Corni rossi in laboratorio: mito e metodo, scaramanzia e superstizione

Una delle prime cose che insegno, all’inizio dell’anno accademico nei miei corsi triennale e magistrale, è il metodo scientifico: guardi, ti fai un’idea, provi a smentirla.

Pulito, lineare: tutto misurabile, tutto spiegabile in modo oggettivo e razionale.

Eppure…

C’è stato un tempo in cui avevo la maglia fortunata. Non sostenevo esami senza indossarla. Era la mia coperta di Linus. A nulla valeva ricordarmi che superare un esame dipendesse da me: da quanto avessi studiato e da quanto avessi capito quella disciplina. No: senza il talismano non andavo da nessuna parte. E se venivo bocciato? La risposta era unica e certa: non indossavo il mio “dispositivo apotropaico” perché proprio quel giorno mia madre l’aveva messo a lavare per togliere le puzze.

Dopo cinque anni e una trentina di esami, quella maglia sembrava un gatto spelacchiato sopravvissuto a una centrifuga da 2000 giri al minuto.

Vi sembra stupido, vero? Lo è. Ma sono in buona compagnia. Oggi vi parlo delle abitudini strambe – e poco razionali – di alcuni dei più grandi scienziati passati sulla Terra.

Isaac Newton e la pietra filosofale

Isaac Newton, simbolo della ragione e dell’ordine matematico, passò anni chinato su testi di alchimia, annotando in latino formule e segni cifrati, vicino alla fornace. Non era un passatempo: era un’ossessione. Cercava la pietra filosofale, il segreto capace di trasmutare i metalli e, in fondo, di svelare il vocabolario nascosto della materia.

Col senno di poi parleremmo di errore concettuale. Eppure quell’alchimia “superstiziosa” conteneva anche i semi della chimica moderna: tecniche di purificazione (sublimazione, calcinazione, distillazione), un’idea operativa di trasformazione, un metodo di laboratorio fatto di prove, fallimenti, registri. Newton non separava nettamente scienza e mistero: cercava leggi nella natura e, insieme, significati nascosti. Forse per questo – scrisse Keynes  –  “non fu il primo dell’età della ragione, ma l’ultimo dei maghi.”

Dietro la reputazione di glaciale geometra c’era un uomo che alimentava il fuoco del crogiolo di notte, che copiava e commentava pagine e pagine di autori alchemici (tra cui l’enigmatico Eirenaeus Philalethes), che inseguiva il “mercurio filosofico” come chi sospetta l’esistenza di una chiave sola per molte serrature. La sua mano era la stessa che, con pazienza feroce, scomponeva la luce nel prisma: dall’ottica alla gravità, fino alla trasmutazione dei metalli, Newton cercava un principio unificante, un ordine segreto capace di tenere insieme mondi lontani.

C’era anche segretezza: i quaderni alchemici circolavano poco, spesso in codice. Parte per prudenza (il confine con l’eterodossia religiosa era sottile), parte per vanità intellettuale, parte per timore del ridicolo. Ma quelle pagine, così diverse dai Principia, rivelano la stessa postura: occhi sul dettaglio, mani nel laboratorio, mente ostinatamente monoteistica nella sua idea di ordine – un universo costruito con pochi mattoni e poche regole, tutte da decifrare.

È facile sorridere del mago nel matematico. Più difficile è riconoscere che senza quella tenacia quasi rituale, senza notti passate a distillare e fallire, la sua idea di legge naturale non avrebbe avuto la stessa densità. L’alchimia non fu la sua verità scientifica; fu però il suo lessico di apprendistato, il luogo in cui imparò che la materia non si concede a slogan ma a procedimenti. E in questo scarto tra talismano e metodo – tra crogiolo e calcolo – sta il fascino di Newton: un uomo che portò la ragione lontanissimo, senza smettere di ascoltare il richiamo, antico e umano, di un ordine nascosto.

Fermi e la fortuna calcolata

Enrico Fermi, l’uomo che stimava l’energia di un’esplosione nucleare lasciando cadere pezzetti di carta per misurare la distanza d’urto dell’onda, non credeva nella sorte cieca. La misurava. A Los Alamos, nelle pause lunghe come notti, si racconta che facesse conti mentali sulle probabilità di vincere a carte con colleghi altrettanto brillanti: non per denaro, ma per vedere quanto della “fortuna” si potesse spogliare di mistero con un calcolo rapido, un’approssimazione ragionevole, un ordine di grandezza.

La sua erano superstizioni con la matita in mano. Fermi rispettava un principio quasi liturgico: non cambiare un assetto sperimentale che aveva funzionato; ripetere la sequenza di passaggi nello stesso modo, con la stessa cura, quasi con lo stesso ritmo. Non era magia: era metrologia affettiva – l’idea che la regolarità delle cose meriti un cerimoniale minimo perché il rumore non divori il segnale. Nei suoi taccuini la scaramanzia si riduceva a un algoritmo pratico: tieni ferma la procedura, lascia variare una sola cosa alla volta, abbi rispetto per gli strumenti e per i loro capricci.

C’era in lui una fiducia spietata nelle buone stime. I famosi “problemi di Fermi” nascevano da qui: la convinzione che, se scomponi l’ignoto in fattori semplici e plausibili, la realtà si lascia avvicinare. La superstizione, in questo schema, diventa la sorella educata della statistica: non un talismano, ma un set di abitudini che tolgono peso all’ansia e lo spostano sulla ripetibilità. Nel laboratorio come al tavolo da gioco, Fermi domava il caso non negandolo, ma mettendolo al lavoro.

Anche attorno a lui, a Los Alamos, i rituali pullulavano: lavagne ripulite solo a fine turno, gessetti “fortunati”, tazze sempre nello stesso posto. Fermi partecipava con un sopracciglio alzato e un cronometro in tasca. Della fortuna accettava il residuo: quel tanto che resta quando hai contato tutto il contabile. Il resto lo affidava a ciò che sapeva fare meglio – ridurre il mondo a numeri onesti, abbastanza robusti da non crollare alla prima raffica di vento.

È forse qui la sua “scaramanzia”: un rispetto laico per l’ordine. Se qualcosa aveva funzionato ieri, non la si toccava oggi. Non per paura, ma per gratitudine alla regolarità. In quell’interstizio – tra l’onda d’urto misurata con un foglietto e il mazzo di carte ridotto a probabilità – la fortuna smette la maschera e diventa varianza; e Fermi, con calma quasi scaramantica, continua a prenderne le misure.

Niels Bohr e il ferro di cavallo

Niels Bohr, premio Nobel e padre della fisica quantistica, teneva appeso un ferro di cavallo alla porta di casa. Si racconta che, quando un amico gli chiese: “Ma davvero credi che porti fortuna?”, Bohr sorridesse: “No, ma mi hanno detto che funziona anche se non ci credi.” Una battuta che sembra un vezzo, e invece è una piccola lezione di epistemologia domestica.

Bohr viveva nella regione di confine tra ciò che possiamo dire e ciò che possiamo solo prevedere. La sua “complementarità” chiedeva di accettare verità parziali che non possono valere insieme nello stesso esperimento, ma che insieme descrivono il mondo meglio di qualunque assolutismo: onda o particella, a seconda di come guardi. Il ferro di cavallo appeso alla porta diventa allora un’immagine perfetta: una “teoria” pratica che non pretende fede, ma chiede ospitalità. Non serve crederci: basta ammettere che il reale è più scaltro dei nostri schemi e che, nel dubbio, un piccolo rito può convivere con una grande teoria.

C’era ironia in quella risposta, ma non leggerezza. Bohr sapeva che la scienza non elimina l’incertezza: la addomestica. Anche la meccanica quantistica – la più predittiva delle teorie – mette il caso al centro. Niente traiettorie segrete, niente consolazioni classiche: probabilità ben educata, sì; certezza, no. Di fronte a questo, un ferro di cavallo non è un talismano contro la ragione: è una metafora di modestia. Ricorda allo scienziato che i modelli funzionano finché funzionano, e che il mondo non ha il dovere di rientrare nella griglia che abbiamo preparato per lui.

Bohr non chiedeva di credere al ferro, ma di tollerare il paradosso: si può non credere e, tuttavia, lasciare uno spazio all’ignoto, come quando accetti che la luce “sia” onda e particella a seconda della domanda che poni. È il suo stile: una lucidità che non ha paura di tenere in tasca un sorriso. In quell’oggetto appeso alla porta c’è il suo invito più serio: restare intelligenti senza diventare arroganti, custodire i riti minimi che ci aiutano a vivere l’alea, e continuare, nonostante tutto, a misurare, a fare esperimenti, a scegliere bene le domande. Perché la fortuna – qualunque cosa sia – magari non esiste; ma il modo in cui ci disponiamo ad accoglierla può fare tutta la differenza.

Marie Skłodowska Curie e la luce nel buio

Marie Skłodowska Curie portava con sé la sua luce. Non un corno, non un ferro: una piccola fiala di sali di radio che al buio emanava un bagliore azzurrognolo. Più che un portafortuna, era un gesto pratico e insieme poetico: la materia che le aveva cambiato la vita, resa visibile. Le piaceva spegnere le lampade e guardare quel chiarore minimo, come se il mondo le concedesse, per un attimo, di vedere ciò che di solito resta nascosto.

Non era superstizione: era vicinanza alla scoperta. Nei baracconi gelidi dell’Institut du Radium, tra cariole di pechblenda rimescolata per mesi, Marie coltivava una liturgia povera: grembiule, provette, registri fitti, e poi quell’istante notturno in cui controllare se il campione “respirava” luce. Il radio diventava il suo segnaposto nel buio, un promemoria tangibile che la materia parla anche quando tacciamo. Non chiedeva protezione; chiedeva attenzione.

C’era dolcezza e durezza insieme in questo rito. Dolcezza nello stupore – la bellezza di un azzurro che fiorisce da una sostanza nera, quasi un fiat di laboratorio. Durezza nella determinazione: la pazienza feroce di chi riduce, filtra, calcina, misura, annota. Quel filo di luce era la prova che il metodo non è arido: è un modo di stare nelle cose, di non separarsi da ciò che si studia. E, sì, anche un modo di non separarsi da Pierre, perché in quel chiarore c’era la memoria condivisa di un lavoro fatto insieme, quando le notti finivano con le mani stanche e gli occhi pieni di scintille.

Guardiamo oggi a quei gesti con una consapevolezza diversa: taccuini e strumenti di Marie sono ancora radioattivi, custoditi in contenitori piombati. La sua “luce” aveva un prezzo. Ma proprio qui, nel contrasto tra incanto e rischio, il suo rito si fa simbolo: un amuleto laico che non promette fortuna, ma ricorda responsabilità. Tenere una fiala che brilla non per scaramanzia, bensì per fedeltà alla realtà: per dirci che la scienza, quando è grande, non smette di cercare la verità – e di riconoscerne, senza paura, il bagliore.

Richard Feynman e i bonghi quantistici

Richard Feynman, premio Nobel e spirito irrequieto, aveva un rito semplice e scandalosamente terrestre: suonare i bonghi. Prima di una conferenza, la sera di un’idea nuova, perfino tra un calcolo e l’altro: due mani, una pelle tesa, un ritmo che mette ordine. Diceva, senza enfasi, che lo aiutava a entrare nello stato giusto: non tanto la “fortuna”, quanto la frequenza su cui far vibrare attenzione e curiosità.

La sua scienza era una danza tra regole e improvvisazione. Nei diagrammi tracciati col gesso c’era la disciplina di un formalismo elegante; nei bonghi, l’altra metà: la sincope che scioglie l’ansia e fa spazio all’intuizione. Feynman conosceva bene la trappola del controllo assoluto: quando il cervello stringe troppo, l’idea scivola via. Il ritmo serviva a spalancare una finestra, a ricordare al corpo che pensare è anche respirare, che la mente ragiona meglio quando il resto di noi non è in apnea.

Non era una superstizione in cerca di indulgenza, ma una igiene dell’attenzione. Come il disegno (le modelle, i quaderni pieni di linee) o il samba imparato in Brasile, i bonghi facevano parte di una palestra sensoriale con cui Feynman teneva vivo il piacere di scoprire. Un piacere fisico, quasi infantile, che non ha paura di battere le mani su un tamburo prima di battere i denti su un integrale. Il laboratorio, per lui, restava un posto serio; ma la serietà non era seriosità: si poteva arrivare alla verità ridendo, purché si restasse onesti con i dati.

C’era poi una lezione morale, che in Feynman non mancava mai: il rito va bene finché non sostituisce la prova. Nei suoi discorsi contro la “cargo cult science” c’è l’avvertimento netto: i gesti possono aiutare a disporci alla verità, ma non la producono. I bonghi, allora, sono il contrario di un talismano: non promettono risultati, promettono presenza. Ti ricordano che il mondo non si piega alla scaramanzia; si lascia capire, a volte, se entri con il passo giusto.

È facile immaginarlo dietro il sipario: camicia arrotolata, qualche colpo secco, poi un sorriso di bambino colto sul fatto. Il pubblico sente ancora l’eco del tamburo quando Feynman comincia a parlare di particelle come se fossero personaggi su un palcoscenico: entrano, escono, si scambiano segnali. Il ritmo, ormai interno, batte sotto le parole. E quando l’argomento si fa sottile, resta quella musica appena percettibile a tenere insieme rigore e gioia – la vera, inconfondibile firma di Feynman.

Quando la superstizione aiuta la scienza

In realtà, la superstizione – o meglio, il rito – non è l’opposto della scienza. È una scorciatoia mentale che ci fa sentire più stabili davanti all’incertezza. Gli esperimenti falliscono, i risultati tardano, la variabilità domina. A volte un piccolo gesto serve solo a ricordarci che non controlliamo tutto, ma possiamo almeno disporre bene noi stessi.

La psicologia la chiama illusione di controllo: l’idea di poter influenzare un esito incerto attraverso comportamenti ripetitivi. Detto così sembra un difetto; in micro-dose è una risorsa. Il rito abbassa l’ansia basale, ancora l’attenzione e mette il corpo in assetto. È un pre-fallimento controllato: una sequenza che conosciamo a memoria e che ci restituisce padronanza quando il resto è imprevedibile. Il chirurgo che allinea gli strumenti, il violinista che accorda nello stesso ordine, la ricercatrice che riempie la scheda come prima cosa: non è magia, è frizione cognitiva ridotta.

C’è poi un altro effetto, più sottile: il rito sposta il fuoco dall’esito al processo. Per qualche minuto non contano il p-value o il referee n. 2; conta il gesto giusto fatto al momento giusto. Questo disinnesca la ruminazione, che è la vera nemica della performance intellettuale. È come dire alla mente: “riparti da qui, dal concreto”. Da lì tornano il metodo, la misura, la pazienza.

Naturalmente il confine è chiaro: il rito è utile finché resta strumento. Quando pretende di sostituire l’evidenza, diventa superstizione nel senso deteriore: cargo cult. La scienza chiede prove, non propiziazioni. Per questo i rituali buoni sono brevi, economici, falsificabili: se disturbano il dato, si cambiano; se aiutano, restano. Nessun dramma, nessun dogma.

Se volessimo distillare una guida pratica per tenere i riti dalla parte della ragione, potremmo scrivere che essi devono essere:

  • Piccoli e ripetibili: un minuto, sempre uguale.
  • Non intrusivi: non devono alterare protocollo e misure.
  • Orientati al processo: preparano la mente, non “chiamano” l’esito.
  • Sostituibili: se non servono più, si lasciano andare senza nostalgia.

Così il rito smette di essere una scialuppa contro il caso e diventa un metronomo: batte il tempo mentre facciamo ciò che davvero conta – osservare, ipotizzare, verificare. E quando, finalmente, il risultato arriva, non diremo “ha funzionato il portafortuna”, ma qualcosa di più adulto e più bello: ho lavorato bene, nel modo giusto.

Superstizioni d’alta quota

Anche oggi, tra scienziati e astronauti, i riti non mancano. Non chiedono fede: aiutano a respirare quando l’alea è alta.

  • Baikonur, la sosta più famosa. Da Gagarin in poi, i cosmonauti russi si fermano ancora accanto alla ruota posteriore del bus che li porta alla rampa. I maschi… urinano; alcune colleghe versano poche gocce da una fialetta, per tradizione. È un gesto semplice e spiazzante, nato dal bisogno e diventato rito: un modo per dire “si parte, ma restiamo umani”.
  • Cape Canaveral, liturgie di routine. In ambiente NASA abbondano abitudini “portaserenità”: la colazione di steak & eggs nel giorno di lancio, una mano di carte finché il comandante perde, e persino le noccioline “della fortuna” al JPL, nate con Ranger 7. Piccoli gesti che non spostano i numeri, ma allineano le teste.
  • Amuleti a gravità zero. Quasi ogni equipaggio porta a bordo un peluche: è simpatico, certo, ma soprattutto è un indicatore innocuo di microgravità — quando inizia a fluttuare, sai che sei in orbita. Una superstizione con funzione strumentale.
  • CERN, ironia ad alta energia. Nei corridoi del laboratorio circolano tazze, meme e particelle di peluche: l’autoironia come rito collettivo durante le fasi delicate dell’LHC. Non “propiziazioni”, ma talismani laici che ricordano che dietro al Bosone di Higgs ci sono persone. (Curiosità: esistono intere collezioni di plush del Modello Standard; persino Peter Higgs teneva il suo come fermacarte.)

La logica è sempre la stessa: abbassare il rumore interno. Che tu stia entrando in una Soyuz o accendendo un acceleratore, un rito minuscolo può trasformare l’ansia in gesto, e il gesto in attenzione operativa. Non cambia la fisica; cambia chi la maneggia. E, a quelle altitudini – letterali o metaforiche – è già tantissimo.

L’ultima mossa della ragione

La superstizione, vista da vicino, è spesso una regola empirica ante litteram: “ogni volta che faccio così, va meglio”. Una scorciatoia nata dall’esperienza. La domanda giusta non è crederci o no, ma perché sembra funzionare – e se funziona davvero. Qui la ragione fa la sua mossa: prende il rito, lo mette alla prova, lo tiene se aiuta il processo, lo lascia se inganna.

Newton cercava oro, e trovò leggi. Fermi mescolava carte, e scoprì il caso come alleato, non come nemico. Bohr appese un ferro di cavallo e ci ricordò che l’ironia può essere una forma di pensiero. Marie Skłodowska Curie guardò una fiala che brillava e trasformò l’incanto in misura. Feynman batteva i bonghi e convertiva l’ansia in attenzione.

Il punto è questo: i riti sono trampolini, non arrivi. Ti danno lo slancio per saltare, ma a metà aria devi affidarti alle prove. Quando la superstizione accetta questo patto – restare piccola, utile, rivedibile – smette di essere un alibi e diventa l’ultima cortesia che facciamo alla mente prima di chiedere alla realtà la sua risposta.

Epilogo

E se qualcuno mi chiedesse se credo nella fortuna, risponderei come Bohr: «No, ma mi hanno detto che funziona anche se non ci credi».

Poi, in silenzio, ripiegherei la mia vecchia maglia: i riti passano, il metodo resta.

Note e riferimenti

Rabdomanzia: tra mito, illusioni e scienza

La scena è familiare: un uomo cammina con una bacchetta biforcuta fra le mani, in attesa che il ramo si pieghi misteriosamente indicando la presenza di acqua sotterranea. Lo sguardo è serio, quasi mistico; chi osserva trattiene il fiato. È l’immagine della rabdomanzia, una pratica antica che ancora oggi conserva un certo fascino, a metà strada tra magia, folklore e speranza.

Se non fosse per un piccolo dettaglio: la bacchetta non funziona. Non importa se sia di nocciolo, di salice o di legno d’ulivo raccolto la notte di San Giovanni – l’acqua, in realtà, se ne infischia del bricolage arboreo. Eppure, generazioni di rabdomanti hanno giurato che quel ramoscello si muove da solo, attirato da misteriose forze sotterranee.

La verità, a guardarla con occhio scientifico, è che la rabdomanzia ha molto in comune con altre discipline affascinanti ma poco affidabili: dall’astrologia alle previsioni calcistiche del barista sotto casa. Funziona finché nessuno prende nota dei risultati, e smette improvvisamente di funzionare appena qualcuno si ostina a fare i conti con carta e penna.

E allora la domanda sorge spontanea: se decenni di esperimenti hanno mostrato che la bacchetta magica non è poi così magica, perché la sua immagine continua ad avere presa su di noi? Forse perché racconta qualcosa di più profondo: il nostro desiderio che il mondo, oltre a pozzi e falde acquifere, nasconda ancora un po’ di incanto.

Una lunga storia di rami e speranze

La rabdomanzia non nasce ieri: già nel XVI secolo in Europa c’erano cronache di minatori che si affidavano alla bacchetta per trovare filoni. Ma se allarghiamo lo sguardo, scopriamo che il trucco del ramo che trema è universale: in Cina, in Africa, nel cuore dell’Europa contadina, ovunque qualcuno sperava di strappare alla natura un segreto in più.

Il contesto era chiaro: quando non avevi né carte geologiche né GPS, provavi di tutto pur di evitare un buco a vuoto. E allora perché non affidarsi a un ramo che vibra in mano? Dopotutto, tra un ingegnere inesistente e un rabdomante disponibile, il contadino assetato sceglieva il secondo. La bacchetta diventava così un’ancora psicologica, una piccola illusione per addomesticare l’imprevedibilità della natura.

La scienza mette alla prova la bacchetta

Col passare del tempo, però, qualcuno iniziò a chiedersi: ma funziona davvero? Così, dal XIX secolo in poi, si organizzarono i primi esperimenti controllati. Qui inizia il bello: quando nessuno teneva conto degli errori, i rabdomanti sembravano infallibili; quando invece entravano in gioco rigore, randomizzazione e doppio cieco, la bacchetta diventava improvvisamente timida.

George P. Hansen nel 1982 fece il punto con una rassegna storica. Risultato? Un mare di studi traballanti. Molti test erano poco più che spettacoli di paese travestiti da esperimenti: niente controlli, numeri minuscoli, conclusioni ottimistiche. Insomma, la bacchetta piegava più le regole del metodo scientifico che quelle del nocciolo.

Monaco e Kassel: la Champions League dei rabdomanti

Negli anni ’80 e ’90 la Germania decise di fare sul serio. Basta esperimenti da cortile: servivano test colossali. Centinaia di rabdomanti convocati, un fienile trasformato in laboratorio, tubi d’acqua fatti scorrere a caso sotto il pavimento. Sembrava un reality show, ma con meno glamour e più statistica.

Il verdetto? La maggior parte non indovinava meglio del caso. Ma – ed è qui che si accese la speranza – una piccola minoranza sembrava cavarsela meglio. Era davvero abilità, o semplice fortuna? Il dibattito infuriò: per i sostenitori, la prova che “qualcosa” c’era; per gli scettici, l’ennesimo esempio di come in un campione ampio ci sia sempre qualcuno che batte la media, anche tirando a indovinare.

Per rendere l’idea, immaginate la scena: decine di rabdomanti convocati come concorrenti a un talent show. Invece di cantare o ballare, camminavano nervosi sopra il pavimento di un fienile, stringendo la bacchetta con l’ansia di chi aspetta l’applauso della giuria. Sotto di loro, nascosto, il famigerato tubo d’acqua che veniva spostato di volta in volta per mantenere il mistero.

Ogni “esibizione” era accompagnata dal silenzio carico di aspettativa: il pubblico (scienziati e assistenti con blocchi per gli appunti) tratteneva il fiato in attesa che la bacchetta si piegasse. Qualcuno, per darsi un tono, chiudeva gli occhi come un pianista rapito dall’ispirazione; altri procedevano a piccoli passi, come rabdomanti zen. Ma, al momento della verità, le performance erano spesso deludenti: bacchette immobili, movimenti incerti, colpi andati a vuoto.

A guardarla con occhi moderni, quella parata sembrava una puntata di “X-Factor” ambientata in un granaio: solo che il premio in palio non era un contratto discografico, ma l’onore di essere proclamati campioni dell’“acqua sotto al fienile”. E, come in ogni talent che si rispetti, alla fine i veri protagonisti furono i giudici: perché la statistica, inflessibile come un televoto truccato, decretò che la maggioranza non aveva alcun talento speciale.

Betz 1995: il canto del cigno

Nel 1995 Hans-Dieter Betz pubblicò due articoli sul Journal of Scientific Exploration che per i rabdomanti furono un po’ come il disco d’oro per una band in declino: la grande occasione di rivincita. Si trattava della trattazione più sistematica mai scritta a favore della rabdomanzia, con tanto di dati, grafici e racconti di campagne sul campo. Betz riportò i risultati dei “progetti di Monaco” e delle missioni in Africa finanziate dalla Gesellschaft für Technische Zusammenarbeit (GTZ), la cooperazione tecnica tedesca (oggi GIZ), presentando la bacchetta come una potenziale compagna di squadra della geofisica tradizionale.

Secondo lui, alcuni rabdomanti avrebbero ottenuto risultati “statisticamente significativi” nel localizzare tubi nascosti o anomalie geologiche. Nei test di campo, specialmente in zone aride e su rocce fratturate, qualcuno riuscì effettivamente a indicare punti di perforazione che poi si rivelarono buoni. Non mancava il tocco epico: Betz parlava di pochi “dowser d’élite”, una sorta di squadra speciale capace di performance superiori alla media, quasi come i supereroi della bacchetta.

Eppure, sotto la patina brillante, le crepe erano evidenti. I presunti successi riguardavano solo una minoranza, mentre la grande maggioranza non si distingueva affatto dal caso. Il meccanismo fisico rimaneva un mistero: si tirarono in ballo ipotesi fantasiose come campi elettromagnetici, vibrazioni sottili, “energie della terra” … ma senza mai una prova concreta. Le analisi statistiche, poi, furono bersagliate di critiche: sembravano cucite su misura per trovare significatività dove non ce n’era.

E infine la questione editoriale: i due articoli non uscirono certo su Nature o Science, ma su una rivista di nicchia, non proprio la Champions League delle pubblicazioni scientifiche. Più una serie cadetta, frequentata da fenomeni di confine e discipline in cerca di legittimazione.

In conclusione, lo stesso Betz, pur con toni misurati, lasciava intendere che la rabdomanzia non poteva dirsi provata. Al massimo, poteva essere definita “promettente” in qualche caso particolare – una formula elegante per dire: non funziona, ma non vogliamo ammetterlo troppo forte.

Ma ogni disco d’oro, si sa, prima o poi incontra la critica musicale. E in questo caso la critica aveva il nome di J. T. Enright.

Enright e la doccia fredda

Pochi anni dopo, J. T. Enright prese in mano gli stessi dati e li analizzò con rigore da scienziato. Risultato: nessun effetto reale, nessun rabdomante miracoloso, solo casualità travestita da abilità. In altre parole, il re era nudo e la bacchetta pure.

La sua critica mise in imbarazzo i sostenitori che, a quel punto, si rifugiarono nell’argomento classico: forse c’è, ma non si riesce a misurare. È lo stesso tipo di scusa usata per i fantasmi, gli UFO, l’omeopatia, l’agricoltura biodinamica e certe diete miracolose.

Suggestione, ideomotorio e fortuna

Perché allora la rabdomanzia continua a sembrare efficace a tanti praticanti e osservatori? Le spiegazioni più condivise chiamano in causa la psicologia umana:
Effetto ideomotorio: piccoli movimenti inconsci delle mani fanno oscillare bacchette o pendoli.
Bias di conferma: si ricordano i successi e si dimenticano i fallimenti.
– Indizi ambientali: in campagna, un occhio esperto può cogliere segni del terreno senza rendersene conto.
Fortuna: con abbastanza tentativi, qualche “colpo giusto” è inevitabile.

Non servono forze misteriose: bastano i meccanismi ben noti della percezione e della memoria selettiva.

Conclusione: il fascino della bacchetta

La storia della rabdomanzia è una parabola perfetta del rapporto tra scienza e credenze popolari. Un rito antico che sopravvive all’avanzata della geologia e della fisica, alimentato da aneddoti e speranze. Gli esperimenti moderni, dai progetti di Monaco alle analisi critiche di Enright, ci dicono che la bacchetta non ha poteri misteriosi: i pochi risultati “positivi” non sono replicabili e si dissolvono al vaglio della statistica.

Eppure, il mito resiste. Resiste come certe catene WhatsApp, come gli oroscopi del mattino o le promesse di miracoli a domicilio: inutile ma rassicurante. Forse perché non parla soltanto di acqua nascosta, ma del nostro bisogno profondo di credere che la natura conservi ancora qualche trucco segreto da regalarci gratis.

Peccato che, quando si tratta di scavare un pozzo, la bacchetta tenda più a piegarsi sotto il peso delle illusioni che a segnalare una falda acquifera. Se vogliamo davvero trovare acqua, meglio affidarsi a un idrogeologo. Con lui, almeno, l’unica bacchetta magica sarà quella del geologo… e al massimo la fattura a fine lavoro.

Riferimenti e approfondimenti

Betz (1995) Unconventional Water Detection: Field Test of the Dowsing Technique in Dry Zones: Part 1. Journal of ScientiJic Exploration, 9(1): 1-43

Betz (1995) Unconventional Water Detection: Field Test of the Dowsing Technique in Dry Zones: Part 1. Journal of ScientiJic Exploration, 9(2): 159-189

Dix (2017) Skeptics beware — a story about dowsing. Available online

Enright (1995) Water Dowsing: the Scheunen Experiments. Naturwissenschaften 82: 360-369

Enright (1999) Testing Dowsing the Failure of the Munich Experiment. Skeptical Enquirer, Available online

Hansen (1982) Dowsing: a Review of Experimental Research. Journal of the Society for Psychical Research, 51(792): 343-367

McCarney & al. (2002) Can homeopaths detect homeopathic medicines by dowsing? A randomized, double-blind, placebo-controlled trial. Journal of the Royal Society of Medicine, 95(4): 189–191

Skeptical Enquirer (1999) Letters to the editor. Available online

Walach & Schmidt (1997) Empirical evidence for a non-classical experimenter effect: An experimental, double-blind investigation of unconventional information transfer. Journal of ScientiJic Exploration, 11(1): 59-67

Dimostrami che non esiste! La trappola preferita della pseudoscienza

Frequento i social network dal 2009 e, qualche anno dopo – era il 2015, ormai dieci anni fa – ho aperto il mio blog. All’inizio, da neofita, mi ritrovavo a discutere animatamente con persone di ogni tipo: rabdomanti convinti di sentire l’acqua con un bastoncino, cacciatori di fantasmi armati di telecamerine, fan dell’omeopatia pronti a difendere il niente travestito da nulla diluito e sostenitori dell’agricoltura biodinamica intenti a recitare formule magiche come i druidi di Asterix per aumentare la produttività dei campi.

Ogni volta che li mettevo davanti all’evidenza, la conversazione finiva invariabilmente con la stessa frase a effetto:
“Ah sì? Allora dimostrami [provami] che [argomento a piacere] non esiste!”

Oppure, in contesti diversi ma con identica logica capovolta: “Allora dimostrami [provami] che Dio non esiste”.

Chissà perché, ogni volta che ascolto queste argomentazioni, resto colpito dall’involuzione culturale che si sta diffondendo sempre di più. Sono frasi che potevano avere un senso quando ero in terza elementare, quando ci si appellava alla maestra per dirimere questioni vitali come: “Non sono stato io a mettere le mani nella marmellata, è stato lui!”.

Ma in età adulta mi aspetto qualcosa di diverso: argomentazioni più mature, meno retoriche e più legate alla razionalità. E invece questi trucchetti – vecchi come il mondo – continuano a funzionare con chi, pur avendo studiato, non si è abituato al pensiero critico e al metodo scientifico. Il punto è che la scienza, nel bene e nel male, non funziona così.

Provare: ma in che senso?

Ed è proprio qui che nasce la confusione: cosa significa davvero “provare”? Nel linguaggio quotidiano questa parola viene usata in mille modi diversi: provare un vestito, provare a fare una torta, provare un sentimento, provare a convincere qualcuno. E, lasciatemela passare, “provare un esame” – espressione tipica dei miei studenti, che poi però vengono puntualmente bocciati.

Ma in scienza non basta “fare un tentativo” o “avere un’impressione”: qui “provare” significa sottoporre un’idea a un controllo severo, verificare se regge quando viene messa di fronte ai dati.

La Treccani ci ricorda che “provare” significa sia “fare un tentativo” sia “dimostrare con prove la verità di un’affermazione”. Nel linguaggio scientifico, però, prevale il secondo significato: mettere alla prova un’ipotesi. In altre parole, valutare se un’ipotesi spiega davvero i fenomeni osservati e, soprattutto, se permette di fare previsioni verificabili.

Fare scienza significa:

  • osservare un fenomeno;
  • formulare un’ipotesi che lo spieghi e consenta di fare previsioni;
  • progettare esperimenti che possano confermare o smentire l’ipotesi;
  • accettare senza sconti il verdetto dei dati.

Se i dati non la confermano, l’ipotesi è falsificata. Punto. In altre parole, non è più utile: non spiega i fenomeni, non regge alla verifica, è semplicemente errata.

L’onere della prova

Rileggiamo l’elenco del paragrafo precedente, partendo dal primo punto:

  • osservare un fenomeno.

Qui sta il punto cruciale: se non posso osservare un fenomeno, tutto il resto non ha alcun senso. Come potrei formulare un’ipotesi su qualcosa che non vedo? E se non ho un’ipotesi, come potrei progettare esperimenti? Senza esperimenti non ottengo dati e, senza dati, non posso né confermare né confutare nulla.

In definitiva, se qualcosa non è osservabile, non posso applicare alcun metodo per “provarne” l’inesistenza. La scienza non funziona così: non dimostra l’inesistenza, ma mette alla prova ciò che si afferma di aver osservato. L’onere della prova, quindi, ricade sempre su chi fa l’affermazione, non su chi la mette in dubbio.

Mettiamola in un altro modo: se ipotizzo che una sostanza chimica acceleri la germinazione dei semi, posso progettare un esperimento. Se i dati non mostrano differenze, l’ipotesi cade. Ma se qualcuno sostiene che “una misteriosa energia invisibile accelera la germinazione solo in certe notti particolari”, senza dire quando, dove e come… beh, quella non è scienza: è una storia che non può essere né verificata né smentita, in altre parole non può essere falsificata.

Ecco perché fantasmi, energie occulte, biodinamica, draghi invisibili o divinità onnipresenti non possono essere oggetto di indagine scientifica: semplicemente non sono ipotesi falsificabili.

Un insegnamento dalla storia

Certo, gli amanti delle scienze occulte (che se sono occulte non sono scienze, ma va bene: usiamo pure l’ossimoro tanto caro ai fan di queste cose) potranno sempre dire: “Ma scusa, come fai a dire che qualcosa non funziona o non esiste se non lo provi? Non è compito dello scienziato verificare, sperimentare e, casomai, proporre o rigettare?”

Sì, certo. Ma solo se – ripeto – il fenomeno è osservabile o se esiste un impianto logico-matematico che consenta di formulare ipotesi verificabili con una progettazione sperimentale precisa.

Facciamo alcuni esempi. L’etere luminifero, ipotizzato come mezzo di propagazione della luce, è stato messo alla prova con esperimenti celebri come quello di Michelson e Morley (1887). I dati hanno detto chiaramente che non c’era nessuna evidenza a suo favore. Lo stesso destino è toccato al flogisto, sostanza immaginaria che avrebbe dovuto spiegare la combustione, spazzata via dalla chimica di Lavoisier.

E cosa dire della meccanica classica – sì, proprio quella sviluppata da Isaac Newton – che ha dominato per oltre due secoli e ancora oggi descrive benissimo il mondo macroscopico? All’inizio del Novecento, però, si è mostrata inadeguata a spiegare il comportamento delle particelle microscopiche e i fenomeni a velocità prossime a quella della luce. Da lì sono nate la relatività di Einstein e la meccanica quantistica, due teorie che hanno ampliato il quadro e che, pur con approcci diversi, permettono di fare previsioni in ambiti dove Newton non basta. Eppure, i razzi continuano a essere lanciati nello spazio grazie ai calcoli newtoniani: semplicemente, la sua fisica funziona finché si rimane dentro i suoi limiti di validità.

In tutti questi casi, la scienza non ha “provato l’inesistenza” di etere, flogisto o della validità universale della meccanica classica: ha mostrato che i dati non erano compatibili con quelle ipotesi, oppure che servivano modelli più ampi e predittivi per descrivere meglio la realtà.

La differenza tra scienza e pseudoscienza

Alla luce di tutto quanto scritto finora, si può ribadire con chiarezza che la scienza non fornisce verità eterne: propone modelli coerenti con le prove disponibili, validi finché i dati li confermano. Basta anche un solo dato contrario per metterli in crisi. In quel caso, il modello viene abbandonato oppure ampliato, formulando nuove ipotesi che ne estendano i limiti di validità.

La pseudoscienza, invece, gioca sporco: pretende di invertire l’onere della prova e chiede di dimostrare l’inesistenza dei suoi fantasmi. Non è un caso se, dopo più di due secoli, l’omeopatia è rimasta immobile, sempre uguale a se stessa, senza mai evolversi. O se l’agricoltura biodinamica – nonostante il supporto di figure accademiche che hanno scelto di accreditare l’esoterico come se fosse scienza – non sia mai riuscita a produrre una validazione sperimentale credibile. E l’elenco potrebbe continuare.

Come ammoniva Carl Sagan: affermazioni straordinarie richiedono prove straordinarie. Chi non porta prove, porta solo storie… e spesso nemmeno originali.

Conclusione

No, non si può provare l’inesistenza di qualcosa in senso assoluto. Quello che la scienza può fare, e che fa ogni giorno, è mostrare l’assenza di evidenze e smontare affermazioni che non reggono alla prova dei dati.

Per questo non ha senso chiedere di dimostrare che i fantasmi non infestano le vecchie case, che i preparati biodinamici non funzionano o che Dio non esiste. L’onere della prova spetta sempre a chi afferma, non a chi dubita.

La scienza non è un gioco di prestigio in cui si fanno sparire gli spettri: è un metodo per distinguere ciò che ha basi reali da ciò che resta soltanto una storia.

La Sindone e la scienza: dal Medioevo alla risonanza magnetica

Ormai lo sanno anche le pietre: mi occupo di risonanza magnetica nucleare su matrici ambientali. Tradotto per i non addetti: uso la stessa tecnica che in medicina serve a vedere dentro il corpo umano, ma applicata a tutt’altro – suoli, sostanza organica naturale, piante e materiali inerti. Ripeto: non corpi umani né animali, ma sistemi ambientali.

C’è un dettaglio curioso. I medici hanno tolto l’aggettivo “nucleare” dal nome, per non spaventare i pazienti. Peccato che, senza quell’aggettivo, l’espressione “risonanza magnetica” non significhi nulla: risonanza di cosa? elettronica, fotonica, nucleare? Io, che non ho pazienti da rassicurare, preferisco chiamare le cose con il loro nome: risonanza magnetica nucleare, perché studio la materia osservando come i nuclei atomici interagiscono con la radiazione elettromagnetica a radiofrequenza.

Non voglio dilungarmi: non è questa la sede per i dettagli tecnici. Per chi fosse curioso, rimando al mio volume The Environment in a Magnet edito dalla Royal Society of Chemistry.

Tutto questo per dire che in fatto di risonanza magnetica nucleare non sono proprio uno sprovveduto. Me ne occupo dal 1992, subito dopo la laurea in Chimica con indirizzo Organico-Biologico. All’epoca iniziai a lavorare al CNR, che aveva una sede ad Arcofelice, vicino Pozzuoli, in provincia di Napoli. È lì che cominciai a usare l’NMR per studiare la relazione struttura-attività dei metaboliti vegetali: un banco di prova perfetto per capire quanto questa tecnica potesse rivelare.

Successivamente passai all’Università degli Studi di Napoli Federico II, dove estesi l’uso della risonanza magnetica nucleare non solo alla fase liquida, ma anche a quella solida e semisolida. Non più soltanto metaboliti vegetali, dunque, ma matrici molto più complesse dal punto di vista chimico: il suolo e la sostanza organica ivi contenuta.

Con il mio trasferimento all’Università di Palermo ho potuto ampliare ulteriormente le competenze in NMR: dall’uso di strumenti a campo magnetico fisso sono passato allo studio delle stesse matrici naturali con spettrometri a campo variabile. Un passo avanti che mi ha permesso di guardare i sistemi ambientali con ancora più profondità e sfumature.

Ed eccomi qui, dopo più di trent’anni di esperienza, a spiegare perché chi immagina di usare la risonanza magnetica nucleare sulla Sindone di Torino forse ha una visione un po’… fantasiosa della tecnica.

Andiamo con ordine.

La Sindone di Torino: simbolo religioso e falso storico

La Sindone

La Sindone di Torino è un lenzuolo di lino lungo circa quattro metri che reca impressa l’immagine frontale e dorsale di un uomo crocifisso. Per il mondo cattolico rappresenta una delle reliquie più importanti: secondo la tradizione, sarebbe il sudario che avvolse il corpo di Cristo dopo la crocifissione. Attorno ad essa si è sviluppato un culto popolare immenso, fatto di pellegrinaggi e ostensioni pubbliche che ne hanno consacrato il valore spirituale.

Ma che cosa ci dice la scienza su questo straordinario manufatto?

La datazione al radiocarbonio

Il dato più solido arriva dalla datazione con il radiocarbonio. Nel 1988 tre laboratori indipendenti – Oxford, Zurigo e Tucson – pubblicarono sulla rivista Nature i risultati delle loro analisi: il lino della Sindone risale a un periodo compreso fra il 1260 e il 1390 d.C., cioè in piena epoca medievale (Damon et al., 1989). La conclusione degli autori fu inequivocabile: “evidence that the linen of the Shroud is mediaeval”.

Riproduzioni sperimentali

A rafforzare questa interpretazione è intervenuto anche il lavoro del chimico Luigi Garlaschelli, che ha realizzato una riproduzione della Sindone utilizzando tecniche compatibili con l’arte medievale: applicazione di pigmenti su un rilievo, trattamenti acidi per simulare l’invecchiamento, lavaggi parziali per attenuare il colore. Il risultato, esposto in varie conferenze e mostre, mostra come un artigiano del Trecento avrebbe potuto ottenere un’immagine con molte delle caratteristiche dell’originale (Garlaschelli, 2009).

Le conferme della storia

Anche le fonti storiche convergono. Un documento recentemente portato alla luce (datato 1370) mostra che già all’epoca un vescovo locale denunciava il telo come un artefatto, fabbricato per alimentare un culto redditizio (RaiNews, 2025). Questo si aggiunge al più noto documento del 1389, in cui il vescovo di Troyes, Pierre d’Arcis, scriveva a papa Clemente VII denunciando la falsità della reliquia.

Le contro-argomentazioni sindonologiche

Naturalmente, chi sostiene l’autenticità della Sindone non è rimasto in silenzio. Le principali obiezioni riguardano:

  1. Il campione del 1988 – secondo alcuni, la zona prelevata sarebbe stata contaminata da un rammendo medievale, o comunque non rappresentativa dell’intero telo (Karapanagiotis, 2025).
  2. L’eterogeneità dei dati – alcuni statistici hanno osservato che i tre laboratori non ottennero risultati perfettamente omogenei, segnalando possibili anomalie (Karapanagiotis, 2025).
  3. Eventi successivi – l’incendio di Chambéry del 1532, o la formazione di patine microbiche, avrebbero potuto alterare la concentrazione di carbonio-14, facendo sembrare il tessuto più giovane (Karapanagiotis, 2025).

Sono ipotesi discusse ma che non hanno mai trovato prove decisive: nessuna spiegazione è riuscita a giustificare in modo convincente come un tessuto del I secolo potesse apparire medievale a tre laboratori indipendenti.

Le nuove analisi ai raggi X

Negli ultimi anni si è parlato di nuove tecniche di datazione basate sulla diffusione di raggi X ad ampio angolo (WAXS). L’idea è di valutare il grado di cristallinità della cellulosa del lino: più il tessuto è antico, maggiore è la degradazione della sua struttura cristallina. Applicata a un singolo filo della Sindone, questa metodologia ha suggerito un’età più antica di quella medievale (De Caro et al., 2022).

Tuttavia, i limiti sono evidenti: si è analizzato un solo filo, e la cristallinità della cellulosa dipende non solo dal tempo, ma anche da condizioni ambientali come umidità, calore o contatto con sostanze chimiche. Inoltre, il metodo è recente e richiede ulteriori validazioni indipendenti. In sintesi: interessante come indicatore di degrado, ma non ancora un’alternativa solida al radiocarbonio.

Una nuova frontiera? L’NMR

Accanto a tutto ciò è emersa anche la proposta di applicare la risonanza magnetica nucleare (NMR) alla Sindone (Fanti & Winkler, 1998). Alcuni autori suggeriscono che questa tecnica possa rivelare “concentrazioni atomiche” di idrogeno, carbonio o azoto nel telo, o addirittura produrre mappe tomografiche.

Nel prossimo paragrafo entrerò nel dettaglio di questa prospettiva “NMR”, analizzando perché, alla luce dell’esperienza maturata in oltre trent’anni di lavoro su queste tecniche, considero queste proposte non solo irrealistiche, ma anche profondamente fuorvianti.

I limiti della prospettiva NMR

Tra le tante proposte avanzate negli anni, c’è anche quella di usare la risonanza magnetica nucleare per studiare la Sindone. Nel lavoro di Giulio Fanti e Ulf Winkler si ipotizza di applicare tecniche NMR per “vedere” la distribuzione di atomi come idrogeno, carbonio e persino azoto sul telo, o addirittura per ottenere mappe tomografiche simili a quelle della risonanza magnetica medica. Sulla carta può sembrare affascinante, ma nella pratica questa prospettiva presenta numerosi limiti.

Nel caso dei protoni (1H), ad esempio, gran parte del segnale in un lino asciutto deriva dall’acqua residua o da componenti volatili: un parametro che può variare fino all’80% semplicemente cambiando le condizioni ambientali. Inoltre, in un solido come il lino della Sindone, l’analisi 1H-NMR non offre risoluzione: lo spettro mostra soltanto due contributi sovrapposti, un picco stretto e intenso dovuto alle zone cristalline della cellulosa e una larga campana sottostante, tipica delle frazioni amorfe. È chiaro, quindi, che non solo è arduo quantificare i protoni, ma è del tutto irrealistico pensare di usarli per una datazione del tessuto.

Per quanto riguarda l’analisi al carbonio-13 (13C), ci sono diversi punti da sottolineare. La tecnica più usata è la CPMAS 13C-NMR: in questo caso una piccola quantità di campione, dell’ordine dei milligrammi, viene inserita in un porta-campioni invisibile all’NMR, posto nel campo magnetico secondo una geometria precisa, e il carbonio viene “visto” sfruttando l’abbondanza dei protoni. Si tratta però di una tecnica qualitativa: non consente una vera quantificazione del nucleo osservato. Inoltre, richiede tempi di misura molto lunghi, con costi elevati e il rischio concreto di non ottenere informazioni davvero utili.

L’alternativa sarebbe la DPMAS 13C-NMR. Qui, a differenza della CPMAS, non ci si appoggia ai protoni e quindi bisogna fare affidamento solo sull’abbondanza naturale del 13C, circa l’1%: troppo bassa. Di conseguenza i tempi macchina si allungano ulteriormente, con dispendio sia di tempo sia economico. E in più la tecnica è priva di risoluzione: i segnali dei diversi nuclei si sovrappongono in un unico inviluppo indistinguibile, rendendo impossibile perfino la stima del rapporto fra cellulosa cristallina e amorfa.

Quanto all’azoto-14 (14N), il nucleo è quadrupolare e produce linee larghissime e difficilmente interpretabili: in pratica, misure affidabili non sono realistiche.

Nel lavoro di Fanti e Winkler, ci sono poi anche problemi di coerenza interna. Nel testo, ad esempio, si ipotizzano tempi di rilassamento e acquisizione non compatibili con i valori sperimentali reali, e si propongono scenari come la “tomografia NMR dell’intero telo” che, per un materiale rigido e povero di mobilità come il lino secco, sono semplicemente impraticabili: i tempi di decadimento del segnale sono troppo brevi perché si possa ricostruire un’immagine come in risonanza magnetica medica.

Infine, il lavoro suggerisce di estendere le misure addirittura a mappature di radioattività con contatori Geiger o a esperimenti di irraggiamento con neutroni, ipotizzando collegamenti con la formazione dell’immagine. Si tratta di congetture prive di fondamento sperimentale, più vicine a un esercizio di fantasia che a un protocollo scientifico realistico.

In sintesi, Fanti e Winkler hanno portato il linguaggio della NMR nel dibattito sulla Sindone, ma le applicazioni che propongono si scontrano con limiti tecnici insormontabili e interpretazioni sbagliate.

L’NMR è uno strumento potentissimo per lo studio di suoli, sostanza organica e sistemi complessi, ma applicarlo alla Sindone nei termini proposti non ha basi scientifiche solide: rischia anzi di trasformare una tecnica seria in un’arma retorica al servizio di ipotesi precostituite.

Conclusioni

Alla fine dei conti, la Sindone di Torino resta ciò che la scienza ha già dimostrato da tempo: un manufatto medievale. Lo dice la datazione al radiocarbonio pubblicata su Nature; lo confermano le riproduzioni sperimentali di Luigi Garlaschelli e i documenti storici del Trecento che la denunciavano come artefatto devozionale; lo ribadiscono i limiti delle nuove tecniche “alternative” che, per quanto presentate come rivoluzionarie, non hanno mai scalfito la solidità del verdetto del 1988. Le contro-argomentazioni dei sindonologi — campioni non rappresentativi, rammendi invisibili, incendi o contaminazioni miracolose — sono ipotesi suggestive, ma prive di prove concrete e incapaci di spiegare perché tre laboratori indipendenti abbiano ottenuto lo stesso responso: Medioevo. Le proposte più recenti, come l’uso dei raggi X o addirittura della risonanza magnetica nucleare, non fanno che spostare il problema, avanzando idee tecnicamente fragili e spesso concettualmente errate.

La Sindone rimane dunque un oggetto straordinario, ma non perché testimoni la resurrezione di Cristo: straordinaria è la sua forza simbolica, straordinaria è la devozione che suscita, straordinaria è la capacità che ha avuto per secoli di alimentare fede, immaginazione e perfino business. Ma sul piano scientifico la questione è chiusa. Continuare a spacciarla per “mistero insoluto” significa ignorare le evidenze e trasformare la ricerca in propaganda. E questo, più che un atto di fede, è un insulto all’intelligenza.

Scienza e paranormale. Considerazioni serali di uno studioso annoiato.

È da un po’ di tempo che frequento la rete. Nel 2009 mi sono iscritto a Facebook e, nel tempo, mi sono trovato a gestire diversi gruppi di carattere scientifico. Sono intervenuto con commenti più o meno pacati in diverse discussioni e mi sono sempre trovato ad affrontare persone che non avevano, e non hanno, idee chiare in merito alla scienza ed al suo impatto sulla società. Tra le varie discussioni, per lo più serali, avute in rete ne ricordo una con un utente in merito al rapporto tra scienza e paranormale. Questo utente si chiedeva :

Scienza e Paranormale: è possibile un incontro tra le due materie per un confronto costruttivo con pari dignità e rispetto o rimangono due mondi incompatibili ed agli antipodi nelle rispettive prigioni mentali?

Cerco di argomentare per chiarire cosa realmente penso del paranormale.

Da una banale ricerca in wikipedia, si trova che paranormale è “quel presunto fenomeno (detto anche anomalo) che risulta contrario alle leggi della fisica e agli assunti scientifici e che, se misurato secondo il metodo scientifico,risulta inesistente o, nel caso di fenomeno esistente, comunque spiegabile sulla base delle conoscenze attuali”. In altre parole il fenomeno paranormale è un fenomeno anomalo sul quale non è possibile, allo stato attuale, dare una spiegazione attendibile sulla base dei modelli scientifici in vigore.

I modelli scientifici sono, per loro natura, migliorabili dal momento che rappresentano solo una rappresentazione della realtà fenomenologica. Il modo più semplice per costruire questi modelli è quello di partire dal sistema semplificato, osservarne il comportamento, descriverlo matematicamente e quindi renderlo progressivamente più complicato. Se il modello ipotizzato per il sistema più semplice è robusto, allora esso sarà in grado di descrivere il comportamento (modello previsionale) del sistema via via più complesso. Nel momento in cui il sistema non può essere più descritto dal modello ipotizzato, questo non perde di validità, ma assume validità ristretta. Ovvero è valido solo per certe condizioni al contorno e non per tutte. Il cambiamento del modello per la descrizione del sistema complesso deve, necessariamente, includere quanto spiegato anche dal modello ristretto alle condizioni al contorno specifiche.

Un esempio per tutti. La legge dei gas ideali (PV=nRT) si applica solo per gas le cui particelle non interagiscono tra loro e sono puntiformi, cioè non hanno dimensione. I gas, in realtà, non solo sono costituiti da particelle che hanno un volume ma interagiscono anche tra loro. Tutti sanno (ed è intuitivo) che il moto stocastico delle particelle di un gas implica che esse si scontrino e rimbalzino in tutte le direzioni. Per tener conto sia delle interazioni tra le particelle e del fatto che il volume del gas è quello occupato dall’insieme delle particelle meno il volume delle stesse si elabora il modello di Van derWaals che tiene conto di questi due parametri. Questo modello, tuttavia, ha anch’esso validità ristretta perché, per esempio, non tiene conto della comprimibilità dei gas. Allora si elabora il modello del viriale. E potrei continuare.

l’osservazione sperimentale

Tutto quanto detto si basa su un fatto assolutamente incontrovertibile e da cui non si può prescindere: l’osservazione sperimentale. Affinché un modello possa essere validato ed essere ritenuto robusto (resistere nel tempo) è necessario fare le osservazioni sperimentali. Queste devono essere fatte secondo criteri ben precisi, ovvero il fenomeno deve essere sotto controllo ed essere riproducibile. Se questo non accade è impossibile elaborare un modello che abbia carattere predittivo generale. Dire che il fenomeno deve essere sotto controllo significa che bisogna conoscere tutti i parametri che consentono l’ottenimento del fenomeno e la sua osservazione. Per esempio, a seconda dei casi, possono essere importanti temperatura, pressione, umidità, fase del sistema etcetc etc. Alla luce dell’insieme di questi parametri si elabora un’ipotesi e si riproduce il fenomeno. Se il fenomeno non avviene nello stesso modo in cui è stato osservato in precedenza, allora vuol dire che non si sono considerate tutte le possibili condizioni al contorno. Bisogna, quindi, variare queste condizioni fino a che non si ottiene esattamente lo stesso fenomeno. A questo punto si incominciano a variare tutti i possibili parametri in modo da falsificare il modello. Questo vuol dire che si cerca di trovare in tutti i modi possibile quell’unico parametro o quella serie di parametri che rendono non vero il modello proposto. Quando questo avviene (ed è il 90% dei casi) si cambia ipotesi e si procede fino a che non si trova un modello che non si riesce a falsificare. Il punto successivo è quello di rendere pubblico il modello e fare in modo che chi lo desidera possa verificare la validità del modello.

Condizioni per un nuovo modello

Frequentemente accade che il modello venga falsificato da persone di gruppi di ricerca che non sono coinvolti fin dal primo momento nella ricerca del modello. Tuttavia, il nuovo modello proposto da questi nuovi ricercatori deve tener conto anche del vecchio, ovvero deve spiegare il comportamento già osservato dai primi ricercatori più le nuove scoperte. Se il modello modificato tiene conto solo delle nuove osservazioni non può essere valido, ma è valido (come detto prima) solo per le specifiche condizioni al contorno.

Fatta questa lunga premessa, si può dire che quelli che vengono ritenuti come fenomeni paranormali sono, in realtà, fenomeni anomali che non possono essere spiegati per diversi ordini di motivi. Il primo potrebbe essere la non riproducibilità del fenomeno. Se il fenomeno non è riproducibile, allora vuol dire che non si controllano tutte le condizioni al contorno perché il fenomeno accade una tantum e la sua rarità non consente di capire cosa bisogna controllare. Il punto di vista scientifico è, quindi, di lasciare il giudizio in sospeso fino a che non si sarà in grado di controllare tutte le condizioni al contorno.

I fulmini

Un esempio di quanto detto è quello dei fulmini di cui non si conosceva la natura fino a che non si è capita la chimica dell’atmosfera. Fino ad allora i fulmini erano considerati rivelazioni del divino. Un altro esempio sono i tornadi che ancora oggi sono difficili da modellizzare benché se ne sia capito molto. Ancora un esempio è legato alla teoria del flogisto che ha avuto un grande seguito fino a quando Lavoisier non ha capito che i processi di combustione sono dovuti a processi di ossidazione e non a perdita di un qualche cosa di non meglio definito. E potrei continuare. Tuttavia, la base comune di tutti questi fenomeni era la loro osservabilità, misurabilità e riproducibilità.

Il secondo motivo della anomalità dei fenomeni potrebbe essere semplicemente la loro non osservabilità. Ovvero il fenomeno semplicemente non è misurabile. Se un fenomeno non è misurabile vuol dire che non esiste, ma che è un’illusione della singola persona o della moltitudine. Qui l’esempio più classico è quello della pareidolia, della telecinesi e così via di seguito.

A questo punto si potrebbe obiettare, come ha fatto l’utente che ha iniziato questo confronto dialettico, che:

Io non posso dire che Diaspar non esiste in quanto la scienza non lo ha mai dimostrato

In realtà questo esempio è fuori luogo, scientificamente parlando, perché parte da un presupposto sbagliato. Infatti, questo commento implica la volontà da parte dello scienziato di non voler scientemente dimostrare l’esistenza di Diaspar, termine usato dall’utente per indicare un generico fenomeno paranormale. Scopo della scienza non è quello di dimostrare l’esistenza o meno di qualcosa. Lo scopo della scienza è quello di spiegare come avvengono i fenomeni osservabili. Se io non sono in grado di osservare Diaspar, semplicemente per me non solo non esiste, ma non ha alcun senso spiegarne il comportamento.

Cosa si conclude da tutto questo? Che i fenomeni paranormali non sono altro che il frutto della fantasia soggettiva. Non hanno alcun riscontro reale e rientrano nell’ambito delle favole.

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