018 in occasione del secondo Convegno Nazionale Medicina e Pseudoscienza (CNMP).  Durante il convegno ho fatto una lunga lezione divulgativa sulle false informazioni in merito agli oli, ai sali ed agli zuccheri. Qualche mese dopo avrei pubblicato “Frammenti di Chimica” in cui si trovano molte delle cose che ho detto in quel convegno.
Se volete divertirvi ad ascoltarmi, qui sotto ci sono i miei tre interventi.

Prima parte

Seconda parte

Terza parte

In realtà il congegno del 2018 è stato molto ricco. Hanno partecipato tutti gli scienziati attivi nella lotta alle bufale: da Silvio Garattini a Piero Angela, da Roberto Burioni a Francesco Galassi e tanti tanti altri. Se volete fare un viaggio nel tempo e partecipare al convegno, potete iscrivervi al canale YouTube della C1V e ascoltare tutte le presentazioni. Basta cliccare sull’immagine qui sotto.

 

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