Di dubbi, incertezze ed altre amenità del genere

Come ho già avuto modo di scrivere qualche tempo fa, non aggiorno il blog con la frequenza di un tempo perché molti degli argomenti che oggi vanno di moda sono già stati commentati da me negli anni passati. Si pensi, per esempio, alla polemica «naturale=buono» di cui ho parlato qui e qui, oppure al periodico successo di cose come il Dr. Bestiale di cui ho già parlato qui, o, ancora, l’intolleranza al lattosio di cui ho scritto qui e qui, per non parlare, poi, dell’enorme numero di articoli che ho scritto in merito all’omeopatia (qui) o altre pseudo scienze come l’agricoltura biodinamica (qui). Capirete, quindi, che ritornare sempre sugli stessi argomenti, perché periodicamente di moda, è alquanto noioso. Mi annoio io a scriverne e annoio voi che, sulla base della vostra stima nei miei confronti, siete “costretti” a leggere sempre le stesse cose, magari scritte con parole diverse. Tuttavia, di tanto in tanto, ci sono degli argomenti che ancora mi colpiscono e che mi lasciano perplesso soprattutto quando a scriverne/parlarne sono persone che si dicono amanti della scienza.

Ma veniamo al punto.

I disapprove of what you say, but I will defend to the death your right to say it

Gli “amanti della scienza” molto spesso riportano nelle loro lettere, nei loro siti o ovunque sia possibile la famosa massima secondo cui «non condivido la tua opinione, ma sono pronto a combattere affinché tu possa esprimerla liberamente» attribuendola nientepopodimenoché a Voltaire. Queste persone, per lo più pseudo scienziati, usano questo aforisma per rimarcare la differenza del loro modo di pensare rispetto a quello degli scienziati che apparterrebbero, secondo loro, ad una casta di tipo sacerdotale chiusa e poco avvezza ai cambiamenti. Gli scienziati, in parole povere, sarebbero quelli che si opporrebbero allo sviluppo culturale di certe discipline (o addirittura del paese) chiudendosi a riccio nei confronti di idee innovative in grado di apportare benefici in ogni ambito dello scibile. 

Cominciamo con lo stabilire che da nessuna parte nell’opera di Voltaire è riportata la frase anzidetta. Questa fu scritta virgolettata in “The friends of Voltaire nel 1903 da Evelyn Beatrice Hall sotto lo pseudonimo di Stephen G. Tallentyre. Quindi, Voltaire, che ha scritto il famoso “Trattato sulla tolleranza”, non si è mai sognato di dire quelle cose riportate come sue. Lo stesso Sandro Pertini, in un suo discorso, cadde nell’equivoco di attribuire a Voltaire la massima su menzionata (qui). Purtroppo, usare in modo strumentale frasi ad effetto attribuendole a grandi menti per esaltarne la significatività è uno sport molto attuale. Ricordo che nel 1938 in Italia furono promulgate le leggi razziali. Se dovessimo prendere alla lettera ciò che viene indicato come l’aforisma massimo della libertà di espressione, dovremmo concludere che, seppure le leggi razziali furono quanto di più bieco una mente umana avesse potuto concepire, gli individui che le promulgarono avevano tutto il diritto di farlo e di seguire le condotte opportune per realizzarle. Ma ciò contraddice sia l’operato di Pertini che si è battuto, rischiando più volte la vita, contro il fascismo – corrente politica responsabile delle anzidette leggi  che i principi basilari di tutti i trattati in cui vengono stabiliti i diritti inalienabili degli individui intesi come persone umane. Da questa breve disamina, quindi, ne viene che la libertà è sacrosanta (peraltro è uno dei diritti inalienabili della persona umana) ma ha dei limiti entro cui essa può essere esercitata.

Adesso, però, come al mio solito, sto andando un po’ per la tangente.

Libertà di parola ed opinioni

Ritorniamo all’aspetto scientifico legato all’aforisma incorrettamente attribuito a Voltaire. Secondo gli pseudo scienziati, il diritto di parola e di opinione è sacrosanto. Ma io sono più che d’accordo. Il problema è che una cosa è il diritto di parola e opinione in ambito politico (sempre entro i limiti dettati dal rispetto per i diritti umani inalienabili), altro è il diritto di parola e opinione in ambito scientifico. Tradotto in parole molto più semplici: in ambito scientifico, una cosa è la libertà di parola, altro sono le parole in libertà.

Come ho avuto più volte il modo di evidenziare (per esempio qui), la Scienza (la S – in maiuscolo – non è casuale) è un complesso corpo di conoscenze che richiede lo sviluppo di competenze che si raggiungono con anni di studi e sacrifici. L’idea dello scienziato come il Don Chisciotte di turno che va per la propria strada all’inseguimento di una intuizione illuminante ma contraria al pensiero scientifico corrente è da film hollywoodiano. Avete mai visto un film – nato per l’intrattenimento – in cui si pone l’accento sul tempo passato da uno studioso a leggere e capire le cose invece che su scene di azione più o meno movimentate? Penso proprio di no. E volete sapere perché? Lo studio è noioso. A chi volete che interessi vedere uno che resta seduto al tavolo a sfogliare libri su libri per giorni interi solo per capire questa o quella formuletta? Il film deve intrattenere, deve tener legato l’utente/spettatore alla sedia ed attrarlo. Se l’utente/spettatore si annoia incomincia il passaparola negativo per cui altri utenti/spettatori non andranno a vedere il film con evidenti danni economici. Ed allora molto meglio inventarsi che Einstein era una “rapa” in matematica (non è assolutamente vero) e che, nonostante questo, sia stato in grado di vincere il premio Nobel; meglio inventarsi che Galileo Galilei ha combattuto contro il sistema imperante ed ha perso, invece che spiegare che l’eliocentrismo era già in voga e che Galilei è stato osteggiato dalla chiesa – quindi da una setta religiosa – che vedeva nelle sue “osservazioni” qualcosa che poteva scardinare il potere temporale del Papa.

L’intuizione scientifica

L’intuizione scientifica non nasce dal nulla. Nasce, piuttosto, dall’apprendimento continuo di cose già note che vengono “sviscerate” in tutti i modi possibili. Una volta individuati i limiti delle cose note (questo si fa attraverso gli esperimenti e la loro interpretazione) viene fuori l’intuizione geniale che consente l’avanzamento delle conoscenze. In questo senso amo ripetere che alla fine dell’Ottocento si riteneva che la fisica non avesse più nulla da dire. Tutto era già stato detto e scoperto da sir Isaac Newton. Ed invece, dal paradosso del corpo nero è nata quella che oggi è conosciuta come meccanica quantistica – che ha inglobato la meccanica classica (quella di Newton, per intenderci)  che ha consentito lo sviluppo di nuove tecnologie come la TAC (Tomografia Assiale Computerizzata), la NMR (Risonanza Magnetica Nucleare) fino ad arrivare ai computer quantistici. Del resto fu Bernardo di Chartres, intorno alla prima metà del 1100, a dire qualcosa del tipo “siamo seduti sulle spalle dei giganti” intendendo che la conoscenza – scientifica o meno, dico io – può essere intesa come un castello in continua crescita in cui è possibile individuare torri alte la cui stabilità è assicurata dalle fondamenta solide, costruite da chi ci ha preceduto, e torri basse e diroccate le cui fondamenta non hanno resistito all’azione del tempo. In altre parole, se oggi siamo in grado di controllare i movimenti di Curiosity (il rover che sta analizzando il suolo di Marte) lo dobbiamo a Newton, dalla cui fisica siamo in grado di calcolare l’energia necessaria per sfuggire alla forza gravitazionale terrestre, a Marconi, che ha scoperto la trasmissione dei segnali senza fili, a tutti quei chimici che hanno elaborato le tecniche analitiche in grado di campionare e analizzare i suoli etc. etc. etc.

Il dubbio

Un corollario interessante all’aforisma scorrettamente attribuito a Voltaire è che bisogna essere tolleranti, anzi aperti alla discussione, con chiunque avanzi dubbi – più che legittimi  su tutto quanto riguarda la scienza. Del resto, l’avanzamento delle conoscenze scientifiche non si basa sui dubbi? Il problema qui è capire cosa si intende per dubbio.

Quando sono in aula per i miei corsi mi trovo spessissimo in presenza di dubbi. A parte quelli personali legati all’efficienza della mia esposizione, i dubbi principali sono quelli dei miei studenti che possono non aver capito qualcosa che ho detto o che possono avere domande per correlare ciò che sanno a ciò che ho esposto. Si tratta, quindi, di dubbi – quelli degli studenti – che servono per chiarire concetti noti in modo tale da permetterne un immagazzinamento migliore così da poterli utilizzare nei momenti opportuni. Per quanto riguarda i miei dubbi, si tratta di domande che mi faccio prima, durante e dopo la lezione per capire quanto sono stato efficiente nell’esposizione. Non sempre lo sono perché dipende dai momenti umorali in cui mi trovo. Quando me ne rendo conto ripeto la lezione cercando di essere più chiaro. Quindi, nel caso del rapporto asimmetrico docente-studenti, i dubbi servono per crescere e migliorare. Io imparo dagli studenti a spiegare meglio, ovvero cerco di migliorare come docente, mentre gli studenti imparano da me cose che serviranno loro nelle future esperienze da professionisti.

Un discorso analogo vale se faccio una domanda al mio elettricista o al mio idraulico. In questo caso io faccio il discente, loro sono i docenti. 

Ma cosa succede se la tolleranza in merito alla libertà di espressione e di opinioni viene invocata da qualcuno che, non avendo competenze in quel campo, volesse obiettare, per esempio, che la Terra è piatta? Si tratta veramente di un dubbio? Ovviamente, no! Questo non è un dubbio. Questa è semplicemente ignoranza. La persona che volesse intavolare una discussione sulla geoidicità del nostro pianeta è solo uno/a che ci fa perdere tempo. Evidentemente ha saltato tutte le lezioni (dalle elementari alle superiori) in cui si è discusso e si sono portate prove in merito. Lo stesso è valido quando a evocare dubbi sulla validità ed efficacia dei vaccini è mamminapancina86. In realtà, nella mia vita mi è capitato che ad avere dubbi sui vaccini non fossero solo persone ignoranti (nel senso etimologico del termine), ma anche professionisti che hanno una cultura e una preparazione che li pone agli apici del loro campo. Ma di questo accennerò fra poche righe. In generale, si tratta di ignoranza pura e semplice, che pone queste persone al livello di studenti che devono ancora imparare e a cui è utile dare spiegazioni semplici, sempre che si rendano conto del rapporto di asimmetria tra loro e chi ha studiato e “perso tempo” per approfondire l’argomento su cui loro hanno espresso dubbi.

Il dubbio qualificato

Se possiamo prendere con ilarità i “dubbi” sulla Terra piatta, non possiamo fare altrettanto quando, invece, si parla di vaccini, di omeopatia, di agricoltura biodinamica, di negazione del riscaldamento climatico o della componente antropica legata al riscaldamento climatico. A maggior ragione quando ad avanzare tali “dubbi” non sono ciarlatani incolti, ma professionisti che hanno una formazione culturale adatta a discernere tra vero, verosimile e falso. In questo caso, come ho già scritto altrove (qui), si tratta di persone che per meri fini opportunistici – che siano economici o per esercitare un qualsiasi potere, poco importa  si comportano come quelli che prima fanno la curva e poi inseriscono i punti sperimentali. Sono persone inaffidabili. Con esse non è possibile intavolare alcuna discussione perché si arroccano su posizioni asimmetriche per cui i loro dubbi sono legittimi, mentre le prove fisiche portate da chi confuta le loro teorie astruse non sono valide. 

Da tutta questa digressione ne viene che a livello scientifico quando si parla di dubbio si intende sempre il cosiddetto “dubbio qualificato”. Si tratta di un dubbio che non coinvolge tutti i possibili interlocutori, ma solo coloro che hanno una formazione culturale in comune, ovvero hanno studiato, elaborato e compreso quanto attinente a un determinato argomento. È proprio questa comprensione che consente di fare domande nel merito per ottenere risposte in grado di dirimere problemi che da soli non sarebbe possibile fare.

Conclusioni

Cosa voglio concludere con questa lunga digressione? Solo che bisogna fare attenzione a quelle persone che usano la massima falsamente attribuita a Voltaire. Queste persone, lungi dall’essere “modeste” come vorrebbero apparire mediante l’uso dell’aforisma citato, sono, in realtà, dei narcisisti che hanno mal compreso i processi che vengono seguiti per lo sviluppo scientifico e ritengono sé stessi dei geni che, pur non avendo competenze specifiche in un particolare campo, ritengono di aver diritto di parola proprio in quel settore di cui conoscono molto poco – o addirittura niente – come se fossero dei grandi luminari. Ancora oggi, a distanza di oltre quarant’anni, è ancora valido quanto tenne a scrivere Asimov nella sua rubrica “My turn” il 21 gennaio del 1980 (qui): “my ignorance is just as good as your knowledge”.

Ringraziamenti

Con questa lunga disamina spero di non avervi annoiato troppo. Tuttavia, come talvolta accade, ci sono dei momenti in cui, dopo aver letto e/o sentito certe cose, mi rimane l’amaro in bocca e sento l’esigenza di condividere in questo blog i miei pensieri. Pertanto, ringrazio tutti voi, miei lettori, per la pazienza che avete avuto nel voler leggere queste elucubrazioni e ringrazio il Dr. Michele Totta per la sua pazienza nel revisionare questo articoletto. Il Dr Totta, peraltro, è un valente divulgatore che gestisce un canale YouTube “Senza logica mal si cogita” che invito a seguire (qui).

Fonte dell’immagine di copertina

 https://commons.wikimedia.org/wiki/File:2005_Mus%C3%A9e_Rodin_3.jpg

Incontri con persone straordinarie: Cristina Fazzi

Preludio.

È da un po’ di tempo che non scrivo articoli nel blog. Non c’è un motivo particolare se non quello relativo al fatto che penso che troppo presenzialismo sia nocivo: trovo molto più utile scrivere quando ho qualcosa di curioso ed interessante da raccontare come in questo caso. Ho deciso di aprire una nuova rubrica dedicata alle persone straordinarie che ho avuto la fortuna di incontrare nella mia vita.

Da dove parto? Da Cristina Fazzi.

Brevi note biografiche.

Molti di voi si chiederanno chi sia mai Cristina Fazzi. È un medico. Si è laureata in chirurgia a Catania e, dopo alcune esperienze nella sua Sicilia, ha deciso, per puro caso, di trasferirsi in Zambia dove aiuta come medico le popolazioni locali. Ha dato vita ad una ONG che si occupa, tra le tante cose, di trovare fondi e gestire progetti per costruire ospedali ed ambulatori nelle zone più o meno accessibili dello Zambia. Ha adottato un bambino (oggi giovane uomo) in Zambia e, grazie alla sua determinazione, è stata capace di aprire la strada – in realtà ancora impervia – alle adozioni dei single in Italia. Infatti, per circa tre anni ha portato avanti una battaglia per far riconoscere l’adozione del suo Joseph – del tutto regolare in Zambia – anche in Italia; e ci è riuscita. Ad oggi ha in affido altri sette bambini Zambiani che sta crescendo con grande amore.

Ma non è delle sue avventure di mamma single che voglio parlarvi. Né voglio illustrarvi le peripezie che si è trovata a vivere e che tuttora vive in Zambia per la realizzazione dei suoi progetti umanitari. Tutto questo lo potete leggere nella sua biografia dal titolo “Karìbu. Lo Zambia, una donna, una grande avventura” scritto a quattro mani con Lidia Tilotta (qui).

I miei ricordi.

Ho avuto modo di incontrare la dottoressa Fazzi in occasione della presentazione del suo libro al Policlinico di Palermo. Ho partecipato a quell’incontro spinto da un mio collega che, sentendomi parlare del biochar, oggetto, come ben sapete, della mia attività di ricerca, ha pensato che fosse utile una mia partecipazione alla presentazione del libro di Cristina Fazzi e Lidia Tilotta. Non avevo eccessive aspettative, in realtà. Pensavo che sarebbe stata la solita presentazione noiosa con gli autori che fanno la solita passerella per promuovere il solito libro dalla tiratura limitata destinato ad essere la solita meteora nel panorama della letteratura divulgativa del nostro paese. Ed invece…

Invece è stata un’illuminazione. Non appena la Dottoressa Fazzi ha cominciato a raccontare perché si è trasferita in Zambia mi sono venuti in mente i racconti di mio padre che negli anni Trenta del secolo scorso (sì, mio padre nacque nel 1922 e quest’anno, fosse stato ancora in vita, avrebbe compiuto 100 anni. Un’età ragguardevole. Ma, per un figlio, un genitore non ha mai un’età ragguardevole e dovrebbe essere immortale…ma questo non c’entra con quanto voglio scrivere) si trasferì assieme ad alcuni zii nell’Eritrea italiana in cerca di opportunità di lavoro. Lì fu fatto prigioniero dagli inglesi (come il nonno della dottoressa Fazzi) e, campo di concentramento dopo campo di concentramento, sopravvisse, prigioniero, fino al 1946, anno in cui fu liberato e, pesando una quarantina di chili scarsi, tornò in Italia. Nonostante le sue traversie, egli ha sempre raccontato del suo mal d’Africa e della nostalgia che quel continente gli provocava. Ovviamente, la storia di mio padre non c’entra nulla con la dottoressa Fazzi. Il punto è che la dottoressa, col suo incipit, mi ha portato alla mente tante cose e mi ha commosso. Mi ha commosso non solo perché ha fatto emergere dalla profondità dei miei ricordi cose che erano sedimentate e messe da parte perché, nonostante la mia età, non ho ancora superato la perdita di mio padre, ma anche perché mi ha illuminato e reso veramente chiaro il concetto di “aiutiamoli a casa loro”.

Aiutiamoli a casa loro. Parte I

Vi ricorda qualcosa questa locuzione? Ormai va di moda. E pur di “aiutarli a casa loro” raccogliamo qualsiasi cosa e, sotto forma di aiuti umanitari, mandiamo tutto nei paesi in via di sviluppo, convinti che quanto “racimoliamo” possa davvero essere utile. In realtà, questa è un’operazione che serve solo a noi stessi. Serve per lenire i sensi di colpa che ci attanagliano perché sappiamo benissimo che, per usare tutte le comodità di cui disponiamo, deprediamo le risorse naturali di paesi lontanissimi da noi rendendoli sempre più poveri.

Come ha raccontato la dottoressa Fazzi, a cosa mai potranno servire gli omogeneizzati nelle zone povere dei paesi africani, tra cui lo Zambia? Perché sto citando gli omogeneizzati? Perché uno dei racconti della dottoressa Fazzi ha riguardato il rifiuto da parte sua di un carico di aiuti umanitari fatto da omogeneizzati.

Gli omogeneizzati.

Sappiamo tutti che cosa sono gli omogeneizzati. Sappiamo benissimo che sono utilissimi per lo svezzamento dei bambini e per ottimizzare la loro crescita. Eppure, in Zambia – ma anche negli altri paesi poveri – questa tipologia di prodotti è inutile: in questi paesi non è possibile produrre omogeneizzati. Quindi, una volta consumati, le popolazioni locali non avrebbero più cibo utile per lo svezzamento dei bambini. Ed allora? Dovrebbero attendere altri aiuti ed altri ancora in un loop infinito che non farebbe altro che implementare la loro dipendenza dai paesi più ricchi dell’emisfero.

Aiutiamoli a casa loro. Parte II

“Aiutiamoli a casa loro”, quindi, significa rimboccarsi le maniche e andare lì, nei paesi poveri, per insegnare a quelle popolazioni a usare al meglio le risorse disponibili in loco. Esattamente come sta facendo la dottoressa che ha costruito non so più quanti pozzi e quanti ambulatori/cliniche/ospedali per “aiutare a casa loro” persone che vivono ai margini del mondo moderno. Meglio ancora se, accanto alle opere fisiche, si provvede anche all’educazione, cioè alla corretta divulgazione scientifica per convincere le popolazioni locali della inutilità delle superstizioni utili solo formalmente ma non sostanzialmente alla sopravvivenza in zone veramente impervie del globo.

Come ha sapientemente evidenziato la dottoressa Fazzi, se “riesco ad istruire 10 persone delle popolazioni locali sulla utilità dei vaccini nella prevenzione delle malattie, queste 10 persone a loro volta potranno convincere, ognuna, altre 10 persone e così via di seguito, fino ad arrivare a una situazione in cui la conoscenza potrà ricacciare indietro le credenze tribali e fornire le basi per il reale sviluppo del paese” (ho virgolettato le parole che, però, riportano i concetti espressi dalla dottoressa Fazzi).

Educare.

Alla luce di quanto espresso, l’educazione deve giocare un ruolo primario per “aiutare a casa loro” le persone che vivono in condizioni estreme. L’educazione, però – e questa è una mia considerazione personale che viene dall’aver conosciuto la dottoressa Fazzi – deve riguardare non solo le popolazioni locali, ma anche noi. Dobbiamo imparare che non è sgravandoci la coscienza dai sensi di colpa mediante l’invio di qualsiasi cosa nei paesi in via di sviluppo che possiamo risolvere i loro problemi. Dobbiamo imparare ad ascoltare le persone come la dottoressa Fazzi per capire quali sono le reali esigenze delle popolazioni locali e quali sono le loro risorse naturali. Sono queste ultime a dover essere messe al centro dell’attenzione per poter consentire un vero sviluppo culturale e “fisico” di popoli poveri quali quello dello Zambia.

E la ricerca scientifica?

E questo è il punto, adesso. Cosa facciamo noi in concreto per aiutare i paesi come lo Zambia? L’Agraria di Palermo ha cercato e cerca di operare nei paesi in via di sviluppo per “aiutare a casa loro” le popolazioni locali.

Agli inizi degli anni ’10 di questo secolo è stato sviluppato il  progetto Burundi (qui) grazie al quale la professionalità dei docenti dell’attuale Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Forestali è stata messa a disposizione per la realizzazione di opere concrete affinché le popolazioni locali potessero “crescere” da sole utilizzando le risorse locali.

Poco prima della pandemia del 2020, lo stesso Dipartimento ha realizzato una convenzione col vescovado di Mbulu in Tanzania per la realizzazione di un video divulgativo da diffondere tra le popolazioni del posto in modo da spiegare come risolvere i problemi più comuni legati alle tecniche agricole locali.

Io stesso faccio parte di un gruppo di ricerca internazionale che qualche anno fa ha condotto delle sperimentazioni in Nepal per valutare l’efficienza del biochar nell’aumentare la produzione agricola locale (qui). In particolare, abbiamo potuto verificare che il biochar (se volete sapere che cos’è basta cliccare qui) prodotto con residui vegetali locali (qui per sapere come si produce il biochar in zone in via di sviluppo) e funzionalizzato con urina di vacca, era in grado di incrementare di quattro volte la produzione di zucca.

Potremmo fare altro? Certo che sì. Potremmo fare molto di più che progetti estemporanei che si concretizzano con elaborati utili allo sviluppo di tesi di laurea o di pubblicazioni su riviste più o meno qualificate. Tuttavia, questo richiede non solo la volontà personale di ognuno di noi, ma anche una vera e propria coordinazione globale che coinvolga sia le autorità italiane che quelle dei paesi in via di sviluppo in modo da supportare le attività dei ricercatori ed evitare le esperienze negative molto ben descritte nel libro della dottoressa Fazzi.

Scienza e cultura

Ieri sera (il 26 Giugno 2021) ho partecipato ad un interessante evento culturale a Bassano del Grappa: La Milanesiana. Si tratta di un progetto itinerante che ha raggiunto il suo ventiduesimo anno di età. Ha come oggetto un tema differente per ogni anno. Quest’anno l’evento è stato dedicato al progresso.

Benché accattivante, il tema non viene spiegato molto bene. Nel programma, che si può trovare a questo link, è scritto:

Il tema di questa ventiduesima edizione, come quello degli ultimi anni, è stato scelto da Claudio Magris: il Progresso. Un tema già in sé denso di paradossi. Dopo quello che abbiamo vissuto possiamo ancora parlare di progresso? E possiamo farlo in modo univoco? Possiamo dire, forse, che ci sono tanti progressi, almeno quanti sono i passi indietro?

Belle parole. Ma cos’è il progresso?

Non voglio addentrarmi in una discussione sul significato di progresso. Ciò che, in realtà, mi ha colpito e mi ha lasciato con l’amaro in bocca è stata la distinzione tra progresso scientifico e progresso culturale introdotta nei primi minuti della presentazione dell’evento ideato da Elisabetta Sgarbi. Questa distinzione mi ha fatto riflettere e mi porta a riflettere “ad alta voce” su questo blog in cui, tra le tante cose, spesso condivido le mie perplessità.

Se una persona dallo spessore culturale di Elisabetta Sgarbi sente la necessità di parlare di progresso scientifico e progresso culturale, separando la scienza dalla cultura, vuol dire che l’influenza del pensiero di Gentile secondo cui “il sapere scientifico veniva relegato nella categoria dell’utilità e nello stesso tempo gli si negava il valore di conoscenza concettuale e soprattutto di cultura” è ancora viva e vegeta.

Eppure le prime pagine dei libri di filosofia del liceo sono occupate dal pensiero dei rappresentanti della scuola di Mileto: Talete, Anassimandro e Anassimene. Nella loro ricerca del principio delle cose (l’acqua per Talete, l’apeiron o l’indefinito per Anassimandro e l’aria per Anassimene), questi Maestri facevano uso di un primordiale metodo scientifico basato sull’osservazione e sull’induzione. In altre parole, partendo dalla constatazione di certi fatti osservati (per esempio, l’acqua necessaria alla vita per Talete, l’aria che permea ogni cosa per Anassimene, oppure un insieme di fattori che Anassimandro chiama “indefinito”) questi pensatori traevano conclusioni di carattere generale sull’origine della vita e delle cose che ci circondano. E cosa dire di Democrito che, basandosi sull’osservazione che un coltello può tagliare un oggetto in pezzi sempre più piccoli fino ad un punto oltre il quale non è più possibile proseguire, introdusse il concetto di a-tomo, ovvero di indivisibile? Se vogliamo, lo stesso Aristotele può essere considerato come un precursore del moderno scienziato. Pur con le limitazioni del suo tempo, nella sua Fisica, Aristotele aveva osservato che tutto ciò che ci circonda è generato dalla combinazione di aria, acqua, terra e fuoco a cui bisogna aggiungere l’etere indispensabile per la comprensione della natura dei corpi celesti. Arrivando ad epoche più recenti, non si può non ricordare Leonardo da Vinci conosciuto non solo per le sue doti artistiche, ma anche per quelle ingegneristiche e scientifiche, oppure Göthe, appassionato di chimica, che, nelle sue “Affinità elettive“, descrive in modo sublime il concetto di affinità chimica usato ancora oggi per spiegare la formazione dei legami chimici:

Bisogna vedere in azione davanti ai propri occhi queste sostanze all’apparenza inerti, e tuttavia intimamente sempre disposte, ed osservare con partecipazione il loro cercarsi, attirarsi, assorbirsi, distruggersi, divorarsi, consumarsi, e poi il loro riemergere dalla più intima congiunzione in forma mutata, nuova, inattesa: allora si che si deve attribuire loro un vivere eterno, anzi, addirittura intelletto e ragione, dal momento che i nostri sensi appaiono appena sufficienti ad osservarli e la nostra ragione a stento capace di interpretarli“.

Lo stesso Kant ha dedicato parte della sua opera al pensiero scientifico, così come Heisenberg , sì – proprio quello del principio di indeterminazione, ha usato la sua logica scientifica per dare un contributo alla filosofia. E cosa dire di Schöredinger che col suo “Che cos’è la vita?” ha influenzato generazioni di scienziati che, poi, hanno dato un contributo notevole allo sviluppo delle conoscenze umane (Monod, De Duve, etc)? Vogliamo parlare anche di Edward O. Wilson o di Stephen J. Gould che col loro lavoro hanno consentito di capire in che modo si sviluppano le società di esseri viventi?

Tutto questo semplicemente per dire che quello che noi identifichiamo come pensiero scientifico è in tutto e per tutto pensiero umano e, in misura più o meno variabile, contribuisce allo sviluppo culturale della comunità di cui facciamo parte. In questo senso, per cultura non intendo la conoscenza della storia, della filosofia, della letteratura o, più genericamente, l’insieme delle conoscenze puramente concettuali “sensu Gentile“, ma l’intero spettro di conoscenze che acquisiamo durante la nostra vita e trasmettiamo alle generazioni future.  Che il pensiero scientifico consenta anche di produrre tecnologia e di  risolvere problemi di natura tecnica è solo un dettaglio che è insito nella natura stessa di tale pensiero.

Fonte dell’immagine di copertina

Il formaggio non ha più segreti

Il titolo di questo articoletto è un po’ eccessivo, ma non l’ho scelto io. Si tratta del titolo apparso sulla rivista “Formaggi e Consumi” per una intervista all’Ing. Gianni Ferrante della Stelar che parla degli ultimi sviluppi della rilassometria NMR a ciclo di campo per le analisi dei prodotti lattiero-caseari. Si tratta di un progetto ambizioso in cui è coinvolta anche l’Università degli Studi di Palermo nelle figure dei Professori Paolo Lo Meo, Delia Chillura-Martino del Dipartimento STEBICEF, del Prof. Luciano Cinquanta e me del Dipartimento SAAF. L’articolo lo trovate a questo link, oppure cliccando sull’immagine qui sotto.

Fonte dell’immagine di copertina

A tu per tu con l’esperto: parliamo di droghe

Qualche tempo fa sono stato intervistato in merito alle droghe. Ecco un estratto.

[] Ci spieghi cosa sono le droghe?

Il termine ha un’origine controversa. In un dizionario etimologico dell’inizio del ‘900 e che oggi è disponibile online[2], si riporta che il termine “droga” deriva dall’olandese “droog” in uso dal XVI secolo che vuol dire “secco”[3]. Si tratta, cioè, di un termine che si riferisce ad una qualità delle piante essiccate destinate all’uso farmaceutico o come spezie. Tuttavia, sembra che il termine sia già presente nell’inglese del XIV secolo, “drogges”, ad indicare sostanze usate per le preparazioni farmaceutiche [continua]

L’intervista completa, assieme a quelle di Armando De Vincentiis, psicologo, e Roberto Curcuruto, medico, la potete leggere cliccando sull’immagine qui sotto.

 

 

La risonanza magnetica nucleare nell’analisi degli alimenti

Siete curiosi di avere informazioni dettagliate sulla risonanza magnetica nucleare? Volete sapere in che modo può aiutare nelle analisi degli alimenti? Queste e molte altre domande avranno risposta domenica 28 Febbraio alle ore 16:00 sul canale YouTube BioLogic di Daniel Puente. Vi aspetto per la diretta streaming e per rispondere alle vostre domande e soddisfare le vostre curiosità scientifiche.

Per la diretta basta cliccare sull’immagine qui sotto

https://www.youtube.com/watch?v=zoZlb4cz7tE&ab_channel=BioLogic&fbclid=IwAR09hZz8QWYWGz91qXtpsDFz0jhe05wfw1tk0lUUf9cGKLs9wMpxL_Bw8Q0

Foto di copertina gentilmente concessa dal Prof. Paolo Lo Meo dell’Università degli Studi di Palermo

Dubbi sul vaccino anti-Covid russo

Recentemente è apparso su The Lancet, autorevole rivista scientifica di carattere medico, un lavoro che illustra l’efficacia di un vaccino anti-Covid sviluppato da ricercatori russi. Il lavoro è disponibile qui. Tuttavia, dall’analisi dei dati riportati nel lavoro, sono venuti fuori alcuni limiti che fanno dubitare della serietà del lavoro. È per questo che alcuni scienziati, tra cui il sottoscritto, si sono fatti latori di una lettera aperta in cui chiedono di poter analizzare i dati bruti da cui sono state ottenute le figure che sembrano artefatte.

La lettera è disponibile cliccando sulla figura qui sotto


La stessa lettera è stata pubblicata su Il Foglio (qui)

Dormire nella stazione spaziale ISS

Oggi ero in auto. In genere mentre guido ascolto la radio. In uno dei tanti zapping veloci, mi capita di ascoltare un programma in cui l’ospite è un astrofisico. Questi parla della stazione spaziale ISS e della vita che si conduce a bordo.

Stazione spaziale ISS (Fonte)

Ciò che mi ha colpito moltissimo è stata la descrizione del come dormono gli astronauti.

Sapete che quando dormono in condizioni di assenza di peso, gli astronauti devono trovarsi in un ambiente con ottima aerazione?

La domanda vi sembrerà banale, ma ogni volta che ascolto notizie scientifiche mi trovo ad essere come un bambino di fronte ad un giocattolo. Anche se già lo conosce perché lo ha usato altre volte, lo guarda con meraviglia e pensa a cosa si possa ancora nascondere in quei meccanismi che ha visto centinaia di volte.

In effetti, siamo così abituati a vivere sulla Terra che neanche ci rendiamo conto che la vita in condizioni chimico-fisiche differenti richiede delle attenzioni particolari senza le quali essa non potrebbe esistere.

Quando ci sentiamo stanchi ed andiamo a letto, ci addormentiamo ma non per questo smettiamo di vivere. Continuiamo a respirare. Durante questa azione inspiriamo ossigeno ed espiriamo anidride carbonica. L’aria che circonda il nostro corpo, inclusa quella ricca di anidride carbonica che esce mentre respiriamo, è calda. Per questo motivo, si generano delle correnti convettive grazie alle quali l’aria calda (e per questo meno densa, ovvero più leggera) ricca di anidride carbonica che espiriamo si allontana verso l’alto venendo sostituita da aria fredda e più ricca di ossigeno.

Nelle condizioni di microgravità presenti nella stazione spaziale ISS, questi moti convettivi non si realizzano perché la microgravità porta ad assenza di peso e, quindi, non esistono zone di aria più leggere rispetto ad altre. La conseguenza è che durante il sonno, la testa degli astronauti viene circondata da una nuvola di anidride carbonica. Senza una corrente d’aria artificiale come, per esempio, quella generata da un ventilatore, la nuvola anzidetta non si disperderebbe turbando il sonno degli astronauti o, addirittura, portando alla morte, nel caso più drammatico.

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FONTE DELL’IMMAGINE DI COPERTINA

Oli, sali e zuccheri

Oggi ho trovato una bella sorpresa on line. La C1V edizioni ha reso disponibili le presentazioni fatte nel 2018 in occasione del secondo Convegno Nazionale Medicina e Pseudoscienza (CNMP).  Durante il convegno ho fatto una lunga lezione divulgativa sulle false informazioni in merito agli oli, ai sali ed agli zuccheri. Qualche mese dopo avrei pubblicato “Frammenti di Chimica” in cui si trovano molte delle cose che ho detto in quel convegno.
Se volete divertirvi ad ascoltarmi, qui sotto ci sono i miei tre interventi.

Prima parte

Seconda parte

Terza parte

In realtà il congegno del 2018 è stato molto ricco. Hanno partecipato tutti gli scienziati attivi nella lotta alle bufale: da Silvio Garattini a Piero Angela, da Roberto Burioni a Francesco Galassi e tanti tanti altri. Se volete fare un viaggio nel tempo e partecipare al convegno, potete iscrivervi al canale YouTube della C1V e ascoltare tutte le presentazioni. Basta cliccare sull’immagine qui sotto.

 

Le armi chimiche: i veleni naturali

Sapete che cosa è la chimica delle sostanze naturali? Si tratta di una branca della chimica che studia le proprietà chimiche (per esempio, struttura e conformazione) e la reattività di metaboliti primari e secondari delle piante e degli animali. La Treccani ne dà una bella definizione:

“È quel settore delle scienze chimiche che ha per oggetto lo studio della struttura, delle proprietà chimiche, delle trasformazioni delle sostanze organiche presenti negli organismi viventi (animali, piante o microorganismi), nonché del loro ruolo biologico”.

Perché vi sto dando questa definizione? Semplicemente perché sto leggendo un bel libro dal titolo “Storia dei veleni. Da Socrate ai giorni nostri” (Figura 1) in cui si descrivono le potenzialità venefiche di tantissime sostanze di origine naturale.

Figura 1. Libro sui veleni che ho acquistato recentemente

Non credo sia una novità che l’uso dei veleni sia noto fin dall’antichità. Essi venivano utilizzati sia per la caccia che per la guerra. Per esempio, nella seconda metà del XIX secolo, Alfred Fontan descrisse degli interessantissimi ritrovamenti nella grotta inferiore di Massat, nell’Ariège (Figura 2), un sito risalente all’epoca magdaleniana.

Figura 2. Zona dell’Ariege dove si trovano le grotte di Massat (Di TUBS – Opera propria. Questa grafica vettoriale non W3C-specificata è stata creata con Adobe Illustrator. Questa immagine vettoriale include elementi che sono stati presi o adattati da questa:  France adm-2 location map.svg (di NordNordWest)., CC BY-SA 3.0 de, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=45555827)

In particolare, tra i tanti reperti, furono individuate delle punte di lancia e freccia con delle interessanti scalanature (Figura 3).

Figura 3. Punte di lancia e freccia del periodo Magdaleniano (Fonte)

Negli anni successivi gli studiosi hanno compreso che le scanalature sulle punte di freccia e lancia servivano per fare aderire i veleni in modo tale che le prede (o i nemici), una volta colpiti anche in modo non mortale, potessero morire per effetto del veleno introdotto attraverso le ferite. Ancora oggi le popolazioni primitive che vivono nelle zone meno esplorate del pianeta fanno uso,  per la caccia o per la guerra, di punte  simili a quelle ritrovate nelle grotte di Messat .

Siete curiosi di sapere come si fa a rendere “velenosa” una punta di freccia o di lancia?

I veleni, come leggerete nel paragrafo successivo, vengono per lo più estratti dalle piante.  Jean de Maleissye, nel libro che sto leggendo, ci spiega come facevano alcune popolazioni dello Zimbabwe a preparare le loro armi. Molto verosimilmente, la stessa tecnica era applicata dalle popolazioni primitive.

“Si faceva a pezzi la pianta, la si mescolava ad acqua e si faceva bollire il tutto per molto tempo. Poi si lasciava ridurre il liquido finché non si addensava, assumendo la consistenza della pece. Il veleno veniva fissato sull’estremità superiore dell’arma tramite una cordicella che gli indigeni arrotolavano attorno alla punta. Lo spazio libero fra ogni spira di corda tratteneva infatti il veleno, quando vi si immergeva la punta dell’arma. Si lasciava seccare il preparato velenoso, poi si toglieva il filo. Con tutta probabilità, la cordicella consentiva di trattenere il veleno su superfici minuscole. Tale artificio impediva infatti al veleno di staccarsi prematuramente in grandi placche”.

Come cacciavano le popolazioni della civiltà magdaleniana?

Non lo sappiamo, in realtà. Possiamo immaginare dalle ricostruzioni basate sugli utensili ritrovati in giro per l’Europa, che i magdaleniani “dopo aver colpito con una o più frecce avvelenate un grande cervo o una renna, [ne seguono] le tracce per ore o anche per giorni, fintanto che, stremato dal veleno, dalla perdita di sangue e dallo sforzo compiuto, il grande animale non crolla in un bosco ceduo” (Fonte). Una volta catturata la preda, i cacciatori rimuovono la parte avvelenata e fanno a pezzi tutto il resto della carcassa che viene usata per alimentarsi.

Origine dei veleni

In genere si tratta di sostanze che vengono estratte dalle piante. Una di queste è la Aconitum napellus o aconito,  una pianta che cresce in zone montuose e nota, per le sue proprietà tossiche, già a i tempi dei Galli e dei Germani (Figura 4).

Figura 4. Aconito, pianta molto comune ed estremamente tossica

Le sue parti, incluse le radici, contengono miscele complesse di alcaloidi quali: aconitina, napellina, pseudoaconitina, aconina, sparteina, efedrina (Figura 5).

Figura 5. Struttura chimica dei principali alcaloidi presenti nei tessuti di Aconitum napellus.

Tutte queste molecole hanno attività neuro- e cardio-tossica. La loro dose letale è dell’ordine di pochi milligrammi (1-4 mg) per chilogrammo di peso corporeo.  Immaginate, quindi, cosa può succedere se una freccia avvelenata con questa miscela di alcaloidi vi colpisse anche in un punto non vitale. Il veleno entrerebbe nel sangue e sareste soggetti a “rallentamento dei battiti cardiaci, diminuzione della pressione arteriosa e rallentamento del ritmo respiratorio” fino a  paralisi cardiaca e respiratoria (Fonte). Anche l’ingestione di questa miscela di alcaloidi porta alla stessa fine.

Ma volete sapere un’altra cosa? Avete presente la “potentissima” medicina tradizionale cinese?

Ebbene, nel 2018, è stato pubblicato un lavoro di revisione della letteratura scientifica in merito alla tossicità degli alcaloidi dell’aconito. Il lavoro è liberamente scaricabile qui. Nell’introduzione si evidenzia come gli estratti della radice di questa pianta siano usati nella medicina tradizionale cinese come rimedi per problemi cardiovascolari, artriti reumatoidi, bronchite, dolori generici e ipotiroidismo. Non sono un medico, però a me sembra quasi la panacea di ogni male (mi correggano i medici che leggono questo articolo se sbaglio, per favore). Nella stessa introduzione viene anche rilevato che le autorità sanitarie di molti paesi asiatici sono costrette a regolamentare l’uso di questo preparato a causa della sua elevata tossicità. Infatti, tra il 2001 e il 2010 sono stati osservati, per esempio, ben 5000 casi di tossicità da alcaloidi di aconito. Come mai tutte queste intossicazioni? Semplicemente perché, come evidenziato anche in un lavoro del 2019 pubblicato su Forensic Science, Medicine and Pathology, una rivista della Springer con impact factor nel 2019 di 1.611 (si può liberamente scaricare qui), gli estratti di aconito vengono usati senza prescrizione medica ed è facile usare la logica spicciola secondo cui se la quantità x mi permette di guarire, allora la quantità xn mi farà guarire più velocemente. 

Conclusioni

La natura ci è nemica? Neanche per sogno. Allora ci è amica? neanche per sogno parte seconda. Alla natura non importa nulla di noi. I veleni possono essere considerati  la risposta evolutiva delle prede ai predatori. Quando, in modo casuale ed imprevedibile, una modifica genetica consente la nascita di una pianta con un corredo metabolico appena un po’ diverso da quello delle sue “compagne”, è possibile che essa diventi indigesta, ovvero tossica, per i predatori. Questa nuova caratteristica favorisce la sopravvivenza della pianta modificata rispetto alle sue “sorelle” non modificate. Nel momento in cui tutte le piante non modificate si sono esaurite a causa della pressione alimentare dei predatori, rimangono in vita solo quelle modificate da cui i predatori si tengono lontani… a meno di non capire che esse possono essere sfruttate non a fini alimentari ma per la caccia e per la guerra.

Fonte dell’immagine di copertina
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