Agricoltura biodinamica sì, agricoltura biodinamica no

Oggi è Natale e sono felice di poter fare gli auguri di buone feste a tutti i miei lettori. La divulgazione, però, non si ferma. Da quando ho pubblicato i miei articoli sul biologico e la biodinamica (li potete leggere qui, qui, qui e qui) e, assieme ad Enrico Bucci, le 7 domande ai firmatari della lettera sulla libertà della scienza (qui) a cui non abbiamo mai ricevuto risposta, ho ricevuto tutta una serie di attacchi ad personam che cercavano di screditare la mia serietà scientifica invece di entrare direttamente nel merito delle questioni che ponevo. Ne volete qualche esempio?

Un certo Gary Ricupero (nome falso, ovviamente, come falso è l’indirizzo e-mail, da cui manda il messaggio, che si rifà al noto attore Gary Cooper) scrive in risposta al post in cui invito a leggere la lettera della Professoressa Cattaneo in merito all’agricoltura biologica le seguenti parole:

>Intanto mi mangio una bella insalata biodinamica e mi prendo un bel farmaco omeopatico contro l’influenza come faccio con successo da 20 anni, alla faccia di Conte<

Un tale che si firma chepalle (anche lui scrive da un indirizzo e-mail falso) scrive in risposta alle 7 domande:

>“…mi sembra, quindi, fuor di dubbio che per poter essere certificati occorre usare pratiche magiche.. “, che coglionate che spara. Perché invece non si occupa di provette e di chimica anziché invadere campi che non le competono e che non può comprendere? Perché non se ne resta a cuccia un po’?<

Come vi dicevo questi sono solo alcuni esempi di persone che io catalogo tra le frotte di imbecilli di echiana memoria e che evidentemente non devono vivere molto bene se sentono la necessità di nascondersi dietro nomi falsi per scrivere idiozie (e forse neanche sanno che quando scrivono nel blog appare l’indirizzo IP del computer che usano, per cui sarebbe anche facile raggiungere le loro vere identità se uno ne avesse voglia e tempo).

Uno che sente il bisogno di scrivere che continuerà a mangiare prodotti da agricoltura biodinamica e ad usare rimedi omeopatici come se a me importasse qualcosa, deve essere veramente un idiota. Uno che dice ad un docente di chimica agraria che l’agricoltura biodinamica non gli compete, deve essere uno che, se è laureato, deve aver seguito un percorso didattico in cui non ci deve essere stato molto spazio per la razionalità.

Come ho sempre detto, il mio scopo col blog e la pagina Facebook non è quello di convincere nessuno. Ognuno è libero di fare tutte le scelte alimentari che vuole. Quello che mi importa, invece, è che queste scelte vengano fatte consapevolmente non sulla base di pseudo-scienza.

La biodinamica secondo l’Associazione Italiana Società Scientifiche Agrarie

Perché sto scrivendo questo post? Certamente non per informarvi sui retroscena di quanto scrivo ma per farvi conoscere il documento ufficiale in merito all’agricoltura biologica stilato dalla Associazione Italiana Società Scientifiche Agrarie (AISSA), l’unica associazione scientifica di area agraria accreditata presso il Ministero dell’Università e della Ricerca (MIUR). Si tratta di una associazione che riunisce tutte le società che a diverso titolo si occupano di agraria, incluse la Società Italiana di Chimica Agraria (SICA) di cui sono membro e la Società Italiana di Scienze del Suolo (SISS) di cui, dal primo Gennaio 2019, sarò componente della IV Divisione “Ruolo Ambientale e Sociale del Suolo”.

Il documento a cui faccio riferimento lo potete trovare a questo link oppure cliccando sulla figura qui sotto.

Scrive l’AISSA:

>La comunità scientifica nazionale che si occupa di agricoltura, attraverso l’Associazione Italiana delle Società Scientifiche Agrarie (AISSA), ritiene che per favorire la conoscenza di un’agricoltura di qualità, per la tutela del territorio, il rispetto dell’ambiente e per un consumo consapevole sia necessario fare chiarezza su questi temi, per contribuire ad una corretta divulgazione scientifica e per far progredire le conoscenze, affinché l’intera società civile ne tragga giovamento, recuperando un po’ di quella consapevolezza del valore della terra e del settore primario andata perduta negli ultimi decenni. Il nostro dovere civico di agire per una corretta divulgazione scientifica e per il trasferimento tecnologico impone anche una precisazione relativa alla distinzione tra tecniche agronomiche basate su risultati sperimentali o su deduzioni di principi scientifici, che fanno parte del patrimonio dei produttori biologici e le pratiche esoteriche che caratterizzano il metodo produttivobiodinamico”. Queste ultime, sebbene suggestive, non hanno trovato ad oggi fondamento scientifico.<

Ho volutamente evidenziato in grassetto e sottolineato l’ultima parte del paragrafo. L’agricoltura biodinamica si basa su pratiche “magiche” che non hanno alcun fondamento scientifico.

Badate bene, sebbene io ne abbia scritto in passato e continuerò a riportarlo, quanto indicato nel documento di cui ho messo il link è stato scritto dall’Associazione delle Società che si occupano di Agraria. Questo significa che la comunità scientifica che si occupa a qualsiasi titolo di agraria è unanime. Non ci sono divisioni o controversie. Quando i biodinamici insistono nel dire che anche la comunità scientifica è divisa in merito alla pratica biodinamica, stanno affermando il falso e la prova è proprio nel documento che avete appena letto. Certo, ci può essere qualche pseudo-scienziato nella comunità di coloro che si occupano di agraria, ma – appunto – si tratta di qualche poveraccio che probabilmente vuole avere visibilità.

Aspetto ora che le frotte di imbecilli scrivano che i componenti della AISSA debbano dedicarsi a campi di cui sono competenti. Sono sicuro che qualche imbecille affetto dalla sindrome di Dunning-Kruger lo possa veramente pensare e verosimilmente scrivere da qualche parte.

L’AISSA e l’agricoltura biologica

Nello stesso documento l’Associazione Italiana Società Scientifiche Agrarie evidenzia tutti i limiti dell’agricoltura biologica: 1. minore produttività che implica prezzi più alti e uso di una maggiore quantità di suolo per produrre lo stesso ammontare di alimenti (la riduzione della produttività agricola comporterebbe di concerto maggiori importazioni con impatto notevole sull’economia nazionale); 2. “biologico” non è sinonimo di sostenibilità dal momento che, per esempio, si può verificare un accumulo pericoloso di metalli tossici, come il rame, nei suoli sottoposti a certe particolari coltivazioni come i vigneti; 3. le pratiche biologiche possono essere utili in alcuni settori, ma non in altri come, per esempio, la coltivazione dei cereali che sono prodotti che, se non adeguatamente protetti da attacchi di funghi e batteri, sono assolutamente inutilizzabili per l’alimentazione umana a causa della presenza di micotossine.
In altre parole, l’AISSA auspica una maggiore attenzione per la ricerca scientifica che deve aiutare a superare i problemi anzidetti. In particolare,

>anche l’agricoltura biologica dovrà […] utilizzare al meglio le potenzialità che il miglioramento genetico sta offrendo, senza rifiuti preconcetti, e impiegare genotipi di varietà vegetali e razze animali più produttivi, rustici, resistenti e resilienti.<

Fate attenzione a quanto evidenziato in grassetto e sottolineato: l’AISSA non è contro gli OGM in agricoltura e non esiste alcuna controversia nel mondo scientifico in merito alla pericolosità degli OGM. Del resto che i lavori che descrivono la pericolosità degli OGM siano opinabili lo ha già evidenziato Enrico Bucci in uno dei suoi post (qui).

Conclusioni

Cosa aggiungere? Niente oltre che la coesistenza di attività agricole differenti sia possibile ed auspicabile dopo aver valutato opportunamente il rapporto costi/benefici di ognuna di esse. In altre parole, non si può pensare al biologico come alla panacea di ogni male, ma bisogna applicare attività integrate che, in qualche modo, mettano insieme tutti i vantaggi delle varie pratiche agricole (che è quanto auspicato anche dai firmatari della lettera al Parlamento italiano di cui ho parlato qui).

Fonte dell’immagine di copertina (qui)

Il futuro dell’agricoltura non è nel bio

 

Per una volta uso il mio blog per dar voce ad un documento che un certo numero di imprenditori agricoli e colleghi accademici, alcuni dei quali conosco personalmente, ha sottoposto all’attenzione dei nostri rappresentanti nel Parlamento della Repubblica. Si tratta di un documento che evidenzia tutti i limiti della cosiddetta agricoltura biologica, in cui ricade anche quella pratica esoterica che viene indicata come agricoltura biodinamica di cui ho parlato anche qui nelle famose sette domande ai firmatari della lettera aperta sulla libertà della scienza, alle quali Enrico Bucci ed io attendiamo ancora risposta.

Di agricoltura biologica, nel mio piccolo, ho discusso anche io in due documenti (qui e qui), uno dei quali era la lettera della Professoressa Cattaneo in risposta alle farneticazioni scritte da Michele Serra, noto giornalista italiano.

Nel documento inviato ai parlamentari, i firmatari (a cui mi sono appena aggiunto anche io) evidenziano come la migliore pratica agricola sia quella ottenuta dall’integrazione di tutte le migliori tecnologie al momento disponibili. Non voglio fare lo spoiler di questo documento che invito a leggere e firmare qui o cliccando sulla figura sottostante.

 

L’agricoltura secondo Michele Serra

 

Nei giorni scorsi Michele Serra, noto giornalista ed autore della rubrica “L’amaca” su La Repubblica ha dato (nuovamente, perché già nel 2016 aveva pubblicato in merito come si vede dalla Figura 1) il meglio di sé in difesa di tutte le forme di agricoltura biologica, inclusa la biodinamica, rispondendo alle argomentazioni, molto razionali, della Professoressa, nonché Senatrice della Repubblica, Elena Cattaneo. Qui un link che riporta l’intera storia e qui un altro link da cui, secondo me, è più facile capire la questione.

Figura 1. Screenshot dalla pagina pubblica L’amaca di Michele Serra

Il giornalista Serra, che non mi pare un esperto del settore agricolo né uno che possa vantare una qualche esperienza in un qualche settore scientifico come appare da una sua biografia on-line (qui), accusa la professoressa Cattaneo di posizioni ideologiche quando parla del ruolo dell’agricoltura biologica nella sostenibilità ambientale usando dei termini che a me non paiono non ideologici.

Riprendiamo una frase che Serra ha scritto e che mi ha colpito particolarmente:

L’impoverimento dei suoli dovuto alle monocolture è conclamato, e la perdita di biodiversità irrimediabile: se per migliaia di ettari hai solo soia, magari per produrre biocarburanti, quella fetta di terra è morta a ogni altra specie

Le monocolture

Ecco, non capisco. Serra parla di monoculture per migliaia di ettari. Apriamo il dizionario e leggiamo il significato di monocoltura (qui):

monocoltura Tipo particolare di sfruttamento del suolo agrario, che consiste nel coltivare il terreno con una sola specie o varietà di piante per più anni.

Bene. Ora mi chiedo: i produttori di vino biologico o quelli di olio extravergine di oliva biologico (solo per citarne alcuni) – lasciando perdere la biodinamica  fino a che i firmatari della lettera aperta sulla libertà della scienza non risponderanno alle 7 facili domande che Enrico Bucci ed io abbiamo fatto altrove (qui sotto il link alle 7 domande) – quando producono vino e olio non fanno forse uso di monocolture?

7 domande ai firmatari della “Lettera aperta sulla libertà della scienza”

Se ci atteniamo al dizionario, leggiamo ancora (qui):

In linea di massima la m. non comporta i vantaggi, colturali ed economici, che si hanno invece con l’avvicendamento delle colture; maggiore sarebbe il danno, inoltre, che deriverebbe nel caso di calamità naturali e di crisi del mercato

Con quanto scrive, Serra forse vuole dire che gli olivicoltori ed i viticoltori che applicano il biologico praticano la rotazione colturale espiantando olivi secolari o vitigni pluriennali per far posto a colture diverse che non danno la stessa resa in termini economici? Non mi pare che gli olivicoltori siano molto propensi ad espiantare i propri olivi, come il caso della Xylella in Puglia ci insegna (qui).

Ed allora mi chiedo: di cosa parla Serra? Cosa intende quando usa la parola “monocoltura” privandola del suo significato?

Le monocolture per la produzione non alimentare

Continuando la lettura del dizionario si apprende che (qui):

A livello macroeconomico, sono caratterizzati da condizioni di m. quei paesi che presentano un’economia prevalentemente basata sull’apporto di uno o due prodotti agricoli. Tali caratteristiche individuano tipicamente le economie dislocate in Asia, Africa e America Latina in cui prevale una situazione di sottosviluppo. Nel determinarle hanno certo influito fattori climatici e ambientali particolari, ma va soprattutto evidenziato il ruolo di fattori di ordine storico che hanno reso l’economia dei paesi considerati del tutto dipendente da interessi estranei a quelli interni ai paesi stessi. I governi coloniali, infatti, hanno imposto a tali paesi, in forme dirette o indirette, specializzazioni produttive che, sulla base delle condizioni naturali in essi esistenti, ponessero le loro economie in condizioni di ‘complementarità’ rispetto a quelle dei paesi dominanti.

Ora…non sono un economista, ma mi sembra di capire, da quanto leggo, che l’uso di monocolture sia una pratica tipica dei paesi sottosviluppati che sono stati (o sono) soggetti al colonialismo, ovvero alla dipendenza politica e/o economica da altri paesi. Serra parla di migliaia di ettari di suolo destinati alla produzione di biocarburanti attraverso la coltivazione, per esempio, della soia. Forse l’Italia è da catalogare tra i paesi sottosviluppati? Forse in Italia esistono queste coltivazioni non destinate alla produzione alimentare e che si estendono per migliaia di ettari? Aggiungo anche che Serra, molto probabilmente, non è molto bene informato su quale sia il tipo di biomassa che oggi viene usata per la produzione di biocarburanti. A questo punto do un po’ di riferimenti scientifici (cosa che Serra si guarda sempre bene dal fare, fornendo sempre e solo argomentazioni generaliste del tipo “la scienza dimostra che…”):

Conte et al. J. Agric. Food Chem (2009) 57, 8748–8752

Butera et al. Cellulose (2011)  18: 1499–1507

(questi due lavori servono solo per evidenziare che anche io mi sono occupato anni fa dello sviluppo di una tecnologia per la produzione di biocarburanti prima di passare ad altro, per cui so di cosa sto parlando)

Zhu et al. Appl Microbiol Biotechnol (2010) 87: 847. 

Chandell et al. J Chem Technol Biotechnol (2012) 87: 11–20

Raheem et al. Renewable and Sustainable Energy Reviews (2015) 49: 990–999

Questi sono solo pochi dei tanti lavori scientifici che evidenziano come, sotto l’aspetto tecnico, le biomasse per la produzione di biocarburanti siano ben diverse dalla soia di cui parla Serra. Oggi l’Italia è all’avanguardia per la ricerca e la produzione di biocarburanti di terza generazione senza parlare delle ricerche più innovative che si focalizzano sulla produzione di biocarburanti di quarta generazione (ovvero quelli per la cui produzione non si sfruttano risorse agricole destinate alla produzione alimentare). Ne volete qualche esempio?

Qui trovate un link ad un progetto sulle microalghe sponsorizzato dal Ministero dell’Ambiente; qui il sito dell’ENI che informa come “entro il 2021 la bioraffineria Eni di Venezia sarà in grado di lavorare fino a 560.000 tonnellate di materie prime all’anno, utilizzando in misura crescente oli da cucina usati, oli vegetali e grassi animali. Entro il 2018 sarà completata anche la seconda bioraffineria Eni di Gela, in Sicilia, con un incremento della capacità produttiva di 750.000 tonnellate/anno”; qui un rapporto dell’ENEA in merito all’efficienza dei biocarburanti da microalghe; e, solo per completezza, qui è il link a uno dei più importanti gruppi industriali italiani (il Mossi Ghisolfi group) che da sempre si è occupato della produzione di sistemi bio-sostenibili tra cui il bio-etanolo ed il bio-diesel.

Ed allora ripeto la domanda: di cosa parla Serra quando usa il termine “monocoltura” privandolo del suo significato? Cosa intende dire quando blatera di migliaia di ettari di suolo destinati alla coltivazione non alimentare? In Europa, e quindi anche in Italia, sia la ricerca scientifica che la politica comunitaria sono indirizzate verso i biocombustibili di terza ed ancor più di quarta generazione. Non ci sono le immense distese di cui ciancia Serra.

La biodiversità

A questo punto viene anche da chiedere: cosa intende Serra quando parla di “biodiversità”? Di biodiversità ne ho già discusso anche io altrove un po’ di tempo fa:

Gli OGM per le biodiversità

Solo per rimarcare un po’ di informazioni scientifiche, esistono tre tipologie di biodiversità. 1. biodiverrsità genetica: si intende  la varietà dell’informazione genetica contenuta nei diversi individui di una stessa specie; 2. biodiversità tassonomica: si intende la complessa variabilità delle specie che abitano una certa regione. In altre parole, non ci si riferisce solo alla ricchezza di specie di una regione ma anche alle relazioni tra le diverse specie; 3. biodiversità ecosistemica: si intende la variabilità delle specie viventi nei diversi ambienti in cui la vita è presente: la foresta, la barriera corallina, gli ambienti sotterranei, il deserto, le torbiere etc etc. Per esempio, in quest’ultimo caso, si può parlare di biodiversità forestale quando ci si riferisce ad un bosco oppure di biodiversità agricola quando ci si riferisce a campi coltivati per la produzione alimentare (qui un riferimento molto utile).

L’attività agricola (qualunque forma essa assuma, dalla convenzionale alla biologica) implica necessariamente un impatto sulle diverse tipologie di biodiversità. Se il suolo è adibito al sostentamento di uliveti, ci sarà una biodiversità tipica per quel tipo di coltura; se viene coltivato grano, la biodiversità è quella tipica per quella coltivazione; e posso continuare. Tutto questo è indipendente dalla tipologia di pratica agricola utilizzata, sia essa convenzionale che biologica.

Ormai sono diventato monotono con le mie domande, però non posso fare a meno di chiedere: ma cosa intende Serra quando dice che “la perdita di biodiversità [è]  irrimediabile“? Alla luce di quanto detto, la biodiversità non si perde, ma cambia.

Esempi di problemi legati alla perdita di biodiversità

Il problema della perdita di biodiversità di cui parla Serra si riferisce a pratiche particolari che coinvolgono colture particolari, non certo a quanto accade attualmente in Italia. Per esempio, sapevate che le banane come noi le compriamo al mercato sono prodotti OGM? Sì, proprio quegli OGM che tanti ambientalisti ortodossi (a cui magari piacciono le banane perché sono frutta e la frutta è “naturale”) discriminano perché non naturali.  La Figura 2 mostra come è fatta una banana “naturale”. Come vedete, le banane selvatiche sono immangiabili per la quantità di semi che contengono.

Figura 2. La banana naturale contiene un quantitativo enorme di semi ed è immangiabile (Fonte)

In che modo l’uomo ha reso le banane più edibili eliminando la scomodità dei semi? Semplice. Abbiamo fatto delle selezioni e, tra tutte le cultivar, in Europa abbiamo preso in considerazione quella chiamata Cavendish, resistente al Fusarium oxysporum. Quest’ultimo è un fungo che attaccava (ed ha estinto) le piante di banana della cultivar Gros Michel molto comune fino agli anni ’50 del XX secolo. Le banane Gros Michel erano tutte cloni, ovvero erano geneticamente tutte identiche. Non essendo geneticamente biodiverse, le Gros Michel si sono estinte perché l’azione del fungo ha operato nello stesso modo su tutti i cloni.

Anche le banane Cavendish sono cloni. E per di più non sono resistenti al Mycosphaerella fijiensis (un altro fungo). Questo vuol dire che se un banano in una qualsiasi parte del mondo venisse attaccato da questo fungo, si potrebbe innescare un processo di estinzione del tutto irreversibile e bye bye banane (qui un interessante riferimento).

Insomma, vi spaventano gli OGM? Bene. Non mangiate banane, perché esse lo sono.

E volete sapere pure un’altra cosa? I semi sono il modo con cui le piante diffondono il proprio DNA (scopo ultimo di tutti gli esseri viventi); questo vuol dire che senza semi i banani non si possono diffondere perché i frutti sono sterili. I banani sono quanto di più antropizzato ci possa venire in mente. Senza l’apporto antropico essi si estinguerebbero nel giro di una sola generazione.

Mi rivolgo ai più naturalisti tra i miei lettori: siete proprio sicuri di voler continuare a mangiare banane?

Conclusioni

A questo punto sono veramente stanco. Ho dovuto scrivere un vero e proprio lavoro scientifico e fare ricerche bibliografiche per confutare tre righe scritte da un giornalista che ha un conflitto di interessi conclamato e, per questo, si sente in dovere di attaccare chiunque parli male o solo si faccia domande sul biodinamico e sul biologico.

Il calendario di Worpress, la piattaforma che uso per questo blog, mi ricorda che ho cominciato a scrivere la confutazione delle tre righe scritte da Serra il 25 Novembre. Nel momento in cui pubblico questo articolo è il 14 Dicembre. Ci sono voluti diciannove giorni per evidenziare le sciocchezze scritte da Serra in sole tre righe. Diciannove giorni in cui ho dovuto svolgere anche il mio lavoro che non è quello di debunker. Quanto tempo mi occorrerebbe per confutare tutto quanto scritto da Serra? Potete capire che dovrei cambiare attività per tener dietro alle sciocchezze che il primo che passa si mette a scrivere sfruttando la sua notorietà tutt’altro che scientifica.

Come vedete scrivere sciocchezze è facile. Molto meno facile è far capire perché esse sono sciocchezze. Cionondimeno, bisogna continuare a farlo. Non è più ammissibile che si dicano/scrivano certe cose senza alcuna cognizione di causa. Oggi, nel XXI secolo, “nell’era dell’informazione, l’ignoranza è una scelta“.

Fonte dell’immagine di copertina: Archivio personale

7 domande ai firmatari della “Lettera aperta sulla libertà della scienza”

di Enrico Bucci e Pellegrino Conte

Quando un gruppo di oltre 50 ricercatori ha annunziato la firma di una lettera aperta in sostegno della libertà della scienza, siamo rimasti molto favorevolmente impressionati: finalmente – abbiamo pensato – in questi tempi bui di conformismo e pressioni per indirizzare, controllare e mortificare la ricerca scientifica nel nostro Paese, il mondo accademico si sta ridestando e sta facendo sentire la sua autorevolezza per la salvaguardia della libertà di pensiero.

Con grande stupore, invece, ci siamo accorti che il contenuto della lettera, lungi dall’essere una difesa del diritto costituzionale di investigare e comunicare i propri risultati senza limitazione alcuna, rappresenta un tentativo, peraltro maldestro, di proteggere una pratica pseudoscientifica quale è la cosiddetta agricoltura biodinamica.

Qui di seguito il testo completo della “Lettera aperta sulla libertà della Scienza”

Quest’anno, dal 15 al 17 novembre, l’Associazione per l’Agricoltura Biodinamica ha promosso il 35° congresso dedicato a “Innovazione e ricerca, alleanze per l’agroecologia” presso il Politecnico di Milano, sotto il patrocinio, tra gli altri, dello stesso Politecnico, del Comune di Milano e della Regione Lombardia. Si tratta di un congresso cui partecipano rappresentanti di centinaia di aziende e, come relatori del settore agrario, anche docenti di università italiane, ricercatori di centri di ricerca italiani e stranieri oltre al vicepresidente della commissione ambiente del Parlamento europeo, Paolo de Castro (pure lui accademico) e una serie di rilevanti personalità.

A seguito della pubblicazione dell’evento, un gruppo di docenti dell’Università di Milano ha diffuso una lettera indirizzata al Rettore del Politecnico, al Sindaco e ad altri, con considerazioni pesanti contro l’agricoltura biodinamica e sollecitandoli a non portare i saluti all’apertura del congresso, in modo da non avallare con la loro presenza i contenuti dell’evento.

L’invito a intervenire al convegno, successivamente inoltrato ai firmatari della lettera da parte dell’Associazione per Agricoltura Biodinamica, è stato rifiutato.

Negli ambienti accademici sono state diffuse altre lettere, anche di non esperti nei settori scientifici in oggetto [ndr: Elena Cattaneo] , nelle quali si evita accuratamente di prendere in considerazione i risultati delle numerose sperimentazioni disponibili, mentre ci si attacca a frasi di testi di altri tempi, accomunando così la biodinamica a posizioni antiscientifiche, come quelle dei No-vax.

Premesso che nessuno di noi fa parte dell’Associazione per l’Agricoltura Biodinamica e non ci interessa, in questo caso, entrare nel merito dei risvolti filosofici di questa associazione, dissentiamo profondamente da questo comportamento anzitutto perché denigra associazioni di agricoltori il cui modello di agricoltura, sensibile ai temi della salute e della sostenibilità, è comunque una realtà diffusa e riconosciuta istituzionalmente; in secondo luogo perché è scorretto nei confronti di quei colleghi, ottimi ricercatori italiani e stranieri anche di fama internazionale, competenti in materia, che senza pregiudizi hanno condotto ricerche sull’agricoltura biodinamica e biologica e pubblicato i risultati su riviste internazionali, anche di altissimo impatto (PLOS ONE, Nature).

 Chiunque abbia partecipato a congressi scientifici di qualsiasi disciplina sa che in essi vengono a volte presentate relazioni in disaccordo tra loro, che sollevano accesi dibattiti e discussioni; solo ricerche successive potranno stabilire quale sia la tesi corretta. Il compito della comunità scientifica è comunicare, dialogare, non disdegnare la pratica del dubbio, far circolare le idee e metterle alla prova con mente aperta e senza pregiudizi.

 L’approccio scientifico non sta nella scelta dell’oggetto, ma nel metodo che viene utilizzato. Il vero atteggiamento antiscientifico è semmai il dogmatismo di chi non vuole occuparsi di argomenti che ha personalmente condannato a priori come “ridicoli”.

 La comunità scientifica spesso lamenta il fatto di godere di scarso credito da parte della società civile. A nostro avviso questi comportamenti possono solo peggiorare la situazione, anche perché l’agricoltura biologica, in tutte le sue manifestazioni, continua a crescere con un ritmo inimmaginabile solo pochi anni fa e rappresenta uno dei pochi settori di successo del sistema agroalimentare italiano, così come aumenta il numero di uomini e donne di scienza interessati a studiarne meccanismi, processi e effetti sulla produzione e sull’ambiente.

 Oggi l’agricoltura, (integrata, di precisione, conservativa, biologica, biodinamica, agroecologica) ha il gravoso compito di nutrire il pianeta, di erogare servizi ecosistemici ed essere nello stesso tempo economicamente, ambientalmente e socialmente sostenibile. Il ruolo del mondo della ricerca è di fornire il supporto scientifico a questo importante percorso, senza sposare acriticamente posizioni di parte.

Per leggere le firme degli accademici che hanno concordato col testo su riportato basta leggere qui.

Dopo la lettura di un simile testo, alcuni interrogativi sono immediatamente occorsi ad entrambi. Ve li proponiamo nella speranza che qualcuno ci possa aiutare a trovare qualche risposta.

  1. I firmatari della lettera giocano continuamente di rimando tra agricoltura biologica e agricoltura biodinamica, accusando chi si oppone a quest’ultima di attaccarsi a frasi di testi di altri tempi. Lungi dall’essere priva delle vestigia di tempi passati, tuttavia, la biodinamica è definita da un disciplinare come una pratica che, integrando tutte quelle dell’agricoltura biologica senza modifiche, ad esse aggiunge l’influsso a distanza degli astri (specialmente quello lunare) e l’uso di alcuni preparati – tra cui anche il cornoletame – direttamente derivati dagli scritti di Rudolph Steiner, un esoterista del secolo scorso. Sono, quindi, i proponenti della biodinamica, non i suoi oppositori, che si aggrappano a scritti del secolo passato, così come fanno i proponenti di altre pseudoscienze quali l’omeopatia (che infatti ha molto influenzato la nascita della biodinamica). Dunque: dire che l’agricoltura biodinamica ha una sua ragion d’essere, significa ammettere che questi preparati esoterici e le rispettive pratiche magiche abbiano un effetto aggiuntivo rispetto alle pratiche diffuse in agricoltura biologica. Ma questo non è mai – e ribadiamo mai – stato accertato scientificamente. I motivi sono essenzialmente due: innanzitutto non è possibile sottoporre a controllo scientifico qualcosa di indefinito e non misurabile come le influenze astrali o altri effetti esoterici. In altre parole, quella che è la base teorica della biodinamica, laddove essa si differenzia dall’agricoltura biologica, non è sottoponibile a test scientifici. Inoltre, come dimostrato in tutte le più recenti analisi della magra letteratura disponibile sul tema (ovvero di quella in cui si parla esplicitamente dell’uso di preparati biodinamici), anche gli effetti, che in assenza di magia ed esoterismo potrebbero ancora essere addebitati a qualche “variabile sconosciuta”, scompaiono completamente se si paragona il trattamento biodinamico con il trattamento di controllo opportuno (per esempio, con un campo condotto in regime biologico concimato con uguale o superiore quantità di concime organico). Quindi chiediamo: di quale agricoltura realmente parlano i firmatari della lettera, quando usano il termine biodinamico?
  2. I firmatari della lettera accusano chi si oppone alla biodinamica di denigrare le associazioni di agricoltori il cui modello di agricoltura, sensibile ai temi della salute e della sostenibilità, è comunque una realtà diffusa e riconosciuta istituzionalmente. Tuttavia, compito della scienza è specialmente stabilire cosa sia falso (oltre che cosa sia vero almeno in via provvisoria); per questo, essa si fonda su un metodo che è in grado di limitare i nostri bias cognitivi quando proviamo ad acquisire conoscenza. Lo scienziato non si cura del fatto che molte aziende abbiano adottato un certo tipo di modello di produzione, giacché quest’ultimo, per esempio, potrebbe essere spinto puramente da ragioni di mercato, rinforzate dal messaggio del marketing al consumatore finale che, nel consumare biodinamico, parteciperebbe al benessere del pianeta insidiato dall’agroindustria speculativa (sono così sfruttati i cosiddetti bias emotivi nell’acquirente finale). L’etica dello scienziato consiste nel rifiutare ciò che è dimostrabilmente infondato o non provato; e se questo in ipotesi richiedesse la denuncia di una speculazione di mercato fondata su menzogne o su mezze verità, lo scienziato avrebbe il dovere di far sentire la sua voce, senza scartare di lato per non perturbare le vendite. Per questo chiediamo: se le maggiori associazioni di categoria in un determinato settore dovessero sostenere con false ragioni la superiorità di un certo modo di coltivare, aumentando i prezzi per il consumatore finale, utilizzando più suolo per ottenere la stessa produzione e fornendo prodotti che non sono superiori a quelli ottenibili con altri mezzi, la denuncia di questa pratica sarebbe denigrazione, o non piuttosto il campanello di allarme per bloccare l’ennesimo sfruttamento di una pseudoscienza per fini commerciali?
  3. I firmatari della lettera accusano gli oppositori della biodinamica di scorrettezza, perché nel chiedere che un’istituzione scientifica non legittimi una pseudoscienza, si colpirebbero ingiustamente quei colleghi, ottimi ricercatori italiani e stranieri anche di fama internazionale, competenti in materia, che senza pregiudizi hanno condotto ricerche sull’agricoltura biodinamica e biologica e pubblicato i risultati su riviste internazionali, anche di altissimo impatto (PLOS ONE, Nature). Ora, vorremmo innanzitutto sottolineare che, a dar retta per esempio ad uno dei firmatari (Gaio Cesare Pacini, professore associato di Agronomia e Coltivazioni Erbacee presso l’Università̀ di Firenze), dal 1990 ad oggi è possibile reperire al massimo (cioè essendo di manica larga) non più di 147 pubblicazioni scientifiche sul tema; questo numero è inferiore a quello che anche singoli ricercatori riescono a pubblicare nel corso della loro carriera, figuriamoci se basta a costituire un supporto scientifico di rilievo per una pratica che, se confermata nei suoi risultati, mostrerebbe addirittura l’efficacia di succussione, energie astrali, influenze cosmogoniche e altri esoterismi (oppure dimostrerebbe che vi è qualcosa di completamente sconosciuto alla scienza, in grado per esempio di far funzionar meglio il letame di vacca se trattato e applicato in certi modi). In ogni modo, per poter esprimere un giudizio su quanto sostengono vorremmo chiedere ai firmatari della lettera: quali sono le pubblicazioni scientifiche, di stretta pertinenza della biodinamica, che ne dimostrino la miglior efficacia in studi possibilmente in cieco, ma in cui certamente i controlli siano scelti nel modo più appropriato (cioè eliminando dal controllo solo ed esclusivamente le pratiche biodinamiche)? Ed in particolare, quali sarebbero gli studi pubblicati su Nature, visto che, senza dubbio per la nostra imperizia, non siamo riusciti a reperirne nessuno sul sito della rivista?
  4. Nel prosieguo della lettera, si pretende di dare la seguente lezioncina a chi si oppone alla pseudoscienza biodinamica: Chiunque abbia partecipato a congressi scientifici di qualsiasi disciplina sa che in essi vengono a volte presentate relazioni in disaccordo tra loro, che sollevano accesi dibattiti e discussioni; solo ricerche successive potranno stabilire quale sia la tesi corretta. Il compito della comunità̀ scientifica è comunicare, dialogare, non disdegnare la pratica del dubbio, far circolare le idee e metterle alla prova con mente aperta e senza pregiudizi. Ci si dimentica però che il disaccordo in ambito scientifico è tipicamente confinato non al metodo scientifico e ai dati sperimentali, ma semmai alla loro interpretazione, quando esistano spiegazioni plausibili di paragonabile potere esplicativo che siano in concorrenza fra loro; invece, sul perché la biodinamica dovrebbe funzionare non esistono nemmeno ipotesi – a meno di non voler prendere per buone le farneticazioni di Steiner – e i dati in supporto della superiorità su qualunque parametro ragionevole sono perlomeno fragili, se devono essere ricercati in un massimo di 147 pubblicazioni, delle quali non tutte discutono davvero di biodinamica. Dunque, chiediamo di sapere: quale sarebbe il dibattito acceso, ed in particolare su quali argomenti dovrebbe vertere, giacché, almeno per il momento, non esiste teoria scientifica alla base del funzionamento della biodinamica, né una sufficiente mole di dati per supportare una qualunque discussione degna di nota?
  5. I firmatari della lettera ci ricordano poi che L’approccio scientifico non sta nella scelta dell’oggetto, ma nel metodo che viene utilizzato. Per questo, rifiutare l’indagine su certi argomenti sarebbe segno di dogmatismo. Si tratta tuttavia di un non sequitur: infatti, sebbene possiamo essere ben d’accordo sulla prima parte di questa affermazione – ed anzi, chiediamo proprio che ogni teoria agronomica sia sottoposta al vaglio del metodo sperimentale – tuttavia, dall’assunzione di un rigoroso sperimentalismo non discende affatto che ogni ipotesi, per quanto balzana, sia sottoponibile all’analisi scientifica o sia degna di essere scrutinata. Dalla teiera di Russel in poi, tutti sappiamo che la ricerca scientifica si occupa innanzitutto di controllare ipotesi razionali. Queste discendono o dalla raccolta di fatti coerentemente osservabili oppure per derivazione da teorie scientifiche già consolidate; invece il processo di formulare ipotesi a caso e poi pretendere che siano sottoposte al vaglio sperimentale è il modo tipico di procedere degli avversari della scienza, che accusano i ricercatori di dogmatismo per il semplice fatto di non voler fare uso di una simile fallacia logica. Chiediamo quindi ai firmatari della lettera: chi sono i veri dogmatici, coloro che rifiutano di argomentare su teorie non scientifiche e in assenza di dati sperimentali, oppure coloro che, pur di difendere ad ogni costo delle fantasie intrise di pensiero magico, sono disposti ad inventare continuamente nuove ipotesi ad hoc, cercando di mantenere vivo un dibattito senza senso?
  6. Ancora, i firmatari ricordano che l’agricoltura biologica, in tutte le sue manifestazioni, continua a crescere con un ritmo inimmaginabile solo pochi anni fa e rappresenta uno dei pochi settori di successo del sistema agroalimentare italiano, così come aumenta il numero di uomini e donne di scienza interessati a studiarne meccanismi, processi e effetti sulla produzione e sull’ambiente. Di nuovo, per non affrontare il tema imbarazzante della biodinamica, ci si rifugia nella più confortevole e per certi versi razionale categoria del biologico; ma con questa logica, potremmo parlare di agricoltura tout-court negli stessi termini degli autori della lettera, senza nemmeno preoccuparci di indicare quella biologica. Tuttavia, qui ci interessa chiedere ai firmatari della lettera: in che cosa il successo dell’agricoltura biologica nel sistema agroalimentare italiano dovrebbe rappresentare un criterio di verità scientifica utile per definire l’agricoltura biodinamica, e non piuttosto lo specchio di una ottima operazione di marketing e propaganda, che ha portato al successo di certi prodotti presso il consumatore? Da quando in qua si stabilisce la fondatezza scientifica di una pratica, attraverso il numero di consumatori finali o il numero di aziende in essa impegnate?
  7. Per finire, i firmatari della lettera chiudono con un elogio dell’agricoltura, laddove scrivono che Oggi l’agricoltura, (integrata, di precisione, conservativa, biologica, biodinamica, agroecologica) ha il gravoso compito di nutrire il pianeta, di erogare servizi ecosistemici ed essere nello stesso tempo economicamente, ambientalmente e socialmente sostenibile. Il ruolo del mondo della ricerca è di fornire il supporto scientifico a questo importante percorso, senza sposare acriticamente posizioni di parte. Non potremmo essere più d’accordo, ma agli autori chiediamo: su quale base si è stabilito che la biodinamica – senza fare confusione con altre pratiche – sarebbe in assoluto la pratica più sostenibile, conveniente e sufficiente a sfamare il pianeta, vista la scarsità di pubblicazioni, la base pseudoscientifica e i dati che indicano esattamente il contrario?

Omeopatia, agricoltura e biodinamica®

 

È di questi giorni la notizia relativa ad un congresso sulla biodinamica® ospitato (quindi patrocinato) dal Politecnico di Milano che ha visto la senatrice Elena Cattaneo autrice di una lettera aperta al Rettore di detta Istituzione (qui) per paventare i pericoli legati alla sponsorizzazione della pseudo scienza da parte delle Istituzioni Universitarie. Non voglio spendere più di tante parole in merito a questa pratica di carattere esoterico perché ne hanno già parlato professionisti e colleghi molto qualificati. Per esempio Donatello Sandroni ha descritto dell’inconsistenza della fede nella biodinamica® in un bell’articolo qui, mentre Enrico Bucci ed Ernesto Carafoli ne hanno discusso qui. Voglio anche evidenziare che nel momento in cui scrivo questo post, la pagina relativa al predetto convegno, ospitata sul sito dell’Associazione per l’Agricoltura Biodinamica®, sembra essere sparita. Se non ci credete, basta andare sul sito, cliccare su “Eventi” e verificare che l’ultimo convegno elencato è quello del 2016 (Figura 1). Il convegno del 2018 non compare. Per averne certezza, ho ripreso la pagina del CICAP in cui si parlava di questo evento (qui) ed ho cercato di raggiungere la locandina del convegno dai link ivi riportati. Il risultato? lo potete vedere cliccando qui.

Figura 1. Finestra in cui non compare il convegno del 2018

Ora il programma del convegno è in “News” (Figura 2).

Figura 2. Dove trovare il programma del Convegno 2

Dalla finestra a tendina di News bisogna cliccare su “Biodinamica News” (Figura 2) e dalla pagina mostrata in Figura 3, selezionare “Un convegno per la libertà degli agricoltori e dei ricercatori”.

Figura 3. Pagina “Biodinamica News”

A questo punto, bisogna scorrere fino in fondo e cliccare su “Clicca qui per visionare il PROGRAMMA COMPLETO” (Figura 4).

Figura 4. Pagina da cui scaricare il programma del convegno sulla biodinamica

Solo dopo tutte queste operazioni compare, finalmente, il programma completo che qualche giorno fa era raggiungibile in modo molto meno macchinoso (per scaricare il programma cliccare qui).

La Naturphilosophie di steiner e la biodinamica

Appare evidente che la sollevazione occorsa in rete da parte del mondo scientifico ha avuto un effetto inaspettato per coloro i quali hanno organizzato questo evento e nonostante tutte le conferme arrivate da diverse associazioni che, a vario titolo, lo patrocinano. Qui si può leggere l’elenco di coloro i quali hanno difeso le proprie scelte nel patrocinare questo famoso convegno. C’è addirittura chi parla di “libertà di ricerca” (per esempio qui e qui) alimentando l’idea che esista una ortodossia scientifica, simile a quella religiosa, che si oppone ai cambiamenti innovativi perché non compresi e temuti dai “santoni” di quella che viene definita “scienza ufficiale”. A parte il fatto che non esiste alcuna “scienza ufficiale”, ma una sola scienza che è quella che fa uso del metodo scientifico di cui ho parlato in diversi articoli (qui), non si capisce di quali innovazioni si dovrebbe aver paura. La biodinamica® nasce all’inizio del XX secolo nella mente di un tal Rudolph Steiner che, di fatto, applica principi esoterici (come per esempio forze cosmiche ed energie astrali) all’agricoltura. Se volete avere un’idea di cosa sia l’agricoltura pensata da Steiner basta leggere qui. È chiaro dai documenti  citati che si tratta di vera e propria fuffa che si basa anche sulle teorie esoteriche di Hannheman pubblicate per la prima volta nel 1810 nel “The organon of medicine”. Devo aggiungere che le idee strampalate di Rudolph Steiner erano abbastanza di moda all’inizio del XX secolo e rientravano nell’ambito della “Naturphilosophie” che fu, poi, abbracciata anche dal nazionalsocialismo tedesco che in ambito pseudoscientifico non si può dire non fosse all’avanguardia (ma di questo parlerò in un altro post). Volete sapere cosa scrive Philip Ball (se volete conoscerlo basta cliccare qui) a proposito di Steiner nel suo “Al servizio del Reich. Come la fisica vendette l’anima a Hitler”  (Einaudi, 2013)? Ecco:

L’entusiasmo del regime nazista per questo tipo di misticismo e pseudoscienza è ben documentato, per quanto forse non si siano ancora approfondite a sufficienza le assonanze tra fascismo, Naturphilosophie, misticismo con tratti da culto di Rudolf Steiner e antroposofia da una parte, e le confortanti certezze di certe credenze New Age dall’altra.

e ancora:

Steiner è stato difeso dall’accusa di avere simpatie naziste, e sicuramente pare non fosse apprezzato dai nazionalsocialisti stessi. Non avrebbero però probabilmente trovato niente da ridire in questo suo commento: «Gli ebrei in quanto tali sono sopravvissuti a se stessi da molto tempo. Non hanno diritto di esistere nella vita moderna delle nazioni. Che siano ugualmente sopravvissuti è un errore da parte della storia del mondo, di cui c’erano da aspettarsi le conseguenze» (R. Steiner, Gesammelte Aufsätze zur Literatur, 1884-1902, Rudolf Steiner Verlag, Basel 1971, p. 152).

Avete capito il tipo? Certo. Nel corso della storia scienziati famosi, che hanno fornito un enorme input all’avanzamento delle conoscenze, non sono stati irreprensibili sotto l’aspetto etico. Ricordiamo Haber per esempio?  Oppure Lennard e Starck? Il primo, dopo aver ottenuto la fissazione dell’azoto molecolare in ammoniaca, fu l’artefice dei primi gas bellici usati nella prima guerra mondiale. Gli altri due, dopo aver dato un contributo alla meccanica quantistica, sposarono il nazismo e le sue tesi antisemite. Almeno, però, i loro nomi sono scritti nella storia della scienza e ricordati solo per il loro contributo ad essa. Steiner, non solo si inseriva a pieno titolo nell’antisemitismo tipico degli inizi del novecento, ma non diede alcun contributo scientifico. Eppure  oggi c’è ancora gente che segue le indicazioni della pseudoscienza di Steiner che ha tutte le caratteristiche di una fede religiosa in cui il Dio canonico è stato sostituito dalla Natura benigna (anche sul significato che l’ortodossia ambientale attribuisce al termine “natura” mi ripropongo di tornare in seguito).

La agro-omeopatia

L’esoterismo biodinamico trova  un forte appoggio nel mondo dell’omeopatia. Non può essere altrimenti dal momento che tutta la filosofia steinariana è permeata dalle idee hannhemaniane. Di queste idee ne ho già discusso altrove (qui trovate tutta la serie di articoli che ho scritto al riguardo). L’applicazione dei principi omeopatici all’agricoltura ha dato vita a un nuovo filone che alcuni definiscono scientifico che prende il nome di agro-omeopatia.  Quali sono i principi dell’agro-omeopatia? Li potete leggere in una intervista sul sito web di lifegate, qui.

Il mio non vuole essere un attacco a nessuno, ma solo una valutazione critica di quanto scritto in una intervista accessibile a tutti. A chi è privo di conoscenze scientifiche, ciò che è riportato nell’intervista può sembrare plausibile e, di conseguenza, indurre a pensare che l’ortodossia scientifica, la stessa di cui parlavo prima ma che – di fatto – non esiste, si oppone alla libertà di ricerca ed impedisce ai novelli Giordano Bruno ed ai sempiterni Galileo Galilei di non esprimere il loro genio.

L’effetto placebo

Andiamo con ordine e vediamo quali sono i limiti di ciò che è scritto nell’intervista.

le piante, non avendo un sistema nervoso, non sono influenzabili da un punto di vista psichico, dunque sono immuni dall’effetto placebo. L’obiezione che viene sempre fatta da coloro i quali non credono nell’efficacia dell’omeopatia è proprio che agisca sull’onda dell’effetto placebo, anche quando viene applicata agli animali oltre che alle persone.

Il primo punto su cui mi preme centrare l’attenzione è proprio il concetto di effetto placebo. In pratica si sta affermando che esso si osservi solo su organismi viventi dotati di “coscienza” o “consapevolezza”. Le piante, in quanto prive di sistema nervoso, non hanno né l’una né l’altra e, di conseguenza, non è possibile parlare di effetto placebo.

Cos’è l’effetto placebo?

Ne ho parlato già diverse volte e ne ho discusso anche nel mio “Frammenti di chimica. Come smascherare falsi miti e leggende”. L’effetto placebo è uno dei due effetti che si osservano quando si assume un farmaco. Il primo è un effetto curativo vero e proprio legato all’azione del principio attivo che influenza, da un punto di vista chimico, i nostri processi metabolici. Il secondo è un effetto curativo, di tipo psicologico, legato all’idea di assumere un rimedio con effetti curativi. È proprio quest’ultimo che viene indicato come effetto placebo. Nella comune pratica clinica, la sperimentazione viene sempre effettuata contro un rimedio placebo, ovvero un rimedio che non ha effetti curativi di tipo biochimico, ma che induce solo un effetto curativo di tipo psicologico. Questo allo scopo di distinguere la reale efficacia biochimica e verificare che un principio attivo sia più efficiente del solo placebo. Se questa condizione non si verifica, ovvero se il principio attivo funziona esattamente come il placebo,  esso viene definito come “non migliore del placebo”. Perché un placebo possa avere un qualche effetto è necessario che l’individuo sia cosciente ed in stato di veglia. Inoltre, il soggetto deve essere sottoposto ad inganno, ovvero non deve sapere che sta assumendo il placebo. In realtà le cose sono molto più complicate di così. Come sottolineavo in un altro post (qui), uno studio recente (questo) pare abbia dimostrato che l’effetto placebo possa aver luogo anche quando il paziente non viene ingannato. Mentre sono chiari i meccanismi dell’effetto placebo che si ottiene quando un paziente cosciente ed in stato di veglia viene “ingannato” (invito a tal proposito a leggere il bellissimo libro divulgativo del Prof. Dobrilla dal titolo “Cinquemila anni di effetto placebo”), non si sa ancora bene cosa accada quando, invece, non c’è inganno.

“Ma stai divagando e stai dando ragione a quanto scritto nell’intervista”, direte voi. Non è esattamente così. Ho solo, per ora, evidenziato che i meccanismi di tale effetto sono complessi e non basta dire che occorre “coscienza” o “consapevolezza” perché si abbia effetto placebo. Dirò di più. Proprio perché i meccanismi di tale effetto sono complessi, essi si osservano anche laddove la logica spicciola legata a “coscienza” e “consapevolezza” sembrerebbe indicarci che esso non possa realizzarsi. Cosa voglio dire? Ne ho già parlato qui, ma, come dicevano i nostri antenati, “repetita iuvant”.

I meccanismi dell’effetto placebo

Quando si fa un esperimento di qualsiasi tipo, bisogna fare in modo che i pregiudizi di conferma vengano opportunamente riconosciuti e tenuti sotto controllo. Cosa vuol dire questo? Se decido di fare un esperimento su un essere vivente, come un bambino, un topo o una pianta, devo tener conto anche dei miei atteggiamenti nei confronti dell’essere vivente sotto osservazione. Per esempio, uno dei meccanismi dell’effetto placebo è quello che prende il nome di apprendimento per imitazione. Esso consiste nel fatto che un essere vivente, come un bambino, possa modulare il suo comportamento osservando e imitando o emulando le azioni di un individuo di riferimento come un genitore. Se il genitore si aspetta che il figlio guarisca dalla patologia per assunzione di uno zuccherino, indurrà nel bambino, attraverso la sua gestualità ed il suo comportamento generale, un analogo comportamento, assimilabile alla riduzione degli effetti della patologia, anche se non c’è reale guarigione. Vogliamo dimenticare poi il meccanismo che prende il nome di condizionamento Pavlov? Quando ero più giovane possedevo un bellissimo meticcio di pastore belga chiamato Pluto (sia perché era simpatico come il cane di Topolino, sia perché era nero come l’entrata dell’Ade di cui Pluto era custode nella mitologia Latina). Ebbene, a quell’età ero convinto che fosse un cane non particolarmente intelligente perché ogni volta che veniva aperto il cassetto delle posate si precipitava in cucina per mangiare anche se non era l’ora del pasto. All’epoca, non avevo ancora capito che era soggetto al condizionamento Pavlov. Quando da cucciolo gli davamo da mangiare (sia io che uno qualsiasi dei membri della mia famiglia), aprivamo il cassetto delle posate per prendere l’apriscatole per poter aprire le scatolette di cibo per cani e una posata per mettere il cibo nella ciotola. Pluto aveva associato il rumore del cassetto delle posate al cibo. Per questo motivo ogni volta che, per un qualsiasi motivo, veniva aperto il cassetto delle posate, si precipitava a spron battuto in cucina indipendentemente dal fatto che fosse il momento del pasto oppure no. Lo stesso accade in laboratorio quando si fanno esperimenti con gli animali. Si induce un comportamento di un certo tipo perché l’animale associa quel comportamento a una qualsiasi forma di ricompensa. Ma non basta. Se uno crede che l’uso dello zuccherino, in qualche modo, permetta la guarigione dell’animale, deve tener conto di alcuni altri fattori che pure vengono inquadrati sotto il termine di “effetto placebo”. Se l’animale è malato, il proprietario avrà la tendenza a curarlo meglio, magari riscaldando di più l’ambiente, fornendo cibo migliore o in quantità più elevata. L’attenzione che il proprietario dell’animale ha verso il suo “assistito” facilita il processo di guarigione esattamente come quando noi da piccoli ci sentivamo subito meglio quando la mamma ci dava il bacetto sulla bua. Per quanto riguarda il mondo vegetale, l’effetto placebo si traduce nel fatto che l’osservatore vuole vedere un miglioramento che non esiste semplicemente perché si è innamorato delle sue ipotesi e, inconsapevolmente, scarta tutte le osservazioni che non soddisfano ciò che gli piace.

Cosa si conclude da tutto questo? Che quanto scritto nell’intervista in merito all’effetto placebo è troppo semplicistico. Le piante, come qualsiasi altro essere vivente, sono soggette ad effetto placebo anche se non hanno un sistema nervoso.

La dinamizzazione

Uno dei cavalli di battaglia degli amici dell’omeopatia è quello della succussione che serve per dinamizzare l’acqua in modo tale che l’essenza del principio attivo venga trasferita al network di legami a idrogeno che tengono unite le diverse molecole di acqua. È l’essenza del principio attivo che rimane “impressa” nell’acqua ed agisce in modo tale da alterare i processi metabolici degli organismi viventi. Appare chiaro da questa breve spiegazione che la succussione e, quindi, la dinamizzazione (che vuol dire trasferire la forza del principio attivo al solvente) consentono di ottenere dei sistemi in cui la presenza fisica del principio non è necessaria: basta solo che la sua essenza, o forza vitale, si trasferisca al solvente. Cosa ha a che fare tutto questo con la scienza? Alla luce delle conoscenze attuali ed in base alla definizione stessa di scienza, nulla. Si tratta solo di principi metafisici del tutto slegati da quello che è il pragmatismo scientifico. Per comprendere i limiti scientifici di questo approccio metafisico, devo rimandare o al mio libro, oppure ad articoli del blog in cui ho già discusso di queste cose (qui).

Nell’intervista si va anche oltre quello che è il concetto di dinamizzazione di Hannheman. Leggiamo:

La dinamizzazione è fondamentale. All’inizio della sperimentazione abbiamo lavorato con diverse tesi, una era il controllo negativo da ottenere attraverso semi stressati trattati con acqua distillata; poi abbiamo preparato l’acqua dinamizzata alla 45esima senza principio attivo, adottando lo stesso protocollo usato per l’arsenico; in seguito abbiamo creato la 45esima decimale del triossido di arsenico con diluizione e dinamizzazione e infine abbiamo preparato un arsenico diluito alla 45esima senza dinamizzazione intercalare, quindi semplicemente facendo gli step di diluizione.

In pratica, oltre alla semplice acqua distillata, si afferma di aver preparato acqua dinamizzata diluendo l’acqua distillata. E cosa si osserva?

l’arsenico alla 45esima DH era sempre stimolante in maniera significativa; l’acqua alla 45esima DH aveva anch’essa un effetto stimolante ma meno significativo rispetto a quello dell’arsenico; l’arsenico semplicemente diluito alla 45esima, senza dinamizzazione, era esattamente come l’acqua di controllo

In altre parole, l’acqua distillata diluita e dinamizzata ha anche essa un effetto sulle piante. Cioè…se sbatto l’acqua seguendo le regole tipiche dell’omeopatia, il prodotto che ottengo, che chiamo acqua dinamizzata alla i-esima diluizione, ha effetti stimolanti sulle piante. E l’effetto stimolante è lo stesso dell’arsenico. Allora, se decido di verificare queste cose usando diluizioni omeopatiche di qualche altro principio attivo, mi devo aspettare che l’acqua dinamizzata diluita tante volte abbia un effetto simile (o anche opposto, non importa) rispetto a quello del principio che sto valutando per il semplice fatto che sto preparando i miei prodotti nello stesso laboratorio ed essi, in un modo che non riesco a comprendere, si trasmettono tra loro le informazioni necessarie a stimolare oppure no le piante. Inoltre, talvolta l’acqua diluita e dinamizzata funziona come l’arsenico, talaltra, invece, come un qualche altro principio attivo. Insomma, come dicevo prima, con queste parole siamo ben oltre la metafisica di Hannheman. Solo che riesco a comprendere e giustificare Hannheman perché ai suoi tempi la scienza non aveva ancora raggiunto lo sviluppo odierno; capisco molto meno queste affermazioni oggi perché non sono giustificabili in alcun modo.

Le pubblicazioni scientifiche

A nulla vale dire che questi sono risultati pubblicati in riviste scientifiche con peer review ed impact factor:

Abbiamo pubblicato sempre su riviste internazionali indicizzate con referee. Per pubblicare su riviste internazionali lavorando nel settore dell’omeopatia bisogna essere irreprensibili.

Né la peer review né l’impact factor assicurano la qualità di un lavoro scientifico. Vogliamo forse dimenticare quanto scritto da Benveniste su Nature o da Wakefield su Lancet? Tutt’al più i parametri anzidetti sono indice di serietà della rivista che, anche dopo aver pubblicato un lavoro, si assicurano che esso venga ritirato dalla letteratura nel momento stesso in cui la comunità scientifica si accorge della fallacia dello stesso. In ogni caso, le riviste scientifiche in cui l’intervistata pubblica sono, grosso modo, sempre le stesse e tutte invariabilmente legate al mondo dell’omeopatia. Per quanto mi è dato sapere non ci sono lavori pubblicati su riviste non di quel settore.

Conclusioni

Mi rendo conto di essere stato alquanto critico prendendo in considerazione unicamente le parole scritte in una intervista. Queste possono essere fuorvianti, considerando la semplicità con cui deve essere scritto un articolo di giornale. Mi riservo quindi di entrare nei dettagli delle varie pubblicazioni scientifiche scaricandole e leggendole con attenzione.

Salute e Società. Tra scienza e pseudoscienza: lo streaming

Il 25 Ottobre 2018, presso il Dipartimento Scienze Agrarie, Alimentari e Forestali dell’Università degli Studi di Palermo, si è concluso il primo CNMP workshop dal titolo “Salute e Società. Tra scienza e pseudoscienza”. Tanti i relatori: il Prof. Dobrilla, il Prof. Fuso, il Dr. De Vincentiis,  il Prof. Cappello, il Prof. Burioni, il Dr. Saia, il Prof. Bonaccorsi, il Dr. Cartabellotta, il Dr. Mercadante, ed io stesso.

In Figura 1 si riporta il programma completo col titolo degli interventi.

Figura 1. Programma dettagliato del Workshop

Obiettivo dell’evento è stato quello di avvicinare il mondo accademico alla società civile per far comprendere in cosa consista il lavoro scientifico e in che modo poter riconoscere le fake news (o bufale, che dir si voglia). Tra i partecipanti oltre a professionisti di ogni settore, anche tantissimi studenti (Figura 3).

Figura 2. Il pubblico di studenti e professionisti intervenuti al Workshop

È stata una grande soddisfazione vedere un numero così elevato di studenti. Questo vuol dire che anche le menti più giovani sono curiose ed hanno voglia di apprendere i meccanismi attraverso cui si possono riconoscere le pseudoscienze così da poter dare esse stesse un contributo attivo alla lotta contro maghi, imbonitori e truffatori.

L’evento è stato condiviso in diretta streaming dalla pagina facebook della C1Vedizioni.

Qui di seguito trovate i filmati caricati sul mio canale YouTube personale delle singole presentazioni. Nello stesso canale potete anche trovare lo streaming completo nel caso aveste voglia e tempo di (ri)vivere tutte le emozioni e gli errori tecnici che, inevitabilmente, accompagnano l’organizzazione di un evento complesso come un Workshop.

Introduzione della Dr.ssa Tocci e intervento del Prof. Giorgio Dobrilla

 Medicina insolita nell’era 2.0

Intervento del Prof. Silvano Fuso

Chimica buona e chimica cattiva

Intervento del Dr. Armando De Vincentiis

Scienza e autoinganni

Intervento del Prof. Roberto Burioni

I vaccini, la scienza e le bugie

Intervento del Prof. Francesco Cappello

Il ruolo dell’anatomia umana nella battaglia contro la pseudoscienza

Intervento del Prof. Gugliemo Bonaccorsi

Prevenire le bufale con l’Health Literacy

Intervento del Dr. Nino Cartabellotta

Miti, presunzioni ed evidenze: un mix di ingredienti e le fake news sono servite!

Intervento del Dr. Sergio Saia

Le bufale scientifiche sul frumento e sui derivati

Intervento del Dr. Francesco Mercadante

Incubatori di devianze. Il linguaggio dei social network tra paradossi, cattiverie e mondi impossibili

Intervento Prof. Pellegrino Conte e conclusioni

La chimica contro le bufale

I patrocini

L’evento ha ricevuto il patrocinio morale dell’Università degli Studi di Palermo (UNIPA), del Dipartimento Scienze Agrarie, Alimentari e Forestali (SAAF), del Dottorato di Ricerca in Scienze Agrarie, Alimentari e Forestali, della Associazione Italiana Società Scientifiche Agrarie (AISSA), della Società Italiana di Chimica Agraria (SICA), della Associazione Italiana di Ingegneria Agraria (AIIA), della Società Italiana di Pedologia (SiPE), della Società Italiana di Scienza del Suolo (SISS), del CICAP Puglia, della Fondazione GIMBE, della Società Italiana di Biologia Sperimentale (SIBS), dell’associazione dei Biologi Forensi (BIOFOR), dell’Associazione Studentesca Agraria Palermo (ASAP) e Intesa Universitaria (Figura 3).

Figura 3. Loghi delle Società ed Associazioni che hanno dato il patrocinio morale al Workshop “Salute e Società. Tra scienza e pseudoscienza”

 

Omeopatia, scienza e linguaggio

Oggi sul nostro canale scientifico abbiamo parlato del significato delle parole prese dal linguaggio scientifico e decontestualizzate. Tra gli esempi abbiamo discusso di omeopatia,  pratica pseudoscientifica che, nonostante lo sviluppo scientifico occorso negli ultimi 300 anni, viene ancora presa in considerazione come valida alternativa alla  pratica medica che fa uso del metodo scientifico per la cura di patologie più o meno gravi. Di omeopatia ho già scritto sia nel mio libro (Frammenti di Chimica. Come smascherare falsi miti e leggende) che in una serie piuttosto cospicua di articoli in questo blog (qui).

Fonte dell’immagine di copertina: https://www.telegraph.co.uk/news/health/alternative-medicine/8844461/Parents-face-inquiry-for-treating-son-with-alternative-medicine.html

Numeri, numerielli e numericchi: la qualità dei dati scientifici (aggiornamenti alla Parte II)

Interessante. Oggi parlavo con un collega che evidentemente sta seguendo i miei post sul blog, in particolare questi sugli errori, e mi faceva notare che anche io non sono esente da errori nel riportare correttamente le cifre significative di cui ho parlato qui. Dovrei stare attento quando giudico gli altri e scrivo certe cose perché io stesso sono suscettibile delle medesime critiche. Sono d’accordo. Anzi aggiungo che sono assolutamente d’accordo. Ma proprio per questo devo guardare anche a me stesso.

Ho controllato nei diversi lavori che ho pubblicato, avendo come traccia solo che si trattava di un lavoro degli inizi della mia carriera. In effetti è così. L’ho trovato. Si tratta di: Zena, Conte, Piccolo (1999) GC/ECD determination of ethylenethiourea residues in tobacco leaves, Fresenius Environmental Bulletin 8, 116-123. Si tratta di un lavoro in cui sono stati ricercati i prodotti di degradazione, anzi del prodotto di degradazione, di un fungicida usato nella coltivazione del tabacco. Le tabelle incriminate sono quelle che potete vedere in Figura 1 e Figura 2.

Figura 1. Tabella 1 con il numero non corretto di cifre significative
Figura 2. Altra tabella con errori nelle cifre significative

Si tratta di errori del tutto analoghi a quelli che ho denunciato nella Parte II di questo reportage.

Non è certo un caso che la rivista che ha accettato questo lavoro abbia un impact factor di 0.673 per il 2017/2018. In effetti una qualsiasi altra rivista più quotata quasi sicuramente non avrebbe fatto passare un lavoro con questi errori così evidenti. La qualità di questa rivista è valutabile al seguente link Fresenius Environmental Bulletin.

La Figura 3 mostra come si posiziona negli anni Fresenius Environmental Bulletin nei vari quartili che sono utilizzati per la valutazione della qualità di una rivista scientifica.

Figura 3. Posizionamento dei Fresenius Environmental Bulletin negli anni

Per i non addetti ai lavori, ogni rivista viene posizionata in un quartile in base all’importanza della rivista stessa. Il quartile più importante è indicato come Q1, poi a scalare ci sono Q2, Q3 e Q4. Le riviste che si posizionano in Q1 sono quelle più accreditate (Nature e Science, tanto per essere chiari), mentre più alto è il valore del quartile, meno importante è la rivista in cui si decide di pubblicare. Il codice dei colori riportato in Figura 3 mostra che Fresenius Environmental Bulletin per il 2017 si trova in Q4 per il settore Environmental Science e Q3 per i settori Pollution e Waste Management and Disposal.  La posizione migliore che questa rivista aveva nel 1999 era Q2 per Waste Management and Disposal.

Come fa una rivista a scendere così in basso nel posizionamento dei quartili? Uno dei motivi è che accetta lavori come il mio con errori così evidenti che non consentono agli stessi di far crescere la rivista in cui sono pubblicati.

Le quotazioni di una rivista crescono con la qualità dei lavori che essa accetta e pubblica. Lavori di bassa qualità non permettono alla rivista di essere catalogata tra quelle importanti per un determinato settore scientifico.

Volete sapere quale è stato l’impatto di questo mio lavoro nella comunità scientifica? Lo potete vedere nella Figura 4 che è ricavata dallo screenshot della mia pagina Google Scholar (qui).

Figura 4. Impatto del lavoro su Fresenius Environmental Bulletin nella comunità scientifica

Come vedete, dal 1999 ad oggi il lavoro è stato citato solo sei volte. In quasi venti anni sei citazioni sono davvero poche. Solo come confronto, nella Figura 4 è riportato anche l’impatto (in numero di citazioni) di altri due miei lavori. Evidentemente la qualità dei dati sperimentali descrivibile attraverso l’uso scorretto delle cifre significative riflette la qualità complessiva del lavoro che non è risultato utile alla comunità scientifica relativa al mio settore.

Devo ancora trattenermi in quel che dico o scrivo perchè alcuni ritengono che sottolineare il pressapochismo che sovente si nota nel riportare le cifre significative sia insignificante o, addirittura, sbagliato? No.
Anche io posso sbagliare, ma l’importante è stato imparare dai miei errori, non certo non commetterne mai. Anzi, sono molto grato al mio collega che ha avuto la costanza e la pazienza di andarsi a scaricare tutta (sic!) la mia produzione scientifica, leggere un bel po’ di lavori ed andare a spulciare nei meandri delle mie pubblicazioni se eventualmente ci fosse da segnalare al sottoscritto la presenza di sbagli, anche in pubblicazioni di quasi venti anni fa. Di questo lo ringrazio perchè la mia memoria non è così ferrea.
Ma, anche, questo mi permette di dire che tutti commettiamo errori e che non bisogna mai abbassare la guardia di fronte alla sciatteria scientifica se si ha la volontà di crescere e migliorare professionalmente.

Fonte dell’immagine di copertinahttps://saluteuropa.org/scoprire-la-scienza/chi-supervisiona-la-qualita-delle-pubblicazioni-scientifiche/

Frammenti di chimica su Oxygen

Ed eccomi qui in una trasmissione on line. Grazie a Carolina Sellitto per l’intervista nella sua Oxygen con la quale mi ha dato modo di poter parlare di chimica,  di scienza e di presentare il mio Frammenti di chimica. La corretta divulgazione si fa con tutti i mezzi possibili in modo da raggiungere le menti curiose del pubblico di ogni fascia di età ed estrazione culturale.

 

Fonte dell’immagine di copertina: https://www.keeptheplanet.org/divulgazione-scientifica/

Numeri, numerielli e numericchi: la qualità dei dati scientifici (Parte III)

Nelle prime due parti del reportage sulla qualità dei dati scientifici ho posto l’attenzione sulla differenza tra riviste chiuse e riviste aperte (qui) e ho evidenziato che la scarsa qualità dei dati scientifici non riguarda solo i predatory journal, ma anche giornali ritenuti molto affidabili (qui). In altre parole ho puntualizzato che la cosiddetta bad science, ovvero ciò che sfocia nella pseudo-scienza, è trasversale; ne sono pervase un po’ tutte le riviste: siano esse predatory journal oppure no; siano esse open-access oppure no. Ne ho discusso anche altrove (per esempio qui e qui), quando ho evidenziato che lavori poco seri sono apparsi su Nature e Science (riviste al top tra quelle su cui tutti noi vorremmo pubblicare) e che più che dal contenitore, ovvero dalla rivista, bisogna giudicare la qualità di un lavoro scientifico sulla base di ciò che viene scritto. Nonostante questo, tutte le istituzioni accademiche e non, riconoscono che la probabilità di avere bad science in un predatory journal è più alta che nelle riviste considerate non predatory; per questo motivo tutte le istituzioni formulano delle linee guida per tenersi lontani da riviste di dubbia qualità.

In che modo difendersi dalla bad science delle riviste predatorie?

Esistono tanti siti al riguardo. Per esempio, la mia Università, l’Università degli Studi di Palermo, mette a disposizione una pagina (qui) in cui elenca una serie di siti web da cui attingere per valutare se una rivista è seria oppure no. In particolare, se la rivista in cui si desidera pubblicare è compresa negli elenchi dei link riportati ed è anche nella Beall’s list of predatory journals and publishers, con molta probabilità si tratta di un predatory journal a cui si raccomanda di non inviare il proprio rapporto scientifico. Se, invece, la rivista o l’editore sono negli elenchi citati ma non nella  Beall’s list of predatory journals and publishers, con buona probabilità si tratta di riviste non predatorie. Qual è il limite di queste raccomandazioni? I predatory journal spuntano come funghi per cui  è possibile che ci si imbatta in una rivista che non è stata ancora catalogata come predatoria. Cosa fare in questo caso? Bisogna ricordarsi che tutte le riviste predatorie hanno in comune alcuni caratteri essenziali che le distinguono dalle riviste più accreditate:

  1. Comitati editoriali anomali, non determinati o inesistenti
  2. Tendenza a pubblicare lavori scientifici in settori molto eterogenei tra loro
  3. Tasse per la pubblicazione estremamente basse (in genere meno di 150 €)
  4. Presenza di immagini sfocate o non autorizzate presenti nei loro siti web
  5. Richiesta di invio dei lavori mediante posta elettronica, spesso a indirizzi e-mail non professionali o non accademici, e non attraverso un sistema di invio on-line
  6. Mancanza di qualsiasi politica sulle ritrattazioni, correzioni, errata corrige e plagio (più della metà delle riviste più accreditate descrive nei propri siti web come comportarsi in ognuna delle quattro circostanze)
  7. Basso o inesistente valore di impact factor (IF)

Tutti questi caratteri possono essere presenti contemporaneamente o in parte in una data rivista. Tuttavia, la loro presenza non necessariamente deve essere indice di predazione. Infatti, per esempio, una rivista nuova non ha l’impact factor che si calcola confrontando il numero di citazioni di tutti gli studi pubblicati in un biennio col numero totale di studi pubblicati nello stesso biennio (qui). Questo significa che una rivista può cominciare ad avere un IF solo a partire dal terzo anno di vita. Se la rivista è di nuova fondazione, può attuare una politica di incentivazioni alla pubblicazione fornendo agevolazioni ai ricercatori che decidono di inviare il loro lavoro. Per esempio, la ACS Omega (una rivista ancora senza IF della American Chemical Society, ACS) permette la pubblicazione gratuita a chiunque disponga di voucher (del valore di circa 750 $) elargiti dalla ACS a ricercatori di paesi in via di sviluppo o con problemi di fondi di ricerca per la pubblicazione in open access. C’è anche da dire che attualmente è abbastanza facile costruire siti web accattivanti ed attraenti. Per questo motivo, a meno che non si tratti di truffe molto evidenti, è abbastanza difficile trovare riviste predatorie con siti web fatti male. Infine, in passato ho pubblicato su riviste molto importanti del mio settore (quindi non predatorie, non open access e con ottimo IF), il cui editor rispondeva ad un indirizzo e-mail con dominio gmail.com.

Ma adesso sto diventando prolisso. Basta annoiarvi.

Ho aperto questo articolo scrivendo che tutte le istituzioni accademiche (e non) si raccomandano di seguire le linee guida appena indicate per evitare di pubblicare su riviste dalla scarsa qualità. In altre parole, le linne guida riportate sono un modo per riconoscere l’attendibilità dei contenitori in cui “versare” le conoscenze scientifiche che noi raccogliamo dalla nostra attività di ricercatori. Per ora non vi voglio annoiare di più. Nella quarta ed ultima parte di questo reportage dimostrerò che, in realtà, la qualità della ricerca non dipende dalla tipologia di rivista, ma da ben altri fattori tra cui le istituzioni che finanziano la ricerca e che, nello stesso tempo, si raccomandano di tenersi lontani da certi giornali.

Altre letture

https://www.enago.com/academy/identifying-predatory-journals-using-evidence-based-characteristics/

https://bmcmedicine.biomedcentral.com/track/pdf/10.1186/s12916-015-0423-3

Fonte dell’immagine di copertina: https://www.efsa.europa.eu/it/press/news/170803

Share