La Sindone e la scienza: dal Medioevo alla risonanza magnetica

Ormai lo sanno anche le pietre: mi occupo di risonanza magnetica nucleare su matrici ambientali. Tradotto per i non addetti: uso la stessa tecnica che in medicina serve a vedere dentro il corpo umano, ma applicata a tutt’altro – suoli, sostanza organica naturale, piante e materiali inerti. Ripeto: non corpi umani né animali, ma sistemi ambientali.

C’è un dettaglio curioso. I medici hanno tolto l’aggettivo “nucleare” dal nome, per non spaventare i pazienti. Peccato che, senza quell’aggettivo, l’espressione “risonanza magnetica” non significhi nulla: risonanza di cosa? elettronica, fotonica, nucleare? Io, che non ho pazienti da rassicurare, preferisco chiamare le cose con il loro nome: risonanza magnetica nucleare, perché studio la materia osservando come i nuclei atomici interagiscono con la radiazione elettromagnetica a radiofrequenza.

Non voglio dilungarmi: non è questa la sede per i dettagli tecnici. Per chi fosse curioso, rimando al mio volume The Environment in a Magnet edito dalla Royal Society of Chemistry.

Tutto questo per dire che in fatto di risonanza magnetica nucleare non sono proprio uno sprovveduto. Me ne occupo dal 1992, subito dopo la laurea in Chimica con indirizzo Organico-Biologico. All’epoca iniziai a lavorare al CNR, che aveva una sede ad Arcofelice, vicino Pozzuoli, in provincia di Napoli. È lì che cominciai a usare l’NMR per studiare la relazione struttura-attività dei metaboliti vegetali: un banco di prova perfetto per capire quanto questa tecnica potesse rivelare.

Successivamente passai all’Università degli Studi di Napoli Federico II, dove estesi l’uso della risonanza magnetica nucleare non solo alla fase liquida, ma anche a quella solida e semisolida. Non più soltanto metaboliti vegetali, dunque, ma matrici molto più complesse dal punto di vista chimico: il suolo e la sostanza organica ivi contenuta.

Con il mio trasferimento all’Università di Palermo ho potuto ampliare ulteriormente le competenze in NMR: dall’uso di strumenti a campo magnetico fisso sono passato allo studio delle stesse matrici naturali con spettrometri a campo variabile. Un passo avanti che mi ha permesso di guardare i sistemi ambientali con ancora più profondità e sfumature.

Ed eccomi qui, dopo più di trent’anni di esperienza, a spiegare perché chi immagina di usare la risonanza magnetica nucleare sulla Sindone di Torino forse ha una visione un po’… fantasiosa della tecnica.

Andiamo con ordine.

La Sindone di Torino: simbolo religioso e falso storico

La Sindone

La Sindone di Torino è un lenzuolo di lino lungo circa quattro metri che reca impressa l’immagine frontale e dorsale di un uomo crocifisso. Per il mondo cattolico rappresenta una delle reliquie più importanti: secondo la tradizione, sarebbe il sudario che avvolse il corpo di Cristo dopo la crocifissione. Attorno ad essa si è sviluppato un culto popolare immenso, fatto di pellegrinaggi e ostensioni pubbliche che ne hanno consacrato il valore spirituale.

Ma che cosa ci dice la scienza su questo straordinario manufatto?

La datazione al radiocarbonio

Il dato più solido arriva dalla datazione con il radiocarbonio. Nel 1988 tre laboratori indipendenti – Oxford, Zurigo e Tucson – pubblicarono sulla rivista Nature i risultati delle loro analisi: il lino della Sindone risale a un periodo compreso fra il 1260 e il 1390 d.C., cioè in piena epoca medievale (Damon et al., 1989). La conclusione degli autori fu inequivocabile: “evidence that the linen of the Shroud is mediaeval”.

Riproduzioni sperimentali

A rafforzare questa interpretazione è intervenuto anche il lavoro del chimico Luigi Garlaschelli, che ha realizzato una riproduzione della Sindone utilizzando tecniche compatibili con l’arte medievale: applicazione di pigmenti su un rilievo, trattamenti acidi per simulare l’invecchiamento, lavaggi parziali per attenuare il colore. Il risultato, esposto in varie conferenze e mostre, mostra come un artigiano del Trecento avrebbe potuto ottenere un’immagine con molte delle caratteristiche dell’originale (Garlaschelli, 2009).

Le conferme della storia

Anche le fonti storiche convergono. Un documento recentemente portato alla luce (datato 1370) mostra che già all’epoca un vescovo locale denunciava il telo come un artefatto, fabbricato per alimentare un culto redditizio (RaiNews, 2025). Questo si aggiunge al più noto documento del 1389, in cui il vescovo di Troyes, Pierre d’Arcis, scriveva a papa Clemente VII denunciando la falsità della reliquia.

Le contro-argomentazioni sindonologiche

Naturalmente, chi sostiene l’autenticità della Sindone non è rimasto in silenzio. Le principali obiezioni riguardano:

  1. Il campione del 1988 – secondo alcuni, la zona prelevata sarebbe stata contaminata da un rammendo medievale, o comunque non rappresentativa dell’intero telo (Karapanagiotis, 2025).
  2. L’eterogeneità dei dati – alcuni statistici hanno osservato che i tre laboratori non ottennero risultati perfettamente omogenei, segnalando possibili anomalie (Karapanagiotis, 2025).
  3. Eventi successivi – l’incendio di Chambéry del 1532, o la formazione di patine microbiche, avrebbero potuto alterare la concentrazione di carbonio-14, facendo sembrare il tessuto più giovane (Karapanagiotis, 2025).

Sono ipotesi discusse ma che non hanno mai trovato prove decisive: nessuna spiegazione è riuscita a giustificare in modo convincente come un tessuto del I secolo potesse apparire medievale a tre laboratori indipendenti.

Le nuove analisi ai raggi X

Negli ultimi anni si è parlato di nuove tecniche di datazione basate sulla diffusione di raggi X ad ampio angolo (WAXS). L’idea è di valutare il grado di cristallinità della cellulosa del lino: più il tessuto è antico, maggiore è la degradazione della sua struttura cristallina. Applicata a un singolo filo della Sindone, questa metodologia ha suggerito un’età più antica di quella medievale (De Caro et al., 2022).

Tuttavia, i limiti sono evidenti: si è analizzato un solo filo, e la cristallinità della cellulosa dipende non solo dal tempo, ma anche da condizioni ambientali come umidità, calore o contatto con sostanze chimiche. Inoltre, il metodo è recente e richiede ulteriori validazioni indipendenti. In sintesi: interessante come indicatore di degrado, ma non ancora un’alternativa solida al radiocarbonio.

Una nuova frontiera? L’NMR

Accanto a tutto ciò è emersa anche la proposta di applicare la risonanza magnetica nucleare (NMR) alla Sindone (Fanti & Winkler, 1998). Alcuni autori suggeriscono che questa tecnica possa rivelare “concentrazioni atomiche” di idrogeno, carbonio o azoto nel telo, o addirittura produrre mappe tomografiche.

Nel prossimo paragrafo entrerò nel dettaglio di questa prospettiva “NMR”, analizzando perché, alla luce dell’esperienza maturata in oltre trent’anni di lavoro su queste tecniche, considero queste proposte non solo irrealistiche, ma anche profondamente fuorvianti.

I limiti della prospettiva NMR

Tra le tante proposte avanzate negli anni, c’è anche quella di usare la risonanza magnetica nucleare per studiare la Sindone. Nel lavoro di Giulio Fanti e Ulf Winkler si ipotizza di applicare tecniche NMR per “vedere” la distribuzione di atomi come idrogeno, carbonio e persino azoto sul telo, o addirittura per ottenere mappe tomografiche simili a quelle della risonanza magnetica medica. Sulla carta può sembrare affascinante, ma nella pratica questa prospettiva presenta numerosi limiti.

Nel caso dei protoni (1H), ad esempio, gran parte del segnale in un lino asciutto deriva dall’acqua residua o da componenti volatili: un parametro che può variare fino all’80% semplicemente cambiando le condizioni ambientali. Inoltre, in un solido come il lino della Sindone, l’analisi 1H-NMR non offre risoluzione: lo spettro mostra soltanto due contributi sovrapposti, un picco stretto e intenso dovuto alle zone cristalline della cellulosa e una larga campana sottostante, tipica delle frazioni amorfe. È chiaro, quindi, che non solo è arduo quantificare i protoni, ma è del tutto irrealistico pensare di usarli per una datazione del tessuto.

Per quanto riguarda l’analisi al carbonio-13 (13C), ci sono diversi punti da sottolineare. La tecnica più usata è la CPMAS 13C-NMR: in questo caso una piccola quantità di campione, dell’ordine dei milligrammi, viene inserita in un porta-campioni invisibile all’NMR, posto nel campo magnetico secondo una geometria precisa, e il carbonio viene “visto” sfruttando l’abbondanza dei protoni. Si tratta però di una tecnica qualitativa: non consente una vera quantificazione del nucleo osservato. Inoltre, richiede tempi di misura molto lunghi, con costi elevati e il rischio concreto di non ottenere informazioni davvero utili.

L’alternativa sarebbe la DPMAS 13C-NMR. Qui, a differenza della CPMAS, non ci si appoggia ai protoni e quindi bisogna fare affidamento solo sull’abbondanza naturale del 13C, circa l’1%: troppo bassa. Di conseguenza i tempi macchina si allungano ulteriormente, con dispendio sia di tempo sia economico. E in più la tecnica è priva di risoluzione: i segnali dei diversi nuclei si sovrappongono in un unico inviluppo indistinguibile, rendendo impossibile perfino la stima del rapporto fra cellulosa cristallina e amorfa.

Quanto all’azoto-14 (14N), il nucleo è quadrupolare e produce linee larghissime e difficilmente interpretabili: in pratica, misure affidabili non sono realistiche.

Nel lavoro di Fanti e Winkler, ci sono poi anche problemi di coerenza interna. Nel testo, ad esempio, si ipotizzano tempi di rilassamento e acquisizione non compatibili con i valori sperimentali reali, e si propongono scenari come la “tomografia NMR dell’intero telo” che, per un materiale rigido e povero di mobilità come il lino secco, sono semplicemente impraticabili: i tempi di decadimento del segnale sono troppo brevi perché si possa ricostruire un’immagine come in risonanza magnetica medica.

Infine, il lavoro suggerisce di estendere le misure addirittura a mappature di radioattività con contatori Geiger o a esperimenti di irraggiamento con neutroni, ipotizzando collegamenti con la formazione dell’immagine. Si tratta di congetture prive di fondamento sperimentale, più vicine a un esercizio di fantasia che a un protocollo scientifico realistico.

In sintesi, Fanti e Winkler hanno portato il linguaggio della NMR nel dibattito sulla Sindone, ma le applicazioni che propongono si scontrano con limiti tecnici insormontabili e interpretazioni sbagliate.

L’NMR è uno strumento potentissimo per lo studio di suoli, sostanza organica e sistemi complessi, ma applicarlo alla Sindone nei termini proposti non ha basi scientifiche solide: rischia anzi di trasformare una tecnica seria in un’arma retorica al servizio di ipotesi precostituite.

Conclusioni

Alla fine dei conti, la Sindone di Torino resta ciò che la scienza ha già dimostrato da tempo: un manufatto medievale. Lo dice la datazione al radiocarbonio pubblicata su Nature; lo confermano le riproduzioni sperimentali di Luigi Garlaschelli e i documenti storici del Trecento che la denunciavano come artefatto devozionale; lo ribadiscono i limiti delle nuove tecniche “alternative” che, per quanto presentate come rivoluzionarie, non hanno mai scalfito la solidità del verdetto del 1988. Le contro-argomentazioni dei sindonologi — campioni non rappresentativi, rammendi invisibili, incendi o contaminazioni miracolose — sono ipotesi suggestive, ma prive di prove concrete e incapaci di spiegare perché tre laboratori indipendenti abbiano ottenuto lo stesso responso: Medioevo. Le proposte più recenti, come l’uso dei raggi X o addirittura della risonanza magnetica nucleare, non fanno che spostare il problema, avanzando idee tecnicamente fragili e spesso concettualmente errate.

La Sindone rimane dunque un oggetto straordinario, ma non perché testimoni la resurrezione di Cristo: straordinaria è la sua forza simbolica, straordinaria è la devozione che suscita, straordinaria è la capacità che ha avuto per secoli di alimentare fede, immaginazione e perfino business. Ma sul piano scientifico la questione è chiusa. Continuare a spacciarla per “mistero insoluto” significa ignorare le evidenze e trasformare la ricerca in propaganda. E questo, più che un atto di fede, è un insulto all’intelligenza.

Dal Voltaren al vaccino: perché temiamo ciò che ci salva e ignoriamo ciò che ci nuoce

Uno dei cavalli di battaglia degli antivaccinisti, soprattutto durante la pandemia di Covid, è stato: Non sappiamo cosa ci iniettano. Una frase che sembra prudente, ma che in realtà nasconde il vuoto più assoluto. In rete, e purtroppo anche in certi palchi mediatici, si sono lette e ascoltate fandonie indegne: vaccini pieni di grafene, di materiale “fetale”, di microchip. Panzane. Bufale. Balle cosmiche spacciate per verità scomode.

Il punto è che la percezione del rischio, quando si parla di vaccini, viene distorta fino al ridicolo. Gli stessi che si indignano davanti a una fiala di vaccino non si fanno problemi ad abusare di Voltaren per un mal di schiena, di Tachipirina per un raffreddore o di Aspirina a stomaco vuoto. Farmaci che, se presi male o in dosi eccessive, hanno effetti collaterali ben documentati e tutt’altro che lievi. Ma nessuno apre gruppi Telegram per denunciare il “complotto della Tachipirina”.

E allora torniamo alle basi. La differenza tra pericolo e rischio.
Il pericolo è una proprietà intrinseca di una sostanza: la candeggina, per esempio, è pericolosa. Ma il rischio dipende dall’uso: se non la bevi, se non la respiri, la candeggina non ti ammazza. Lo stesso vale per i farmaci. Aspirina e Tachipirina hanno pericoli reali, ma li consideriamo a basso rischio perché li usiamo con buon senso.

Con i vaccini si è creata la tempesta perfetta: un farmaco nuovo, un’emergenza sanitaria mondiale e un esercito di disinformatori pronti a manipolare la paura. Eppure, i dati clinici erano chiari già nel 2021: i vaccini anti-Covid erano molto più sicuri di tanti farmaci da banco. I rischi di complicazioni gravi erano rarissimi, infinitamente inferiori rispetto a quelli legati alla malattia. Ma invece di guardare i numeri, ci si è lasciati spaventare dai fantasmi.

C’è chi liquida la pandemia come una “farsa”, chi parla di “censura” e di “virostar” in televisione. È il classico copione: invece di discutere sui dati, si attacca chi li porta. Roberto Burioni e altri virologi sono stati accusati di essere “ospiti fissi” senza contraddittorio. Ma davvero serve un contraddittorio tra chi studia i virus da decenni e chi diffonde complotti sui microchip nei vaccini? Sarebbe come chiedere di contrapporre un astrologo a un astronomo quando si parla di orbite planetarie.

La realtà è che i dati c’erano, e chiunque poteva consultarli: studi clinici, report di farmacovigilanza, pubblicazioni scientifiche. Non erano nascosti – erano ignorati. La vera censura è quella che gli antivaccinisti applicano a se stessi e ai loro seguaci: censura dei numeri, censura dei fatti, censura del pensiero critico.

Il risultato? Una percezione capovolta: farmaci familiari diventano “innocui per definizione”, mentre vaccini che hanno salvato milioni di vite vengono descritti come “veleni sperimentali”. Non è prudenza, è ignoranza travestita da saggezza.

Chiariamo una volta per tutte: i vaccini non sono perfetti, ma nessun farmaco lo è. La differenza è che i vaccini non curano soltanto: prevengono, riducono i contagi, salvano intere comunità. Attaccarli con menzogne non è opinione, è irresponsabilità sociale.

In fondo, la chimica e la farmacologia ci dicono una cosa semplice: nessuna sostanza è innocua, nemmeno l’acqua. È il contesto, la dose, l’uso che fanno la differenza. Non capirlo – o, peggio, fingere di non capirlo per ideologia – significa giocare con la salute propria e quella altrui.

Il vero pericolo, oggi, non sono i vaccini. Sono gli antivaccinisti.

Alochimica o Chelichimica? La scienza quotidiana dietro gli aloni delle magliette

Cari lettori vicini e lontani,

vi siete mai chiesti perché si formano gli aloni gialli sotto le ascelle delle maglie chiare? È tutta questione di chimica.

Oltre alla normale igiene personale – uso di acqua e sapone – facciamo molto ricorso a quelli che chiamiamo deodoranti ascellari. In realtà, molti di essi sono deodoranti nel senso che contengono profumi che servono a coprire i cattivi odori che produciamo dopo una giornata intensa. Tuttavia, la maggior parte dei prodotti in commercio contiene anche sostanze chimiche in grado di ridurre la produzione di sudore. In altre parole, sono veri e propri antitraspiranti.

I miei amici biologi e medici mi perdonino se uso un linguaggio un po’ semplificato: il mio obiettivo qui non è fare un trattato, ma spiegare in modo chiaro ciò che accade sotto le nostre ascelle.

Il sudore: un condizionatore naturale

Innanzitutto. diciamo che il sudore ha un ruolo fisiologico molto importante. Per capire meglio, proviamo con un esempio semplice: avete mai bagnato le mani con alcol etilico in estate? Ricorderete la sensazione di fresco che si avverte subito dopo. Perché succede?

L’evaporazione di un liquido – cioè, il passaggio dalla fase liquida a quella gassosa – è un processo che richiede energia. In termini fisici, il sistema assorbe calore dall’ambiente circostante, ovvero la pelle su cui abbiamo messo l’alcol etilico: ecco perché, dopo applicazione di alcol, abbiamo una sensazione di freschezza.

Il sudore funziona allo stesso modo. È composto principalmente da acqua, che evaporando sulla nostra pelle porta via calore e ci aiuta a regolare la temperatura corporea. A questo si aggiungono sali (soprattutto cloruro di sodio), piccole quantità di proteine, lipidi e altre molecole prodotte dal metabolismo.

Da solo, il sudore non ha un odore particolarmente sgradevole. Quell’odore tipico che associamo alle “ascelle sudate” nasce in realtà dall’azione dei batteri che vivono normalmente sulla nostra pelle: essi degradano alcune delle sostanze organiche contenute nel sudore, producendo composti maleodoranti.

Il ruolo dei deodoranti e degli antitraspiranti

Ed eccoci ai deodoranti e agli antitraspiranti. Molti prodotti contengono sali di alluminio (come il cloruro o il cloridrato di alluminio), che riducono la traspirazione formando una sorta di tappo temporaneo nei dotti sudoripari. In questo modo restiamo “asciutti” più a lungo, ma si innescano anche conseguenze meno gradite per i nostri vestiti. Gli aloni gialli, infatti, non derivano semplicemente dal sudore, bensì da una vera e propria orchestra di reazioni chimiche che coinvolgono diversi attori: i sali di alluminio presenti negli antitraspiranti interagiscono con le proteine e i metaboliti azotati del sudore, generando complessi stabili dalle sfumature giallo-brune che si fissano nelle fibre del cotone. Una parte dell’ingiallimento ricorda, in scala ridotta, le reazioni di Maillard, le stesse che fanno dorare pane e biscotti: qui entrano in gioco gli amminoacidi del sudore e i carboidrati della cellulosa del tessuto, catalizzati dal calore corporeo e dalla presenza di metalli. Anche i lipidi e gli acidi grassi secreti dalle ghiandole apocrine danno il loro contributo, andando incontro a processi di ossidazione che producono composti colorati, simili a quelli che rendono irrancidito un olio da cucina. Infine, i residui organici dei deodoranti stessi – fragranze, tensioattivi, polimeri – possono degradarsi e ossidarsi, consolidando l’alone. È, in definitiva, una piccola “reazione chimica da guardaroba”, in cui si intrecciano almeno quattro sistemi: complessi metallo-proteici, reazioni zuccheri-proteine, ossidazioni lipidiche e trasformazioni dei composti organici residui.

Dall’alone al buco: la lenta agonia del cotone

C’è poi un’altra conseguenza meno evidente ma altrettanto fastidiosa: con il tempo le fibre di cellulosa del tessuto, sottoposte a sudore e residui di deodorante, tendono a irrigidirsi e a diventare fragili. Anche qui la chimica ha un ruolo chiave. I sali di alluminio si comportano come veri e propri agenti reticolanti: creano legami incrociati tra le catene della cellulosa, irrigidendo la trama del tessuto. A questo si aggiunge l’effetto dei prodotti di ossidazione del sudore e dei lipidi, che modificano la struttura superficiale delle fibre, rendendole meno elastiche e più inclini a rompersi sotto stress meccanico. È per questo che, oltre agli aloni gialli, le magliette “storiche” finiscono spesso per bucarsi proprio nella zona delle ascelle: le fibre non cedono più in modo elastico, ma si spezzano come se fossero diventate fragili.

Alochimica o chelichimica?

Traendo spunto dall’intervista impossibile a Herr Goethe, potremmo battezzare questo intreccio di reazioni quotidiane con un nome nuovo: Alochimica, la chimica degli aloni, che ci accompagna tanto nel cielo quanto nell’armadio. Il termine deriva dal greco ἅλως, “alone luminoso”, riferito agli astri. In realtà, a voler essere più precisi, dovremmo guardare a κηλίς, che significa “macchia”: da qui il possibile neologismo Chelichimica. In italiano, però, Alochimica suona più evocativo e musicale, mentre Chelichimica è forse più corretto dal punto di vista etimologico sebbene meno immediato. A voi la scelta: quale vi piace di più?

Come prevenire gli aloni (o almeno ridurli)

Alcuni semplici accorgimenti possono limitare il problema:

Conclusione

Dietro un alone giallo c’è molta più chimica di quanto immaginiamo. È la stessa chimica che ci permette di sudare e sopravvivere al caldo, che regola l’equilibrio del nostro corpo e ci difende dallo stress termico. Ma è anche quella che, una volta trasferita sui tessuti insieme ai deodoranti, avvia una catena di reazioni che finisce per lasciare un segno visibile e, a volte, indelebile. Così una semplice maglietta bianca diventa una piccola lavagna su cui si scrivono storie di evaporazione, ossidazione, complessi metallici e fibre irrigidite.

Ecco allora che possiamo parlare, con un pizzico di ironia, di una vera e propria chimica degli aloni domestica: qualcuno la chiamerebbe Alochimica, dal greco ἅλως, “alone luminoso”; altri preferirebbero Chelichimica, da κηλίς, “macchia”. Due nomi diversi per lo stesso intreccio di reazioni quotidiane, che non si manifesta solo nel cielo quando guardiamo il sole o la luna, ma anche nel nostro armadio, tra i vestiti di tutti i giorni. Una scienza silenziosa che ci accompagna ovunque e che, a saperla leggere, trasforma persino un alone giallo sotto l’ascella in un piccolo racconto di meraviglia chimica.

“Acqua che squilli, acqua che brilli, dacci l’ossigeno senza rovelli” ovvero: perché l’acqua ricca di ossigeno è una bufala

Lo ammetto: come poeta non valgo molto. Niente a che vedere con Gabriele D’Annunzio, che in pochi versi seppe rendere l’acqua una creatura viva, brillante, sempre in movimento:

Acqua di monte,
acqua di fonte,
acqua piovana,
acqua sovrana,
acqua che odo,
acqua che lodo,
acqua che squilli,
acqua che brilli,
acqua che canti e piangi,
acqua che ridi e muggi.
Tu sei la vita
e sempre sempre fuggi.

(“Acqua” di G. D’Annunzio)

Io, invece, mi fermo a un modesto gioco di rime:

“Acqua che squilli, acqua che brilli,
dacci l’ossigeno senza rovelli.”

Ma se io non sono un poeta, nel campo della chimica c’è chi riesce a fare ancora peggio di me con le parole – e soprattutto con i numeri. Nonostante la mia attività divulgativa (o forse proprio a causa di essa), mi capita ancora di imbattermi nei suggerimenti di Facebook che pubblicizzano la cosiddetta “acqua arricchita di ossigeno”, presentata come un toccasana universale.

Ora, tralasciando l’iperbole pubblicitaria, proviamo a capire: a cosa servirebbe tutta questa abbondanza di ossigeno disciolto nell’acqua.

L’ossigeno disciolto e la vita acquatica

Da un punto di vista ambientale, la presenza di ossigeno disciolto in acqua è fondamentale. I pesci, i crostacei e la maggior parte degli organismi acquatici hanno bisogno di ossigeno per vivere, proprio come noi terrestri. La differenza è che loro lo ricavano dall’acqua grazie alle branchie, mentre noi lo ricaviamo dall’aria grazie ai polmoni.

Quando un pesce respira, fa passare l’acqua attraverso sottilissime membrane branchiali: da un lato c’è l’acqua con l’ossigeno disciolto, dall’altro il sangue povero di ossigeno. Per semplice diffusione, l’ossigeno passa nelle cellule del pesce (Figura 1).

Figura 1. Meccanismo di respirazione di un pesce: l’acqua con ossigeno disciolto attraversa le branchie e, per diffusione, l’ossigeno passa nel sangue povero di O₂.

Per questo motivo, i chimici quando valutano la qualità di un’acqua non guardano solo alla sua purezza, ma anche a due parametri legati all’ossigeno:

  • il BOD (Biochemical Oxygen Demand), che indica quanta parte dell’ossigeno disciolto viene consumata dai microrganismi per decomporre la sostanza organica;
  • il COD (Chemical Oxygen Demand), che misura quanta parte dell’ossigeno è necessaria per ossidare la sostanza organica, indipendentemente dai microrganismi.

Più alti sono BOD e COD, meno ossigeno resta a disposizione degli organismi acquatici. Insomma, per un pesce l’ossigeno disciolto è questione di vita o di morte.

E per noi terrestri?

Qui arriva il punto dolente. Noi abbiamo bisogno di ossigeno come gli organismi acquatici, ma senza branchie e con un fluido diverso: i nostri polmoni catturano l’ossigeno dall’aria, lo legano all’emoglobina e lo trasportano in tutto il corpo (Figura 2). Se ci immergessimo nell’acqua tentando di respirare come un pesce, non estrarremmo neppure una molecola di ossigeno perché semplicemente non abbiamo le branchie.

Figura 2. Meccanismo della respirazione polmonare: l’ossigeno viene inspirato, catturato dai polmoni, legato all’emoglobina nei globuli rossi e trasportato in tutto il corpo.

In altre parole, l’ossigeno disciolto nell’acqua che beviamo non ci serve a nulla.

Eppure, le aziende che vendono “acqua ricca di ossigeno” promettono ogni genere di beneficio: più energia, digestione facilitata, migliore resistenza fisica, addirittura un gusto esaltato delle pietanze. Sembra quasi di leggere il bugiardino di un olio di serpente moderno.

La realtà è molto più banale: quando beviamo, l’acqua raggiunge lo stomaco e l’intestino, non i polmoni. Da lì non può passare ossigeno nel sangue: l’assorbimento avviene solo attraverso l’apparato respiratorio. Se vogliamo ossigenare i tessuti, l’unico modo resta respirare.

Quanta aria può davvero entrare nell’acqua?

La chimica ci offre uno strumento molto semplice per rispondere: la legge di Henry, secondo la quale la quantità di gas che si scioglie in un liquido dipende dalla pressione parziale del gas stesso e dalla temperatura.

Tradotto:

  • più alta è la pressione, più gas si può sciogliere;
  • più bassa è la temperatura, maggiore è la solubilità;
  • la presenza di altri soluti (come i sali) riduce la quantità di gas che può sciogliersi.

Per dare un numero concreto: a 25 °C e alla normale pressione atmosferica, la quantità massima di ossigeno che si può sciogliere in acqua pura è circa 8–9 milligrammi per litro. Anche spremendo al massimo le condizioni di pressione e temperatura, non si arriva certo a quantità “miracolose”. Eppure, non di rado, si trovano in rete percentuali di ossigeno disciolto così esagerate da sembrare uscite da un fumetto, ben oltre il 100%: numeri che la chimica smentisce senza appello.

Inoltre, una volta che apriamo una bottiglia di acqua “ossigenata” e la riportiamo alle condizioni di pressione e temperatura ambientali, l’ossigeno in eccesso tende a liberarsi, esattamente come accade con le bollicine di una bibita gassata. Ciò che resta, in definitiva, è una comunissima acqua potabile.

Conclusione: acqua arricchita o arricchita di marketing?

Possiamo anche saturare un litro d’acqua con più ossigeno del normale, ma quando la beviamo il nostro corpo non ne ricava alcun vantaggio: non abbiamo branchie e non possiamo estrarre ossigeno dall’acqua come i pesci.

Queste bevande, quindi, non sono altro che acqua — buona e potabile, certo — ma identica a quella del rubinetto o delle bottiglie del supermercato, con l’unica differenza che costano di più.

In sintesi: l’ossigeno per vivere continuiamo a prenderlo dall’aria. Per l’idratazione basta la normale acqua. Per il resto, fidiamoci dei nostri polmoni: sono molto più efficienti di qualsiasi “acqua ricca di ossigeno”.

Le interviste impossibili: incontriamo Johann Wolfgang von Goethe

Ormai i pochi lettori che mi seguono lo sanno. Sto conducendo un reportage avanti e indietro nei secoli per incontrare le figure più note e impattanti del mondo scientifico. Ho incontrato Boyle, Lavoisier, Faraday e Franklin. Ognuno di essi ha dato un’impronta impagabile allo sviluppo della scienza. Ma, come abbiamo capito dalle interviste, tutti questi personaggi erano molto eclettici: si sono interessati di tante cose, dalla letteratura alla filosofia naturale, dalla filosofia alle arti figurative fino alla politica. Ora, però, voglio cambiare prospettiva. Voglio provare a intervistare qualcuno che non era uno scienziato vero e proprio, ma aveva una mente eclettica esattamente quanto quella degli scienziati già intervistati.

Siamo nel suo studio di Weimar, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Scaffali colmi di volumi di botanica, filosofia e poesia fanno da cornice a un tavolo ingombro di carte, calamai ed erbarî. Prismi di cristallo catturano la luce della finestra, mentre accanto riposano conchiglie e minerali raccolti nei suoi viaggi. Un globo e alcune mappe richiamano la sua curiosità geografica, e alle pareti schizzi di piante e figure anatomiche dialogano con disegni di architetture classiche.

Goethe mi accoglie in questo microcosmo con il suo sguardo inconfondibile: curioso, penetrante e sereno, come se in lui convivessero il poeta, il filosofo e il naturalista.

– Buongiorno Herr Goethe, lei è stato un viaggiatore indefesso ed un osservatore attento delle abitudini e degli usi delle popolazioni i cui paesi ha visitato. Celebre il suo “Viaggio in Italia”. Cosa mi dice di noi italiani?
– L’Italia fu per me rivelazione e rinascita. Vi trovai non solo la luce e i colori che nutrono l’anima, ma anche un popolo che viveva con naturalezza ciò che noi tedeschi spesso smarrivamo nella teoria: la gioia dell’arte, il gusto del convivere, l’intreccio fra bellezza e vita quotidiana. Scrissi che “qui finalmente mi sento uomo intero”, perché in Italia compresi che la cultura non è un ornamento, ma respiro stesso dell’esistenza. Ogni strada, ogni piazza, ogni rovina mi insegnava qualcosa che nessun libro avrebbe potuto contenere. E fu proprio osservando la luce che accarezzava i marmi di Roma o il cielo che si specchiava sul mare di Napoli che la mia attenzione si rivolse sempre più ai colori: non solo come fenomeni naturali, ma come linguaggio segreto della vita stessa.

– Ecco. I colori. Lei è celebrato come poeta e letterato, ma spesso viene ricordato per la sua “Teoria dei colori”. Perché?
– Perché in essa vi è la mia vera vocazione: comprendere la natura nel suo intreccio con l’esperienza umana. Newton aveva mostrato con grande rigore matematico che la luce bianca si scompone in fasci colorati; io non contesto la precisione dei suoi strumenti, ma credo che la verità della natura non si esaurisca nei calcoli. La luce non è un’entità fredda: è esperienza vissuta, è emozione. Per questo osservai i colori non solo come fenomeni fisici, ma come espressioni del rapporto fra luce e oscurità, mediate dai nostri sensi. Guardando attraverso un prisma, non vedevo angoli e raggi, ma bordi vivi, sfumature, vibrazioni che parlavano direttamente all’anima. Per me i colori sono il linguaggio segreto della natura: ci rivelano non ciò che la materia è soltanto, ma ciò che essa significa nell’esperienza umana.

– Sa che io sono uno scienziato. La mia forma mentis è molto limitata perché io vedo la luce e, quindi, i colori in modo diverso da lei. Per me rappresentano il fascino del microscopico: una danza incessante legata al movimento di fotoni ed elettroni che innescano delle reazioni chimiche non meno affascinanti attraverso cui riusciamo a vedere. Purtuttavia, la sua visione è utilizzata ancora oggi nella moderna fotografia.
– Mi rallegra sentirlo. Sì, la mia teoria dei colori ha trovato eco anche in tempi a me lontani, persino nella vostra arte fotografica. Io attribuii a ciascun colore un diverso valore di luminosità percepita: il giallo, il più radioso, lo stimai pari a nove; l’arancione a otto; il rosso e il verde a sei; il blu a quattro; e il viola a tre. Questa scala non è un gioco numerico, ma un modo per bilanciare l’occhio e l’animo. E ancora oggi, so che alcuni fotografi la utilizzano per creare armonia nelle immagini: se accostano il giallo e il viola, ad esempio, sanno che il viola deve occupare più spazio per compensare la potenza luminosa del giallo, così che l’insieme risulti equilibrato e piacevole. La fisica moderna vi parla di fotoni ed elettroni, ma io volevo ricordare che i colori non sono soltanto reazioni della materia: sono emozioni visive, proporzioni di bellezza, strumenti per parlare all’anima. È per questo che i fotografi e gli artisti ancora oggi vi trovano un valore, al di là dei vostri schemi tecnici come RGB o CMYK.

– Quello che lei dice è molto evocativo. Mi viene in mente un fisico moderno, Richard Feynman, premio Nobel per la fisica, noto non solo per le sue scoperte ma anche per la capacità di comunicare la scienza con passione. Egli sosteneva che la bellezza della natura non diminuisce con la conoscenza scientifica, ma anzi cresce: più comprendiamo i meccanismi profondi, più aumenta la meraviglia. Lei, Herr Goethe, come guarda a questa idea di bellezza che nasce dall’intreccio tra conoscenza e stupore?
– Ah, Feynman… un uomo di straordinaria vivacità d’intelletto, mosso da una passione per la scoperta che è di per sé poeta, seppure nel linguaggio dei numeri e delle particelle. Mi risuona particolarmente quel titolo che gli fu dedicato: Il piacere di scoprire. Perché il sapere non è solo una cattura della verità, ma una danza gioiosa nell’ignoto. Ho letto che egli sosteneva che più si scopre, più aumenta la meraviglia, il mistero, l’ammirazione stessa per quel che ci circonda, e che nutriva una profonda onestà intellettuale, pronta a confessare l’ignoranza quando necessario. Un tratto raro: riconoscere che il sapere vero richiede non solo logica, ma stupore. Feynman vedeva nella bellezza della natura – nei suoi schemi eleganti, nelle sue leggi sorprendenti – non una decorazione, ma una guida. Credeva che in questo universo il sapere ci spalancasse la bellezza, rendendo la realtà non meno incantata dell’immaginazione stessa. Io, che ho brandito il pennino e il prisma con pari fervore, comprendo bene: la bellezza non è accessoria nella scienza, ma è segno di quel respiro vitale che lega il cuore dell’uomo alla natura. Feynman la cercava nei grafici, nei calcoli, nelle particelle – io la cercavo nei colori, nei versi, nei fiori –, ma entrambi sognavamo lo stesso: un sapere che fosse anche stupore.

– Herr Goethe, lei non si limitò a osservare i colori. Nei suoi studi botanici parlò anche della “metamorfosi delle piante” e dell’idea di una pianta originaria, la Urpflanze. Che cosa intendeva?
– Io vedevo nelle forme vegetali un principio unitario: foglie, fiori, sepali non erano che metamorfosi di un’unica idea, varianti di una stessa forma primordiale. La chiamai Urpflanze, la pianta originaria. Non la immaginavo come un oggetto reale da trovare in natura, ma come un archetipo che spiega la molteplicità delle forme. Per me, la scienza non era contare petali o descrivere radici, ma cogliere il ritmo profondo della trasformazione. E ancora una volta, ciò che vale per le piante vale anche per la vita umana: cambiamo forma, ma restiamo sempre.

– Il suo eclettismo culturale l’ha portata ad essere viaggiatore, osservatore di popoli e costumi, studioso della natura, fisico e persino chimico. Proprio dalla chimica nasce una delle sue opere più celebri, “Le affinità elettive”. Vuole raccontarci come la scienza si è trasformata in letteratura?
– Nella chimica del mio tempo, il concetto di “affinità” era centrale: le sostanze non si univano a caso, ma seguivano attrazioni precise, come se fossero chiamate l’una dall’altra da un segreto magnetismo. Io vi scorsi un’immagine potente dell’animo umano. Così nacque Le affinità elettive: un romanzo, certo, ma anche un esperimento, in cui gli uomini e le donne diventano elementi di una reazione. Ogni personaggio, come una sostanza, porta con sé un potenziale nascosto che, al contatto con un altro, si libera irresistibile. Lì non c’è solo passione, ma una sorta di legge naturale che governa i rapporti, spesso al di là della nostra volontà. È la stessa forza che nel laboratorio unisce acidi e basi, sali e metalli: un dramma di attrazioni e separazioni. Scrivendo quel libro, non intendevo soltanto raccontare un amore impossibile: volevo mostrare che l’uomo non è separato dalla natura. Le leggi chimiche che osserviamo nelle fiale e nei crogioli parlano anche dei nostri legami più intimi. Scienza e poesia, qui, non si contraddicono: si specchiano l’una nell’altra.

– La sua è una visione alquanto atipica se la confrontiamo con la mentalità chimica moderna, improntata principalmente alla razionalità esasperata. Tuttavia, anche se in modo atipico, lei anticipava l’idea del legame chimico.
– È vero, la mia prospettiva era insolita, ma non priva di fondamento. Nelle Affinità elettive non cercavo di descrivere reazioni in un manuale di laboratorio: volevo mostrare come dietro ogni legame, sia esso tra molecole o tra persone, si celino forze invisibili e potenti. Noi amiamo credere di governare sentimenti e decisioni, ma spesso siamo come elementi che obbediscono a una necessità silenziosa: l’attrazione, il desiderio, la passione. In questo senso, sì, ho anticipato l’idea del legame chimico, ma ho anche voluto suggerire che la chimica non parla solo dei flaconi e dei crogioli, parla anche di noi. È il linguaggio della natura che, con regole misteriose, unisce e separa.

– Herr Goethe, dalle sue parole emerge che per lei la scienza non è mai stata separata dalla vita, dall’arte e dalla poesia. Oggi invece si tende a distinguere nettamente: da un lato le discipline scientifiche, dall’altro quelle umanistiche. Si parla molto di lauree STEM, considerate essenziali, mentre filosofia, letteratura e storia vengono spesso relegate a orpelli marginali. Lei che visione avrebbe di questo rapporto tra saperi?
– Vede, la separazione che oggi amate tracciare tra “scienze” e “umanesimo” mi pare una povertà più che una conquista. La natura non si lascia prendere tutta con il goniometro, né tutta con la lira: chiede entrambe le mani. Con una misurate, con l’altra interpretate. Se togliete il pensiero storico, la lingua, l’etica, la filosofia, la scienza diventa un calcolo senza criterio; se togliete l’osservazione e il metodo, la cultura diventa parola senza mondo. Io stesso non conobbi confini: la Farbenlehre (Teoria dei colori, N.d.A.) nacque da esperimenti e da sguardo educato alle arti; la Urpflanze (La metamorfosi delle piante, N.d.A.) è insieme ipotesi morfologica e immagine poetica; le Affinità elettive prendono dalla chimica una legge di attrazioni e la restituiscono alla vita. Questo non è un capriccio: è il modo in cui la verità si rivela, per metamorfosi, passando da forma a forma senza perdere l’unità. Capisco l’utilità dell’iperspecializzazione: costruisce strumenti fini. Ma gli strumenti, senza un orizzonte, diventano padrini di illusioni. Non crediate che una laurea STEM immunizzi dal delirio: nel vostro secolo ho visto giganti cadere in tentazioni di pensiero ristretto. Pauling innamorato della vitamina C come panacea; Montagnier sedotto dalla “memoria dell’acqua”; Mullis nel negare la relazione fra HIV e AIDS; Watson che piega la biologia a pregiudizi razziali; Zichichi che confonde devozione e prova; Rubbia che sottrae all’uomo la responsabilità del clima. Tutti uomini d’abilità somma! Dunque, non è la tecnica a salvare dall’errore, ma l’ampiezza dell’animo e della mente: capacità di dubitare, di ascoltare i dati e la loro storia, di dare alle parole il peso che meritano. Ricordate: Aristotele fu osservatore prima che sistema; il basso Medioevo, con scuole e traduzioni, preparò il Rinascimento; Galileo non sorge in un deserto, ma in una tradizione che impara a interrogare la natura con esperimenti e con lingua. L’umanesimo scientifico, come oggi lo chiamate, non è un compromesso tiepido: è un principio di fecondità. Date al giovane scienziato algebra e Omero, laboratorio e biblioteca; insegnategli a descrivere con precisione e a chiamare per nome ciò che vede; abituatelo alla bellezza, perché la bellezza è un indizio di ordine, non un fronzolo. La mia massima, se volete, è semplice: lasciate che il prisma e la poesia stiano sullo stesso tavolo. Il primo separa per capire; la seconda ricongiunge per comprendere. Solo così la conoscenza non si fa arrogante e l’incanto non si fa cieco. E la luce – che per Newton si scompone e per me si vive – potrà finalmente illuminare anche gli occhi che la guardano.

– In parole ancora più chiare: come si costruisce un pensiero robusto, secondo lei?
– Un pensiero robusto non nasce mai da un sapere unico, ma dall’intreccio di molti. La matematica vi insegna il rigore, il latino e il greco vi danno la radice delle parole con cui pensate, la poesia vi educa a cogliere sfumature, la storia vi ricorda che non siete soli né primi nel tempo. Chi poi sceglie di specializzarsi deve farlo, certo, ma portando con sé questa ricchezza: è ciò che impedisce all’esperto di diventare cieco al di fuori del suo piccolo campo. Non si tratta di “decorazioni”, ma di fondamenta. Perché un sapere che non sa parlare la lingua dell’altro si impoverisce e si espone all’errore. La scienza senza immaginazione diventa meccanica; l’arte senza conoscenza diventa vuota. Persino nei vostri tempi avete coniato un termine curioso, tricochimica: la chimica del capello. Ebbene, perfino un capello, se osservato con attenzione, può rivelare storie di bellezza, di salute, di vita quotidiana. Questo mi conferma che ogni dettaglio, anche il più minuto, può diventare punto d’incontro fra scienza e umanesimo, se lo si guarda con occhi capaci di vedere oltre la superficie. Un pensiero robusto nasce quando la precisione dei numeri incontra la profondità delle parole, la memoria della storia e perfino i segreti nascosti in un filo di capelli. È allora che lo specialista diventa anche cittadino del mondo: capace non solo di misurare, ma di comprendere.

– Cosa direbbe oggi a un giovane che si avvicina alla scienza?
– Direi: non guardare la natura come un oggetto da dominare, ma come una sorella da comprendere. Coltiva la ragione, ma anche l’immaginazione e la memoria storica: i numeri sono fondamenta, ma senza poesia diventano pietre fredde. Ricorda che ogni scoperta non è solo conquista, ma anche responsabilità. Perché la luce che illumina il mondo non è completa se non illumina anche gli occhi che la vedono, e il cuore che li guida.

L’intervista è finita. Mi sento frastornato e insieme illuminato dalla grandezza della mente di Herr Goethe. Ci stringiamo la mano e mi allontano lungo le strade di Francoforte sul Meno. E mentre penso alle sue parole, che mi serviranno come linee guida per quello che mi resta ancora da vivere, mi preparo all’incontro con l’infinito…

Così parlò Bellavite: quando la retorica si traveste da scienza

Introduzione

Di recente Paolo Bellavite, professore associato presso l’Università di Verona, in pensione dal 2017 e noto per le sue posizioni critiche verso le vaccinazioni e per la promozione dell’omeopatia, ha pubblicato un post sui social (Figura 1) in cui denuncia presunte “censure” e un rifiuto del confronto scientifico da parte delle istituzioni sanitarie. Il pretesto è lo scioglimento del comitato NITAG (National Immunization Technical Advisory Group) da parte del Ministero della Salute.

Il NITAG fornisce indicazioni basate su prove per le strategie vaccinali a livello nazionale, valutando costantemente rischi e benefici in relazione a età, condizioni di salute e contesto epidemiologico. Di questo tema ho già parlato in un mio precedente articolo (Nomine e cortocircuiti: quando l’antiscienza entra nei comitati scientifici).

Al di là della cronaca, però, il post di Bellavite si rivela soprattutto un insieme di slogan e artifici retorici non supportati da evidenze scientifiche solide, costruito sui più classici argomenti cari ai critici delle vaccinazioni. Ed è proprio qui che torna utile un altro parallelismo: le stesse strategie comunicative – indipendentemente dal campo, che si tratti di vaccini o di agricoltura – le ritroviamo nell’universo della “scienza alternativa”. Ne ho dato esempio in un altro articolo, Agricoltura biodinamica e scienza: il dialogo continua… con i soliti equivoci.

I toni retorici possono apparire convincenti a chi non ha dimestichezza con il metodo scientifico ma non reggono alla prova dei fatti. Proviamo dunque a smontare, punto per punto, le argomentazioni dell’ex professore Paolo Bellavite.

Figura 1. Screenshot dalla pagina facebook del Dr. Bellavite.

Il mito della “censura”

Uno degli argomenti più frequenti nella retorica tipica dei critici dei vaccini è l’idea che la comunità scientifica “censuri” le voci “fuori dal coro” per paura o per difendere interessi di un qualche tipo.

Per rafforzare questa immagine, viene spesso evocata la vicenda di Ignác Semmelweis, il medico che nell’Ottocento intuì l’importanza dell’igiene delle mani per ridurre la febbre puerperale. Il paragone, però, è fuorviante. Semmelweis non fu osteggiato perché considerato “eretico” ma perché il contesto scientifico dell’epoca non disponeva ancora degli strumenti teorici e sperimentali necessari a comprendere e verificare le sue osservazioni. La teoria dei germi non era stata ancora formulata e l’idea che “qualcosa di invisibile” potesse trasmettere la malattia appariva inconcepibile. Nonostante ciò, i dati raccolti da Semmelweis erano solidi e difficilmente confutabili: nelle cliniche in cui introdusse il lavaggio delle mani la mortalità scese in maniera drastica. Quei numeri, alla lunga, hanno avuto la meglio.

Oggi, il confronto scientifico avviene tramite peer-review, conferenze specialistiche e comitati di valutazione sistematica delle evidenze (ne ho parlato qualche tempo fa in un articolo semiserio dal titolo Fortuna o bravura? osservazioni inusuali sul metodo scientifico). In definitiva, la scienza non mette a tacere: filtra. Ogni idea può essere proposta e discussa, ma per sopravvivere deve poggiare su dati riproducibili, verificabili e coerenti con l’insieme delle conoscenze disponibili. In mancanza di queste condizioni, non viene esclusa per censura, bensì perché non regge al vaglio delle prove.

Trasformare questo processo di selezione in un racconto di “persecuzione” significa confondere il metodo scientifico con un tribunale ideologico, quando in realtà è solo il meccanismo che permette alla conoscenza di avanzare.

La falsa richiesta di “prove definitive”

Un espediente retorico molto diffuso tra chi vuole mettere in discussione i vaccini è quello di pretendere “prove definitive” – come se esistesse una singola evidenza in grado di dimostrare in modo assoluto l’utilità di un vaccino. La verità è che nessuna terapia medica è vantaggiosa sempre e comunque, ma le raccomandazioni vaccinali si basano su analisi robuste e ben documentate di rapporto rischio/beneficio.
Ecco alcuni esempi concreti e supportati da fonti autorevoli:

Chiedere quindi una singola prova assoluta significa distogliere l’attenzione da un ampio corpus di evidenze solide e riproducibili, e puntare invece su un vuoto nella narrazione che non corrisponde alla realtà scientifica.

“I bambini vaccinati non sono più sani”

Alcuni insinuano che non esistano prove che i bambini vaccinati siano “più sani” o addirittura suggeriscono l’opposto. Ma qui il trucco retorico sta nella vaghezza del concetto di “salute” che può essere interpretato in molti modi.
I dati concreti parlano chiaro: i bambini vaccinati hanno un rischio nettamente ridotto di contrarre malattie infettive gravi e le evidenze epidemiologiche mostrano riduzioni significative della mortalità, delle complicanze e degli accessi ospedalieri.

Questi dati si legano strettamente al paragrafo precedente in cui si evidenziava che vaccinare i bambini – come con il caso del vaccino anti-COVID e la prevenzione del morbillo – non solo limita le infezioni specifiche, ma contribuisce a migliorare la salute complessiva della popolazione infantile.

La retorica dei “vaccini meno tossici”

Un argomento ricorrente tra chi mette in dubbio le vaccinazioni è l’appello a “vaccini meno tossici, monovalenti e senza alluminio”. In realtà, gli adiuvanti a base di alluminio – utilizzati da oltre 90 anni per potenziare la risposta immunitaria – sono presenti in quantità molto inferiori a quelle assunte quotidianamente con l’alimentazione: tra 7 e 117 mg nei primi 6 mesi di vita, a seconda dell’alimentazione, mentre un singolo vaccino ne contiene tra 0.125 e 0.85 mg. In particolare, numerosi studi e monitoraggi hanno evidenziato che, sebbene possano causare arrossamento, dolore o un piccolo nodulo nel sito di iniezione, non esistono evidenze di tossicità grave o effetti duraturi legati ai sali di alluminio. Anche la Fondazione Veronesi conferma: non c’è motivo di dubitare della sicurezza degli adiuvanti, che hanno superato con successo gli studi di sicurezza.

Va, inoltre, sottolineato che proporre vaccini monovalenti (cioè che proteggono da una sola malattia) in alternativa a quelli combinati riduce l’efficacia complessiva delle campagne vaccinali. Le formulazioni polivalenti (come l’esavalente) permettono di proteggere contemporaneamente da più malattie con meno somministrazioni, semplificando i calendari vaccinali e migliorando la copertura.

Questo si traduce in una maggiore efficienza delle campagne, minori costi logistici e un impatto complessivo più forte sulla salute pubblica. Lo confermano anche diversi studi su riviste di settore. Per esempio, un trial pubblicato su Lancet ha documentato un’efficacia del 94.9 % contro la varicella e fino al 99.5 % contro altre forme virali moderate o severe, mentre una meta-analisi del 2015 ha evidenziato che le formulazioni combinate mantengono un profilo di sicurezza e immunogenicità paragonabile, ma più efficiente rispetto alle somministrazioni separate. Infine, in un recente studio caso-controllo, il vaccino Priorix‑Tetra (MMRV) ha mostrato un’efficacia dell’88‑93 % contro la varicella dopo una sola o due dosi, e del 96 % contro le ospedalizzazioni.

Come ogni farmaco, i vaccini possono avere effetti collaterali, ma sono rari e attentamente monitorati tramite sistemi di farmacovigilanza che possono intervenire tempestivamente in caso di sospetti. Definire i vaccini “tossici” senza distinguere fra effetti lievi e transitori (come febbre o gonfiore locale) e eventi gravi, ma estremamente rari, è un artificio retorico che induce confusione. In realtà, i benefici delle vaccinazioni – prevenire malattie gravi, complicanze e morti – superano di gran lunga i rischi, grazie anche a un sistema di sicurezza ben strutturato.

Le “analisi pre-vaccinali”

Uno dei cavalli di battaglia dei critici dei vaccini è l’utilizzo di analisi pre‑vaccinali – come test genetici, tipizzazione HLA o dosaggi di anticorpi – per valutare il rischio individuale o l’immunità naturale. A prima vista può sembrare una precauzione intelligente ma in realtà è un’idea infondata e controproducente. Gli eventi avversi gravi legati alle vaccinazioni sono estremamente rari e non correlabili a marcatori genetici o immunologici conosciuti. Al momento non esistono esami in grado di prevedere in anticipo chi potrebbe sviluppare una reazione avversa significativa.

Studi su varianti genetiche e reazioni avverse da vaccino (come studi su polimorfismi MTHFR o antigeni HLA) hanno dimostrato che l’uso di questi test non è scientificamente rilevante, né affidabile per prevenire eventi avversi.
La Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici ha ribadito con forza che:
«La richiesta di esami diagnostici da eseguire di routine prima della vaccinazione non ha alcuna giustificazione scientifica».
In altre parole, valutare il rischio da vaccinazione è responsabilità del medico curante, basata su anamnesi e valutazioni cliniche, non su test di laboratorio preliminari.

Nel suo magazine di divulgazione, la Fondazione Veronesi – attraverso l’esperto Pier Luigi Lopalco – risponde chiaramente alla domanda “Esistono test pre‑vaccinali per valutare possibili effetti collaterali?”, la risposta è netta: non esistono.

L’introduzione obbligatoria di esami prevaccinali renderebbe logisticamente impossibili le campagne, ostacolando la copertura diffusa necessaria per l’immunità di gregge. Le vaccinazioni funzionano proprio perché applicate su larga scala, creando uno scudo comunitario che riduce la circolazione dei patogeni.

L’inversione retorica: “noi siamo la vera scienza”

Un tratto distintivo della comunicazione di chi contesta le vaccinazioni è la pretesa di incarnare la “vera scienza”, accusando al tempo stesso le istituzioni di rifiutare il confronto. È un vero rovesciamento di prospettiva: si imputa alla comunità scientifica un atteggiamento dogmatico, mentre ci si propone come gli unici detentori delle “vere prove”. In pratica, si pretende di cambiare le regole del gioco scientifico, così che affermazioni prive di fondamento possano essere messe sullo stesso piano delle evidenze prodotte e validate dall’intera comunità. È come voler riscrivere le regole del Monopoli per far sì che a vincere non sia chi accumula dati e dimostrazioni, ma chi urla di più o pesca la carta giusta al momento opportuno.

La realtà è un’altra: il confronto scientifico non si svolge sui social o nei talk show, ma nelle riviste peer-reviewed, nei congressi specialistici e nei comitati di valutazione delle evidenze. Ed è in questi contesti che certe tesi non trovano spazio, non per censura, ma per una ragione molto più semplice: mancano dati solidi che le sostengano.

Conclusione: la scienza contro gli slogan

Il caso Bellavite mostra come il linguaggio della scienza possa essere piegato e trasformato in uno strumento di retorica ideologica: un lessico apparentemente tecnico usato non per chiarire ma per confondere; non per spiegare ma per insinuare dubbi e paure privi di basi reali.

I vaccini rimangono uno dei più grandi successi della medicina moderna. Hanno ridotto o eliminato malattie che per secoli hanno decimato intere popolazioni. Certo, come ogni atto medico comportano rischi, ma il rapporto rischi/benefici è da decenni valutato e aggiornato con metodi rigorosi ed è incontrovertibile: il beneficio collettivo e individuale supera enormemente i rari effetti collaterali.

In politica, come nei discorsi attraverso cui si criticano le vaccinazioni, accade spesso che a prevalere siano slogan facili e interpretazioni personali. Il dibattito si trasforma così in un’arena di opinioni precostituite, dove il volume della voce sembra contare più della solidità delle prove. Ma la scienza non funziona in questo modo: non si piega alle opinioni, non segue le mode e non obbedisce agli slogan. È un processo collettivo, autocorrettivo e guidato dai dati, che avanza proprio perché seleziona ciò che resiste alla verifica e scarta ciò che non regge all’evidenza.

Chi tenta di manipolare questo processo dimentica un punto essenziale: la verità scientifica non appartiene a chi urla più forte, ma a chi misura, dimostra e sottopone i risultati al vaglio della comunità. È questo meccanismo che, tra errori e correzioni, consente alla scienza di progredire e di migliorare la vita di tutti.

Nota a margine dell’articolo

Sono perfettamente consapevole che questo scritto non convincerà chi è già persuaso che i vaccini siano dannosi o chi si rifugia dietro un malinteso concetto di “libertà di vaccinazione”. Desidero però ricordare ai miei quattro lettori che l’Art. 32 della nostra Costituzione recita:

“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.

La Corte Costituzionale, interpretando questo articolo, ha più volte ribadito che la salute pubblica può prevalere su quella individuale. Già con la sentenza n. 307/1990 e la n. 218/1994 ha chiarito che l’obbligo vaccinale è compatibile con la Costituzione se proporzionato e giustificato dall’interesse collettivo. La sentenza n. 282/2002, pur riguardando i trattamenti sanitari obbligatori in ambito psichiatrico, ribadisce il principio generale: un trattamento sanitario può essere imposto per legge, purché rispettoso della dignità della persona. Infine, la più recente sentenza n. 5/2018 ha confermato la piena discrezionalità del legislatore nell’introdurre obblighi vaccinali a tutela della salute pubblica.

Il mio intento non è convincere chi non vuole ascoltare, ma offrire strumenti a chi esita, a chi è spaventato. La paura è umana, comprensibile, ma non ha fondamento: i dati dimostrano che vaccinarsi significa proteggere sé stessi e, soprattutto, la comunità di cui facciamo parte. È questo il senso profondo dell’art. 32: la salute non è mai solo un fatto privato, ma un bene comune.

Le interviste impossibili: incontriamo Benjamin Franklin

Ed eccomi a volare con la fantasia nel nuovo mondo. Sono verso la fine del Settecento, e mi ritrovo in un ambiente completamente diverso dal laboratorio di Faraday. Qui tutto profuma di carta, inchiostro e… ozono. È il tipico studio settecentesco con scaffali pieni di libri, strumenti per esperimenti elettrici, penne d’oca e un calamaio ancora macchiato di lampi. Di fronte a me, un uomo dallo sguardo vivace, i capelli incorniciati da una parrucca bianca, gli occhi pieni di una curiosità che sembra non aver conosciuto stanchezza. È Benjamin Franklin.

– Dr. Franklin, grazie per avermi accolto. Come sa, sto facendo un reportage di interviste impossibili. Ho già incontrato i Professori Boyle, Lavoisier e Faraday. Immagino che lei abbia un’idea chiara del loro ruolo nello sviluppo della chimica.
– Eccome se ce l’ho! Boyle ha fatto ordine nel caos, Lavoisier ha messo la logica sopra i miti, Faraday ha liberato l’elettricità dalle catene del mistero. Io, modestamente, sono stato il più impaziente: mentre loro costruivano i palazzi della chimica, io mi divertivo a bussare alle porte della natura con un aquilone in mano. Non sarà accademico, ma ha funzionato.

– L’aquilone… ma come le è venuto in mente?
– Guardi, io non avevo un laboratorio attrezzato come i vostri scienziati moderni. Ma avevo occhi, mani e fantasia. L’aquilone era un gioco da bambini, e io lo usai come un filo teso fra cielo e terra: bastò un po’ di coraggio per trasformarlo in esperimento. In fondo la scienza è questo: prendere ciò che sembra un passatempo e scoprire che nasconde una legge dell’universo.

– Sa che oggi esperimenti del genere sarebbero liquidati come estremamente pericolosi e verosimilmente non verrebbero autorizzati?
– Ne sono certo! Se avessi chiesto un permesso ufficiale per far volare un aquilone sotto un temporale, mi avrebbero rinchiuso prima ancora di spiegare il progetto. Ma vede, la conoscenza non nasce dall’attesa di un timbro: nasce dall’osservazione e dal coraggio. Senza un po’ di rischio, non avremmo mai imparato che il fulmine e la scintilla erano fratelli.

– Cosa pensa, allora, delle normative attuali che impongono l’uso di strumenti sicuri, sia per l’ambiente che per gli umani per realizzare esperimenti?
– Penso che siano un segno di maturità. Io ho corso rischi che oggi giudico folli: la curiosità mi salvò, ma avrei potuto perderci la vita. E nessuna scoperta vale quanto una vita umana. Indiana Jones può far sorridere sullo schermo, ma nella realtà un uomo che gioca costantemente con la morte non è un eroe, è uno sciocco. La vera grandezza della scienza sta nel proteggere e migliorare la vita, non nel sacrificarla per un colpo di fortuna.

– Il parafulmine è stata una delle sue invenzioni più utili. È curioso che anche qui ci fu chi si oppose, accusandola quasi di voler interferire con la volontà divina.
– Già! Alcuni predicatori sostenevano che fermare il fulmine significasse ribellarsi a Dio. Io replicai che Dio ci aveva dato l’intelligenza proprio per proteggerci. Non vedo differenza fra un tetto che ripara dalla pioggia e un parafulmine che ripara dal fuoco celeste.

– Lei ha fatto chiarezza, molta chiarezza, nel “decodificare” i fulmini. Alla fine, lei ha capito che si trattava di fenomeni naturali legati all’elettricità. In qualche modo ha aperto un varco nella comprensione di fenomeni che venivano associati all’ira divina: una volta Zeus, poi il Dio dei cristiani.
– Esatto. E non mi pare che Dio si sia offeso perché abbiamo capito come funziona un fulmine. Se la pioggia non è più vista come il pianto degli dèi ma come il ciclo dell’acqua, nessuno si scandalizza. Io credo che l’Onnipotente ci abbia dato la ragione proprio per usarla: ignorare i fenomeni naturali in nome della paura non è fede, è superstizione. E una società che resta prigioniera della superstizione non cresce, resta in ginocchio davanti al tuono.

– Ma le sue scoperte hanno fatto comprendere che la religione interviene solo quando non riusciamo a spiegarci qualcosa. Noi abbiamo bisogno di comprendere e, se non ci riusciamo, invochiamo un dio…
– È vero: gli uomini hanno sempre chiamato “divino” ciò che non sapevano spiegare. Ogni tuono era Zeus, ogni fulmine l’ira del Cielo. Il guaio è che, a forza di scoprire, gli dèi si sono ritrovati con meno lavoro: ecco perché dico che la scienza, in fondo, li mette in pensione anticipata. Ma questo non toglie dignità alla fede: anzi, la libera dalla superstizione. Un Dio ridotto a tappabuchi della nostra ignoranza è un Dio fragile; un Dio che ci ha dato intelletto e curiosità, invece, si aspetta che li usiamo. Perché la vera bestemmia non è capire il fulmine: è restare in ginocchio davanti al tuono senza mai volerlo capire.

– La capisco, Dr. Franklin. Io però sono ateo, e non riesco a vedere Dio neppure come ipotesi di lavoro. Mi tornano in mente le parole di Margherita Hack: “Dio è un’ipotesi non necessaria”.
– Non mi scandalizza affatto. Io vivevo in un tempo in cui la religione era il linguaggio comune: negarla avrebbe significato isolarsi dal dialogo civile. Ma vede, il bello della scienza è proprio questo: non impone a nessuno la fede o l’ateismo, chiede solo la voglia di capire. Che uno veda in quell’ordine la mano di Dio, o che lo chiami semplicemente Natura, poco importa: la verità resta verità, e il fulmine non obbedisce né al prete né all’ateo.

– Dr. Franklin, lei è passato alla storia come un individuo molto versatile: scienziato, inventore, diplomatico, politico, editore. Chi è lei, in realtà?
– Sono stato tutte queste cose e, al tempo stesso, nessuna soltanto. Non ho mai sopportato le etichette: erano i problemi concreti a chiamarmi, e io rispondevo come potevo. Se serviva un esperimento, facevo lo scienziato; se serviva un accordo, il diplomatico; se serviva chiarezza, scrivevo da editore. Ironia della sorte, mi sentivo più un apprendista della Natura che un maestro, un uomo con troppi mestieri e troppe poche tasche per contenerli. Se dovessi scegliere una definizione, direi che sono stato questo: un curioso ostinato, convinto che la vera identità dell’uomo non stia nel titolo che porta, ma nella scintilla che lo spinge a capire e migliorare il mondo.

– Lei dice giustamente: “la vera identità dell’uomo non è nel titolo che porta, ma nella scintilla che lo spinge a capire e migliorare il mondo”. Allora le rivolgo la medesima domanda che ho fatto al Professor Faraday: sa che una frase del genere nella mia epoca potrebbe essere usata dai complottisti di ogni risma? Questi interpreterebbero la sua dichiarazione come uno sdoganamento dell’ignoranza.
– E allora che lo facciano pure: non sarà certo il loro gracchiare a spegnere il fulmine. Ma sia chiaro: la scintilla che muove l’uomo non è la superbia di credere alle proprie fantasie, è l’umiltà di inchinarsi davanti ai fatti. I complottisti, invece, si fermano al lampo: gridano di aver visto la luce, ma non scaldano nessuno. Non sono ribelli coraggiosi: sono pigri travestiti da profeti, che scambiano il sospetto per pensiero critico e l’ignoranza per libertà. La curiosità autentica smonta i dogmi, anche quelli comodi: chi rifiuta prove e ragione non è un cercatore di verità, è un ciarlatano che preferisce restare al buio.

– Lei non fu solo scienziato. Fu anche diplomatico a Parigi e padre fondatore degli Stati Uniti. Crede che la scienza debba sempre dialogare con la politica?
La politica senza scienza è cieca, la scienza senza politica è muta. Ma attenzione: quando un governante chiude gli occhi davanti ai fatti, non è soltanto cieco, è pericoloso. Governa con l’illusione, e l’illusione uccide più del ferro e del fuoco. Un politico che ignora la scienza è come un capitano che butta la bussola in mare e pretende di guidare la nave “a sentimento”: può anche ingannare i passeggeri per un po’, ma alla fine li porterà sugli scogli. La scienza, se resta chiusa nei laboratori, non salva nessuno; ma la politica che la calpesta condanna un popolo all’ignoranza, alla malattia e alla fame. La verità non si vota e non si compra: un virus non chiede il permesso a un ministro, il clima non attende il consenso di un parlamento. Chi governa contro la scienza governa contro la vita stessa, e questo non è solo un errore politico: è un tradimento morale.

– Negli ultimi anni, anche negli Stati Uniti che lei ha contribuito a fondare, ci sono state politiche definite “antiscientifiche”. L’amministrazione Trump, in particolare, è stata accusata di negare l’evidenza del cambiamento climatico e di ostacolare la ricerca ambientale. Come vede tutto questo?
– Con sgomento. Vede, un politico che rinnega la scienza non è solo ignorante, è colpevole. Trump tratta i fatti come se fossero merce da mercato: accettabili quando tornano comodi, rifiutati quando disturbano i suoi affari. Questo non è governo, è ciarlataneria. Negare il cambiamento climatico non ferma lo scioglimento dei ghiacci, come negare una malattia non guarisce un malato. La politica che finge di non vedere i dati condanna il proprio popolo a pagare il prezzo della menzogna. Io dico che un leader che calpesta la scienza non tradisce solo i suoi contemporanei: tradisce anche le generazioni future, perché lascia in eredità un mondo più fragile, più povero e più ingiusto.

– Quindi la negazione del cambiamento climatico le sembra un grave errore politico?
– Non è un errore: è un atto di irresponsabilità criminale. Perché negare l’evidenza non rallenta il riscaldamento globale, ma lo accelera. Un governante che finge che il problema non esista non solo inganna il suo popolo: lo espone consapevolmente a catastrofi che si potevano prevenire. E questo non è politica, è complicità con il disastro.

– Oggi un tema che divide molto l’opinione pubblica è quello dei vaccini. Alcuni li vedono come una conquista di civiltà, altri come una minaccia alla libertà personale. Lei da che parte starebbe?
– Dalla parte della ragione. La libertà individuale non è mai licenza di danneggiare gli altri. Io stesso mi sono battuto per la libertà politica e religiosa, ma non avrei mai confuso la libertà con il diritto di mettere in pericolo la comunità. Un vaccino protegge non solo chi lo riceve, ma chi gli sta accanto. Rifiutarlo senza motivo è come gettare scintille in una polveriera e chiamarlo “atto di coraggio”: non è coraggio, è incoscienza.

– E come si combatte la disinformazione che avvelena il dibattito pubblico?
– Con la stessa arma che usavo io: rendendo la verità semplice e utile. Io pubblicavo almanacchi pieni di proverbi e osservazioni quotidiane, perché sapevo che la gente non leggeva i trattati, ma capiva benissimo un consiglio chiaro. Oggi dovreste fare lo stesso: spiegare la scienza in modo diretto, farne vedere l’utilità concreta. Una bugia urlata può sedurre, ma una verità spiegata bene è inespugnabile. Chi continua a diffondere fake news non è un ribelle della verità: è un avvelenatore del pozzo comune.

– Una curiosità: se fosse vivo oggi, su cosa avrebbe lavorato?
– Avrei un laboratorio pieno di pannelli solari e aquiloni per misurare l’inquinamento atmosferico! Mi divertirei a trasformare il vento e il sole in energia pulita: perché solo un folle preferirebbe restare schiavo del carbone quando il cielo offre elettricità gratis.

– Sì, ma oggi oltre al sole e al vento abbiamo a disposizione anche il nucleare
– E allora usatelo con intelligenza. Non c’è nulla di “immorale” nell’atomo, immorale è sprecarne il potere o trasformarlo in arma. Io non ho mai avuto paura dell’elettricità: l’ho studiata, imbrigliata, resa utile. Con il nucleare dovreste fare lo stesso. Chi rifiuta l’atomo per pregiudizio è miope quanto chi lo idolatra come panacea. Se il vostro obiettivo è liberare il mondo dalla dipendenza dai combustibili fossili, non potete permettervi dogmi: ogni fonte sicura e sostenibile è un alleato. E ricordatevi che l’ignoranza uccide più di qualsiasi radiazione.

– Prima di salutarla, Dr. Franklin, una battuta finale per chi oggi lotta contro politiche antiscientifiche, magari con la sua ironia pungente.
Dite ai vostri contemporanei che gli ignoranti sono come aquiloni senza filo: volano un attimo, poi si perdono. Ma noi dobbiamo essere parafulmini: attrarre la verità e scaricarla sulla paura. Quanto a chi rifiuta i fatti, lasciatelo gridare al vento: cadrà da solo. Voi intanto costruite scuole, vaccini, energie pulite. Perché il futuro non lo fanno i ciarlatani: lo fanno i coraggiosi che hanno scelto di restare dalla parte della ragione.

E con un sorriso complice, Franklin solleva la penna e lascia un tratto di fulmine tra le righe: non un addio, ma un invito a custodire la scintilla della scienza, sempre.

E mentre il lampo si spegne sulla carta, capisco che la conoscenza non vive soltanto nei laboratori e negli strumenti, ma anche nei libri, nei versi, negli sguardi di chi cerca la verità nel cuore dell’uomo e nella natura. È lì che mi attende il mio prossimo viaggio…

Note Bibliografiche

B. Franklin (2022). Autobiography of Benjamin Franklin. Philadelphia

B. Franklin (1751). Experiments and Observations on Electricity. London: E. Cave

B. Franklin (1751). Observations Concerning the Increase of Mankind, Peopling of Countries, etc. Philadelphia

B.  Franklin (2023). Poor Richard’s Almanack. Philadelphia

 

 

Le interviste impossibili: incontriamo Michael Faraday

Lasciata Parigi, dove ho avuto l’onore di dialogare con Antoine Lavoisier, faccio rotta verso l’Inghilterra. È il 1831 — almeno, così mi piace pensare — e la bruma londinese avvolge i sobborghi di Newington Butts. Qui, in una piccola casa modesta, mi attende Michael Faraday: chimico, fisico, autodidatta, uomo dalla curiosità inesauribile. Dai suoi esperimenti nascono concetti e scoperte che hanno plasmato la chimico-fisica moderna: l’elettromagnetismo, le leggi dell’elettrolisi, l’introduzione di termini come “anodo” e “catodo”, e quell’inimitabile ciclo di lezioni che raccolse in The Chemical History of a Candle. Un uomo che, pur privo di studi matematici formali, ha saputo leggere nel linguaggio segreto della natura e tradurlo in esperimenti chiari e affascinanti.

— Buongiorno, Professor Faraday. Sono onorato che lei abbia voluto incontrarmi.
— Buongiorno a lei, e benvenuto a Londra. Sono lieto di parlare con chi mostra curiosità per la scienza, perché la curiosità è la fiamma che accende ogni scoperta.

— Professor Faraday, il suo nome è legato a scoperte epocali in campi diversi. Partiamo dall’elettrochimica: come nacquero le sue famose leggi dell’elettrolisi?
— Tutto è cominciato facendo esperimenti, con tanta pazienza e un po’ di ostinazione. L’elettrolisi, per dirla semplice, è quando si fa passare corrente elettrica in un liquido — come una soluzione salina — e agli elettrodi avvengono reazioni chimiche: si formano gas, si depositano metalli, o si liberano altre sostanze. Mi resi conto che la quantità di sostanza prodotta non era mai a caso: più elettricità facevo passare, più materia ottenevo. Questo è il cuore della mia prima legge. Poi, cambiando sostanza — oro, rame, idrogeno, ossigeno… — vidi che, se facevo passare sempre la stessa “dose” di elettricità, ottenevo quantità diverse di materiale, ma sempre in proporzione a un valore caratteristico di quella sostanza, il cosiddetto “peso equivalente”. In fondo, quelle regole erano già lì, scritte nella natura: io ho solo avuto la pazienza di osservarle e metterle nero su bianco.

— Questo è quanto hanno affermato, tra le righe, anche il Professor Boyle e Monsieur Lavoisier che, immagino, lei conosca.
— Eccome se li conosco! Boyle, con il suo modo rigoroso di sperimentare, ha aperto la strada a tutti noi: era convinto che le leggi della natura fossero lì da scoprire, non da inventare. E Lavoisier… be’, lui ha saputo dare un ordine e un linguaggio alla chimica. Ha dimostrato che nulla si crea e nulla si distrugge, e che il compito dello scienziato è trovare il filo che lega ogni trasformazione. Io ho solo continuato quel lavoro, seguendo il filo della corrente elettrica.

— Quindi, lei ha seguito le orme di monsieur Lavoisier, dimostrando in modo indipendente che aveva ragione.
— Direi piuttosto che ho camminato su un sentiero che lui aveva già tracciato, ma guardando dettagli che, ai suoi tempi, erano nascosti. Lavoisier aveva ragione nel dire che la materia si conserva e che le reazioni seguono leggi precise. Io ho potuto vedere quelle stesse leggi in azione nei processi elettrici, e mostrarne il funzionamento quantitativo. In un certo senso, la mia elettrochimica è stata la prova sperimentale di un’idea che lui aveva reso universale.

— E come ha detto monsieur Lavoisier, la scienza è un gioco corale…
— …esattamente. Non c’è un singolo musicista che possa suonare tutta la sinfonia da solo. Ognuno aggiunge una nota, un tema, un’armonia. Boyle ha messo le fondamenta del metodo sperimentale, Lavoisier ha dato ordine e linguaggio alla chimica, e io ho avuto la fortuna di inserirvi l’elettricità come nuova voce. La scienza avanza così: un’idea ispira un’altra, un esperimento ne provoca cento nuovi. È un lavoro che attraversa generazioni, senza gelosie — o almeno, così dovrebbe essere.

— E in questo coro, lei ha introdotto un tema che ha cambiato per sempre la fisica: l’induzione elettromagnetica.
— Fu una delle mie scoperte più care. E nacque da una domanda molto semplice: se una corrente elettrica può generare un campo magnetico, come aveva mostrato Oersted, non sarà possibile anche il contrario? Mi misi al banco di lavoro con fili di rame, bobine, magneti e molta pazienza. Scoprii che muovendo un magnete vicino a un circuito, o variando il campo magnetico che lo attraversa, in quel circuito compare una corrente. Una corrente “indotta”. Non serviva contatto diretto: il cambiamento del campo era sufficiente.

— Un principio che oggi è alla base dei generatori e dei trasformatori elettrici…
— All’epoca non pensavo certo alle centrali elettriche: vedevo solo un nuovo modo in cui natura e movimento dialogano. Ma la bellezza della scienza è che ciò che nasce da curiosità pura, un giorno, può cambiare il mondo.

— Questa è l’idea della ricerca di base, un tipo di ricerca che, come avrà sicuramente saputo, oggi viene ritenuta inutile. Oggi, nella stesura dei progetti per ottenere finanziamenti, occorre anche descrivere i risultati attesi e le possibili applicazioni…
— Ah, capisco. Ma vede, la ricerca di base è come seminare in un terreno fertile: non si può sempre sapere in anticipo quale frutto crescerà, né quando. Se nel 1831 mi avessero chiesto quali applicazioni pratiche avrei tratto dall’induzione elettromagnetica, avrei potuto solo dire: “Ancora non lo so, ma è un fenomeno reale e va compreso”. Eppure, da quella curiosità oggi nascono la produzione e la distribuzione dell’elettricità. La scienza che cerca soltanto risultati immediati rischia di accontentarsi di frutti già noti, rinunciando a scoprire nuove specie di alberi.

— Bellissimo ciò che ha detto… la scienza che cerca soltanto risultati immediati rischia di accontentarsi di frutti già noti, rinunciando a scoprire nuove specie di alberi.
— E glielo posso raccontare con un piccolo episodio personale. Quando iniziai a parlare dei miei esperimenti sull’elettricità, alcuni colleghi mi chiesero: “Ma a cosa serve tutto questo? Cosa produrrà di utile?” Io risposi semplicemente: “Non lo so ancora… ma quando lo scoprirò, sarà più utile di qualsiasi risposta affrettata”. Ridono ancora, quando lo racconto, perché nessuno allora poteva immaginare che quei giochi con fili e magneti un giorno avrebbero illuminato case, fabbriche e città intere. La curiosità pura è stata il mio unico motore. Non ho mai pensato che l’utilità pratica dovesse precedere la comprensione; credo fermamente che le leggi della natura si rivelino meglio a chi le osserva con meraviglia e senza fretta.

— È davvero straordinario come la curiosità pura abbia portato a scoperte così rivoluzionarie… eppure, lei non si è fermato all’elettricità: ha anche esplorato la luce.
— Sì, e anche qui è stata la stessa curiosità a guidarmi. Nel 1845, mentre studiavo l’influenza dei campi magnetici sulla materia, mi venne in mente di verificare se la luce potesse essere influenzata da un campo magnetico. Preparai un esperimento semplice: un raggio di luce che passava attraverso una sostanza trasparente immersa in un campo magnetico. Con grande stupore, notai che il piano di polarizzazione della luce ruotava leggermente.

— Questo è ciò che oggi chiamiamo effetto Faraday
— È il primo esempio noto di interazione tra luce e magnetismo, e dimostrò che la luce e il magnetismo non sono fenomeni separati, ma legati da un principio comune. All’epoca non conoscevo l’equazione di Maxwell — che sarebbe arrivata solo qualche decennio dopo — ma intuivo che elettricità, magnetismo e luce fossero fili di uno stesso tessuto. Il mio compito era solo tirare uno di quei fili per vedere come vibrava l’intero intreccio.

— Professor Faraday, lei ha dimostrato di saper fare scoperte enormi senza una formazione matematica formale. Come ci è riuscito?
— Non ho mai considerato la matematica un ostacolo insormontabile, ma uno strumento che, se necessario, avrei potuto imparare. La mia forza era nel laboratorio, nell’osservazione meticolosa, nell’immaginare esperimenti semplici che potessero dare risposte chiare. Credevo — e credo ancora — che il pensiero sperimentale sia universale: se la natura ti mostra un fenomeno, puoi comprenderlo anche senza formule complesse, purché tu abbia pazienza, rigore e umiltà.

— A proposito di umiltà, lei ha spesso rifiutato titoli e onori…
— Sì, perché il vero riconoscimento per uno scienziato non è una medaglia, ma vedere che le sue scoperte entrano a far parte della vita di tutti. Ho sempre pensato che la scienza debba restare al servizio dell’uomo, non dell’ego dello scienziato.

— …che non è esattamente quello che accade oggi, quando molti di noi — me compreso — provano un certo piacere a stare sotto i riflettori. E glielo confesso: quando lo dico ai colleghi, vengo anche preso per pazzo.
— Forse perché oggi la visibilità non porta solo applausi, ma anche finanziamenti. E questi, lo so bene, possono arrivare da ogni direzione, compresa quella di chi vende illusioni ben confezionate: omeopatia, biodinamica e altre amenità. Ai miei tempi, la fama non apriva così facilmente le casse di mecenati o aziende; e comunque, il rischio di piegare la scienza a interessi di parte era sempre in agguato. Il punto è ricordare che il palcoscenico passa, mentre la verità scientifica resta — e che oggi, troppo spesso, la dignità e l’autorevolezza scientifica vengono barattate per un piatto di lenticchie.

— Professor Faraday, molti la ricordano anche per le sue celebri Christmas Lectures alla Royal Institution. Come nacque l’idea de La storia chimica di una candela?
— Ogni anno, a Natale, tenevo delle lezioni per i ragazzi. Volevo offrire loro un’esperienza che fosse insieme semplice e affascinante. Scelsi la candela perché è un oggetto comune, familiare a tutti, ma dietro la sua fiamma si nasconde un mondo di fenomeni fisici e chimici.

— Qual era il suo obiettivo nel parlare di una cosa così quotidiana?
— Dimostrare che la scienza non è confinata nei laboratori: è dappertutto. Una candela, accendendosi, mette in scena combustione, convezione, cambiamenti di stato, reazioni chimiche complesse. Volevo che i giovani capissero che anche un gesto banale può essere una porta verso grandi scoperte.

— Qual è il primo segreto che una candela rivela?
— Che la fiamma non è materia, ma energia in azione. La cera, riscaldata, diventa liquida, poi gassosa; il gas brucia liberando calore e luce. È un ciclo continuo di trasformazioni: solido, liquido, gas, e di nuovo energia.

— Lei parlava spesso di osservare prima di spiegare. Come lo applicò in queste lezioni?
Invitavo i ragazzi a guardare: il colore della fiamma, il fumo che si sprigiona quando si spegne la candela, la forma della goccia di cera che si scioglie. Solo dopo passavamo a spiegare il perché di ciò che avevano visto. La curiosità nasce dall’osservazione diretta.

— In fondo, è un po’ la stessa filosofia della sua ricerca…
Sia che studi l’elettromagnetismo, sia che guardi una candela, l’approccio è lo stesso: osservare con attenzione, porre domande, non dare nulla per scontato.

— Cosa pensa che La chimica di una candela possa insegnare ancora oggi?
— Che la scienza è nelle mani di chi sa guardare. Non importa se il laboratorio è una stanza piena di strumenti o il tavolo di cucina: ciò che conta è la capacità di meravigliarsi e di cercare risposte.

— Sa che queste sue parole potrebbero essere usate oggi, nella mia epoca, da complottisti di ogni risma? Gente che si riempie la bocca di “pensiero indipendente”, “Galilei era uno contro tutti” e così via cantando…
— Oh, conosco bene il rischio. Ma vede, c’è una differenza sostanziale: il vero pensiero indipendente nasce dallo studio rigoroso e dall’osservazione onesta della realtà; quello dei complottisti nasce spesso dal rifiuto pregiudiziale delle prove. Galilei non era “uno contro tutti” perché amava contraddire: era uno che portava dati, misure, esperimenti ripetibili. Se oggi qualcuno brandisce il suo nome per giustificare opinioni infondate, sta confondendo la curiosità con l’arroganza e il metodo scientifico con la chiacchiera da taverna. E guardi che lo stesso vale per una candela. Posso raccontare che la fiamma è alimentata da minuscole fate luminose che ballano nell’aria: suona poetico, e qualcuno potrebbe pure crederci. Ma basta un semplice esperimento per dimostrare che la luce e il calore vengono dalla combustione di vapori di cera. La scienza non è negare la fantasia — è verificarla.

— Professor Faraday, se dovesse riassumere in poche parole il senso del suo lavoro, cosa direbbe?
— Direi che ho passato la vita a inseguire scintille: alcune erano letterali, altre metaforiche. Ma ogni scintilla, se seguita con attenzione, può accendere una fiamma di conoscenza.

Mentre lascio la sua casa, il cielo di Londra è ancora avvolto nella bruma, ma nella mia mente resta accesa una piccola luce: quella di una candela che, sotto lo sguardo paziente di Michael Faraday, si trasforma da semplice oggetto quotidiano in una lezione eterna di curiosità, rigore e meraviglia.

Mi avvio verso il prossimo appuntamento impossibile. Lì, tra fili di rame e campi invisibili, scopriremo che la scienza può unire fenomeni che sembravano mondi separati, guidata dalla stessa curiosità che accende una fiamma e illumina una mente.

Note Bibliografiche

W.H. Brock (2016) The History of Chemistry. A Very Short Introduction. Oxford University Press

L.  Cerruti (2019) Bella e potente. La chimica dagli inizi del Novecento ai giorni nostri. Editori Riuniti

Michael Faraday (1845) Experimental Researches in Electricity. Philosophical Transactions of the Royal Society

Michael Faraday (1866) Storia Chimica di una candela. Editori della Biblioteca Utile

T.H. Levere (2001) Transforming Matter. A History of Chemistry from Alchemy to the Buckyball. Johns Hopkins University Press

Maggio, R. Zingales (2023) Appunti di un Corso di Storia della Chimica.Edises

Le interviste impossibili: incontriamo Robert Boyle

Come i miei quattro lettori sanno, sono un appassionato di chimica. Ne ho fatto la mia professione, unendo la passione per la ricerca – il mio giocattolo preferito, con cui smonto la realtà, ne indago i segreti e poi la rimonto – a quella per la didattica che, nel tempo, mi ha rivelato un lato inatteso: la voglia di rendere “digeribili” agli studenti concetti chimici anche molto complessi.

C’è poi un’altra passione: la storia della chimica. Sono convinto che solo conoscendo ciò che è accaduto in passato si possa capire come e perché una disciplina si sia sviluppata in una direzione piuttosto che in un’altra.

Da queste premesse nasce questa rubrica dal titolo: Le interviste impossibili. Si tratta una serie di incontri – ovviamente immaginari – con grandi scienziati del passato, principalmente chimici, con i quali intavolerò discussioni che potranno spaziare dalla scienza alla politica, dall’etica ad altre questioni che il dialogo potrà far emergere. Saranno conversazioni interamente frutto della mia immaginazione, ispirate alla filosofia scientifica e al pensiero della persona intervistata.

E per cominciare, chi meglio di Robert Boyle? Un uomo che, nel 1661, con Il chimico scettico, ha segnato la nascita della chimica moderna, abbandonando le nebbie dell’alchimia per abbracciare la luce della sperimentazione. Sarà lui il primo ospite di questa serie, e vi assicuro che, nonostante i suoi 400 anni portati con una certa eleganza, ha ancora parecchie cose da dire.

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Buongiorno, professor Boyle.
— Buongiorno a lei, signore. Mi perdoni se non mi alzo: questa pompa pneumatica è un po’ capricciosa e non vorrei perdere il vuoto proprio adesso.
— Vedo che la tratta con grande cura.
— Cura? Direi venerazione. È stata la mia chiave per scardinare vecchie idee. Con essa ho mostrato che l’aria non è un concetto filosofico, ma una sostanza reale, con peso, volume, pressione. Ai miei tempi, molti pensavano che la natura fosse governata da qualità misteriose, imponderabili. Io ho voluto misurare, pesare, verificare.

— E questo cambiò la chimica?
— Cambiò il modo di guardare alla materia. Prima si parlava di “aria”, “fuoco”, “acqua” e “terra” come entità quasi mistiche. Io ho voluto trattarle come sostanze concrete. Senza questa svolta, dubito che la chimica avrebbe potuto diventare lo strumento potente – e pericoloso – che è oggi.

— Pericoloso?
— Oh, sì. Ai miei tempi, il pericolo era limitato dal ritmo lento della ricerca: poche persone, pochi strumenti, pochi esperimenti. Oggi vedo una velocità inaudita: sintetizzate composti che non esistono in natura e li disperdete nell’ambiente prima ancora di comprenderne a fondo le conseguenze. Pensate alla plastica: una meraviglia della chimica moderna, ma anche un nuovo sistema chimico, onnipresente nei mari e nei corpi degli animali. Noi scienziati dobbiamo ricordare che ogni “creazione” lascia un’impronta.

— Quindi anche nel XVII secolo si poteva parlare di impatto ambientale?
— Certo, ma in forme diverse. I metallurgi avvelenavano i fiumi con le scorie, nelle città si bruciava carbone liberando fumi tossici. Noi non usavamo la parola “inquinamento”, ma ne sentivamo gli effetti: miniere abbandonate, aria irrespirabile nelle botteghe, malattie croniche tra i lavoratori. Solo che nessuno collegava questi effetti alle cause chimiche: mancava il concetto stesso di “responsabilità scientifica verso l’ambiente”.
— E come ci si è arrivati?
— È stato un percorso lento, nato dall’osservazione e dall’accumulo di prove. Con l’Ottocento e la rivoluzione industriale, l’aumento di fumi e scorie divenne innegabile; nel Novecento, con la chimica capace di produrre composti mai visti in natura, si cominciò a capire che ogni reazione ha conseguenze non solo in laboratorio, ma anche nei fiumi, nei campi e nei corpi. Gli esempi non mancano: le piogge acide dovute alle emissioni industriali, il DDT che si accumulava nelle catene alimentari, il buco nello strato di ozono causato dai clorofluorocarburi. Fu allora che l’umanità iniziò a capire che l’ambiente non era un contenitore infinito, ma un sistema delicato, capace di spezzarsi sotto il peso delle nostre stesse invenzioni. Oggi chiamate questo approccio “valutazione dell’impatto ambientale”: è la naturale estensione del metodo scientifico. Osservare, misurare e trarre conclusioni, ma applicato non solo all’esperimento, bensì alle sue conseguenze sul mondo reale. E, cosa ancora più importante, farlo prima di introdurre su larga scala una nuova sostanza o tecnologia. Tanto che in molti Paesi questo esame preventivo è diventato un obbligo di legge: un modo per ricordare che la prudenza non è un freno al progresso, ma la sua assicurazione.

— Come vede il rapporto tra scienza e politica oggi?
— Non troppo diverso da allora: la politica ama la scienza quando porta vantaggi immediati, ma la ignora – o la ostacola – quando chiede pazienza e prudenza. Ai miei tempi, un re o un mecenate finanziava un esperimento se prometteva ricchezza o prestigio; oggi, un governo o un’azienda lo finanziano se promette profitto o consenso. La differenza è che oggi gli effetti sono globali, non locali.

— E anche la scienza stessa è cambiata.
— Oh, sì. Mi avete parlato di questa massima: publish or perish, pubblica o scompari. Ai miei tempi pubblicare era un atto ponderato, spesso il lavoro di una vita. Ora vedo un’esplosione di articoli, ma molti sono come bolle di sapone: luccicanti per un attimo, poi svaniscono. Alcuni dicono poco o niente, altri celano errori gravi, e vi sono perfino casi di falsità intenzionali. Mi avete raccontato di un certo Jan Hendrik Schön, che riempì riviste prestigiose di risultati entusiasmanti sui transistor molecolari… peccato che fossero artefatti. Grafici identici per esperimenti diversi, dati “cancellati” per mancanza di spazio…
— E la comunità scientifica?
— Ha fatto ciò che doveva: ha verificato, smascherato e ritirato quegli studi. Ma il danno d’immagine resta: basta un imbroglione per far credere a molti che tutta la scienza sia marcia.

— E non è solo un problema di chi scrive articoli. Anche chi siede nei comitati scientifici ha responsabilità enormi.
— Certamente. Mettere in un comitato tecnico persone che rifiutano le basi stesse della disciplina che dovrebbero consigliare è come nominare un astrologo direttore di un osservatorio astronomico, o un alchimista a capo di un laboratorio chimico. Ai miei tempi, la Royal Society aveva un motto: Nullius in verba, “non fidarti della parola di nessuno”. Oggi dovreste aggiungere: “ma fidati dei dati”.
— E invece?
— Invece vedo che talvolta si preferisce dare spazio a voci che piacciono al pubblico, o che creano polemica, piuttosto che a quelle fondate sulla prova. È un cortocircuito pericoloso: si confonde il dibattito scientifico, che nasce dall’evidenza, con l’opinione personale, che nasce dal pregiudizio.

— Torniamo un attimo al suo Chimico scettico: il suo invito era a dubitare, a verificare.
— Sì. Lo scetticismo è la virtù cardinale dello scienziato. Senza di esso, si scivola nell’illusione. Oggi, a quanto vedo, convivono scoperte straordinarie e credenze assurde: si creano vaccini in pochi mesi e allo stesso tempo si vendono boccette di acqua “miracolosa” che pretendono di curare tutto.
— Omeopatia.
— Già. La chiamerei “chimica dell’assenza”: meno sostanza c’è, più miracoli si promettono. È un concetto che mi lascia perplesso: ho passato la vita a misurare e qui si celebra ciò che non si può misurare.

— Se potesse dare un consiglio agli scienziati di oggi?
— Non dimenticate che ogni molecola che “create” entrerà in qualche ciclo della natura. E ricordatevi che la scienza non è una collezione di verità scolpite nella pietra, ma un cantiere aperto, dove ogni scoperta deve essere messa alla prova, anche – e soprattutto – quando sembra troppo bella per essere vera.

— Ultima domanda, professore: se le offrissi un bicchiere di acqua “omeopatica” per la salute?
— (Sorride) Lo accetterei… ma solo se avessi sete.

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Saluto il professor Boyle e mi avvio verso il prossimo appuntamento impossibile. Il mio interlocutore, ghigliottinato nel 1794, aveva una convinzione incrollabile: nulla si crea, nulla si distrugge. Ma, come scopriremo presto, non tutto si conserva…

Note Bibliografiche

R. Boyle (ed. 2013) The skeptical chymist. Dover Publications

W.H. Brock (2016) The History of Chemistry. A Very Short Introduction. Oxford University Press

L. Cerruti (2019) Bella e potente. La chimica dagli inizi del Novecento ai giorni nostri. Editori Riuniti

T.H. Levere (2001) Transforming Matter. A History of Chemistry from Alchemy to the Buckyball. Johns Hopkins University Press

A. Maggio, R. Zingales (2023) Appunti di un Corso di Storia della Chimica. Edises

 

Nomine e cortocircuiti: quando l’antiscienza entra nei comitati scientifici

È di queste ore la notizia che il ministro della salute, Orazio Schillaci, ha nominato nel Gruppo Tecnico Consultivo Nazionale sulle Vaccinazioni (NITAG) due tecnici, Paolo Bellavite ed Eugenio Serravalle, dalle posizioni, in più occasioni espresse pubblicamente, in contrasto con quanto riportato nella letteratura scientifica più accreditata (quest’ultima può essere rappresentata dagli articoli riportati qui, qui, qui e qui).

Che cos’è il NITAG?

Dal sito del Ministero della Salute apprendiamo che: Il NITAG è un Organo indipendente col compito di supportare, dietro specifica richiesta e su problematiche specifiche, il Ministero della Salute nella formulazione di raccomandazioni “evidence-based” sulle questioni relative alle vaccinazioni e alle politiche vaccinali, raccogliendo, analizzando e valutando prove scientifiche.

In altre parole, si tratta di un comitato scientifico che, sulla base di prove scientifiche inoppugnabili, consente al Ministero della Salute e, quindi, al Governo di prendere decisioni importantissime in merito a problematiche relative alla salute pubblica.

Chi è Paolo Bellavite

Bellavite è un medico che fino a qualche anno fa ha ricoperto il ruolo di Professore Associato in Patologia Generale presso l’Università di Verona. Le sue posizioni in merito ai vaccini sono riportate sia in interviste che nei libri che ha scritto e pubblicato. In particolare, egli dice di non essere contrario ai vaccini in quanto tali, ma critica duramente quella che definisce una “ideologia vaccinista”. A suo avviso, la narrazione dominante che presenta i vaccini come soluzione unica e infallibile si configura come un dogma che soffoca il dibattito scientifico e il pensiero critico. “Non ha nulla a che fare con la scienza”, ha affermato in un’intervista, parlando di un clima in cui “l’odio vaccinale è la tomba della medicina”.

Autore del libro “Vaccini sì, obblighi no”, Bellavite contesta soprattutto l’obbligatorietà della vaccinazione, sostenendo che il consenso informato debba restare alla base di ogni trattamento sanitario. Il professore ha anche espresso dubbi sull’efficacia a lungo termine dei vaccini anti-Covid e sulla loro capacità di limitare la diffusione del virus, ricordando che “i vaccinati possono infettarsi e trasmettere il virus, a volte anche più dei non vaccinati”.

Dal punto di vista immunologico, Bellavite mette in guardia contro le possibili conseguenze di una stimolazione eccessiva del sistema immunitario attraverso dosi ripetute. E sull’aspetto etico sottolinea: “Siamo ancora nella fase sperimentale. Ha ragione chi ha paura”.

Naturalmente, egli è anche un forte sostenitore della pratica omeopatica. Infatti, Paolo Bellavite sostiene che l’omeopatia non sia una moda passeggera, ma l’espressione di un profondo cambiamento culturale e scientifico che mette in discussione i limiti dell’attuale paradigma medico meccanicistico e molecolare. Questo approccio tradizionale, pur avendo ottenuto importanti risultati, non ha saputo affrontare efficacemente la complessità biologica e clinica, spesso riducendo la medicina a una frammentazione iperspecialistica. L’omeopatia, al contrario, propone una visione sistemica del paziente, centrata sull’individualità, sulla totalità dei sintomi e sulla stimolazione dei processi endogeni di guarigione, concetti che si allineano con la scienza della complessità. Bellavite rivendica per l’omeopatia una dignità scientifica, sostenendo che essa possa essere studiata con metodi sperimentali avanzati e integrata razionalmente nella medicina moderna. Si oppone con forza a ciò che definisce una campagna denigratoria nei confronti dell’omeopatia da parte dei media e di alcuni esponenti del mondo accademico, accusandoli di diffondere affermazioni false senza consentire un contraddittorio serio e competente. Pur riconoscendo il valore di farmaci convenzionali e vaccini in determinate circostanze, Bellavite li considera soluzioni alternative da adottare solo dopo aver tentato approcci più naturali e fisiologici, come omeopatia, fitoterapia, agopuntura, corretta alimentazione e igiene. In questa visione, l’omeopatia non è solo una medicina possibile, ma una medicina vera e prioritaria, da contrapporre a un uso troppo disinvolto e sintomatico della farmacologia convenzionale.

Chi è Eugenio Serravalle

Serravalle è laureato in Medicina e Chirurgia e specializzato in Pediatria Preventiva, Puericultura e Patologia Neonatale. Egli ha più volte preso posizione contro la vaccinazione di massa dei bambini, soprattutto in relazione al Covid-19. Secondo lui, l’infezione da SARS-CoV-2 non rappresenta un’emergenza sanitaria tra i più piccoli e i potenziali rischi della vaccinazione superano i benefici. “Tutti gli studi scientifici affermano che non vi è alcuna emergenza Covid tra i bambini”, ha dichiarato in un’intervista.

Serravalle contesta anche l’efficacia dei vaccini nel prevenire il contagio, soprattutto con l’avvento delle varianti come Omicron. Secondo la sua analisi, in alcuni casi i vaccinati si infettano più dei non vaccinati e l’immunità acquisita naturalmente sarebbe più duratura. Per questo, a suo dire, non sussistono i presupposti per raggiungere l’immunità di gregge né per giustificare obblighi o pressioni vaccinali.

Oltre ad essere un medico, Eugenio Serravalle risulta diplomato in Omeopatia Classica presso la Scuola Omeopatica di Livorno e svolge attività didattica come professore presso l’Accademia di Omeopatia Classica Hahnemanniana di Firenze.

Come Bellavite, quindi, anche Serravalle è un forte sostenitore dell’omeopatia.

In un articolo intitolato “Il Dr. Eugenio Serravalle risponde a Maurizio Crozza sull’Omeopatia”, Serravalle replica alle battute ironiche del comico Crozza sostenendo con fermezza l’efficacia e la correttezza della pratica omeopatica. Scrive:

“Abbiamo una regolare laurea in medicina… e se abbiamo adottato la terapia omeopatica è perché, evidentemente, ne abbiamo sperimentato l’efficacia.”

“Non si può essere venditori di fumo quando si curano pazienti… e tra questi pazienti sono numerosi i bambini e gli animali che non sono influenzabili dall’effetto placebo.”

Con questa risposta, Serravalle rigetta la critica secondo cui l’omeopatia sarebbe solo “fumo” o priva di efficacia, affermando invece di aver osservato personalmente risultati tangibili, anche in soggetti difficilmente influenzabili da placebo.

Quando i conti non tornano

A leggere le dichiarazioni dei due nominati, si potrebbe pensare di essere davanti a voci “fuori dal coro” che invitano alla cautela. Ma basta andare oltre la superficie per capire che non si tratta di sano scetticismo scientifico: siamo, piuttosto, di fronte a posizioni che, alla luce delle evidenze scientifiche disponibili, risultano in contrasto con il consenso della comunità scientifica. Ed è qui che inizia il vero problema.

Il punto centrale è che un organismo tecnico chiamato a esprimere pareri qualificati in materia di salute pubblica deve basarsi su conoscenze aggiornate e scientificamente inoppugnabili. Non può diventare il ricettacolo di discussioni inutili fatte in nome di una presunta “pluralità di opinioni”. Il concetto di democrazia politica è completamente diverso  – e molto lontano – da quello di democrazia scientifica. In una democrazia politica è legittimo avere opinioni diverse su come affrontare un problema di gestione della res publica. In ambito tecnico-scientifico, invece, un’opinione non qualificata non ha lo stesso peso di quella di chi possiede competenze specifiche e fondate sull’evidenza.

Ecco perché, per esempio, ci fu la levata di scudi del mondo accademico agrario quando si paventò l’ingresso di esponenti della biodinamica in tavoli tecnici per l’assegnazione di fondi all’agricoltura.

A mio avviso, il Ministro ha preso decisioni discutibili, in nome di una pluralità di opinioni che, in ambito scientifico, non ha alcun senso. Sta ora tentando di mettere delle pezze a questa scelta, dimenticando che anche lui è un medico e ha responsabilità che vanno ben oltre la sua funzione politica.

Se mai un responsabile istituzionale si trovasse nella condizione di dover cedere a compromessi, la scelta più coerente con la difesa della scienza sarebbe quella di rassegnare le dimissioni. Servirebbe, come nel caso della biodinamica, una sollevazione compatta del mondo scientifico e medico. Nel frattempo, nel mio piccolo, continuo a far sentire la mia voce e auspico che tutti gli organismi professionali – dagli ordini alle società scientifiche – facciano sentire la loro, in difesa della medicina basata sulle prove e della salute pubblica.

Il cortocircuito dell’antiscienza

Le posizioni di Paolo Bellavite ed Eugenio Serravalle non sono semplicemente “opinioni alternative” in un dibattito tra pari. Non si tratta di ricercatori che presentano dati nuovi, pronti a essere vagliati e discussi dalla comunità scientifica: qui non c’è nessun dato nuovo. C’è, piuttosto, un riciclo di tesi contestate e smentite dalla letteratura scientifica, che riaffiorano come vecchie erbacce tra le crepe del discorso pubblico.

Con l’omeopatia il copione lo conosciamo bene: una pratica nata oltre due secoli fa, costruita su concetti come “similia similibus curentur” e “dinamizzazione”, mai dimostrati in modo riproducibile. Nei miei articoli – dalla presunta memoria dell’acqua (link) alle più recenti fantasie agronomiche (link) – ho mostrato come la letteratura scientifica di qualità non abbia mai trovato un effetto dell’omeopatia superiore al placebo. Chi la difende, spesso, non lo fa su basi sperimentali, ma su convinzioni personali, esperienze aneddotiche o richiami a un presunto “cambiamento di paradigma” che non trova riscontro in alcun dato.

Sul fronte dei vaccini, il meccanismo è simile: si selezionano singoli studi, si estrapolano dati fuori contesto, si enfatizzano le incertezze inevitabili di ogni processo scientifico per far passare l’idea che “non sappiamo abbastanza” o che “i rischi superano i benefici”. Nei miei pezzi – da antivaccinisti ed immunità di gregge a vaccini e corretta informazione scientifica – ho spiegato come l’evidenza accumulata su milioni di dosi mostri una riduzione netta di ospedalizzazioni e decessi.

Quando Bellavite parla di “fase sperimentale” per i vaccini anti-Covid, non sta facendo un’osservazione prudente: formula un’affermazione che non trova riscontro nei dati scientifici, perché quei vaccini hanno completato tutte le fasi di sperimentazione necessarie per l’autorizzazione. Quando Serravalle afferma che “i vaccinati si infettano più dei non vaccinati”, non menziona i dati che mostrano come, pur con una protezione dall’infezione che diminuisce nel tempo, la vaccinazione resti una barriera fondamentale contro le forme patologiche gravi e le loro complicanze.

La contraddizione diventa lampante quando entrambi propongono l’omeopatia come alternativa o complemento “prioritario” alla farmacologia. Il mandato del NITAG è basato sull’evidence-based medicine, e l’omeopatia non rientra in alcuna linea guida internazionale sul trattamento o la prevenzione di malattie infettive. È paragonabile, per incoerenza, a nominare un negazionista del cambiamento climatico in un comitato per la transizione ecologica: il risultato è solo quello di minare la credibilità dell’organo stesso.

Il problema, però, non è solo tecnico. È culturale. Dare spazio istituzionale a posizioni non supportate da dati scientifici significa legittimare un messaggio pericoloso: che le evidenze scientifiche siano opinioni e che la sanità pubblica possa essere guidata da convinzioni personali. È il cortocircuito dell’antiscienza: quando la politica apre la porta a teorie già confutate, la fiducia nelle istituzioni si sgretola e i cittadini restano più esposti a bufale e disinformazione. Come ho scritto altrove  – qui e qui – quando la pseudoscienza entra dalla porta principale, la salute pubblica rischia di uscire dalla finestra.

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