Bullismo accademico

Recentemente, grazie ad un amico e collega, ho letto un articolo molto interessante sul cosiddetto bullismo accademico, ovvero quella serie di atteggiamenti perversi che vengono usati contro le minoranze accademiche (tra cui spiccano le donne) per bloccare le carriere universitarie. Si tratta di un articolo molto interessante che, volendo, ha anche una certa applicabilità generale al di fuori dell’accademia. Mi riferisco, in particolare, a tutti quegli atti di prevaricazione che portano anche al femminicidio e messi in atto da quei maschi che sentono minata la loro mascolinità da donne che cercano di farsi strada nella famiglia, nel sociale e nel lavoro.

Non sono un sociologo e men che meno uno psicologo o psichiatra. Tuttavia, sbagliata o giusta che sia, mi sono fatto un’opinione in merito all’odio che porta i maschi a rivalersi sulle donne. Si tratta del rifiuto di accettare l’evoluzione culturale. Come esseri umani ci stiamo evolvendo. L’evoluzione non è soltanto legata all’adattamento fisico all’ambiente che ci circonda, ma è anche legata alla cultura, ovvero alla forma mentis che ci consente di assumere atteggiamenti e pensieri che sono diversi da quelli che erano in auge 10, 20 o 30 anni fa. L’evoluzione culturale sembra più veloce nelle donne che nei maschi e questi ultimi non accettano che una donna possa emanciparsi, pensare meglio di loro, lavorare meglio di loro ed ottenere risultati migliori dei loro. L’incapacità culturale di affrontare il confronto sfocia nella cosiddetta violenza di genere.

La parola chiave per descrivere efficacemente la violenza di genere o quella verso le minoranze sotto rappresentate è: mediocrità. In altre parole solo un maschio mediocre non è in grado di accettare che ci possa essere qualcuno (donna o uomo che sia) migliore di lui. In questo contesto i termini “uomo” e “donna” non si riferiscono solo ad una separazione di genere fisico, ma anche al modo con cui ogni essere umano percepisce se stesso.

Come ho detto, non sono uno specialista e quanto appena scritto è solo una mia opinione. Tuttavia, vale la pena leggere l’articolo di cui accennavo sopra. L’articolo è in inglese. Pertanto, per agevolare la lettura di chi non è ferrato in inglese, l’ho tradotto. Inserisco, però anche l’articolo originale sotto forma di immagine. In originale, il lavoro si trova qui.

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COME IL BULLISMO DIVENTA MEZZO PER FARE CARRIERA

di Susanne Täuber e Morteza Mahmoudi

Tra i recenti scandali di bullismo e molestie (sessuali) di alto profilo nell’ambito accademico, molti coinvolgono personaggi considerati “accademici di spicco”, ma che hanno in realtà un passato di bullismo e numerose denunce accumulate nel corso degli anni1.

Spesso, chi non è abituato all’ambito accademico ritiene che queste persone siano dei bulli pur avendo raggiunto posizioni di rilevo nei loro settori di interesse. L’attitudine al buon comportamento in ambito scientifico viene separata da quella legata alla loro personalità umana. In altre parole, la persona “scienziato” viene vista come indipendente dalla persona “essere umano”. Tuttavia, coloro che hanno subito bullismo spesso descrivono modelli comportamentali che suggeriscono un’interpretazione completamente diversa: il bullismo sembra essere più un mezzo usato dai mediocri per arrivare in cima ai vertici della loro carriera invece che qualcosa di separato dalla loro personalità scientifica. In altre parole, i bulli accademici arrivano ad essere considerati ottimi professionisti grazie al loro bullismo e non nonostante esso.

Esistono molteplici modi, tutti relazionati tra loro, in cui il bullismo può essere usato come mezzo per promuovere la propria carriera ed i propri interessi in ambito accademico. Comportamenti da bullo, come abuso di potere, mobbing e svalutazione dei successi altrui, rallentano o annullano le carriere degli avversari cosicché i bulli riescono ad eliminare efficacemente la concorrenza e raggiungere posizioni di vertice. Una volta lì, tali accademici possono utilizzare le stesse strategie per promuovere i loro “accoliti” e diventare intoccabili.

Cosa rende il bullismo mezzo non etico, ma efficace, per scalare le gerarchie? Un numero sempre maggiore di ricerche suggerisce che gli accademici mediocri ricorrano al bullismo per eliminare la concorrenza2,3. In particolare, quando le gerarchie maschili vengono “disturbate” dalle donne, si innescano dei comportamenti ostili soprattutto da parte di quegli uomini che non sono in grado di svolgere il loro lavoro in modo soddisfacente. Infatti, sono proprio questi coloro che rischiano di perdere di più dall’”ingerenza” femminile4.

I membri di gruppi accademici sottorappresentati riferiscono di essere (o essere stati) bersagli di bullismo con l’intento di sabotare le loro carriere. Alcuni racconti suggeriscono che i bulli entrano in azione quando i destinatari del bullismo acquisiscono un successo più o meno rilevante nel loro campo rischiando, quindi, di diventare troppo ingombranti per gli accademici mediocri. Ad esempio, una ricercatrice che lavorava nei Paesi Bassi ha notato di essere stata trattata piuttosto bene fino a quando ha ottenuto una sovvenzione multimilionaria3. Dopo ciò, è diventata oggetto di molestie, incluse aggressioni fisiche. Sabotando le carriere degli altri, i bulli eliminano efficacemente la concorrenza. Quando altri accademici nel dipartimento ottengono risultati oggettivamente migliori, sabotare o emarginare viene scelto come percorso alternativo per raggiungere la vetta2,3.

Quali sono le strutture che supportano i bulli? Nonostante siano abbastanza diffusi processi di selezione altamente competitivi negli ambienti accademici, i criteri di valutazione sono spesso oscuri. Ciò consente ai bulli e ai loro alleati, che secondo uno studio sono probabilmente maschi e provengono dalle istituzioni più prestigiose, di utilizzare criteri di rendimento in continua evoluzione per giustificare il rifiuto di conferire l’abilitazione, le promozioni e le cattedre ai loro bullizzati5.

Il concetto di bulli che hanno alleati o che costruiscono reti attraverso le gerarchie emerge anche in alcuni resoconti: le vittime di bullismo parlano di direttori di dipartimento che potrebbero voler promuovere i propri “eredi e ereditiere”, anche se stanno lavorando a un livello inferiore rispetto ai loro colleghi.

Una ricercatrice dei Paesi Bassi ha riferito che, quando ha vinto un importante finanziamento, le persone hanno iniziato a dubitare delle capacità di uno dei prìncipi ereditari del dipartimento che doveva essere promosso, attribuendo poi la colpa a lei3. Come risultato, è stata vittima di bullismo e ha lasciato l’università, mentre il “collega maschio è ora professore associato, anche se le sue prestazioni non sono superiori alla media”. La questione è stata affrontata in modo toccante altrove, con un’attenzione particolare agli uomini che molestano sessualmente le donne nell’ambito accademico6: “L’abuso di potere non è incidentale alla ‘grandezza’ di questi uomini; è centrale ad essa”.

Non sono solo i criteri oscuri e il favoritismo a creare terreno fertile per il bullismo. L’ambiente accademico iper-competitivo offre un “vantaggio di sopravvivenza” per tutte quelle persone che hanno tratti di personalità come l’audacia, la tendenza al dominio, la cattiveria e la spregiudicatezza7. Questi tratti di personalità sono chiaramente associati a comportamenti da bullo8. Ciò può manifestarsi nel sovrastimare regolarmente i propri successi e sminuire quelli degli altri, diffondere storielle false per danneggiare le reputazioni, o deridere pubblicamente, insultare e offuscare i successi dei colleghi9. Pertanto, la nostra attuale cultura accademica, con la sua iper-competizione, l’occupazione precaria e la ripida gerarchia, sembra incentivare i bulli fornendo le condizioni che permettono loro di prosperare9,10.

L’ambiente accademico ha urgentemente bisogno di un cambio di paradigma per eliminare le condizioni che permettono ai bulli di dominare. È giunto il momento di affrontare efficacemente le questioni che le leadership passate (sia a livello di dipartimento che di ateneo) hanno troppo spesso trascurato o sfruttato a proprio vantaggio: il bullismo, il mobbing e gli abusi nei confronti di coloro che sono sottorappresentati ed emarginati per i motivi più diversi.

Dobbiamo assicurarci che i leader accademici siano giocatori di squadra culturalmente sensibili, consapevoli delle dinamiche di potere e privilegio, e che non incentivino il bullismo, ma piuttosto stimolino lo spirito di comunità. Per raggiungere questo obiettivo sarà necessario il contributo proattivo di tutti gli interessati in modo interdipendente e collaborativo. Abbiamo bisogno di attenzione e azione collaborativa da parte di tutti i membri della forza lavoro scientifica, a livello locale e globale, per essere solidali permettere l’emancipazione degli studiosi per arrivare ad un cambiamento sistematico atteso da tempo in ambito accademico.

Riferimenti

  1. Goulet, T. L. Science 373, 170–171 (2021).
  2. Naezer, M. M., van den Brink, M. C. L. & Benschop, Y. W. M.
    Harassment in Dutch Academia: Manifestations, Facilitating
    Factors, Effects and Solutions (LNVH, 2019).
  3. Young Academy Groningen. Report on Harassment at the
    University of Groningen (2021).
  4. Kasumovic, M. M. & Kuznekoff, J. H. PLoS ONE 10, e0131613
    (2015).
  5. Moss, S. E. & Mahmoudi, M. EClinMed 40, 101121 (2021).
  6. Mansfield, B. et al. Human. Geogr. 12, 82–87 (2019).
  7. Tijdink, J. K. et al. PLoS ONE 11, e0163251 (2016).
  8. Namie, G. Results of the 2017 WBI Workplace Bullying Survey
    (WBI, 2017).
  9. Forster, N. & Lund, D. W. Glob. Bus. Organ. Excell. 38, 22–31
    (2018).
  10. Moss, S. Nature 560, 529 (2018).

Immagine di copertina creata con https://runwayml.com/

Di dubbi, incertezze ed altre amenità del genere

Come ho già avuto modo di scrivere qualche tempo fa, non aggiorno il blog con la frequenza di un tempo perché molti degli argomenti che oggi vanno di moda sono già stati commentati da me negli anni passati. Si pensi, per esempio, alla polemica «naturale=buono» di cui ho parlato qui e qui, oppure al periodico successo di cose come il Dr. Bestiale di cui ho già parlato qui, o, ancora, l’intolleranza al lattosio di cui ho scritto qui e qui, per non parlare, poi, dell’enorme numero di articoli che ho scritto in merito all’omeopatia (qui) o altre pseudo scienze come l’agricoltura biodinamica (qui). Capirete, quindi, che ritornare sempre sugli stessi argomenti, perché periodicamente di moda, è alquanto noioso. Mi annoio io a scriverne e annoio voi che, sulla base della vostra stima nei miei confronti, siete “costretti” a leggere sempre le stesse cose, magari scritte con parole diverse. Tuttavia, di tanto in tanto, ci sono degli argomenti che ancora mi colpiscono e che mi lasciano perplesso soprattutto quando a scriverne/parlarne sono persone che si dicono amanti della scienza.

Ma veniamo al punto.

I disapprove of what you say, but I will defend to the death your right to say it

Gli “amanti della scienza” molto spesso riportano nelle loro lettere, nei loro siti o ovunque sia possibile la famosa massima secondo cui «non condivido la tua opinione, ma sono pronto a combattere affinché tu possa esprimerla liberamente» attribuendola nientepopodimenoché a Voltaire. Queste persone, per lo più pseudo scienziati, usano questo aforisma per rimarcare la differenza del loro modo di pensare rispetto a quello degli scienziati che apparterrebbero, secondo loro, ad una casta di tipo sacerdotale chiusa e poco avvezza ai cambiamenti. Gli scienziati, in parole povere, sarebbero quelli che si opporrebbero allo sviluppo culturale di certe discipline (o addirittura del paese) chiudendosi a riccio nei confronti di idee innovative in grado di apportare benefici in ogni ambito dello scibile. 

Cominciamo con lo stabilire che da nessuna parte nell’opera di Voltaire è riportata la frase anzidetta. Questa fu scritta virgolettata in “The friends of Voltaire nel 1903 da Evelyn Beatrice Hall sotto lo pseudonimo di Stephen G. Tallentyre. Quindi, Voltaire, che ha scritto il famoso “Trattato sulla tolleranza”, non si è mai sognato di dire quelle cose riportate come sue. Lo stesso Sandro Pertini, in un suo discorso, cadde nell’equivoco di attribuire a Voltaire la massima su menzionata (qui). Purtroppo, usare in modo strumentale frasi ad effetto attribuendole a grandi menti per esaltarne la significatività è uno sport molto attuale. Ricordo che nel 1938 in Italia furono promulgate le leggi razziali. Se dovessimo prendere alla lettera ciò che viene indicato come l’aforisma massimo della libertà di espressione, dovremmo concludere che, seppure le leggi razziali furono quanto di più bieco una mente umana avesse potuto concepire, gli individui che le promulgarono avevano tutto il diritto di farlo e di seguire le condotte opportune per realizzarle. Ma ciò contraddice sia l’operato di Pertini che si è battuto, rischiando più volte la vita, contro il fascismo – corrente politica responsabile delle anzidette leggi  che i principi basilari di tutti i trattati in cui vengono stabiliti i diritti inalienabili degli individui intesi come persone umane. Da questa breve disamina, quindi, ne viene che la libertà è sacrosanta (peraltro è uno dei diritti inalienabili della persona umana) ma ha dei limiti entro cui essa può essere esercitata.

Adesso, però, come al mio solito, sto andando un po’ per la tangente.

Libertà di parola ed opinioni

Ritorniamo all’aspetto scientifico legato all’aforisma incorrettamente attribuito a Voltaire. Secondo gli pseudo scienziati, il diritto di parola e di opinione è sacrosanto. Ma io sono più che d’accordo. Il problema è che una cosa è il diritto di parola e opinione in ambito politico (sempre entro i limiti dettati dal rispetto per i diritti umani inalienabili), altro è il diritto di parola e opinione in ambito scientifico. Tradotto in parole molto più semplici: in ambito scientifico, una cosa è la libertà di parola, altro sono le parole in libertà.

Come ho avuto più volte il modo di evidenziare (per esempio qui), la Scienza (la S – in maiuscolo – non è casuale) è un complesso corpo di conoscenze che richiede lo sviluppo di competenze che si raggiungono con anni di studi e sacrifici. L’idea dello scienziato come il Don Chisciotte di turno che va per la propria strada all’inseguimento di una intuizione illuminante ma contraria al pensiero scientifico corrente è da film hollywoodiano. Avete mai visto un film – nato per l’intrattenimento – in cui si pone l’accento sul tempo passato da uno studioso a leggere e capire le cose invece che su scene di azione più o meno movimentate? Penso proprio di no. E volete sapere perché? Lo studio è noioso. A chi volete che interessi vedere uno che resta seduto al tavolo a sfogliare libri su libri per giorni interi solo per capire questa o quella formuletta? Il film deve intrattenere, deve tener legato l’utente/spettatore alla sedia ed attrarlo. Se l’utente/spettatore si annoia incomincia il passaparola negativo per cui altri utenti/spettatori non andranno a vedere il film con evidenti danni economici. Ed allora molto meglio inventarsi che Einstein era una “rapa” in matematica (non è assolutamente vero) e che, nonostante questo, sia stato in grado di vincere il premio Nobel; meglio inventarsi che Galileo Galilei ha combattuto contro il sistema imperante ed ha perso, invece che spiegare che l’eliocentrismo era già in voga e che Galilei è stato osteggiato dalla chiesa – quindi da una setta religiosa – che vedeva nelle sue “osservazioni” qualcosa che poteva scardinare il potere temporale del Papa.

L’intuizione scientifica

L’intuizione scientifica non nasce dal nulla. Nasce, piuttosto, dall’apprendimento continuo di cose già note che vengono “sviscerate” in tutti i modi possibili. Una volta individuati i limiti delle cose note (questo si fa attraverso gli esperimenti e la loro interpretazione) viene fuori l’intuizione geniale che consente l’avanzamento delle conoscenze. In questo senso amo ripetere che alla fine dell’Ottocento si riteneva che la fisica non avesse più nulla da dire. Tutto era già stato detto e scoperto da sir Isaac Newton. Ed invece, dal paradosso del corpo nero è nata quella che oggi è conosciuta come meccanica quantistica – che ha inglobato la meccanica classica (quella di Newton, per intenderci)  che ha consentito lo sviluppo di nuove tecnologie come la TAC (Tomografia Assiale Computerizzata), la NMR (Risonanza Magnetica Nucleare) fino ad arrivare ai computer quantistici. Del resto fu Bernardo di Chartres, intorno alla prima metà del 1100, a dire qualcosa del tipo “siamo seduti sulle spalle dei giganti” intendendo che la conoscenza – scientifica o meno, dico io – può essere intesa come un castello in continua crescita in cui è possibile individuare torri alte la cui stabilità è assicurata dalle fondamenta solide, costruite da chi ci ha preceduto, e torri basse e diroccate le cui fondamenta non hanno resistito all’azione del tempo. In altre parole, se oggi siamo in grado di controllare i movimenti di Curiosity (il rover che sta analizzando il suolo di Marte) lo dobbiamo a Newton, dalla cui fisica siamo in grado di calcolare l’energia necessaria per sfuggire alla forza gravitazionale terrestre, a Marconi, che ha scoperto la trasmissione dei segnali senza fili, a tutti quei chimici che hanno elaborato le tecniche analitiche in grado di campionare e analizzare i suoli etc. etc. etc.

Il dubbio

Un corollario interessante all’aforisma scorrettamente attribuito a Voltaire è che bisogna essere tolleranti, anzi aperti alla discussione, con chiunque avanzi dubbi – più che legittimi  su tutto quanto riguarda la scienza. Del resto, l’avanzamento delle conoscenze scientifiche non si basa sui dubbi? Il problema qui è capire cosa si intende per dubbio.

Quando sono in aula per i miei corsi mi trovo spessissimo in presenza di dubbi. A parte quelli personali legati all’efficienza della mia esposizione, i dubbi principali sono quelli dei miei studenti che possono non aver capito qualcosa che ho detto o che possono avere domande per correlare ciò che sanno a ciò che ho esposto. Si tratta, quindi, di dubbi – quelli degli studenti – che servono per chiarire concetti noti in modo tale da permetterne un immagazzinamento migliore così da poterli utilizzare nei momenti opportuni. Per quanto riguarda i miei dubbi, si tratta di domande che mi faccio prima, durante e dopo la lezione per capire quanto sono stato efficiente nell’esposizione. Non sempre lo sono perché dipende dai momenti umorali in cui mi trovo. Quando me ne rendo conto ripeto la lezione cercando di essere più chiaro. Quindi, nel caso del rapporto asimmetrico docente-studenti, i dubbi servono per crescere e migliorare. Io imparo dagli studenti a spiegare meglio, ovvero cerco di migliorare come docente, mentre gli studenti imparano da me cose che serviranno loro nelle future esperienze da professionisti.

Un discorso analogo vale se faccio una domanda al mio elettricista o al mio idraulico. In questo caso io faccio il discente, loro sono i docenti. 

Ma cosa succede se la tolleranza in merito alla libertà di espressione e di opinioni viene invocata da qualcuno che, non avendo competenze in quel campo, volesse obiettare, per esempio, che la Terra è piatta? Si tratta veramente di un dubbio? Ovviamente, no! Questo non è un dubbio. Questa è semplicemente ignoranza. La persona che volesse intavolare una discussione sulla geoidicità del nostro pianeta è solo uno/a che ci fa perdere tempo. Evidentemente ha saltato tutte le lezioni (dalle elementari alle superiori) in cui si è discusso e si sono portate prove in merito. Lo stesso è valido quando a evocare dubbi sulla validità ed efficacia dei vaccini è mamminapancina86. In realtà, nella mia vita mi è capitato che ad avere dubbi sui vaccini non fossero solo persone ignoranti (nel senso etimologico del termine), ma anche professionisti che hanno una cultura e una preparazione che li pone agli apici del loro campo. Ma di questo accennerò fra poche righe. In generale, si tratta di ignoranza pura e semplice, che pone queste persone al livello di studenti che devono ancora imparare e a cui è utile dare spiegazioni semplici, sempre che si rendano conto del rapporto di asimmetria tra loro e chi ha studiato e “perso tempo” per approfondire l’argomento su cui loro hanno espresso dubbi.

Il dubbio qualificato

Se possiamo prendere con ilarità i “dubbi” sulla Terra piatta, non possiamo fare altrettanto quando, invece, si parla di vaccini, di omeopatia, di agricoltura biodinamica, di negazione del riscaldamento climatico o della componente antropica legata al riscaldamento climatico. A maggior ragione quando ad avanzare tali “dubbi” non sono ciarlatani incolti, ma professionisti che hanno una formazione culturale adatta a discernere tra vero, verosimile e falso. In questo caso, come ho già scritto altrove (qui), si tratta di persone che per meri fini opportunistici – che siano economici o per esercitare un qualsiasi potere, poco importa  si comportano come quelli che prima fanno la curva e poi inseriscono i punti sperimentali. Sono persone inaffidabili. Con esse non è possibile intavolare alcuna discussione perché si arroccano su posizioni asimmetriche per cui i loro dubbi sono legittimi, mentre le prove fisiche portate da chi confuta le loro teorie astruse non sono valide. 

Da tutta questa digressione ne viene che a livello scientifico quando si parla di dubbio si intende sempre il cosiddetto “dubbio qualificato”. Si tratta di un dubbio che non coinvolge tutti i possibili interlocutori, ma solo coloro che hanno una formazione culturale in comune, ovvero hanno studiato, elaborato e compreso quanto attinente a un determinato argomento. È proprio questa comprensione che consente di fare domande nel merito per ottenere risposte in grado di dirimere problemi che da soli non sarebbe possibile fare.

Conclusioni

Cosa voglio concludere con questa lunga digressione? Solo che bisogna fare attenzione a quelle persone che usano la massima falsamente attribuita a Voltaire. Queste persone, lungi dall’essere “modeste” come vorrebbero apparire mediante l’uso dell’aforisma citato, sono, in realtà, dei narcisisti che hanno mal compreso i processi che vengono seguiti per lo sviluppo scientifico e ritengono sé stessi dei geni che, pur non avendo competenze specifiche in un particolare campo, ritengono di aver diritto di parola proprio in quel settore di cui conoscono molto poco – o addirittura niente – come se fossero dei grandi luminari. Ancora oggi, a distanza di oltre quarant’anni, è ancora valido quanto tenne a scrivere Asimov nella sua rubrica “My turn” il 21 gennaio del 1980 (qui): “my ignorance is just as good as your knowledge”.

Ringraziamenti

Con questa lunga disamina spero di non avervi annoiato troppo. Tuttavia, come talvolta accade, ci sono dei momenti in cui, dopo aver letto e/o sentito certe cose, mi rimane l’amaro in bocca e sento l’esigenza di condividere in questo blog i miei pensieri. Pertanto, ringrazio tutti voi, miei lettori, per la pazienza che avete avuto nel voler leggere queste elucubrazioni e ringrazio il Dr. Michele Totta per la sua pazienza nel revisionare questo articoletto. Il Dr Totta, peraltro, è un valente divulgatore che gestisce un canale YouTube “Senza logica mal si cogita” che invito a seguire (qui).

Fonte dell’immagine di copertina

 https://commons.wikimedia.org/wiki/File:2005_Mus%C3%A9e_Rodin_3.jpg

Incontri con persone straordinarie: Cristina Fazzi

Preludio.

È da un po’ di tempo che non scrivo articoli nel blog. Non c’è un motivo particolare se non quello relativo al fatto che penso che troppo presenzialismo sia nocivo: trovo molto più utile scrivere quando ho qualcosa di curioso ed interessante da raccontare come in questo caso. Ho deciso di aprire una nuova rubrica dedicata alle persone straordinarie che ho avuto la fortuna di incontrare nella mia vita.

Da dove parto? Da Cristina Fazzi.

Brevi note biografiche.

Molti di voi si chiederanno chi sia mai Cristina Fazzi. È un medico. Si è laureata in chirurgia a Catania e, dopo alcune esperienze nella sua Sicilia, ha deciso, per puro caso, di trasferirsi in Zambia dove aiuta come medico le popolazioni locali. Ha dato vita ad una ONG che si occupa, tra le tante cose, di trovare fondi e gestire progetti per costruire ospedali ed ambulatori nelle zone più o meno accessibili dello Zambia. Ha adottato un bambino (oggi giovane uomo) in Zambia e, grazie alla sua determinazione, è stata capace di aprire la strada – in realtà ancora impervia – alle adozioni dei single in Italia. Infatti, per circa tre anni ha portato avanti una battaglia per far riconoscere l’adozione del suo Joseph – del tutto regolare in Zambia – anche in Italia; e ci è riuscita. Ad oggi ha in affido altri sette bambini Zambiani che sta crescendo con grande amore.

Ma non è delle sue avventure di mamma single che voglio parlarvi. Né voglio illustrarvi le peripezie che si è trovata a vivere e che tuttora vive in Zambia per la realizzazione dei suoi progetti umanitari. Tutto questo lo potete leggere nella sua biografia dal titolo “Karìbu. Lo Zambia, una donna, una grande avventura” scritto a quattro mani con Lidia Tilotta (qui).

I miei ricordi.

Ho avuto modo di incontrare la dottoressa Fazzi in occasione della presentazione del suo libro al Policlinico di Palermo. Ho partecipato a quell’incontro spinto da un mio collega che, sentendomi parlare del biochar, oggetto, come ben sapete, della mia attività di ricerca, ha pensato che fosse utile una mia partecipazione alla presentazione del libro di Cristina Fazzi e Lidia Tilotta. Non avevo eccessive aspettative, in realtà. Pensavo che sarebbe stata la solita presentazione noiosa con gli autori che fanno la solita passerella per promuovere il solito libro dalla tiratura limitata destinato ad essere la solita meteora nel panorama della letteratura divulgativa del nostro paese. Ed invece…

Invece è stata un’illuminazione. Non appena la Dottoressa Fazzi ha cominciato a raccontare perché si è trasferita in Zambia mi sono venuti in mente i racconti di mio padre che negli anni Trenta del secolo scorso (sì, mio padre nacque nel 1922 e quest’anno, fosse stato ancora in vita, avrebbe compiuto 100 anni. Un’età ragguardevole. Ma, per un figlio, un genitore non ha mai un’età ragguardevole e dovrebbe essere immortale…ma questo non c’entra con quanto voglio scrivere) si trasferì assieme ad alcuni zii nell’Eritrea italiana in cerca di opportunità di lavoro. Lì fu fatto prigioniero dagli inglesi (come il nonno della dottoressa Fazzi) e, campo di concentramento dopo campo di concentramento, sopravvisse, prigioniero, fino al 1946, anno in cui fu liberato e, pesando una quarantina di chili scarsi, tornò in Italia. Nonostante le sue traversie, egli ha sempre raccontato del suo mal d’Africa e della nostalgia che quel continente gli provocava. Ovviamente, la storia di mio padre non c’entra nulla con la dottoressa Fazzi. Il punto è che la dottoressa, col suo incipit, mi ha portato alla mente tante cose e mi ha commosso. Mi ha commosso non solo perché ha fatto emergere dalla profondità dei miei ricordi cose che erano sedimentate e messe da parte perché, nonostante la mia età, non ho ancora superato la perdita di mio padre, ma anche perché mi ha illuminato e reso veramente chiaro il concetto di “aiutiamoli a casa loro”.

Aiutiamoli a casa loro. Parte I

Vi ricorda qualcosa questa locuzione? Ormai va di moda. E pur di “aiutarli a casa loro” raccogliamo qualsiasi cosa e, sotto forma di aiuti umanitari, mandiamo tutto nei paesi in via di sviluppo, convinti che quanto “racimoliamo” possa davvero essere utile. In realtà, questa è un’operazione che serve solo a noi stessi. Serve per lenire i sensi di colpa che ci attanagliano perché sappiamo benissimo che, per usare tutte le comodità di cui disponiamo, deprediamo le risorse naturali di paesi lontanissimi da noi rendendoli sempre più poveri.

Come ha raccontato la dottoressa Fazzi, a cosa mai potranno servire gli omogeneizzati nelle zone povere dei paesi africani, tra cui lo Zambia? Perché sto citando gli omogeneizzati? Perché uno dei racconti della dottoressa Fazzi ha riguardato il rifiuto da parte sua di un carico di aiuti umanitari fatto da omogeneizzati.

Gli omogeneizzati.

Sappiamo tutti che cosa sono gli omogeneizzati. Sappiamo benissimo che sono utilissimi per lo svezzamento dei bambini e per ottimizzare la loro crescita. Eppure, in Zambia – ma anche negli altri paesi poveri – questa tipologia di prodotti è inutile: in questi paesi non è possibile produrre omogeneizzati. Quindi, una volta consumati, le popolazioni locali non avrebbero più cibo utile per lo svezzamento dei bambini. Ed allora? Dovrebbero attendere altri aiuti ed altri ancora in un loop infinito che non farebbe altro che implementare la loro dipendenza dai paesi più ricchi dell’emisfero.

Aiutiamoli a casa loro. Parte II

“Aiutiamoli a casa loro”, quindi, significa rimboccarsi le maniche e andare lì, nei paesi poveri, per insegnare a quelle popolazioni a usare al meglio le risorse disponibili in loco. Esattamente come sta facendo la dottoressa che ha costruito non so più quanti pozzi e quanti ambulatori/cliniche/ospedali per “aiutare a casa loro” persone che vivono ai margini del mondo moderno. Meglio ancora se, accanto alle opere fisiche, si provvede anche all’educazione, cioè alla corretta divulgazione scientifica per convincere le popolazioni locali della inutilità delle superstizioni utili solo formalmente ma non sostanzialmente alla sopravvivenza in zone veramente impervie del globo.

Come ha sapientemente evidenziato la dottoressa Fazzi, se “riesco ad istruire 10 persone delle popolazioni locali sulla utilità dei vaccini nella prevenzione delle malattie, queste 10 persone a loro volta potranno convincere, ognuna, altre 10 persone e così via di seguito, fino ad arrivare a una situazione in cui la conoscenza potrà ricacciare indietro le credenze tribali e fornire le basi per il reale sviluppo del paese” (ho virgolettato le parole che, però, riportano i concetti espressi dalla dottoressa Fazzi).

Educare.

Alla luce di quanto espresso, l’educazione deve giocare un ruolo primario per “aiutare a casa loro” le persone che vivono in condizioni estreme. L’educazione, però – e questa è una mia considerazione personale che viene dall’aver conosciuto la dottoressa Fazzi – deve riguardare non solo le popolazioni locali, ma anche noi. Dobbiamo imparare che non è sgravandoci la coscienza dai sensi di colpa mediante l’invio di qualsiasi cosa nei paesi in via di sviluppo che possiamo risolvere i loro problemi. Dobbiamo imparare ad ascoltare le persone come la dottoressa Fazzi per capire quali sono le reali esigenze delle popolazioni locali e quali sono le loro risorse naturali. Sono queste ultime a dover essere messe al centro dell’attenzione per poter consentire un vero sviluppo culturale e “fisico” di popoli poveri quali quello dello Zambia.

E la ricerca scientifica?

E questo è il punto, adesso. Cosa facciamo noi in concreto per aiutare i paesi come lo Zambia? L’Agraria di Palermo ha cercato e cerca di operare nei paesi in via di sviluppo per “aiutare a casa loro” le popolazioni locali.

Agli inizi degli anni ’10 di questo secolo è stato sviluppato il  progetto Burundi (qui) grazie al quale la professionalità dei docenti dell’attuale Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Forestali è stata messa a disposizione per la realizzazione di opere concrete affinché le popolazioni locali potessero “crescere” da sole utilizzando le risorse locali.

Poco prima della pandemia del 2020, lo stesso Dipartimento ha realizzato una convenzione col vescovado di Mbulu in Tanzania per la realizzazione di un video divulgativo da diffondere tra le popolazioni del posto in modo da spiegare come risolvere i problemi più comuni legati alle tecniche agricole locali.

Io stesso faccio parte di un gruppo di ricerca internazionale che qualche anno fa ha condotto delle sperimentazioni in Nepal per valutare l’efficienza del biochar nell’aumentare la produzione agricola locale (qui). In particolare, abbiamo potuto verificare che il biochar (se volete sapere che cos’è basta cliccare qui) prodotto con residui vegetali locali (qui per sapere come si produce il biochar in zone in via di sviluppo) e funzionalizzato con urina di vacca, era in grado di incrementare di quattro volte la produzione di zucca.

Potremmo fare altro? Certo che sì. Potremmo fare molto di più che progetti estemporanei che si concretizzano con elaborati utili allo sviluppo di tesi di laurea o di pubblicazioni su riviste più o meno qualificate. Tuttavia, questo richiede non solo la volontà personale di ognuno di noi, ma anche una vera e propria coordinazione globale che coinvolga sia le autorità italiane che quelle dei paesi in via di sviluppo in modo da supportare le attività dei ricercatori ed evitare le esperienze negative molto ben descritte nel libro della dottoressa Fazzi.

Pensieri in libertà su suolo, agricoltura e altre facezie

Mi scuseranno i miei lettori se pubblico un articolo un po’ noioso. Gli argomenti di cui tratto qui sono un riassunto delle ultime paio di lezioni del mio corso di Chimica dei suoli forestali. Approfitto del mio blog come fonte di dispense di studio.

Cosa è un suolo

Il suolo è un sistema complesso che per definizione è la risultante delle interazioni tra idrosfera, litosfera, atmosfera e biosfera. Questa definizione di carattere generale implica che il suolo non è soltanto composto da sistemi inorganici (tra cui i minerali argillosi giocano un ruolo fondamentale), ma anche da una componente aerea (l’aria tellurica), una componente liquida (la cosiddetta soluzione circolante) ed infine una componente organica che comprende anche gli esseri viventi che, morfologicamente parlando, vanno da una scala micro ad una scala macro.

L’impoverimento del suolo

La produzione alimentare e quella dei tessuti si basa proprio sulla complessa interazione tra le componenti anzidette. Questo vuol dire che quando una pianta viene raccolta per produrre cibo o fibre tessili, il suolo si impoverisce sia delle componenti inorganiche che di quelle organiche utilizzate dalla pianta per passare dallo stadio di seme a quello adulto.

Il depauperamento del suolo, per effetto della riduzione del contenuto di componenti inorganiche facilmente disponibili per le piante e del contenuto di sostanza organica,  implica una riduzione della fertilità intesa come capacità di sostenere la vita. La riduzione della fertilità comporta anche la riduzione della produttività agricola con conseguenze negative sia di tipo economico che di tipo alimentare. In altre parole, a parità di superficie coltivata si riduce la quantità di alimenti e fibre tessili disponibile per soddisfare il fabbisogno di una popolazione in costante crescita.

Quando negli anni del boom economico l’industria chimica scoprì che l’uso di sali inorganici facilmente solubili nella soluzione circolante consentiva il miglioramento della produzione agricola, si pensò di aver trovato la panacea di ogni male. In parole povere, si pensò che l’uso massivo di concimazioni inorganiche potesse consentire guadagni progressivamente crescenti sia in termini economici che in termini di produzione alimentare (necessaria a soddisfare la crescente domanda di cibo da parte della popolazione mondiale) su superfici di suolo sempre più piccole.

Fu dimenticato il ruolo fondamentale ricoperto dalla sostanza organica, sensu lato, nel migliorare le qualità del suolo quali pH, tessitura, struttura, porosità e capacità assorbenti tra cui la ben nota capacità di scambio ionico. L’impoverimento del suolo si associava a fenomeni erosivi che sfociavano in quella che oggi è nota come desertificazione (Fonte). La conseguenza di tutto ciò fu la progressiva contaminazione ambientale.

L’agricoltura sostenibile

Quando ci si rese conto del ruolo che tutte le componenti del suolo, nessuna esclusa, avevano nello sviluppo della cosiddetta fertilità, si cominciarono a mettere in atto tutte quelle pratiche che nel 1992, nella conferenza mondiale sull’ambiente tenutasi a Rio de Janeiro, furono codificate con l’aggettivo “sostenibile” (qui la Dichiarazione di Rio sull’Ambiente e lo Sviluppo). La sostenibilità agricola consiste, quindi, nella possibilità di usare il suolo per la produzione alimentare e tessile mentre si preservano tutte quelle caratteristiche che sono necessarie alla conservazione della fertilità per le generazioni future.

Attualmente le pratiche agricole sostenibili sono confluite in quella che si chiama agricoltura integrata. Questa tipologia di agricoltura fa largo uso di tutto il sapere scientifico e tecnologico che è in continuo divenire. Per esempio, nella pratica viti-vinicola, e non solo, si fa uso dei droni e delle osservazioni satellitari che consentono interventi mirati, direi di tipo chirurgico, con notevole riduzione dell’impatto ambientale (Fonte).

Lo sviluppo scientifico e tecnologico ha portato anche all’ottenimento di piante resistenti a molte patologie prima estremamente impattanti. Mi riferisco alla tanto demonizzata tecnologia degli organismi geneticamente modificati che consente non solo la riduzione quantitativa degli agrofarmaci potenzialmente tossici per gli esseri viventi, essere umano incluso, ma anche l’ottenimento di cibo arricchito di nutrienti essenziali per la lotta alle conseguenze fisiche della povertà alimentare (mi riferisco, per esempio, al tanto demonizzato Golden rise®). Sugli OGM ho scritto già un articolo qualche tempo fa:

Gli OGM per le biodiversità

Sulla terminologia scientifica e sull’uguaglianza naturale=buono

Da scienziati dobbiamo avere la sensibilità di usare i termini nel modo giusto e secondo le accezioni che vengono date in ambito scientifico. Se per primi noi stessi non facciamo questo esercizio, non possiamo, poi, pretendere che le persone che non hanno la medesima formazione culturale utilizzino le parole per il significato che esse hanno realmente.

Mi riferisco, in modo particolare, alle locuzioni “prodotti chimici”, “concimazione chimica”, “fertilizzanti chimici”, etc. che vengono riproposte ogni qual volta si parla di agricoltura.

L’aggettivo “chimico” è ridondante quando è associato a termini come “prodotti”, “concimazione” e “fertilizzanti”. La predetta ridondanza, che rientra, purtroppo, nel linguaggio comune, dà adito alla dilagante chemofobia secondo la quale tutto ciò che è chimico è “cattivo”, tutto ciò che è naturale è buono. Come ho scritto nel mio libro “Frammenti di Chimica”, l’uguaglianza naturale=buono non tiene conto del fatto che i veleni più devastanti sono proprio di origine naturale. Alcuni esempi sono le piretrine – insetticidi ed antiparassitari – presenti in alcune specie di crisantemi (Fonte),  il curaro – dall’attività neurotossica – fatto da principi attivi prevalentemente di origine vegetale (Fonte),  le bufotossine prodotte da certe specie di rospi (Fonte) e potrei continuare. Le succitate sostanze, però, se usate nelle dosi opportune hanno attività farmacologica consentendo di curare alcune patologie anche mortali per l’essere umano.

Come per l’uguaglianza naturale=buono, il medesimo discorso si applica a quella chimico=cattivo, dove per “chimico”, nell’accezione “popolana”, si intende la chimica di sintesi, quella, cioè, deputata alla sintesi di composti aventi proprietà chimico-fisiche-biologiche di interesse per tutti gli esseri viventi. Alcuni esempi? La nitroglicerina è il composto di sintesi usato per fabbricare la dinamite (Fonte). Si tratta di un potente esplosivo che diede inizio all’industria degli esplosivi usati ancora oggi in tante battaglie e guerre. Ebbene, l’attività esplosiva di questa molecola è dovuta alla presenza di tre gruppi nitro (-NO3) che conferiscono una certa instabilità chimica al prodotto. Quando la molecola è sottoposta a forte agitazione o a variazioni termiche dà luogo a una reazione che può essere descritta dalla seguente equazione:

3C3H5N3O9  → 12CO2 + 6N2 + O2 + 10H2O + ΔH (-1.5 MJ mol-1)

Si sviluppano gas e una quantità enorme di energia termica che sono responsabili della deflagrazione quando la molecola è inserita in un contenitore chiuso.

Quando la nitroglicerina viene assunta per via orale – in concentrazioni farmacologiche, il processo di degradazione segue altre vie dando luogo alla formazione di monossido di azoto (NO) che è un potente vasodilatatore. Si tratta del vasodilatatore che è in grado di rimediare ai dolori dell’angina pectoris (Fonte). Altri esempi di prodotti di sintesi che vengono usati nella comune pratica medica sono l’insulina – prodotta in laboratorio grazie all’azione di microrganismi geneticamente modificati, l’aspirina – che si ottiene per acetilazione dell’acido salicilico, l’ibuprofene – che si può ottenere sia mediante il processo Hoechts che il processo Boot, etc. etc.

Da questi pochi esempi si capisce come non tutto quello che è naturale faccia bene alla salute e non tutto ciò che è prodotto in laboratorio sia nocivo. In definitiva le uguaglianze naturale=buono e chimico=cattivo sono solo delle trovate pubblicitarie per super-semplificare problemi complessi a persone che non sono abituate al ragionamento controintuitivo (io le chiamo “menti semplici”).

Sul consumo dei suoli

Fatta questa osservazione che mi consente di dire di essere in costante disaccordo con chiunque usi in modo ridondante o sbagliato termini che appartengono alla disciplina chimica, bisogna avere dati alla mano per capire come venga praticata l’agricoltura nei diversi territori del nostro Paese e di come il suolo venga sfruttato. I dati ci sono forniti dall’ISPRA (Fonte).

 

Regione Suolo consumato 2020 [%] Suolo consumato 2020 [ettari] Incremento 2019-2020 [consumo di suolo annuale netto in ettari]
Lombardia 12.1 288504 765
Veneto 11.9 217744 682
Campania 10.4 141343 211
Emilia-Romagna 8.9 200404 425
Puglia 8.1 157718 493
Lazio 8.1 139508 431
Friuli-Venezia Giulia 8.0 63267 65
Liguria 7.2 39260 33
Marche 6.9 64887 145
Piemonte 6.7 169393 439
Sicilia 6.5 166920 400
Toscana 6.2 141722 214
Umbria 5.3 44427 48
Calabria 5.0 76116 86
Abruzzo 5.0 53768 247
Molise 3.9 17317 64
Sardegna 3.3 79545 251
Basilicata 3.2 31600 83
Trentino-Alto Adige 3.1 42772 76
Valle d’Aosta 2.1 6993 14
Italia 7.1 2143209 5175

Fonte della tabella

Dalla tabella si evince come le diverse regioni Italiane si comportino diversamente nei confronti della risorsa non rinnovabile “suolo”. Le Regioni meno virtuose nel 2020 sono state Lombardia, Veneto e Campania con un consumo di suolo maggiore del 10%. Questo numero significa che fatta 100 la superficie delle regioni, nel 2020 le tre Regioni hanno perduto più del 10% della loro superficie rispetto all’anno precedente. Perdere una superficie vuol dire che essa viene sottratta alla produzione alimentare e delle fibre tessili per esigenze di tipo insediativo (Fonte).

Sugli effetti del consumo di suolo sull’attività agricola e l’uso dei fitofarmaci

Usando la logica comune ne viene che se una parte della superficie di un Paese viene sottratta alla produzione alimentare, ciò che ne rimane deve subire uno stress maggiore per soddisfare le esigenze nutritive di una popolazione in costante aumento. Come conseguenza, sembrerebbe chiara la veridicità del sentire comune secondo il quale la pratica agricola fa sempre più largo uso di fitofarmaci contribuendo alla progressiva contaminazione ambientale.

Ancora una volta bisogna ribadire che affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie. Le nostre prove vengono sempre dall’ISPRA e, in particolare, dall’ultimo rapporto pubblicato nel 2019 e relativo alla “Distribuzione per uso agricolo dei prodotti fitosanitari (erbicidi, fungicidi, insetticidi, acaricidi e vari)”. In tale rapporto si riporta chiaramente che:

Nel 2016 sono stati immessi in commercio circa 124 mila t di prodotti fitosanitari (p.f.), con una diminuzione dell’ 8,8% rispetto al 2015 (Tabella 1). Di questi il 49,2% è costituito da fungicidi, il 17,6% da insetticidi e acaricidi, il 18,2 % da erbicidi e il 15% dai vari. Per quanto riguarda il contenuto in principi attivi (p.a.) si registra un calo complessivo del 4,8 %, pari a 3.063 t. Il 60,6% del totale di p.a. è costituito dai fungicidi, seguono, nell’ordine, i vari (16,7%), gli erbicidi (12,4%), gli insetticidi e gli acaricidi (9,6%) e i biologici (0,7%). Nel periodo 2006–2016, la distribuzione dei p.f. presenta una contrazione del 16,7% (24.884 t). Cala il quantitativo di tutte le categorie: fungicidi (-19,6%), insetticidi e acaricidi (-19,2%), erbicidi (- 14,7%) e dei vari (-3%). Anche nel 2016, in linea con le due annate precedenti, i consumi di p.a. biologici aumentano (+15,5 % rispetto al 2015), confermando un’inversione di tendenza. La distribuzione delle trappole, anch’essa associata a criteri di difesa innovativi e a minor impatto sull’ambiente, subisce un crollo passando da poco più di 583 mila a poco più di 191 mila unità. Considerando anche le classi di tossicità previste prima della definitiva entrata in vigore del nuovo sistema di classificazione introdotto dal Regolamento (CE) n.1272/2008, nel 2016 i p.f. molto tossici e tossici rappresentano il 3,9% del totale, i nocivi il 25,7% e i non classificabili il restante 70,3%. Rispetto al 2015 si rileva una decisa riduzione in tutte le categorie: molto tossici e tossici (-29,7%), nocivi (-10,4%), non classificabili (-6,6%). Nel lungo periodo (2006-2016) i molto tossici e tossici registrano una riduzione del 41,9%. I nocivi, che alternano aumenti e diminuzioni, presentano invece un sostanziale aumento (+38%). La distribuzione dei p.f. non classificabili, anch’essa con andamenti fluttuanti, risulta decisamente minore (-25,7%). Nel periodo 2006–2016 si assiste, nel complesso, a un’accentuata contrazione dei consumi in p.a. (-26%), con dinamiche diverse e talora irregolari per le varie categorie. Diminuiscono notevolmente i p.a. di tutte le categorie (insetticidi e acaricidi -47,3%, fungicidi – 28,1 %, erbicidi – 16,1%, vari -5,9%) ad esclusione dei biologici, che continuano ad aumentare (+252%). In valore assoluto essi si attestano, nel 2016, intorno alle 409 t, superiore rispetto a tutti gli anni precedenti. Tutti i p.a. dimostrano un andamento complessivamente in diminuzione, ma fluttuante. Ciò si verifica in modo più evidente per i fungicidi. Tale andamento rispecchia in modo particolare scelte e necessità di natura tecnica ed agronomica (andamento climatico), ma non si possono escludere anche strategie commerciali delle industrie produttrici”.

Andando al 2020, invece, l’ISPRA ha pubblicato il “Rapporto nazionale pesticidi nelle acque” relativo al biennio 2018-2019 dal quale si evince che:

dove il monitoraggio viene eseguito in modo più capillare, tanto più vengono riscontrate presenze di agrofarmaci nelle acque. Tuttavia, questo aumento dei punti che presentano tracce di agrofarmaci non dovrebbe essere confuso con un peggioramento generale della gestione degli agrofarmaci. In ogni caso dal rapporto appare anche che il monitoraggio delle acque superficiali e delle acque profonde, mostra segni di miglioramento rispetto al rapporto precedente. Difatti, per le acque superficiali il 79% dei campioni ha presentato concentrazioni di agrofarmaci inferiori agli SQA (Standard di Qualità Ambientale, nel 2016 erano il 76,1%), mentre per le acque sotterranee i punti di monitoraggio al di sotto degli SQA sono stati quasi il 95% (nel 2016 erano il 91,7%). Anche la vendita di prodotti fitosanitari, come visto, sta mostrando da tempo dei trend in diminuzione sia in termini di quantità assolute che di quantità per ettaro di SAU: i prodotti fitosanitari sono diminuiti del 22,4%, mentre i principi attivi del 27%” (Fonte).

In altre parole, le opinioni personali, le sensazioni soggettive, l’idea che “quando eravamo piccoli si stava meglio” oppure i casi particolari limitati a pochi ettari di suolo (rispetto alla superficie nazionale) in cui gli agricoltori si comportano come criminali, non contano ai fini di una demonizzazione di una agricoltura che sta assumendo sempre più un aspetto sostenibile e, di conseguenza, rispettoso dell’unico pianeta sul quale, per il momento, siamo in grado di vivere.

Sull’agricoltura biologica

Ritorniamo per un momento all’uguaglianza naturale=buono di cui si argomentava più su. Questa associazione del tutto arbitraria e fuorviante viene, in realtà, diffusa – per semplicità argomentativa e per la facilità con cui riesce a penetrare le menti già predisposte a credere che tutto ciò che è presente in natura sia buono e salutare – dagli organismi istituzionali che governano le nostre società. L’esempio si trova in un sito web della Comunità Europea (qui) in cui si riporta:

L’agricoltura biologica è un metodo agricolo volto a produrre alimenti con sostanze e processi naturali”.

A questa affermazione che non definisce in modo puntuale il significato di “naturale” e di cosa siano le sostanze ed i processi naturali – sebbene esista tutta una branca della chimica che prenda il nome di Chimica delle sostanze naturali e che si occupa del comportamento chimico, fisico e biologico dei metaboliti secondari di origine vegetale – si aggiunge anche:

incoraggia a:

  • usare l’energia e le risorse naturali in modo responsabile
  • mantenere la biodiversità
  • conservare gli equilibri ecologici regionali
  • migliorare la fertilità del suolo
  • mantenere la qualità delle acque”.

che, tutto sommato, non è altro che un decalogo della pratica agricola sostenibile che va sotto il nome di agricoltura integrata di cui ho già parlato in precedenza. In altre parole, l’agricoltura biologica è una tipologia di agricoltura integrata che in più offre una certificazione che documenta – o dovrebbe farlo – il basso impatto ambientale dell’attività che viene svolta sotto il cappello del termine “biologico”.

La certificazione “biologica” impone anche l’uso di prodotti fitosanitari opportunamente elencati in liste di prodotti consentiti. Una di queste liste aggiornate al 2020 è presente sul sito del Ministero della Salute (qui), un’altra, meno recente, su quello della Feder-Bio (qui). Per chi è abituato a leggere numeri e tabelle salta subito all’occhio che tra i prodotti fitosanitari ammessi in agricoltura biologica sono presenti numerosi composti a base di rame (Cu). Il rame tutto è tranne che “naturale” e, inoltre, ha una forte attività tossica per tanti organismi viventi, tra cui l’uomo (Fonte). Ma questa è solo una delle tante contraddizioni dell’agricoltura biologica. Un’altra, meno evidente, è legata alla bassa produttività di questa pratica agricola (Fonte). Questo vuol dire che per produrre quanto pratiche agricole non biologiche c’è bisogno di superfici molto estese, ovvero è necessario disboscare con conseguente incremento di gas serra (in particolare anidride carbonica) e tutto ciò che segue in termini di cambiamenti climatici. Di agricoltura biologica dei suoi limiti e vantaggi si parla anche sulla pagina del SeTA (Scienze e Tecnologie per l’Agricoltura) a questo Link.

Sull’illusione dei residui dei fitofarmaci

Molto spesso i no-tutto (di cui ho accennato in una intervista qui) hanno paura anche dell’aria che respirano e si impressionano solo a leggere nomi IUPAC (International Union of Pure and Applied Chemistry) di composti che non sono per nulla pericolosi. Conoscete la beffa del monossido di diidrogeno? No? Bene, la potete leggere qui.

La chemofobia si alimenta anche grazie alle notizie allarmistiche sulla presenza di residui di fitofarmaci che attenterebbero alla salute pubblica. Non molto tempo fa è stata data ampia diffusione a delle analisi fatte da una associazione di produttori su spaghetti di brand piuttosto famosi (qui).

La tabella qui sotto riporta nella prima colonna le aziende prese in considerazione; nella seconda il contenuto di glifosate trovato, espresso come milligrammi (mg) di principio attivo per chilogrammo (kg) di pasta; nella terza la percentuale di glifosato rispetto al limite di legge di 10 mg/kg; nella quarta la quantità di pasta in chilogrammi che contiene la dose di 10 mg/kg indicata come limite massimo di residuo. Infine, nella quinta colonna si riporta la quantità di pasta in chilogrammi che un individuo di 80 kg dovrebbe assumere in un solo giorno per raggiungere il limite di 0.3 mg/kg/d previsto dalla Comunità Europea (ne ho già parlato qui).

È facile capire che le quantità di residui individuati non solo sono ben al di sotto dei limiti di legge, ma sono anche molto al di sotto dei limiti che potrebbero portarci a problemi di salute. Nel XXI secolo è ancora valido il principio stabilito da Paracelso nel XVI secolo in base al quale è la dose che fa il veleno. In altre parole, la presenza di un sistema chimico tossico non vuol dire che esso lo sia veramente perché ciò che importa è quanto di quel sistema è presente in un dato alimento.

Marca degli spaghetti Contenuto in glifosate (mg/kg) Percentuale rispetto al limite di legge (10 mg/kg) Quantità di pasta necessaria per raggiungere il limite di legge (kg) Quantità di pasta che un individuo di 80 kg deve assumere per raggiungere il limite di 0.3 mg/kg/d previsto dalla EU
Riscossa 0.146 1.46 68 164
Divella 0.068 0.68 147 353
Garofalo 0.03 0.3 333 800
De Cecco 0.017 0.17 588 1412
Rummo 0.016 0.16 625 1500
Barilla 0.013 0.13 769 1846

Fonte dell’immagine di copertina (This image is licensed under the Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International license)

I segreti della grandine

Ogni anno sentiamo parlare di enormi “palle” di ghiaccio che cadono dal cielo e fanno danni enormi non sono solo alle cose (auto, case, etc.), ma anche alle attività produttive come l’agricoltura.

Oggi non mi voglio interessare dei danni che può fare la grandine, ma solo concentrarmi  sui meccanismi della sua formazione per capire a cosa essa sia dovuta e perché i chicchi di grandine possono avere dimensioni variabili fino ad arrivare a quelle di una palla come evidenziato nella foto di copertina.

La geografia dell’atmosfera

La parte di spazio che si estende dalla superficie terrestre fino a circa 16 km di altezza prende il nome di troposfera. È qui che avvengono i fenomeni climatici. L’aria della troposfera è composta non solo da ossigeno e azoto, ma anche da acqua, ossidi di azoto e zolfo, anidride carbonica, monossido di carbonio, gas nobili, sostanze organiche volatili che derivano sia dall’attività antropica che da quella naturale (per esempio, le molecole odorose che vengono rilasciate dalle piante), virus, batteri, funghi, spore e molto altro ancora. Naturalmente tutti questi sistemi sono posizionati a quote differenti in funzione delle loro dimensioni, cosicché, per esempio, virus, batteri, funghi e spore sono più vicini al suolo.

L’esperienza comune ci insegna che quando andiamo su in montagna la temperatura si abbassa. E chi è abituato a viaggiare in aereo sa che più in alto si sale più la temperatura tende a scendere: quanti di quelli che viaggiano in aereo non hanno mai letto sui monitor all’interno delle cabine che la temperatura esterna è di -32 °C oppure addirittura di -50 °C?

Vi siete mai chiesti perché?

Ne avevo già parlato l’anno scorso. Una spiegazione approfondita sulle variazioni di temperatura al variare della quota è al link seguente:

Fa freddo lassù?

In breve, possiamo dire che più vicini siamo al suolo, più risentiamo della radiazione elettromagnetica (indicata come infrarosso) proveniente dalla Terra.

Rimando al mio articolo dell’anno scorso per capire perché ci sono oscillazioni termiche man mano che si passa dalla troposfera alla stratosfera, da questa alla mesosfera e da quest’ultima alla termosfera.

E’ proprio la troposfera che dobbiamo tener d’occhio per spiegare la formazione della grandine.

Come si forma la grandine

Tutto ha inizio nei cumulonembi. Si tratta di nuvole a forte sviluppo verticale che si formano per effetto di processi convettivi attraverso cui enormi quantità di aria, contenente acqua, vengono movimentate sia verso l’alto che verso il basso, raggiungendo altezze che possono arrivare fino a 12-16 km. In queste enormi nubi le temperature sono molto variabili potendo passare da valori pari a 0 °C a valori compresi tra -50 e -60 °C.

Tutti noi sappiamo che quando l’acqua è a 0 °C si trova nello stato solido. Tuttavia, non tutti sanno che esiste una condizione che si chiama sopraffusione nella quale l’acqua è in una condizione metastabile, ovvero, in assenza di perturbazioni, essa permane nella fase liquida. Divertitevi a vedere cosa accade per effetto della sopraffusione:

L’acqua sopraffusa è presente prevalentemente nelle zone basse dei cumulonembi, mentre nelle zone più alte si formano dei piccolissimi granelli di ghiaccio, detti embrioni – il mio vecchio professore di chimica analitica li avrebbe chiamati “gemme” – che, per effetto delle correnti convettive, tendono a portarsi nelle zone basse delle nuvole. Quando i minuscoli granelli di ghiaccio incontrano l’acqua sopraffusa, la catturano. In questo modo le dimensioni delle gemme aumentano. Le correnti convettive riportano questi granelli accresciuti di nuovo verso l’alto e poi ancora verso il basso dove si accrescono ulteriormente. Quando le dimensioni delle particelle di ghiaccio diventano tali da non poter essere più trasportate dalle correnti convettive, queste ricadono verso terra sotto forma di grandine. Una descrizione più particolareggiata e corretta della formazione della grandine la potete trovare cliccando sull’immagine qui sotto.

Le dimensioni della grandine

Come ho scritto più su, la grandine si presenta di dimensioni molto differenti: si va da piccolissimi chicchi (pochi millimetri) fino a pezzi di ghiaccio delle dimensioni di palle da tennis o da baseball. Come mai c’è questa diversificazione?

Beh…tutto dipende dalla velocità con cui essa si forma, dalla direzione delle correnti convettive, dalla concentrazione di acqua sopraffusa e dalla temperatura alla base ed in quota del cumulonembo.

Nel filmato qui sotto potete osservare un “bombardamento” di grandine occorso a Rozzano circa una settimana fa (la notizia è qui)

Fonte dell’immagine di copertina

Scienza e cultura

Ieri sera (il 26 Giugno 2021) ho partecipato ad un interessante evento culturale a Bassano del Grappa: La Milanesiana. Si tratta di un progetto itinerante che ha raggiunto il suo ventiduesimo anno di età. Ha come oggetto un tema differente per ogni anno. Quest’anno l’evento è stato dedicato al progresso.

Benché accattivante, il tema non viene spiegato molto bene. Nel programma, che si può trovare a questo link, è scritto:

Il tema di questa ventiduesima edizione, come quello degli ultimi anni, è stato scelto da Claudio Magris: il Progresso. Un tema già in sé denso di paradossi. Dopo quello che abbiamo vissuto possiamo ancora parlare di progresso? E possiamo farlo in modo univoco? Possiamo dire, forse, che ci sono tanti progressi, almeno quanti sono i passi indietro?

Belle parole. Ma cos’è il progresso?

Non voglio addentrarmi in una discussione sul significato di progresso. Ciò che, in realtà, mi ha colpito e mi ha lasciato con l’amaro in bocca è stata la distinzione tra progresso scientifico e progresso culturale introdotta nei primi minuti della presentazione dell’evento ideato da Elisabetta Sgarbi. Questa distinzione mi ha fatto riflettere e mi porta a riflettere “ad alta voce” su questo blog in cui, tra le tante cose, spesso condivido le mie perplessità.

Se una persona dallo spessore culturale di Elisabetta Sgarbi sente la necessità di parlare di progresso scientifico e progresso culturale, separando la scienza dalla cultura, vuol dire che l’influenza del pensiero di Gentile secondo cui “il sapere scientifico veniva relegato nella categoria dell’utilità e nello stesso tempo gli si negava il valore di conoscenza concettuale e soprattutto di cultura” è ancora viva e vegeta.

Eppure le prime pagine dei libri di filosofia del liceo sono occupate dal pensiero dei rappresentanti della scuola di Mileto: Talete, Anassimandro e Anassimene. Nella loro ricerca del principio delle cose (l’acqua per Talete, l’apeiron o l’indefinito per Anassimandro e l’aria per Anassimene), questi Maestri facevano uso di un primordiale metodo scientifico basato sull’osservazione e sull’induzione. In altre parole, partendo dalla constatazione di certi fatti osservati (per esempio, l’acqua necessaria alla vita per Talete, l’aria che permea ogni cosa per Anassimene, oppure un insieme di fattori che Anassimandro chiama “indefinito”) questi pensatori traevano conclusioni di carattere generale sull’origine della vita e delle cose che ci circondano. E cosa dire di Democrito che, basandosi sull’osservazione che un coltello può tagliare un oggetto in pezzi sempre più piccoli fino ad un punto oltre il quale non è più possibile proseguire, introdusse il concetto di a-tomo, ovvero di indivisibile? Se vogliamo, lo stesso Aristotele può essere considerato come un precursore del moderno scienziato. Pur con le limitazioni del suo tempo, nella sua Fisica, Aristotele aveva osservato che tutto ciò che ci circonda è generato dalla combinazione di aria, acqua, terra e fuoco a cui bisogna aggiungere l’etere indispensabile per la comprensione della natura dei corpi celesti. Arrivando ad epoche più recenti, non si può non ricordare Leonardo da Vinci conosciuto non solo per le sue doti artistiche, ma anche per quelle ingegneristiche e scientifiche, oppure Göthe, appassionato di chimica, che, nelle sue “Affinità elettive“, descrive in modo sublime il concetto di affinità chimica usato ancora oggi per spiegare la formazione dei legami chimici:

Bisogna vedere in azione davanti ai propri occhi queste sostanze all’apparenza inerti, e tuttavia intimamente sempre disposte, ed osservare con partecipazione il loro cercarsi, attirarsi, assorbirsi, distruggersi, divorarsi, consumarsi, e poi il loro riemergere dalla più intima congiunzione in forma mutata, nuova, inattesa: allora si che si deve attribuire loro un vivere eterno, anzi, addirittura intelletto e ragione, dal momento che i nostri sensi appaiono appena sufficienti ad osservarli e la nostra ragione a stento capace di interpretarli“.

Lo stesso Kant ha dedicato parte della sua opera al pensiero scientifico, così come Heisenberg , sì – proprio quello del principio di indeterminazione, ha usato la sua logica scientifica per dare un contributo alla filosofia. E cosa dire di Schöredinger che col suo “Che cos’è la vita?” ha influenzato generazioni di scienziati che, poi, hanno dato un contributo notevole allo sviluppo delle conoscenze umane (Monod, De Duve, etc)? Vogliamo parlare anche di Edward O. Wilson o di Stephen J. Gould che col loro lavoro hanno consentito di capire in che modo si sviluppano le società di esseri viventi?

Tutto questo semplicemente per dire che quello che noi identifichiamo come pensiero scientifico è in tutto e per tutto pensiero umano e, in misura più o meno variabile, contribuisce allo sviluppo culturale della comunità di cui facciamo parte. In questo senso, per cultura non intendo la conoscenza della storia, della filosofia, della letteratura o, più genericamente, l’insieme delle conoscenze puramente concettuali “sensu Gentile“, ma l’intero spettro di conoscenze che acquisiamo durante la nostra vita e trasmettiamo alle generazioni future.  Che il pensiero scientifico consenta anche di produrre tecnologia e di  risolvere problemi di natura tecnica è solo un dettaglio che è insito nella natura stessa di tale pensiero.

Fonte dell’immagine di copertina

Ancora su anidride carbonica e mascherine

Vi ricordate la lettera aperta che all’inizio di ottobre ho scritto ad Enrico Montesano? No!? Eccola nel link qui sotto:

Lettera aperta ad Enrico Montesano

In questa lettera facevo notare al mai dimenticato Rugantino che quanto asseriva in merito alla pericolosità delle mascherine erano tutte sciocchezze. Lo facevo con la solita metodica scientifica, ovvero considerando gli aspetti quantitativi relativi alla dimensione delle molecole di anidride carbonica e quella dei pori delle mascherine attraverso cui il gas passa.

Per darvi una idea grafica delle conclusioni in merito al rapporto dimensionale tra la molecola di anidride carbonica e un poro di una mascherina chirurgica, potete far riferimento alla Figura 1.

Figura 1. Il puntino a sinistra è la rappresentazione di una molecola di anidride carbonica. Il cerchio a sinistra è la rappresentazione di un poro di una mascherina chirurgica.

In questa figura, considerando unitaria la dimensione della molecola di CO2 (il puntino a sinistra), un poro di una mascherina chirurgica risulta circa 800 volte più grande della molecola di anidride carbonica (cerchio a sinistra in Figura 1).

Nei giorni successivi alla pubblicazione della lettera aperta c’è stato un delirio di interventi (tra messaggi nel blog e lettere ai miei indirizzi e-mail) tutti a carattere monotematico. Ad eccezione di tre/quattro persone che si sono complimentate per aver finalmente evidenziato, numeri alla mano, l’incongruenza di quanto detto da Montensano e i figuri a cui egli si ispira, c’è stata gente che, per lo più in un italiano stentato e dimostrando di aver saltato tutte le lezioni sulle equivalenze fatte alle scuole elementari, pretendeva di mettere in dubbio i numeri riportati nella mia lettera aperta. Le argomentazioni andavano dall’aver usato concetti di chimica troppo complicati (SIC!), alla matematica troppo difficile (SIC!), al fatto che io non uso la mascherina in modo continuativo e non so cosa vuol dire stare tutto il giorno con questo dispositivo di protezione individuale, al fatto che non soffro di patologie che mi impediscono di indossare la mascherina. E potrei continuare.

Nel marasma di commenti tutti sulla falsariga di quanto appena riportato, ci sono stati alcuni interventi che meritano la mia attenzione. In sintesi, si tratta di commenti che evidenziano come le mie argomentazioni siano corrette considerando una singola molecola di CO2 ed un singolo poro di una mascherina chirurgica. Tuttavia, avrei dovuto considerare che noi espiriamo milioni di miliardi di molecole di anidride carbonica. I pori della mascherina rappresentano, quindi, un “collo di bottiglia” attraverso cui tutte quelle molecole non riescono a fuoriuscire tra un respiro e l’altro, con la conseguenza che reimmettiamo nel nostro organismo la CO2 che abbiamo appena espirato.

Purtroppo, la logica che ci ha consentito di sopravvivere alle belve feroci per arrivare fino ad oggi, non si può applicare in ambito scientifico dove i modelli che vengono sviluppati sono tutti, ma proprio tutti, controintuitivi. Inoltre, fare  affermazioni senza il supporto di dati numerici non è esattamente corretto sotto il profilo scientifico. Infatti, tutti i commenti in merito all’azione “collo di bottiglia” esercitata dalle mascherine erano di tipo aneddotico. Nessuno, ma proprio nessuno, si è mai peritato di fornire un modello matematico per spiegare i propri ragionamenti.

Vediamo perché l’idea del “collo di bottiglia” che non permette il passaggio della CO2 che espiriamo è completamente sbagliata.

Basta una banale ricerca in rete per trovare che la permeabilità (intesa come il flusso di gas che passa attraverso le mascherine per unità di superficie) è di circa 10 litri al minuto (L min-1) per le mascherine chirurgiche e di circa 5 L min-1 per le mascherine tipo FFP2 (qui). Volete sapere cosa significano questi numeri? Semplicemente che per ogni centimetro quadrato di mascherina, passano 10 L min-1 e 5 L min-1 (a seconda della tipologia di mascherina) di aria. Questi numeri sono stati misurati usando una pressione di esercizio di circa 20 mbar, ovvero la pressione esercitata dall’apparato respiratorio a riposo (qui). In ogni caso, più alta è la pressione esercitata contro le mascherine, maggiore è la loro permeabilità (qui). Considerando che il flusso di aria che espiriamo mediamente è di circa 6 L min-1 (qui), ne viene che di anidride carbonica tra la mascherina ed il viso non rimane nulla. In altre parole, non c’è alcun rischio di respirare la propria anidride carbonica.

Da dove viene, allora, la convinzione che le mascherine consentirebbero di respirare la propria “aria usata”?

Si tratta solo di fattori psicologici che nulla hanno a che fare con la reale capacità di una qualsiasi mascherina di impedire il passaggio dell’aria che fuoriesce dai nostri polmoni (qui e qui). In pratica, chi afferma che non riesce a respirare è solo vittima delle proprie impressioni personali che non hanno niente a che vedere con la realtà chimico-fisica delle mascherine il cui uso è fortemente consigliato (assieme alle distanze di sicurezza e ad elementari norme igieniche) per ridurre la dffusione del contagio da SARS-COV-2.

Note

Alcuni lettori del blog mi hanno chiesto come mai le mascherine chirurgiche vanno indossate in un ben preciso verso, ovvero con la parte colorata rivolta verso l’esterno. La risposta è stata data qualche tempo fa in questo link. In sintesi, la parte colorata di una mascherina chirurgica è fatta da materiale idrorepellente. Questo riduce la possibilità che le eventuali goccioline di saliva espirate da persone con cui, per esempio, stiamo parlando, possano penetrare attraverso lo strato colorato e raggiungere gli strati interni con possibilità di contaminarci.

Altri lettori mi hanno chiesto come mai gli occhiali si appannano quando indossiamo la mascherina. L’appannamento è dovuto al fatto che l’aria che espiriamo è calda. Quando le molecole di acqua calda che espiriamo entrano a contatto con la superficie fredda dei nostri occhiali, condensano dando luogo al fenomeno dell’appannamento (qui).

Letture e riferimenti

Characterization of face masks

An overview of filtration efficiency through the masks: Mechanisms of the aerosols penetration

Air permeability and pore characterization of surgical mask and gowns

On respiratory droplets and face masks

Characteristics of Respirators and Medical Masks

FONTE DELL’IMMAGINE DI COPERTINA

Lettera aperta ad Enrico Montesano

Avete presente le dichiarazioni di Enrico Montesano, indimenticabile protagonista di uno dei film più trash degli anni ’70 dal titolo “Febbre da cavallo”, in merito alle mascherine che dobbiamo indossare per proteggerci dal virus del Covid-19? Riporto dai giornali (qui, qui e qui, per esempio):

Le mascherine che oggi vengono usate ci fanno respirare la nostra anidride carbonica.

Ecco. È proprio per questa affermazione che desidero scrivere una lettera aperta ad Enrico Montesano.

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Caro Enrico,

nonostante la differenza di età che ci contraddistingue o, forse, proprio per quella, mi permetto di darti del “tu” perché quando ero un bambino e poi un adolescente sei stato uno dei comici che più mi hanno messo di buon umore. Sebbene “Febbre da cavallo” io lo giudichi un trash, non posso negare che è uno dei miei film preferiti perché ogni volta che lo riguardo mi proietto in un’epoca in cui ero molto più spensierato di adesso.

Caro Enrico, quando fai certe affermazioni e citi certi figuri dei quali ti fidi in merito a problemi di ordine sanitario, non ci fai una bella figura. Ovviamente sei libero di credere in chi ti pare, ma non puoi aspettarti, poi, il rispetto che meriteresti come attore quando entri in un campo della conoscenza che non ti compete. Anche se dici di informarti, penso che le tue fonti non siano esattamente attendibili.

Lasciando perdere tutte le sciocchezze che hai detto in merito al Covid-19 ed alle mascherine, mi voglio soffermare solo su quello che hai detto in merito all’anidride carbonica. Naturalmente, come dicevo sopra, sei libero di credere in chi ti pare e ritenere che io dica sciocchezze. L’unica cosa è che le mie “sciocchezze” sono verificabili, mentre le tue e quelle dei figuri che citi non lo sono per il semplice motivo che sono ben lontane dalla realtà.

Andiamo più nel merito.

Le mascherine che indossiamo non ci fanno respirare la nostra anidride carbonica nelle normali condizioni in cui le usiamo. Vediamo perché.

Ho già scritto in merito al meccanismo di funzionamento delle mascherine. Basta cliccare qui sotto

Come funzionano le maschere filtranti

In questo articolo ho messo in evidenza che le dimensioni dei pori delle mascherine sono dell’ordine dei micrometri. Prendiamo solo i pori più piccoli delle mascherine più efficaci: 0.2 μm, ovvero la 0.2 milionesima parte del metro, in altre parole 0.2 x 10-6 m. Sembra una dimensione molto piccola, vero Enrico?

Ed ora ti invito a scaricare un programmino di chimica computazionale che io uso sul tablet. Si chiama WebMO. La versione per iPad che uso io costa solo circa 5 €. Non penso che l’acquisto sia impossibile per te. Grazie a questo programmino è possibile disegnare la molecola di anidride carbonica e studiarla in tutte le sue caratteristiche. È un programmino estremamente intuitivo e facile da usare. Superato il panico di chi non conosce la chimica vedrai che lo apprezzerai molto.

Ebbene, caro Enrico, grazie a questo programmino, la molecola di anidride carbonica è quella che ti riporto qui sotto:

Ho evidenziato gli atomi di ossigeno e di carbonio in modo da permettere al programmino di fornire la distanza tra questi due atomi. Come leggi in basso, la distanza è circa 1.275 Å, ovvero 1.275 x 10-10 m. Se consideriamo, in prima approssimazione, la molecola di anidride carbonica in continua rotazione, possiamo considerarla come una sfera del diametro pari a 2 x 1.275 x 10-10 m, ovvero una sfera del diametro di 2.550 x 10-10 m.

Adesso, come si faceva alle scuole elementari, facciamo il rapporto tra le dimensioni di un poro di una mascherina e quella del diametro della sfera suddetta:

0.2 x 10-6 m/2.55 x 10-10 m = 784

In altre parole, mio caro Enrico, il poro più piccolo della mascherina più efficace è circa 800 volte più grande della molecola di anidride carbonica.

Sai cosa vuol dire questo?

Leggo da Wikipedia che tu sei alto 1.73 m. Se immagini di essere la molecola di anidride carbonica, devi moltiplicare la tua altezza per 784 ed ottieni la larghezza del tunnel nel quale decidi di passare. Si tratta, cioè, di un tunnel la cui larghezza è di circa 1356 m, ovvero 1 km e circa 400 m. Non mi vorrai mica far credere che non riesci ad attraversare un buco di questa larghezza?

Capisci, adesso, caro Enrico, perché hai detto una sciocchezza sesquipedale?

Ti saluto affettuosamente ricordando sempre con enorme piacere, oltre che tanta nostalgia per il tempo passato, i tuoi film ed il tuo famoso Rugantino.

Tuo,

Rino

Fonte dell’immagine di copertina

Dubbi sul vaccino anti-Covid russo

Recentemente è apparso su The Lancet, autorevole rivista scientifica di carattere medico, un lavoro che illustra l’efficacia di un vaccino anti-Covid sviluppato da ricercatori russi. Il lavoro è disponibile qui. Tuttavia, dall’analisi dei dati riportati nel lavoro, sono venuti fuori alcuni limiti che fanno dubitare della serietà del lavoro. È per questo che alcuni scienziati, tra cui il sottoscritto, si sono fatti latori di una lettera aperta in cui chiedono di poter analizzare i dati bruti da cui sono state ottenute le figure che sembrano artefatte.

La lettera è disponibile cliccando sulla figura qui sotto


La stessa lettera è stata pubblicata su Il Foglio (qui)

Oli, sali e zuccheri

Oggi ho trovato una bella sorpresa on line. La C1V edizioni ha reso disponibili le presentazioni fatte nel 2018 in occasione del secondo Convegno Nazionale Medicina e Pseudoscienza (CNMP).  Durante il convegno ho fatto una lunga lezione divulgativa sulle false informazioni in merito agli oli, ai sali ed agli zuccheri. Qualche mese dopo avrei pubblicato “Frammenti di Chimica” in cui si trovano molte delle cose che ho detto in quel convegno.
Se volete divertirvi ad ascoltarmi, qui sotto ci sono i miei tre interventi.

Prima parte

Seconda parte

Terza parte

In realtà il congegno del 2018 è stato molto ricco. Hanno partecipato tutti gli scienziati attivi nella lotta alle bufale: da Silvio Garattini a Piero Angela, da Roberto Burioni a Francesco Galassi e tanti tanti altri. Se volete fare un viaggio nel tempo e partecipare al convegno, potete iscrivervi al canale YouTube della C1V e ascoltare tutte le presentazioni. Basta cliccare sull’immagine qui sotto.

 

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