Il glifosato nei lavori medici

Uso questo spazio per esprimere la mia rabbia contro certi sedicenti scienziati che si permettono di pubblicare certe cose senza aver fatto un minimo di analisi critica dei dati che raccolgono. Quello che fa più male è che uno si fa in quattro per insegnare ai propri studenti il valore dell’analisi critica dei dati e poi appaiono in letteratura risultati che non stanno né in cielo né in terra. Il problema, poi,  è che, essendo questi dati pubblicati, vengono presi senza senso critico e sbattuti in faccia a chi invoca attenzione alla lettura dei lavori scientifici.

Certo che se non entro nei dettagli, si capisce poco. Chiedo scusa ma sono veramente indignato.

Nelle solite discussioni Facebook sto intervenendo in un post in cui per l’ennesima volta si demonizza il glifosato. Un medico ha inserito un link ad una notizia (qui) dalla quale è possibile accedere ad un lavoro scientifico in cui si mette in correlazione causa-effetto il glifosato ed il tumore al fegato (qui). Quando si legge il lavoro pubblicato su Clinical Gastroenterology and Hepatology, si arriva ad un punto in cui è scritto:

Glyphosate (women, 0.373 μg/L; standard deviation [SD], 0.41 vs men, 0.215 μg/L; SD, 0.17) (F = 5.18; P = .025) and glyphosate residue (women, 0.833 μg/L; SD, 0.67 vs men, 0.594 μg/L; SD, 0.38) (F = 4.09; P = .046) were elevated in women as compared with men“.

Hai voglia adesso a spiegare agli studenti l’importanza delle cifre significative (qui) quando in un lavoro pubblicato è scritto 0.373 ± 0.41 μg/L, oppure 0.215 ± 0.17 μg/L, oppure 0.833 ± 0.67 μg/L, o ancora 0.594 ± 0.38 μg/L. Ma, cosa ancora più grave, come si fa a spiegare agli studenti che non è possibile trarre una qualsiasi conclusione quando l’errore sperimentale è grande quanto il dato stesso (ovvero l’errore è del 100%)?

E quello che ho individuato non è l’unico passo falso. Eccone un altro:

In multivariate models adjusting for age, sex, and body mass index, as compared with patients without NASH, AMPA (F = 5.39; P = .022) and glyphosate residue (F = 7.43; P = .008) were elevated in patients with definite NASH (Table 1). When compared with patients without advanced fibrosis (stages 0 and 1), patients with advanced fibrosis (stages 2, 3, and 4) had elevated AMPA (0.196 μg/L; SD, 0.20 vs 0.365 μg/L; SD, 0.33) (F = 9.44; P = .003), glyphosate residue (0.525 μg/L; SD, 0.38 vs 0.938 μg/L; SD, 0.372) (F = 11.9; P = .001), and glyphosate (0.230 μg/L; SD, 0.19 vs 0.351 μg/L; SD, 0.45) (F = 4.13; P = .046), respectively“.

Anche in queso caso si traggono conclusioni sulla base di risultati sperimentali con errori vicini o molto vicini al 100%.

Ma è mai possibile che i reviewers non si siano accorti di un simile obbrobrio scientifico?

E questo è solo uno dei lavori che i detrattori del glifosato usano come leva per spingere all’abolizione dell’uso di questo erbicida in agricoltura.

Fonte dell’immagine di copertina: https://it.wikipedia.org/wiki/Glifosato

Rete informale SETA – Scienze e Tecnologie per l’Agricoltura

È nata la Rete Informale SETA – Scienze e Tecnologie per l’Agricoltura che raccoglie professionisti del settore (accademici, liberi professionisti ed operatori agricoli) per lo sviluppo ed il sostegno ad una agricoltura sostenibile mediante l’uso delle conoscenze scientifiche e delle tecnologie più attuali.

Nelle immagini che seguono potete leggere il Manifesto per l’Agricoltura del XXI secolo da cui riporto uno stralcio:

<Crediamo necessario guardare all’agricoltura in un’ampia prospettiva di spazio e di tempo: essa si deve prioritariamente preoccupare di assicurare ad un’Umanità in crescita cibo sufficiente in termini quantitativi, sicuro in termini qualitativi, appropriato in termini nutrizionali ed equamente distribuito; lo deve fare incrementando la propria capacità produttiva – quanto meno fintanto che non si giungerà alla stabilità demografica – senza provocare il depauperamento irreversibile delle risorse naturali, al contempo adottando logiche di multifunzionalità che mirino alla tutela del paesaggio, del benessere e della cultura delle comunità locali. In tal senso riteniamo che questi obiettivi possano essere raggiunti soltanto attraverso l’impiego integrato di tutte le tecnologie disponibili, sulla base dei principi di sostenibilità economica, sociale e ambientale>

Potete chiedere informazioni scrivendo all’indirizzo: info@setanet.it

A breve sarà disponibile anche il modulo per l’adesione alla Rete Informale SETA.

Xylella, scienza e superstizioni

Riporto da un post di Enrico Bucci:

“Le misure contro la Xylella fastidiosa sono spesso attaccate da un variegato mondo che ama definirsi ambientalista e libertario, il quale ciancia di attacco alla democrazia, di misure imposte senza prove e di pericoli per la salute.

Oltre 150 scienziati del settore, tra cui alcuni Lincei, ricercatori, medici, giuristi, amministratori locali, imprenditori agricoli, naturalisti e chi è o è stato in prima linea – tra loro il generale Silletti – ci dicono una sola cosa: non è così, basta bugie.

Trovate al link qui sotto le loro considerazioni e la possibilità di lasciare il vostro nome per unirvi a loro.”

Contro la disinformazione sull’epidemia di Xylella fastidiosa

Io ho firmato perché ritengo che il mondo scientifico debba risollevarsi contro questo rigurgito di superstizioni che alimenta solo interessi personali.

Fonte dell’immagine di copertina: https://commons.m.wikimedia.org/wiki/File:Ostuni_olive_grove_SS379-3339.jpg

Di vaccini, feti e nanoparticelle di wolframio e tungsteno

di Enrico Bucci, Pellegrino Conte e Pierluigi Lopalco

Gli antivaccinisti italiani, a corto di argomenti scientifici ma non certo retorici, stanno creando un nuovo mostro nella loro fucina di memi: la preparazione dei vaccini richiederebbe aborti su commissione, per ottenere feti da utilizzare come materiale di partenza.

Inutile dire che per produrre i vaccini NON si usano feti umani, come spiegato in dettaglio in questo articolo.

Ma gli antivaccinisti, si sa, scelgono i propri argomenti non perché siano aderenti alla realtà, ma per i vantaggi che la propria causa potrebbe ottenere: ed il meme creato è utilissimo perché dal presunto uso di feti umani, assolutamente condannabile sotto l’aspetto etico generale, seguirebbe in particolare e senza dubbio che l’uso dei vaccini sarebbe incompatibile con la morale cattolica. Pertanto – questo è sottinteso – i cattolici osservanti dovrebbero sollevarsi in massa contro una pratica degna di scomunica.

Alla guida di questa nuova riscoperta religiosa dell’empietà delle vaccinazioni, seppure da posizioni apparentemente laiche, troviamo l’illustre dott. Stefano Montanari, che così scriveva per esempio il 31 gennaio:

Da un po’ di tempo, in realtà pochissimo, è venuta alla ribalta una pratica tecnica che esiste da decenni e che, tuttavia, pare essere sempre passata inosservata. Mi riferisco all’uso dei feti umani nel processo di produzione di alcune decine di tipi di vaccino, quasi tutti di larghissimo impiego e non di rado addirittura di somministrazione obbligatoria.
Come ripetuto più volte e come è ovvio, quei feti devono essere sani perché non è saggio usare materie prime che potrebbero rivelarsi deleterie alla buona riuscita del processo di produzione. E, allora, si ricorre alla pratica più elementare: si acquistano i feti da signore o signorine che si prestano ad abortire materiale conforme.

E poco più avanti, tuonando contro il Papa (a suo giudizio empio?)

Il Sommo Pontefice, allora, avrebbe potuto regalare un’indulgenza plenaria: tutti gli aborti sono cancellati dalla fedina penale celeste. Ma ci sarebbe stato il problema dell’oggi in poi. Se il passato risultava inesistente come nella società immaginata da George Orwell, che ne sarebbe stato del futuro? Sì, perché il business legato ai feti abortiti ed accuratamente sezionati (filetto, controfiletto, lombata…) mica poteva essere interrotto. Ecco, allora, il colpo di genio. Sul volo che lo riportava a Roma dal Centro America, il Sommo Pontefice dà a tutti i preti la facoltà di cancellare il peccato mortale di aborto.

Ora, che uno come Stefano Montanari scriva cose del genere potrebbe pure non destare meraviglia, viste le sue posizioni ed i suoi trascorsi.

Ci si chiede però chi sia quel dottor Stefano Montanari che pubblicava nel 2011 un lavoro dal titolo “Heavy metals nanoparticles in fetal kidney and liver tissues” (traduzione: Nanoparticelle di metalli pesanti in tessuti fetali da rene e fegato) [1].

Come possiamo già ricavare dal titolo, il lavoro verte sull’analisi dei tessuti di 16 feti umani, i quali risultano descritti nell’abstract come feti “whose mothers obtained the authorization for abortion between 21-23 weeks of gestation”, cioè derivati da aborti in fase avanzata di gestazione, grazie ad una autorizzazione concessa alle madri.

Intanto, ci si chiede come chi accusa (senza fondamento) i produttori dei vaccini di alimentare un mercato per “fare a fettine” feti umani, sia lo stesso che partecipa ad un lavoro in cui 16 feti (8 “sani” e 8 con un difetto genetico, secondo il lavoro) si fanno davvero “a fettine” per scopi di ricerca.

Andando avanti nella lettura del lavoro, però, le domande aumentano: infatti, nella legenda della tabella 1 si legge che gli 8 feti sani utilizzati sarebbero ottenuti da “spontaneous miscarriages“, cioè aborti spontanei; ma, nell’abstract, non si parlava di procedure autorizzative all’aborto per tutti i 16 feti nello studio? E quale sarebbe allora la “procedura autorizzativa” richiesta per gli 8 aborti di feti sani, visto che nella legenda della tabella 1 sono dichiarati essere “spontanei?

Stando così le cose, sorge spontanea una ulteriore domanda. Siccome si legge nel lavoro che “The study protocol was approved by the local
ethics committee and pregnant women gave informed and signed consent
”, che razza di consenso informato è stato dato, se nemmeno si sa se gli 8 feti sani siano stati abortiti dopo induzione autorizzata o derivino da aborti spontanei? E il locale comitato etico ha approvato uno studio su quali feti?

Ma lasciamo perdere i particolari. Appurato che chi lancia terribili accuse agli altri, di fatto partecipa a studi in cui i feti si fanno davvero a fettine (in bella mostra, sotto forma di microfotografie, nell’articolo citato), uno si potrebbe chiedere il perché di tali studi.

La ragione, come possiamo aspettarci visti gli autori coinvolti, è la verifica degli eventuali effetti patogenetici di eventuali nanoparticelle trovate nei tessuti fetali.

Per capire di quale livello scientifico si parli, affascinati dall’argomento siamo ricorsi ad un altro lavoro del duo Montanari-Gatti, pubblicato nel 2004, dal titolo “Detection of micro- and nano-sized biocompatible particles in the blood” (traduzione: Rilevamento di micro- e nano-particelle biocompatibili nel sangue). In questo lavoro, si afferma che, con una nuova tecnica di microscopia elettronica, si sarebbe riusciti a rivelare una quantità di particelle molto varie per composizione nei tessuti di pazienti affetti da disordini ematologici. Anzi, la varietà chimica di tali particelle è tale che proprio nell’abstract gli autori scrivono (grassetto aggiunto):

The chemistry of these particles was different and varied, and unusual compounds containing non-biocompatible elements like bismuth, lead, wolfram, tungsten were also detected

È qui che uno di noi, professore di chimica, ha avuto uno svenimento, per poi unirsi ad un irrefrenabile e contagioso attacco di risa, che ci ha coinvolti tutti per qualche minuto.

Lasciamo all’arguto lettore il compito di verificare che wolframio e tungsteno sono lo stesso elemento chimico, indicato con il simbolo “W”, su quella tavola periodica – a cui non a caso è stato dedicato il 2019 – allegata a tutti i testi scolastici, ma evidentemente negletta dagli autori del lavoro, i quali, a quanto pare, considerano la varietà di nanoparticelle rivelata nei tessuti analizzati aumentabile anche alla luce dei sinonimi del vocabolario che descrivono un dato elemento chimico.

Mentre il lettore verifica, noi ci chiediamo: possibile che questo sia il livello di chi va in giro a parlare di nanoparticelle metalliche nei vaccini?

E come si combineranno le accuse di “fare i feti a fettine”, rivolte agli altri, con la partecipazione ad un lavoro di ricerca in cui si è fatto proprio quello (anche se non è ben chiaro su quali feti)?

E soprattutto, di cosa si parlerà nel prossimo evento del 13 marzo intitolato “Scienza e coscienza – l’utilizzo dei feti abortiti per la produzione farmaceutica”, in cui Montanari discetterà con Sua Eminenza Reverendissima il Cardinale Raymond Leo Burke?

Forse delle “fettine di feto” presenti nel suo lavoro, di cui riproduciamo in basso la figura numero 1? [2]

Note

[1] Caso strano, poi, l’autore primo nome di questo lavoro risulta essere quella dottoressa Antonietta Gatti, ricercatrice – fino al 2011 – dell’Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia e mai al lavoro in un inesistente “laboratorio dei biomateriali” di tale università (come dichiarato qui dal Rettore). La dottoressa, moglie del già citato dottor Montanari, incidentalmente non è da meno del marito quando si tratta di illustrare l’empietà, l’immoralità e la pericolosità dell’uso dei feti umani o dei vaccini.

[2] I dubbi e le riserve che abbiamo sollevato sui due lavori scientifici citati in questo articolo sono stati con poche differenze, ma molto prima di noi, riscontrati anche dal sito antifrode PubPeer, insieme a molte altre osservazioni critiche che riguardano anche altri lavori di Gatti e Montanari, che tralasciamo per il loro livello più tecnico, ma non per mancanza di validità.

Qui il link allo stesso articolo sul blog di Enrico Bucci (www.cattiviscienziati.com)

Nell’immagine di copertina della Organizzazione Mondiale della Sanità (Fonte Wikimedia Commons) la preparazione del vaccino contro il morbillo



Dieta e salute: cosa fanno gli italiani?

 

Cosa fanno gli italiani quando si tratta di alimentazione? Siamo proprio sicuri che siano coerenti con se stessi? Un articolo di Francesco Mercadante su Econopoly de Il Sole 24 Ore ci spiega che la coerenza non è esattamente ciò che contraddistingue i nostri connazionali. A dirlo non sono delle elucubrazioni personali, ma i numeri contenuti nei rapporti COOP 2018 e CENSIS-Coldiretti. In questa sede, Francesco ha deciso di chiedermi cosa sia l’agricoltura biologica e quali possono essere i limiti ed i vantaggi di questo tipo di pratica che oggi sembra andare per la maggiore.

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[Inchiesta completa…] In considerazione della dinamica conflittuale più volte emersa nella nostra inchiesta, ci è parso necessario e naturale interpellare un esperto, uno scienziato che si è occupato a lungo della querelle tra “biologico e non”, il professore Pellegrino Conte, ordinario di chimica agraria all’Università degli Studi di Palermo, nonché membro della Commissione Abilitazione Scientifica Nazionale per il settore chimica agraria, pedologia e genetica agraria e membro del Comitato Scientifico dell’Osservatorio Buona Sanità. Al professore, anzitutto, abbiamo chiesto: che cos’è l’agricoltura biologica?

La risposta di Conte, senza dubbio, mette in crisi la comune interpretazione. Eccola, di seguito, in un ampio e ricco virgolettato!

“Si può dire che non esiste agricoltura che non sia biologica. Tuttavia, come spesso accade, i termini scientifici vengono privati del loro significato ed utilizzati fuori contesto con un significato differente da quello originale. Oggi, secondo l’accezione comune, per “agricoltura biologica” s’intende un tipo di agricoltura “naturale”, sebbene, quando interrogati nel merito, pochi sappiano cosa significhi questo aggettivo. Il termine “naturale” ha assunto il significato di “sano”, “bello”, “giusto”. In altre parole, l’agricoltura biologica, coi suoi prodotti naturali, è qualcosa che fa bene perché ci consente di consumare prodotti salutari e di preservare l’ambiente in cui viviamo. È davvero così? [Continua…]

Italiani sempre a dieta, salutisti a parole. Ma non sanno cos’è il biologico

 

Per saperne di più

Rapporto COOP 2018

Rapporto Censis-Coldiretti

Fonte dell’immagine di copertina (qui)

Omeopatia su Quotidiano Sanità: tra chicche e fantasia

Quotidiano sanità mi sembra una buona testata giornalistica. Non sfoglio molto spesso le pagine on line di questo giornale, ma quando lo faccio sono soddisfatto delle risposte che trovo. Nell’ultima settimana questo quotidiano ha ospitato tra le Lettere al Direttore una serie di articoli sull’omeopatia, pratica pseudo scientifica su cui sono già intervenuto parecchie volte nel mio blog (qui la raccolta di tutti gli articoli) oltre che in radio (qui l’intervista che a suo tempo mi ha fatto Lele Pescia di Neanderthal Pride) e in un capitolo del mio libro “Frammenti di Chimica” (qui e qui).

I presupposti

Il tutto nasce da una lettera del Dr. Santi del 28 Gennaio 2019 (qui) in cui l’autore spiega che la pratica omeopatica ha solo una valenza storica dal momento che dal 1810 – anno in cui fu reso pubblico l’Organon di Hahnnemann, “bibbia” dei principi omeopatici – la scienza ha fatto passi da gigante. Oggi si conoscono i meccanismi biochimici di moltissime patologie e si sa che certi metaboliti e certe molecole (o principi attivi) se usate nel modo opportuno sono in grado di esplicare una precisa funzione biochimica nei processi metabolici che sono alla base delle patologie anzidette. Il Dr. Santi evidenzia l’importanza che nello sviluppo della medicina ha avuto l’input di Hahnnemann che ha consentito di comprendere i meccanismi che sono alla base dell’effetto placebo. Quando un individuo prende un rimedio omeopatico, la convinzione di star assumendo qualcosa che lo aiuta nel contrastare la patologia da cui è affetto, innesca la produzione di quei metaboliti che sono realmente efficaci nella cura di cui ha bisogno. La letteratura in merito è molto vasta e non mi stancherò mai di citare il bellissimo libro del Prof. Giorgio Dobrilla dal titolo “Cinquemila anni di effetto placebo” leggendo il quale ho imparato tantissime cose. Le conclusioni, ovvie, del Dr. Santi sono, quindi, che non ha senso che costosissimi rimedi omeopatici, la cui efficacia non è superiore al placebo, siano a carico del Servizio Sanitario Nazionale (SSN). In questa sede non posso fare altro che ricopiare le parole del Dr. Sarti col quale concordo in pieno:

Dobbiamo ricostruire una cultura della salute che passi attraverso la ricerca di uno stile di vita corretto, alimentazione compresa, e non nella ricerca di farmaci, anche se “dolci”, poco invasivi, tanto privi di effetti collaterali quanto privi di efficacia terapeutica!

E quali sono state le reazioni a queste parole condivisibili e del tutto ragionevoli del Dr. Santi?

Beh…la Dottoressa Silvia Nencioni – Presidente e AD di Boiron Italia – ha scritto una lettera utilizzando i luoghi comuni più noti sull’omeopatia. Potete leggere la lettera qui e le mie considerazioni su di essa qui con un post sul mio blog che pare abbia avuto molto successo – solo su facebook, per esempio, ha raggiunto 37 000 persone nel momento in cui scrivo questa nota. Non voglio, quindi ripetermi.

Un dibattito inutile

Ciò che voglio evidenziare, invece, è che delle considerazioni analoghe alle mie sono state fatte con una lettera al direttore del Quotidiano Sanità da parte del Dr. Salvo Di Grazia (Medbunker per i cibernauti). La lettera del Dr. Di Grazia è a questo link. Anche il Dr. Di Grazia ha, sostanzialmente evidenziato l’efficacia pari al placebo dei rimedi omeopatici (senza nulla togliere all’importanza dell’effetto placebo che è importantissimo in medicina) e ha ribadito l’inopportunità di mettere a carico del nostro SSN delle spese che sono praticamente del tutto inutili. Nessuno vuole vietare la libertà alle persone di scegliere pratiche inutili sotto l’aspetto biochimico e fisiologico per risolvere i propri problemi di salute. Ciò che è incomprensibile è che tutti dobbiamo pagare per le scelte sconsiderate di chi prima cerca di rimediare ai propri problemi mediante la magia e poi, quando la patologia si aggrava, chiede aiuto agli ospedali e alla medicina vera che finanziamo tutti quanti con le nostre tasse. Sì. Certo. Anche chi sceglie l’omeopatia paga le tasse ed ha diritto all’assistenza pubblica. Quanto meno, però, si paghi da solo i costi esosi di rimedi che hanno efficacia pari al placebo senza chiedere nulla al servizio sanitario nazionale (ad oggi i rimedi omeopatici sono deducibili dalla dichiarazione dei redditi. Questo significa che posso spendere una certa cifra in rimedi inutili e detrarne una certa percentuale dalla mia dichiarazione dei redditi. Se volete averne idea basta cliccare qui).

Scienza omeopatia e fantasia

Naturalmente alla lettera del Dr Di Grazia sono seguite altre due lettere in difesa dell’omeopatia. Entrambe pubblicate il giorno 4 Febbraio (qui e qui). In linea generale, come prima cosa, non posso far altro che notare che, invece di entrare nel merito delle questioni poste da Salvo Di Grazia, entrambi gli autori usano la fallacia ad hominem, ovvero attaccano la persona per distogliere l’attenzione dai fatti: l’omeopatia non serve a nulla se non come placebo. Uno dei due (professore di chimica in pensione presso l’Università di Firenze) scrive per esempio: “Da una rapida indagine ho scoperto che il Dr. Di Grazia è un medico che “cerca la verità” (c’è scritto così) e che è autore di numerose pubblicazioni scientifiche. La tecnologia a disposizione di tutti mi ha permesso di appurare che apparentemente non è autore di nessuna pubblicazione scientifica, ma che in realtà è un opinionista che ama scrivere, fra l’altro con stile apprezzabile, contro le bufale della medicina non ortodossa”.  Aggiunge anche “questo punto mi porta a sottolineare un aspetto importante: l’opinionista si esprime, si sente, si piace e vede il mondo in discesa, visto che si è posto su un piedistallo. Per contro, chi ha passato cinquanta anni della propria vita, come ho fatto io, dentro un laboratorio sa benissimo che il mondo è in salita e il provare a interpretarlo utilizzando il sentimento della propria teocrazia intellettuale non produce vantaggio. Tuttavia anche fare l’opinionista è un mestiere lodevole, che va apprezzato. Solo che bisogna saperlo fare, perché è un mestieraccio: bisogna studiare, leggere, informarsi perché i gatti neri ti aspettano sempre fuori della porta”. In altre parole, il Dr. Di Grazia viene relegato al grado di opinionista perché l’autore della lettera, professore di chimica in pensione, ha condotto studi dettagliati su cui ritornerò fra poco.

Il secondo autore (che si firma Presidente Omeoimprese e che, quindi, ha un conflitto di interessi acclarato) scrive: “non posso esimermi dal rispondere al dottor Di Grazia che attacca in modo offensivo e come sempre pregiudizievole il comparto omeopatico”. Quindi, un medico qualificato che pratica la sua professione in Scienza e coscienza ha pregiudizi, mentre il Presidente di Omeoimprese non ha pregiudizi ed è a favore della scienza. Tanto a favore della scienza che dichiara: “Ci sono personalità del mondo scientifico, addirittura premi Nobel, che hanno un atteggiamento possibilista e sicuramente più aperto nei confronti della medicina omeopatica” – e questa si chiama fallacia dell’appello all’autorità (qui) che è il leitmotiv preferito dai sostenitori dell’omeopatia (vi ricordate che è stato già usato dal Presidente e AD della Boiron? Ne ho scritto qui) – aggiungendo anche “un approccio che reputo corretto in quanto la scienza non è scolpita su tavole di pietra ma è una conoscenza in continua evoluzione. Un mutamento e un progresso che ha investito anche il mondo dell’omeopatia”. Infatti la Scienza, quella con la maiuscola, è andata avanti. È l’omeopatia ad essere rimasta sempre uguale a se stessa fin dal 1810, anno in cui fu pubblicato l’Organon di Hahnnemann. Quali sono le innovazioni di cui parla il Presidente di Omeoimprese? Non si tratta certo della rivisitazione dei concetti de “il simile cura il simile” o della succussione (concetti che hanno più o meno 210 anni) o della memoria dell’acqua (questa un po’ più fresca come idea dal momento che fu introdotta da Benveniste nel 1988 ma sbugiardata quasi da subito). No. Le innovazioni riguardano il controllo qualità da parte dell’AIFA. Infatti egli scrive: “le aziende del settore da decenni sono controllate, ispezionate, sia dall’Agenzia del farmaco che dal Ministro della Salute, in quanto produttrici di farmaci”. E posso dire? Ma ci mancherebbe altro! Anche il bar sotto casa è soggetto a regole di controllo qualità ed igiene per i prodotti che immette in commercio. Cosa pretenderebbe il Presidente di Omeoimprese? Che i rimedi omeopatici non vengano sottoposti ai più elementari controlli per appurarne l’innocuità sotto il profilo igienico-sanitario? E chi li dovrebbe fare questi controlli se non l’AIFA? Visto e considerato che questi rimedi sono equiparati a farmaci (qui), è proprio l’AIFA, braccio tecnico del Ministero della Salute, ad essere titolata per i controlli. Quindi quale sarebbe l’innovazione? I controlli dell’AIFA? È proprio grazie ai controlli necessari per garantire la salute pubblica che “le aziende hanno introdotto standard produttivi altamente innovativi”. E cosa dire delle “importanti collaborazioni con i maggiori centri di ricerca universitari italiani e mondiali”? Semplicemente che il mondo accademico è una microsocietà molto diversificata. Si può incontrare chiunque: c’è chi cerca di fare il proprio lavoro in modo serio seguendo tutti i criteri imposti dal metodo scientifico, c’è chi cerca scappatoie per ottenere vantaggi per la sua carriera o per ricevere fondi sempre più consistenti (qui, qui e qui) e c’è anche chi crede nelle cose che fa. Ci crede talmente tanto che non riesce a valutare oggettivamente ciò che fa e cade preda dei propri pregiudizi di conferma (qui). In definitiva, vantarsi delle collaborazioni con enti di ricerca più o meno importanti è il solito specchietto per le allodole che serve solo per nascondere i fatti sotto al tappeto e difendere le proprie posizioni acclarate.

Chimica e omeopatia

So che questo articolo è lungo ed è noioso da leggere. Ma consentitemi di dedicare un paragrafo alla lettera del mio collega chimico in quiescenza dell’Università di Firenze (qui). Ho già scritto poco fa della sua fallacia ad hominem. Lasciamola stare ed andiamo avanti.

La sua lettera ha un interessante incipit: “Premetto che la lettera non mi è stata segnalata dalla Dssa. Nencioni, dal momento che, conoscendola, non aveva e non ha nessun bisogno di farlo. Viceversa non ho la fortuna di conoscere il Dr. Di Grazia, anche se poi mi sono ricordato che è stato autore di un articolo simile sul periodico Previdenza, con il quale la FNOM-Ceo cura la salute delle anime dei propri iscritti pubblicando, senza contraddittorio visto che la vera scienza non è democratica, non già consigli per mantenere in salute un popolo di medici vecchierelli, ma compulsioni che ai più sembrano lesive della deontologia professionale di una parte dei propri iscritti, i medici omeopati appunto”.

Mi verrebbe da dire ciò che è spiegato benissimo in questo video, nell’accezione del primo dei due termini di cui si descrive il significato: https://www.facebook.com/IlSocioAci/videos/293772537913204/

Il fatto che il collega professore (in realtà, ex collega perché io sono ancora in servizio) non conosca personalmente il Dr Di Grazia nulla toglie e nulla aggiunge alla serietà di quest’ultimo ed al fatto che si tratti di un medico che si esprime con cognizione di causa, sempre e solo nel merito delle questioni che egli decide di affrontare. Ed il fatto che il collega professore conosca la Dr.ssa Nencioni, nulla toglie e nulla aggiunge al fatto che ella sia presidente ed amministratore delegato della Boiron, nota ditta francese di prodotti omeopatici, e, di conseguenza, necessariamente coinvolta in un conflitto di interessi. Non ho nulla da dire in merito. La dottoressa, giustamente, difende gli interessi della sua categoria. Avrei preferito che lo avesse fatto senza utilizzare i soliti luoghi comuni di cui ho già parlato, ma va bene lo stesso.

Ed allora? A cosa serve questo incipit se non a distogliere l’attenzione del lettore dal reale problema dell’omeopatia, ovvero la sua inconsistenza scientifica, e puntarla verso l’autore delle critiche introducendo la fallacia ad hominem di cui ho parlato?

Questa introduzione sembra seguire le linee generaliste, e talvolta non esattamente corrette, che il professore utilizza nei lavori sull’omeopatia di cui è autore (la sua produzione scientifica è presente nei nostri data base – Scopus in primis – dalla quale si evince che egli ha pubblicato 131 lavori che, per “chi ha passato cinquanta anni della propria vita, come ho fatto io, dentro un laboratorio”, sono circa 3 lavori all’anno). In uno di questi lavori (scaricabile liberamente da questo link), il professore scrive: “The properties of macroscopic matter are related to the properties of its microscopic units. This is in agreement with the statement that the whole is nothing but the sum of its parts. The problem is what ‘the sum of parts’ means. Basic research in pharmacology is carried out according to the belief that the interactions of a molecule with organism units follow simple rules, though often the application of these rules is complicated. But this in principle is relatively unimportant since it is always possible that in the future tools may be developed which could solve these complications. Bearing this in mind, pharmacology describes its ownperspective in terms of ontological or sometimes epistemological reductionism”.

E qui, adesso, parliamo di scienza

Quello che è scritto, sebbene in modo tecnico e con belle parole, è un altro leitmotiv dei sostenitori dell’omeopatia. Si tratta del famoso approccio olistico secondo il quale una persona non è una banale somma di “oggetti” chimici, ma qualcosa di più. Ne ho parlato più volte: la prima sull’enciclopedia volante www.laputa.it (qui), per poi rilanciarlo sul mio blog appena “costruito” (qui). Ma ho fatto anche un elogio del riduzionismo (qui) in cui ho evidenziato che, in realtà, i detrattori del riduzionismo (ovvero, i sostenitori dell’omeopatia) sono attaccati ad una visione ottocentesca della scienza (e non potrebbe essere altrimenti dal momento che le loro idee immutabili risalgono al 1810 che, come ho già scritto, è l’anno in cui Hahnnemann ha “partorito” la sua opera) che ha le sue basi nell’incredibile sviluppo che la termodinamica ha avuto a cavallo tra 1700 e 1800. In quegli anni, per esempio, Carnot enunciò il principio secondo il quale il rendimento di una macchina termica che lavora tra due sorgenti di calore non può mai superare quello della cosiddetta macchina di Carnot. Tradotto in parole povere, l’energia termica che serve per muovere una qualsiasi macchina non viene trasformata tutta in energia meccanica, ma, a causa di forze dissipative, parte di essa viene dispersa e non può essere utilizzata. Si tratta, in pratica, della negazione del famoso moto perpetuo la cui ricerca termina proprio con l’enunciazione del teorema di Carnot.

Proprio l’enorme sviluppo scientifico dei secoli anzidetti, portò alla convinzione che l’essere vivente non fosse altro che una vera e propria macchina il cui funzionamento poteva essere compreso solo se venivano isolate le sue singole componenti e ne veniva indagato il funzionamento pezzo per pezzo. L’idea era che una volta compreso il funzionamento delle singole parti, esse potevano essere riassemblate per riottenere di nuovo l’essere vivente.

Questa idea è caduta in disuso da tantissimi anni e non si capisce perché scienziati, apprezzabilissimi per il lavoro che svolgono, cadano preda del suo fascino. Magari può essere questione di età: tutti, prima o poi, arriviamo alla fine di un ciclo intellettuale. Quando accade, gli accademici cominciano a dare letteralmente i numeri: è accaduto a Linus Pauling con la sua fissazione sugli effetti biologici della vitamina C, a Luc Montagnier con la sua fissazione per la memoria dell’acqua, a Kary Mullis con la sua negazione della correlazione HIV-AIDS, a Emilio Del Giudice con la sua fissazione per le quantum electrodynamics applicata all’acqua. Potrei continuare, ma sono sicuro che prima o poi capiterà anche a me.

Perché sto scrivendo queste cose? Semplicemente perché non è vero che “Basic research in pharmacology is carried out according to the belief that the interactions of a molecule with organism units follow simple rules” e che “Bearing this in mind, pharmacology describes its own perspective in terms of ontological or sometimes epistemological reductionism”. A leggere questa cosa sembrerebbe che J.J. Monod non sia mai esistito e che il suo lavoro non sia mai stato oggetto di premio Nobel nel 1965. Oltre che essere l’autore de “Il caso e la necessità”, opera che tutti quelli che si occupano di scienza dovrebbero o avrebbero dovuto leggere, Monod è lo scienziato che ha introdotto il concetto di allosterismo, ovvero dell’interazione reversibile di un enzima con una piccola molecola, o con un’altra macromolecola che si lega a un sito diverso dal sito attivo della proteina, tale da indurre nell’enzima un cambiamento conformazionale che comporta profonde variazioni della sua attività. In altre parole, un sistema complesso, per effetto delle interazioni con un altro sistema, assume delle proprietà che da solo non è in grado di mostrare. Insomma, il fatto che le proprietà di un insieme non siano una semplice combinazione lineare delle proprietà delle singole componenti, bensì il risultato di combinazioni non lineari, è noto da tempo ed è un concetto che tutti quelli che si occupano di scienza a vario titolo hanno ben presente.

Questo articolo non vuole essere una critica al lavoro encomiabile del collega in quiescenza dell’università di Firenze, ma voglio solo far notare che chi si erge a paladino di una pseudo scienza come l’omeopatia, adatta le sue conoscenze alle proprie convinzioni perdendo di vista l’oggettività. Come ho già scritto, capita a tutti ed il club è molto ben frequentato.

Ancora l’appello all’autorità

Il collega, appellandosi al solito principio di autorità, cita una neurologa “in predicato per essere candidata al Nobel per la scoperta del sistema glimfatico” (in merito al sistema glimfatico ho trovato un bell’articolo pubblicato su Le Scienze che rimanda anche al lavoro originale su Science). Ora, che la scienziata sia in predicato di essere candidata al Nobel è una vera e propria chicca, dal momento che le candidature sono segrete e vengono tenute tali per cinquant’anni. Come ne sia venuto a conoscenza, non è dato saperlo. Arguisco che il collega abbia fonti sicure in merito. In ogni caso, a parte questa notizia che può essere sfuggita nella foga del momento, il lavoro in cui la scienziata “in predicato di” dimostra che l’agopuntura innesca la produzione di adenosina, una molecola responsabile dell’attenuazione del dolore, è stato pubblicato nel 2010 su Nature Neuroscience (qui). Tuttavia, questo lavoro non dimostra affatto l’efficacia dell’agopuntura. E non sono io a dirlo, visto che non sono un clinico. Il lavoro lo ha studiato nei dettagli il team di Science-Based Medicine che fa capo a David Gorsky. Per chi non lo sapesse, Gorsky è medico  cacciatore di bufale, una professione quanto mai necessaria nel mondo iper-connesso di oggi in cui ogni sciocchezza riesce a raggiungere una popolazione molto ampia non sempre pronta a recepire ciò che viene prodotto nei laboratori di tutto il mondo.  Se avete voglia, potete leggere l’articolo completo con tutte le inconsistenze a questo link.

Conclusioni

Ora basta. Ho scritto questo articolo su word e la sua lunghezza è quella di uno dei miei lavori di ricerca. Penso di avervi annoiato anche troppo. Spero molto che abbiate avuto la pazienza di giungere fino a questo punto nella lettura. Il mio obiettivo era quello di far vedere che, purtroppo, come ho scritto prima, il mondo scientifico è popolato da tanta gente. Moltissimi sono quelli che lavorano seguendo il codice etico scientifico secondo il quale il dato sperimentale è sovrano (questa l’ho imparata dal mio professore di tesi, il Professore Ciro Santacroce. Sto invecchiando e come i vecchi comincio a ricordare i tempi in cui ero più spensierato e vedevo il mondo scientifico con gli occhi del giovane che vuole scoprire il mondo nascosto e irraggiungibile ai sensi umani). Molti sono quelli che sono soggetti a conflitto di interessi e farebbero meglio a starsene buoni e zitti. Tanti sono quelli che si lasciano affascinare dalle proprie idee e perdono il contatto con l’oggettività sperimentale inseguendo i propri pregiudizi di conferma. Anche i chimici, come ho dimostrato, non sono infallibili. Purtroppo, la popolarità è una droga ed è semplice scrivere “Lettere al Direttore” invocando l’argumentum ad populum, l’argumentum ad hominem, l’argumentum ab auctoritate per screditare il proprio avversario senza entrare nel merito delle questioni, soprattutto quando questi mette in dubbio la validità del lavoro che si è portato avanti nell’ultima parte della propria carriera accademica.

Cronologia delle Lettere al Direttore del Quotidiano Sanità

28/01/2019 http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=70346

02/02/2019 http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=70577

03/02/2019 http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=70597

04/02/2019 http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=70614

04/02/2019 http://www.quotidianosanita.it/lettere-al-direttore/articolo.php?articolo_id=70622

Fonte dell’immagine di copertina: Wellcome Images

Cosa sbagliano i divulgatori scientifici di professione

Non lo faccio spesso, ma qualche volta ci sono articoli da altri blog che mi colpiscono molto favorevolmente. Questa volta condivido tutti i contenuti che Andrea Grignolio riporta in un suo articolo su Wired in merito al significato di “divulgazione scientifica” ed a cosa c’è di sbagliato nelle azioni dei divulgatori scientifici di professione.

Devo dire che tra i cosiddetti divulgatori professionisti è nato un nuovo sport (non so se diventerà una disciplina olimpica) che può essere indicato come “tiro al Burioni”.

Come nota il Prof. Grignolio nel suo articolo, oggi, più che concentrarsi sull’efficacia della comunicazione, che dipende in primis dal contenitore in cui il messaggio è veicolato, dal target a cui il messaggio è diretto (ovvero a chi si intende comunicare) e dal contesto storico culturale del momento, i cosiddetti comunicatori professionisti si concentrano “sullo stile [comunicativo di Burioni] in modo strumentale per attaccare l’autore del messaggio, confondendo cioè il messaggio con il messaggero”. Ciò che, quindi, appare è un indebolimento del messaggio che gli stessi comunicatori intenderebbero veicolare.

Ma non vi tedio più di tanto. Vi invito, invece, a leggere l’articolo completo al link qui sotto. Buona lettura.

https://www.wired.it/scienza/medicina/2019/01/14/critici-burioni-comunicazione-scientifica/

Fonte dell’immagine di copertina (qui)

Agricoltura biodinamica sì, agricoltura biodinamica no

Oggi è Natale e sono felice di poter fare gli auguri di buone feste a tutti i miei lettori. La divulgazione, però, non si ferma. Da quando ho pubblicato i miei articoli sul biologico e la biodinamica (li potete leggere qui, qui, qui e qui) e, assieme ad Enrico Bucci, le 7 domande ai firmatari della lettera sulla libertà della scienza (qui) a cui non abbiamo mai ricevuto risposta, ho ricevuto tutta una serie di attacchi ad personam che cercavano di screditare la mia serietà scientifica invece di entrare direttamente nel merito delle questioni che ponevo. Ne volete qualche esempio?

Un certo Gary Ricupero (nome falso, ovviamente, come falso è l’indirizzo e-mail, da cui manda il messaggio, che si rifà al noto attore Gary Cooper) scrive in risposta al post in cui invito a leggere la lettera della Professoressa Cattaneo in merito all’agricoltura biologica le seguenti parole:

>Intanto mi mangio una bella insalata biodinamica e mi prendo un bel farmaco omeopatico contro l’influenza come faccio con successo da 20 anni, alla faccia di Conte<

Un tale che si firma chepalle (anche lui scrive da un indirizzo e-mail falso) scrive in risposta alle 7 domande:

>“…mi sembra, quindi, fuor di dubbio che per poter essere certificati occorre usare pratiche magiche.. “, che coglionate che spara. Perché invece non si occupa di provette e di chimica anziché invadere campi che non le competono e che non può comprendere? Perché non se ne resta a cuccia un po’?<

Come vi dicevo questi sono solo alcuni esempi di persone che io catalogo tra le frotte di imbecilli di echiana memoria e che evidentemente non devono vivere molto bene se sentono la necessità di nascondersi dietro nomi falsi per scrivere idiozie (e forse neanche sanno che quando scrivono nel blog appare l’indirizzo IP del computer che usano, per cui sarebbe anche facile raggiungere le loro vere identità se uno ne avesse voglia e tempo).

Uno che sente il bisogno di scrivere che continuerà a mangiare prodotti da agricoltura biodinamica e ad usare rimedi omeopatici come se a me importasse qualcosa, deve essere veramente un idiota. Uno che dice ad un docente di chimica agraria che l’agricoltura biodinamica non gli compete, deve essere uno che, se è laureato, deve aver seguito un percorso didattico in cui non ci deve essere stato molto spazio per la razionalità.

Come ho sempre detto, il mio scopo col blog e la pagina Facebook non è quello di convincere nessuno. Ognuno è libero di fare tutte le scelte alimentari che vuole. Quello che mi importa, invece, è che queste scelte vengano fatte consapevolmente non sulla base di pseudo-scienza.

La biodinamica secondo l’Associazione Italiana Società Scientifiche Agrarie

Perché sto scrivendo questo post? Certamente non per informarvi sui retroscena di quanto scrivo ma per farvi conoscere il documento ufficiale in merito all’agricoltura biologica stilato dalla Associazione Italiana Società Scientifiche Agrarie (AISSA), l’unica associazione scientifica di area agraria accreditata presso il Ministero dell’Università e della Ricerca (MIUR). Si tratta di una associazione che riunisce tutte le società che a diverso titolo si occupano di agraria, incluse la Società Italiana di Chimica Agraria (SICA) di cui sono membro e la Società Italiana di Scienze del Suolo (SISS) di cui, dal primo Gennaio 2019, sarò componente della IV Divisione “Ruolo Ambientale e Sociale del Suolo”.

Il documento a cui faccio riferimento lo potete trovare a questo link oppure cliccando sulla figura qui sotto.

Scrive l’AISSA:

>La comunità scientifica nazionale che si occupa di agricoltura, attraverso l’Associazione Italiana delle Società Scientifiche Agrarie (AISSA), ritiene che per favorire la conoscenza di un’agricoltura di qualità, per la tutela del territorio, il rispetto dell’ambiente e per un consumo consapevole sia necessario fare chiarezza su questi temi, per contribuire ad una corretta divulgazione scientifica e per far progredire le conoscenze, affinché l’intera società civile ne tragga giovamento, recuperando un po’ di quella consapevolezza del valore della terra e del settore primario andata perduta negli ultimi decenni. Il nostro dovere civico di agire per una corretta divulgazione scientifica e per il trasferimento tecnologico impone anche una precisazione relativa alla distinzione tra tecniche agronomiche basate su risultati sperimentali o su deduzioni di principi scientifici, che fanno parte del patrimonio dei produttori biologici e le pratiche esoteriche che caratterizzano il metodo produttivobiodinamico”. Queste ultime, sebbene suggestive, non hanno trovato ad oggi fondamento scientifico.<

Ho volutamente evidenziato in grassetto e sottolineato l’ultima parte del paragrafo. L’agricoltura biodinamica si basa su pratiche “magiche” che non hanno alcun fondamento scientifico.

Badate bene, sebbene io ne abbia scritto in passato e continuerò a riportarlo, quanto indicato nel documento di cui ho messo il link è stato scritto dall’Associazione delle Società che si occupano di Agraria. Questo significa che la comunità scientifica che si occupa a qualsiasi titolo di agraria è unanime. Non ci sono divisioni o controversie. Quando i biodinamici insistono nel dire che anche la comunità scientifica è divisa in merito alla pratica biodinamica, stanno affermando il falso e la prova è proprio nel documento che avete appena letto. Certo, ci può essere qualche pseudo-scienziato nella comunità di coloro che si occupano di agraria, ma – appunto – si tratta di qualche poveraccio che probabilmente vuole avere visibilità.

Aspetto ora che le frotte di imbecilli scrivano che i componenti della AISSA debbano dedicarsi a campi di cui sono competenti. Sono sicuro che qualche imbecille affetto dalla sindrome di Dunning-Kruger lo possa veramente pensare e verosimilmente scrivere da qualche parte.

L’AISSA e l’agricoltura biologica

Nello stesso documento l’Associazione Italiana Società Scientifiche Agrarie evidenzia tutti i limiti dell’agricoltura biologica: 1. minore produttività che implica prezzi più alti e uso di una maggiore quantità di suolo per produrre lo stesso ammontare di alimenti (la riduzione della produttività agricola comporterebbe di concerto maggiori importazioni con impatto notevole sull’economia nazionale); 2. “biologico” non è sinonimo di sostenibilità dal momento che, per esempio, si può verificare un accumulo pericoloso di metalli tossici, come il rame, nei suoli sottoposti a certe particolari coltivazioni come i vigneti; 3. le pratiche biologiche possono essere utili in alcuni settori, ma non in altri come, per esempio, la coltivazione dei cereali che sono prodotti che, se non adeguatamente protetti da attacchi di funghi e batteri, sono assolutamente inutilizzabili per l’alimentazione umana a causa della presenza di micotossine.
In altre parole, l’AISSA auspica una maggiore attenzione per la ricerca scientifica che deve aiutare a superare i problemi anzidetti. In particolare,

>anche l’agricoltura biologica dovrà […] utilizzare al meglio le potenzialità che il miglioramento genetico sta offrendo, senza rifiuti preconcetti, e impiegare genotipi di varietà vegetali e razze animali più produttivi, rustici, resistenti e resilienti.<

Fate attenzione a quanto evidenziato in grassetto e sottolineato: l’AISSA non è contro gli OGM in agricoltura e non esiste alcuna controversia nel mondo scientifico in merito alla pericolosità degli OGM. Del resto che i lavori che descrivono la pericolosità degli OGM siano opinabili lo ha già evidenziato Enrico Bucci in uno dei suoi post (qui).

Conclusioni

Cosa aggiungere? Niente oltre che la coesistenza di attività agricole differenti sia possibile ed auspicabile dopo aver valutato opportunamente il rapporto costi/benefici di ognuna di esse. In altre parole, non si può pensare al biologico come alla panacea di ogni male, ma bisogna applicare attività integrate che, in qualche modo, mettano insieme tutti i vantaggi delle varie pratiche agricole (che è quanto auspicato anche dai firmatari della lettera al Parlamento italiano di cui ho parlato qui).

Fonte dell’immagine di copertina (qui)

Il futuro dell’agricoltura non è nel bio

 

Per una volta uso il mio blog per dar voce ad un documento che un certo numero di imprenditori agricoli e colleghi accademici, alcuni dei quali conosco personalmente, ha sottoposto all’attenzione dei nostri rappresentanti nel Parlamento della Repubblica. Si tratta di un documento che evidenzia tutti i limiti della cosiddetta agricoltura biologica, in cui ricade anche quella pratica esoterica che viene indicata come agricoltura biodinamica di cui ho parlato anche qui nelle famose sette domande ai firmatari della lettera aperta sulla libertà della scienza, alle quali Enrico Bucci ed io attendiamo ancora risposta.

Di agricoltura biologica, nel mio piccolo, ho discusso anche io in due documenti (qui e qui), uno dei quali era la lettera della Professoressa Cattaneo in risposta alle farneticazioni scritte da Michele Serra, noto giornalista italiano.

Nel documento inviato ai parlamentari, i firmatari (a cui mi sono appena aggiunto anche io) evidenziano come la migliore pratica agricola sia quella ottenuta dall’integrazione di tutte le migliori tecnologie al momento disponibili. Non voglio fare lo spoiler di questo documento che invito a leggere e firmare qui o cliccando sulla figura sottostante.

 

L’agricoltura secondo Michele Serra

 

Nei giorni scorsi Michele Serra, noto giornalista ed autore della rubrica “L’amaca” su La Repubblica ha dato (nuovamente, perché già nel 2016 aveva pubblicato in merito come si vede dalla Figura 1) il meglio di sé in difesa di tutte le forme di agricoltura biologica, inclusa la biodinamica, rispondendo alle argomentazioni, molto razionali, della Professoressa, nonché Senatrice della Repubblica, Elena Cattaneo. Qui un link che riporta l’intera storia e qui un altro link da cui, secondo me, è più facile capire la questione.

Figura 1. Screenshot dalla pagina pubblica L’amaca di Michele Serra

Il giornalista Serra, che non mi pare un esperto del settore agricolo né uno che possa vantare una qualche esperienza in un qualche settore scientifico come appare da una sua biografia on-line (qui), accusa la professoressa Cattaneo di posizioni ideologiche quando parla del ruolo dell’agricoltura biologica nella sostenibilità ambientale usando dei termini che a me non paiono non ideologici.

Riprendiamo una frase che Serra ha scritto e che mi ha colpito particolarmente:

L’impoverimento dei suoli dovuto alle monocolture è conclamato, e la perdita di biodiversità irrimediabile: se per migliaia di ettari hai solo soia, magari per produrre biocarburanti, quella fetta di terra è morta a ogni altra specie

Le monocolture

Ecco, non capisco. Serra parla di monoculture per migliaia di ettari. Apriamo il dizionario e leggiamo il significato di monocoltura (qui):

monocoltura Tipo particolare di sfruttamento del suolo agrario, che consiste nel coltivare il terreno con una sola specie o varietà di piante per più anni.

Bene. Ora mi chiedo: i produttori di vino biologico o quelli di olio extravergine di oliva biologico (solo per citarne alcuni) – lasciando perdere la biodinamica  fino a che i firmatari della lettera aperta sulla libertà della scienza non risponderanno alle 7 facili domande che Enrico Bucci ed io abbiamo fatto altrove (qui sotto il link alle 7 domande) – quando producono vino e olio non fanno forse uso di monocolture?

7 domande ai firmatari della “Lettera aperta sulla libertà della scienza”

Se ci atteniamo al dizionario, leggiamo ancora (qui):

In linea di massima la m. non comporta i vantaggi, colturali ed economici, che si hanno invece con l’avvicendamento delle colture; maggiore sarebbe il danno, inoltre, che deriverebbe nel caso di calamità naturali e di crisi del mercato

Con quanto scrive, Serra forse vuole dire che gli olivicoltori ed i viticoltori che applicano il biologico praticano la rotazione colturale espiantando olivi secolari o vitigni pluriennali per far posto a colture diverse che non danno la stessa resa in termini economici? Non mi pare che gli olivicoltori siano molto propensi ad espiantare i propri olivi, come il caso della Xylella in Puglia ci insegna (qui).

Ed allora mi chiedo: di cosa parla Serra? Cosa intende quando usa la parola “monocoltura” privandola del suo significato?

Le monocolture per la produzione non alimentare

Continuando la lettura del dizionario si apprende che (qui):

A livello macroeconomico, sono caratterizzati da condizioni di m. quei paesi che presentano un’economia prevalentemente basata sull’apporto di uno o due prodotti agricoli. Tali caratteristiche individuano tipicamente le economie dislocate in Asia, Africa e America Latina in cui prevale una situazione di sottosviluppo. Nel determinarle hanno certo influito fattori climatici e ambientali particolari, ma va soprattutto evidenziato il ruolo di fattori di ordine storico che hanno reso l’economia dei paesi considerati del tutto dipendente da interessi estranei a quelli interni ai paesi stessi. I governi coloniali, infatti, hanno imposto a tali paesi, in forme dirette o indirette, specializzazioni produttive che, sulla base delle condizioni naturali in essi esistenti, ponessero le loro economie in condizioni di ‘complementarità’ rispetto a quelle dei paesi dominanti.

Ora…non sono un economista, ma mi sembra di capire, da quanto leggo, che l’uso di monocolture sia una pratica tipica dei paesi sottosviluppati che sono stati (o sono) soggetti al colonialismo, ovvero alla dipendenza politica e/o economica da altri paesi. Serra parla di migliaia di ettari di suolo destinati alla produzione di biocarburanti attraverso la coltivazione, per esempio, della soia. Forse l’Italia è da catalogare tra i paesi sottosviluppati? Forse in Italia esistono queste coltivazioni non destinate alla produzione alimentare e che si estendono per migliaia di ettari? Aggiungo anche che Serra, molto probabilmente, non è molto bene informato su quale sia il tipo di biomassa che oggi viene usata per la produzione di biocarburanti. A questo punto do un po’ di riferimenti scientifici (cosa che Serra si guarda sempre bene dal fare, fornendo sempre e solo argomentazioni generaliste del tipo “la scienza dimostra che…”):

Conte et al. J. Agric. Food Chem (2009) 57, 8748–8752

Butera et al. Cellulose (2011)  18: 1499–1507

(questi due lavori servono solo per evidenziare che anche io mi sono occupato anni fa dello sviluppo di una tecnologia per la produzione di biocarburanti prima di passare ad altro, per cui so di cosa sto parlando)

Zhu et al. Appl Microbiol Biotechnol (2010) 87: 847. 

Chandell et al. J Chem Technol Biotechnol (2012) 87: 11–20

Raheem et al. Renewable and Sustainable Energy Reviews (2015) 49: 990–999

Questi sono solo pochi dei tanti lavori scientifici che evidenziano come, sotto l’aspetto tecnico, le biomasse per la produzione di biocarburanti siano ben diverse dalla soia di cui parla Serra. Oggi l’Italia è all’avanguardia per la ricerca e la produzione di biocarburanti di terza generazione senza parlare delle ricerche più innovative che si focalizzano sulla produzione di biocarburanti di quarta generazione (ovvero quelli per la cui produzione non si sfruttano risorse agricole destinate alla produzione alimentare). Ne volete qualche esempio?

Qui trovate un link ad un progetto sulle microalghe sponsorizzato dal Ministero dell’Ambiente; qui il sito dell’ENI che informa come “entro il 2021 la bioraffineria Eni di Venezia sarà in grado di lavorare fino a 560.000 tonnellate di materie prime all’anno, utilizzando in misura crescente oli da cucina usati, oli vegetali e grassi animali. Entro il 2018 sarà completata anche la seconda bioraffineria Eni di Gela, in Sicilia, con un incremento della capacità produttiva di 750.000 tonnellate/anno”; qui un rapporto dell’ENEA in merito all’efficienza dei biocarburanti da microalghe; e, solo per completezza, qui è il link a uno dei più importanti gruppi industriali italiani (il Mossi Ghisolfi group) che da sempre si è occupato della produzione di sistemi bio-sostenibili tra cui il bio-etanolo ed il bio-diesel.

Ed allora ripeto la domanda: di cosa parla Serra quando usa il termine “monocoltura” privandolo del suo significato? Cosa intende dire quando blatera di migliaia di ettari di suolo destinati alla coltivazione non alimentare? In Europa, e quindi anche in Italia, sia la ricerca scientifica che la politica comunitaria sono indirizzate verso i biocombustibili di terza ed ancor più di quarta generazione. Non ci sono le immense distese di cui ciancia Serra.

La biodiversità

A questo punto viene anche da chiedere: cosa intende Serra quando parla di “biodiversità”? Di biodiversità ne ho già discusso anche io altrove un po’ di tempo fa:

Gli OGM per le biodiversità

Solo per rimarcare un po’ di informazioni scientifiche, esistono tre tipologie di biodiversità. 1. biodiverrsità genetica: si intende  la varietà dell’informazione genetica contenuta nei diversi individui di una stessa specie; 2. biodiversità tassonomica: si intende la complessa variabilità delle specie che abitano una certa regione. In altre parole, non ci si riferisce solo alla ricchezza di specie di una regione ma anche alle relazioni tra le diverse specie; 3. biodiversità ecosistemica: si intende la variabilità delle specie viventi nei diversi ambienti in cui la vita è presente: la foresta, la barriera corallina, gli ambienti sotterranei, il deserto, le torbiere etc etc. Per esempio, in quest’ultimo caso, si può parlare di biodiversità forestale quando ci si riferisce ad un bosco oppure di biodiversità agricola quando ci si riferisce a campi coltivati per la produzione alimentare (qui un riferimento molto utile).

L’attività agricola (qualunque forma essa assuma, dalla convenzionale alla biologica) implica necessariamente un impatto sulle diverse tipologie di biodiversità. Se il suolo è adibito al sostentamento di uliveti, ci sarà una biodiversità tipica per quel tipo di coltura; se viene coltivato grano, la biodiversità è quella tipica per quella coltivazione; e posso continuare. Tutto questo è indipendente dalla tipologia di pratica agricola utilizzata, sia essa convenzionale che biologica.

Ormai sono diventato monotono con le mie domande, però non posso fare a meno di chiedere: ma cosa intende Serra quando dice che “la perdita di biodiversità [è]  irrimediabile“? Alla luce di quanto detto, la biodiversità non si perde, ma cambia.

Esempi di problemi legati alla perdita di biodiversità

Il problema della perdita di biodiversità di cui parla Serra si riferisce a pratiche particolari che coinvolgono colture particolari, non certo a quanto accade attualmente in Italia. Per esempio, sapevate che le banane come noi le compriamo al mercato sono prodotti OGM? Sì, proprio quegli OGM che tanti ambientalisti ortodossi (a cui magari piacciono le banane perché sono frutta e la frutta è “naturale”) discriminano perché non naturali.  La Figura 2 mostra come è fatta una banana “naturale”. Come vedete, le banane selvatiche sono immangiabili per la quantità di semi che contengono.

Figura 2. La banana naturale contiene un quantitativo enorme di semi ed è immangiabile (Fonte)

In che modo l’uomo ha reso le banane più edibili eliminando la scomodità dei semi? Semplice. Abbiamo fatto delle selezioni e, tra tutte le cultivar, in Europa abbiamo preso in considerazione quella chiamata Cavendish, resistente al Fusarium oxysporum. Quest’ultimo è un fungo che attaccava (ed ha estinto) le piante di banana della cultivar Gros Michel molto comune fino agli anni ’50 del XX secolo. Le banane Gros Michel erano tutte cloni, ovvero erano geneticamente tutte identiche. Non essendo geneticamente biodiverse, le Gros Michel si sono estinte perché l’azione del fungo ha operato nello stesso modo su tutti i cloni.

Anche le banane Cavendish sono cloni. E per di più non sono resistenti al Mycosphaerella fijiensis (un altro fungo). Questo vuol dire che se un banano in una qualsiasi parte del mondo venisse attaccato da questo fungo, si potrebbe innescare un processo di estinzione del tutto irreversibile e bye bye banane (qui un interessante riferimento).

Insomma, vi spaventano gli OGM? Bene. Non mangiate banane, perché esse lo sono.

E volete sapere pure un’altra cosa? I semi sono il modo con cui le piante diffondono il proprio DNA (scopo ultimo di tutti gli esseri viventi); questo vuol dire che senza semi i banani non si possono diffondere perché i frutti sono sterili. I banani sono quanto di più antropizzato ci possa venire in mente. Senza l’apporto antropico essi si estinguerebbero nel giro di una sola generazione.

Mi rivolgo ai più naturalisti tra i miei lettori: siete proprio sicuri di voler continuare a mangiare banane?

Conclusioni

A questo punto sono veramente stanco. Ho dovuto scrivere un vero e proprio lavoro scientifico e fare ricerche bibliografiche per confutare tre righe scritte da un giornalista che ha un conflitto di interessi conclamato e, per questo, si sente in dovere di attaccare chiunque parli male o solo si faccia domande sul biodinamico e sul biologico.

Il calendario di Worpress, la piattaforma che uso per questo blog, mi ricorda che ho cominciato a scrivere la confutazione delle tre righe scritte da Serra il 25 Novembre. Nel momento in cui pubblico questo articolo è il 14 Dicembre. Ci sono voluti diciannove giorni per evidenziare le sciocchezze scritte da Serra in sole tre righe. Diciannove giorni in cui ho dovuto svolgere anche il mio lavoro che non è quello di debunker. Quanto tempo mi occorrerebbe per confutare tutto quanto scritto da Serra? Potete capire che dovrei cambiare attività per tener dietro alle sciocchezze che il primo che passa si mette a scrivere sfruttando la sua notorietà tutt’altro che scientifica.

Come vedete scrivere sciocchezze è facile. Molto meno facile è far capire perché esse sono sciocchezze. Cionondimeno, bisogna continuare a farlo. Non è più ammissibile che si dicano/scrivano certe cose senza alcuna cognizione di causa. Oggi, nel XXI secolo, “nell’era dell’informazione, l’ignoranza è una scelta“.

Fonte dell’immagine di copertina: Archivio personale

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