L’omeopatia è innocua?

Torno di nuovo sull’ omeopatia. Di tanto in tanto fa bene riportare alla memoria le sciocchezze relative a questa pratica di cui ho già avuto modo di scrivere e parlare tanto (qui la collezione di articoli presenti nel blog ed una intervista radiofonica nel programma Neandhertal Pride di Lele Pescia, Ivo Ortelli e La Iena Ridens, mentre qui c’è la lezione sull’omeopatia tenuta al Caffè dei Libri di Bassano del Grappa qualche anno fa). Le cose scritte in questo articolo riprendono quanto avevo scritto all’inizio del 2017 sulla mia pagina scientifica in Facebook, prima che venisse reso pubblico questo blog.

Uno dei fatti più importanti che bisogna evidenziare in merito alla omeopatia è che le aziende che producono rimedi omeopatici non sono in grado di né interessate a sviluppare conoscenza. Infatti, dal momento che esse basano i loro prodotti su credenze nate nella prima metà del XIX secolo e sono ferme alle conoscenze dell’epoca, benché lo sviluppo scientifico abbia cominciato a smentirle già a partire dal 1811, le suddette aziende non hanno interesse alcuno a sviluppare ricerca e tecnologia e, di conseguenza, non possono essere considerate come un settore produttivo di crescita a lungo termine per un qualsiasi paese.

Solo con un piccolo investimento, senza alcuna velleità di sviluppo culturale perché ferme a idee di circa 200 anni fa ormai superate dalle moderne conoscenze scientifiche, le aziende di prodotti omeopatici vendono sogni e si fanno pagare a peso d’oro. Non sto parlando di fitoterapia che, sebbene entro certi limiti, una qualche bio attività la dimostra, ma di omeopatia, ovvero di preparati che non hanno alcun ruolo biochimico se non quello placebo che è di carattere psicologico.

Nelle varie discussioni seguite alla pubblicazione on line dei miei articoli, ho dovuto notare, con mia enorme sorpresa oltre che dispiacere, che una gran quantità di interventi era fatta da persone che spengono il cervello, assieme al proprio pensiero critico, quando si tratta di argomenti che vanno ad intaccare le proprie convinzioni fideistiche. Sì, perché l’omeopatia, purtroppo, deve essere considerata come un vero e proprio atto di fede che va ad affiancare e/o sostituire la fede canonica in una qualsiasi entità soprannaturale.

Naturalmente, la fede rende ciechi e chiude ogni possibilità di dialogo razionale. In tutte le discussioni in cui sono intervenuto e tuttora intervengo mi son preso e mi prendo tantissimi insulti e, naturalmente, una buona dose di “ignorante”, nonostante dichiari la natura della mia professione (sono un chimico e tengo alla differenza tra “professione” e “mestiere”, come insegnato alle elementari dei miei tempi).

Tra le tante argomentazioni a sostegno dell’omeopatia compare la famosa    “ognuno si cura come vuole”, oppure “se le cure omeopatiche sono rimborsate dal SSN allora vuol dire che funzionano”; queste argomentazioni sempliciotte fanno solo sorridere perché fanno capire i limiti culturali di chi si espone in questo modo e ritiene che un giudice o un legislatore qualunque possa intervenire nel modificare quelle che sono leggi scientifiche; confondono le leggi chimiche o biochimiche con quelle del codice civile. Ma va bene, perché non tutti possono essere addentro alla chimica. La cosa grave si osserva quando di fronte ad argomentazioni serie di natura scientifica, queste persone si trincerano, o meglio si arroccano, nelle loro false convinzioni ed alzano barriere impenetrabili a qualsiasi argomento razionale.

Da qualche parte ho letto che il fact checking, ovvero la semplice esposizione dei fatti, sortisce l’effetto opposto a quello desiderato: le persone invece di aprire la loro mente si rinchiudono sempre più nel loro mondo. E sempre gli esperti suggeriscono di utilizzare tanta pazienza come quando i genitori cercano di blandire i figli piccoli cocciuti che non ne vogliono sapere di prendere una medicina o mangiare la verdura. Il punto è che in questo caso si ha a che fare con persone adulte che hanno delle responsabilità. Tuttavia, nonostante tutto, esse ancora perseverano nelle loro convinzioni invocando il principio di autorità: “ho consultato tantissimi medici preparati”, “se tanti medici la consigliano vuol dire che funziona” e così via di seguito. Si tratta dello stesso principio di autorità contro cui si scagliano quando qualche scienziato preparato cerca di far loro capire le sciocchezze che affermano. Interessante questa dissociazione mentale, vero? Sono contro il principio di autorità solo quando fa loro comodo. Ma tant’è.

Dagli interventi sempliciotti si passa a quelli pseudo scientifici: “su di me (sui miei animali) funziona” come se le osservazioni soggettive fatte senza un controllo fossero attendibili e come se sugli animali non fosse mai stato osservato l’effetto placebo.

Ma ciò che colpisce di più è la assoluta incongruenza logica di questi individui, fan sfegatati dell’ omeopatia. L’omeopatia, secondo loro, è innocua.

Invocare l’innocuità dell’ omeopatia è una contraddizione in termini. Se uno ammette che l’assunzione di preparati omeopatici apporta benefici, non può parlare di innocuità. Se si ammette che l’omeopatia in qualche modo funziona sul nostro organismo, allora non può essere innocua. Tuttavia, capisco che per queste persone il termine “innocuità” si riferisce all’assenza di effetti collaterali. Questa assenza sarebbe certificata dai bugiardini dei preparati omeopatici che non riportano le lunghissime liste di contro indicazioni trovate nei bugiardini dei farmaci veri. In realtà, queste persone non sanno o fanno finta di non sapere o ancora dimenticano che la legislazione che regolamenta l’immissione in commercio dei farmaci veri è molto stringente e richiede diverse fasi di sperimentazione oltre ad imporre la descrizione di tutti i possibili effetti indesiderati verificatisi o osservati, sebbene non necessariamente correlati all’assunzione del farmaco, durante la sperimentazione. Al contrario i preparati omeopatici non sono soggetti ad alcuna sperimentazione oltre a essere soggetti ad una legge più “tenera” di quella cui sono soggetti i farmaci veri. Mancano le contro indicazioni dai bugiardini dei preparati omeopatici semplicemente perché, non avendo alcuna funzione biochimica, essi non hanno alcun effetto. L’unico effetto dei preparati omeopatici è quello placebo, di tipo psicologico, come detto prima.

“I preparati omeopatici non uccidono”. Ecco un’altra argomentazione. Come se ad uccidere una persona non fosse la grave patologia diagnosticata, ma il rimedio farmacologico usato per combatterla. Capisco la necessità psicologica di individuare un “nemico fisico” contro cui scagliarsi nelle avversità della vita. Ci passiamo o ci siamo passati tutti. Ma questo non ci autorizza a spegnere la nostra razionalità. I preparati omeopatici non uccidono nel senso che non sono un veleno. Ma quando l’omeopatia si sostituisce alle terapie accreditate e valide, allora sì, l’omeopatia uccide. Come non ricordare il caso di quella ragazza diabetica morta perché la terapia insulinica era stata sostituita con una omeopatica? Mi si potrà dire che le cure omeopatiche coadiuvano quelle farmacologiche, ma anche l’amore di un genitore, l’affetto di chi ti è vicino sono degli ottimi coadiuvanti e, soprattutto, costano molto meno di un preparato omeopatico.

Dal mio punto di vista, il problema dei fan dell’omeopatia è un forte distacco dalla realtà ed una assurda lontananza dalle regole fondamentali della logica del pensiero razionale. La cosa è preoccupante. Queste persone votano e col loro voto sono in grado di influenzare le scelte politiche ed economiche di una intera nazione portandola a livelli di devoluzione/involuzione quanto mai assurdi.

Fonte dell’immagine di copertinahttp://ildubbio.news/ildubbio/2017/05/30/omeopatia-la-grande-truffa/

Effetto Paperino

Oggi mi sono imbattuto in un filmato molto divertente in cui due persone, dopo aver bevuto una birra all’elio, hanno cominciato a parlare con la voce di Paperino.

Ecco il filmato:

Divertente, vero?

Come mai quando respiriamo elio la nostra voce assume toni acuti?

Dovete sapere che l’emissione dei suoni è legata ad un meccanismo mediato dall’azione di corde vocali, faringe e bocca. Le prime, situate nella laringe (Figura 1), si avvicinano tra loro, si allontanano o vengono  tese (insomma, vibrano) grazie all’azione di alcuni muscoli. Sono proprio le vibrazioni delle corde vocali a generare il suono che si propaga attraverso l’aria che respiriamo.

Figura 1. Anatomia della gola (Fonte)

La frequenza del suono emesso da una sorgente che vibra è inversamente proporzionale alla radice quadrata della densità del mezzo in cui il suono si propaga. In altre parole, più denso è il mezzo, più bassa è la frequenza del suono. Più bassa è la densità del mezzo, maggiore è la frequenza del suono. Nel primo caso sentiamo suoni gravi, nel secondo sentiamo suoni acuti. Guardate il video qui sotto per conoscere meglio le caratteristiche dei suoni.

L’aria atmosferica, costituita da circa il 79% di azoto molecolare, il 20% di ossigeno molecolare e dall’1% di altri gas come anidride carbonica, argon etc., è mediamente otto volte più densa dell’elio. Questo vuol dire che il suono emesso dalle vibrazioni delle corde vocali attraversate dall’aria atmosferica ha una frequenza circa tre volte più bassa rispetto a quella del suono che si propaga attraverso l’elio (il “tre volte” viene fuori dal rapporto della densità dell’aria rispetto a quello dell’elio. La radice quadrata di 8 è 2.9, ovvero circa 3). La conseguenza di quanto appena scritto è che il suono che si propaga attraverso l’aria atmosferica è più grave di quello che si propaga attraverso l’elio. L’effetto finale quando respiriamo l’elio da un palloncino o beviamo birra addizionata di questo gas, come nel primo filmato di questa nota, è la caratteristica voce di Paperino.

Per saperne di più

Anatomia della gola

La propagazione del suono 1 e 2

Fonte dell’immagine di copertinahttp://cinetramando.blogspot.it/2011/12/paperino-donald-duck-walt-disney.html

I dolcificanti parte III. Il potere dolcificante

Da un po’ di tempo sto studiando gli edulcoranti e nel mio vagabondare tra siti internet e libri di vario genere, incontro informazioni nuove e sempre molto interessanti. Ho già scitto in merito ad aspartame e saccarina. I due articoletti possono essere letti qui. Nei commenti a questi due articoletti  sui vari social network in cui sono stati pubblicati, mi è stato chiesto di fare un confronto tra i diversi edulcoranti in termini di qualità dolcificante.

Come facciamo a stabilire quale edulcorante è il più dolce?

Esiste un parametro, chiamato “potere dolcificante”, che ci consente di confrontare la capacità degli edulcoranti di dare un sapore dolce all’alimento in cui essi sono contenuti.

Il potere dolcificante viene misurato rispetto ad una sostanza “dolce” di riferimento.  La sua definizione prevede che esso vada inteso come il rapporto tra la concentrazione di una soluzione di saccarosio (il normale zucchero da tavola) e quella dell’edulcorante che ha la stessa intensità di sapore. In altre parole, prendiamo il saccarosio (sostanza di riferimento) e ne sciogliamo una quantità nota  in acqua;  attribuiamo il valore 1 al suo sapore (per esempio, assegniamo potere dolcificante pari a 1 ad una soluzione di 1 g di saccarosio in 1 L di acqua).  A questo punto prepariamo soluzioni a concentrazioni differenti di un edulcorante qualsiasi. Confrontiamo il sapore di queste soluzioni con quella di 1 g/L di saccarosio. Se la soluzione contenente la quantità X g/L di dolcificante ha sapore uguale alla soluzione di saccarosio 1 g/L, allora il suo potere dolcificante (PX) è dato dal rapporto 1 (g/L) / X (g/L), ovvero:

PX = 1/X

e possiamo dire che il dolcificante ha dolcezza X volte quella del saccarosio.

Alla luce di quanto scritto,  si può comprendere il significato dei numeri riportati nella  tabella sottostante

Sostanza Potere dolcificante
Lattosio 0.200
Galattosio 0.220
Maltosio 0.320
Sorbitolo 0.540
Mannitolo 0.700
Glucosio 0.740
Saccarosio 1
Fruttosio 1.5
Ciclammato 35
Aspartame 200
Acesulfame K 200
Saccarina 400

Il glucosio ha un potere dolcificante pari a 0.740. Significa che 1.00 g di glucosio sciolto in 0.740 L di acqua hanno lo stesso sapore di 1.00 g di saccarosio disciolto in 1.00 L di acqua:

[saccarosio] = 1.00 g/1.00 L = 1.00 g/L

[glucosio] = 1.00 g/0.740 L = 1.35 g/L

PGlu= [saccarosio]/[glucosio] = 1.00 (g/L) / 1.35 (g/L) = 0.740

Se, invece, ci riferiamo alla saccarina, si ha:

[saccarina] = 1 g /200 L = 0.00250 g/L

PSaccarina = [saccarosio]/[saccarina] = 1/0.00250 = 400

In altre parole, occorre sciogliere più di 1 g di glucosio e solo 2.5 mg di saccarina in 1 L di acqua, rispettivamente, per ottenere lo stesso sapore di 1 g/L di saccarosio.

Conclusioni

Il potere dolcificante è molto utile per fare un corretto uso degli edulcoranti. Tuttavia, si tratta di un parametro il cui valore dipende da tanti fattori. Tra questi, i più importanti sono temperatura e concentrazione. Non bisogna dimenticare, però, che anche le sensazioni soggettive giocano un ruolo importante. Infatti, stabilire cosa abbia un sapore identico a quello di una qualsiasi sostanza di riferimentio significa fare i cosiddetti “panel test”. Questi consistono nel far assaggiare a delle persone un alimento. Queste persone, poi, devono stabilre sulla base delle loro sensazioni – che dipendono da tante cose, incluse lo stato di salute soggettivo – se l’alimento sotto indagine è identico o meno a quello di riferimento. Il potere dolcificante, in definitiva, va preso con le pinzette. Un esempio è dato dalla tabella su riportata che è estrapolata da un libro molto noto nella chimica degli alimenti (Cappelli, Vannucchi (2000) Chimica degli alimenti, seconda ed., Zanichelli); i valori del potere dolcificante lì riportati sono diversi rispetto a quelli di altri riferimenti come quello che potete trovare qui (sempre dalla Zanichelli).

Fonte dell’immagine di copertina: CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=26027

Luce e colore

 

Quando la luce colpisce un oggetto essa può essere assorbita, può attraversarlo o può essere riflessa. Le intensità della luce assorbita e di quella riflessa dipendono dalla lunghezza d’onda della luce incidente. In particolare, un qualsiasi oggetto che viene colpito dalla luce ordinaria ed assorbe tutte le radiazioni dello spettro luminoso visibile senza restituirne alcuna ai nostri occhi, appare nero; se riflette tutte le radiazioni dello spettro luminoso, il colore risultante dalla combinazione di tutte le radiazioni riflesse è il bianco; se l’oggetto assorbe solo un certo numero di radiazioni luminose tranne alcune, esso appare del colore generato dalla combinazione delle diverse radiazioni riflesse; se ad essere riflessa è una sola radiazione, l’oggetto appare del colore descritto dalla lunghezza d’onda della singola radiazione riflessa.

Cosa vuol dire “assorbimento della luce” a livello molecolare?

Quando la luce incide su un corpo, possono avvenire delle transizioni elettroniche. In altre parole, gli elettroni coinvolti nella formazione dei vari legami passano da un orbitale[1] ad un altro ad energia più elevata. Più vicini sono gli orbitali tra cui avviene la transizione elettronica e meno energia occorre perché essa avvenga. Nel caso di sistemi di natura organica, la distanza tra gli orbitali contigui tra cui avvengono le transizioni elettroniche si riduce all’aumentare del numero di doppi legami coniugati[2] presenti nelle molecole. Per questo motivo, molecole con un gran numero di legami coniugati sono in grado di assorbire gran parte della radiazione elettromagnetica e di conferire al macro-sistema in cui essi si trovano (per esempio i tessuti di una foglia oppure quelli di una carota) un colore corrispondente alla luce che viene riflessa. Per illustrare meglio questo concetto si faccia riferimento alla Figura 1. In essa si riporta, sull’asse orizzontale, lo spettro della radiazione elettromagnetica (la luce) tra circa 350 e circa 700 nm, ovvero nell’intervallo del visibile; sull’asse verticale si riporta la percentuale di assorbimento della radiazione luminosa; la curva arancione si riferisce all’assorbimento della luce da parte dei carotenoidi di cui un rappresentante, il β-carotene, è riportato in alto a sinistra. Si noti come i picchi di assorbimento siano compresi nell’intervallo 350-550 nm; la conseguenza è che la luce giallo-arancio (lunghezza d’onda, λ, > 550 nm) è quella che viene riflessa. Per questo motivo i tessuti vegetali che contengono i carotenoidi (per esempio le carote) appaiono arancioni.

Figura 1. Spettri di assorbimento dei carotenoidi e della clorofilla

La Figura 1 mostra anche i picchi di assorbimento della clorofilla-b la cui struttura è in alto a destra. Ci sono diversi massimi di assorbimento nell’intervallo tra 400 e 500 nm e tra 600 e circa 700 nm. Non c’è alcun assorbimento intorno ai 570 nm, ovvero la lunghezza d’onda della luce di colore verde. Il risultato è che i tessuti vegetali che contengono la clorofilla-b appaiono di colore verde. Quando la clorofilla si degrada, spariscono i massimi di assorbimento descritti e la colorazione delle foglie vira al giallo-arancio-rosso.

 Ancora una volta la chimica mostra tutto il suo fascino. Fenomeni che possono sembrare magici hanno un significato riconducibile alle caratteristiche più intrinseche della materia. E la materia ci appare in tutta la sua poesia.

Suggerimenti

Al seguente link una bellissima poesia tradotta da Popinga, al secolo Marco Fulvio Barozzi:  http://keespopinga.blogspot.it/2015/10/un-atomo-nelluniverso.html

Note

[1] Un orbitale è una zona dello spazio attorno al nucleo di un atomo in cui esiste la più elevata probabilità di poter trovare un elettrone in movimento.

[2] Senza prendere in considerazione la teoria dei legami chimici, per semplicità si può dire che i doppi legami coniugati sono doppi legami alternati tra diversi atomi di carbonio come nel seguente caso: -C=C-C=C-C=C-C=C-

Fonte dell’immagine di copertina: https://www.inkcartridges.com/blog/graphic-design/how-color-psychology-influences-your-print-design/

Omeopatia in radio

 

Nel 2009 sono entrato nel mondo dei social network e da allora ho conosciuto tante persone, molte odiose, tante antipatiche, ma moltissime interessantissime oltre che simpaticissime. E’ questo il caso di Lele Pescia, Ivo Ortelli e La Iena Ridens che mi hanno ospitato nella loro trasmissione “Neandhertal Pride” a parlare di omeopatia.

Chi mi segue sa che mi sono interessato di questa pseudoscienza che fa tanti proseliti nel mondo. Se siete curiosi, qui trovate il link a quanto ho già scritto.

In realtà, siamo partiti dall’omeopatia per affrontare problematiche anche di carattere più generale.

Se avete perso la diretta e se siete interessati ad ascoltare la mia voce, cliccate qui sotto e vi si apriranno le porte del mio intervento di ieri in  Neandhertal Pride

 

 

I dolcificanti parte II. La saccarina

Ed eccoci di nuovo qui a parlare di dolcificanti. In un articolo di qualche tempo fa (qui) ho già parlato dell’aspartame e di come esso non sia affatto il terrore che si pensa a meno che un individuo non sia affetto da iperfenilalaninemia. Si tratta di una patologia che consiste nella incapacità di metabolizzare la fenilalanina, prodotto della degradazione del dolcificante citato. Adesso voglio prendere in considerazione  il primo dolcificante che sia mai stato sintetizzato: la saccarina.

Un po’ di storia

Nella seconda metà del XIX secolo alla Johns Hopkins University negli Stati Uniti, il Prof. Ira Remsen stava studiando la chimica del catrame e delle sue componenti. Al suo gruppo di ricerca si aggregò per un certo periodo anche Constantin Fahlberg, chimico tedesco, giunto negli USA per incarico della HW Perot Import Firm che aveva subito il sequestro di una ingente quantità di zucchero da parte delle autorità statunitensi. L’azienda aveva commissionato al Dr. Fahlberg le analisi per valutare il grado di purezza del loro prodotto e, nello stesso tempo, aveva chiesto l’appoggio tecnico del laboratorio del Prof. Remsen. Dopo aver fatto le analisi e nell’attesa della propria testimonianza, il Dr. Fahlberg chiese, ed ottenne, di poter lavorare col gruppo di Remsen come borsista post dottorato sulla chimica del catrame.

Una sera del 1878, di ritorno dal laboratorio, Fahlberg si mise a tavola a cenare con la moglie. Probabilmente non si era lavato molto bene le mani dopo il lavoro perché, mangiando del pane, si accorse che esso era particolarmente dolce. Dopo aver chiesto alla moglie se ella sentiva lo stesso sapore, si accorse che, in realtà, la dolcezza era dovuta alle sue mani. Residui di qualcosa che aveva toccato in laboratorio erano rimasti sulle mani. Tornato di corsa in laboratorio, Fahlberg cercò di capire cosa fosse accaduto. Dopo attenta analisi, egli si accorse che il prodotto della ossidazione della o-toluen-sulfonammide (Figura 1) – si legge orto toluene sulfonammide – aveva portato alla sintesi di un composto che fu chiamato “saccarina”. Per saperne molto di più sulla storia della saccarina cliccare/tappare qui e qui.

Figura 1. Struttura della o-toluen-sulfonammide (Fonte)

La chimica della saccarina

La sintesi della saccarina, secondo lo schema di Fahlberg, è fatta a partire dal toluene (Figura 2), un composto che si  ottiene per distillazione del catrame.

Figura 2. Struttura del toluene (Fonte)

In presenza di acido clorosolforico (ClSO3H), il toluene subisce il processo di solfonazione con formazione dell’acido o-toluensolfonico (si tratta di uno dei due prodotti di reazione. L’altro è l’acido p-toluensolfonico – si legge acido para toluensolfonico). L’isomero orto, liquido, si separa facilmente da quello para che è solido. Il primo viene, poi, sottoposto ad una reazione che porta prima alla formazione di un cloruro di arilsulfonile, poi alla formazione della o-toluene sulfonammide (Figura 1) mediante reazione con ammoniaca. La o-toluene sulfonammide subisce infine i processi riportati in Figura 3 con ottenimento della saccarina.

Figura 3. Stadi finali della sintesi della saccarina messa a punto da Fahlberg (Fonte)

Nel 1950, è stato messo a punto un nuovo schema sintetico che oggi è quello più usato. Questo schema è riportato in Figura 4.

Figura 4. Sintesi della saccarina messa a punto nel 1950 (Fonte)

La saccarina così com’è non è molto solubile in acqua. Per questo motivo l’idrogeno ammidico – ovvero quello legato all’azoto nella struttura della saccarina riportata sia in Figura 3 che in Figura 4 – viene fatto reagire in ambiente fortemente basico in modo da ottenere la saccarina sodica la cui struttura è riportata in Figura 5.

Figura 5. Saccarina sodica

Una volta solubilizzata, la saccarina sodica ha un potere dolcificante circa 500 volte più elevato di quello del saccarosio, ovvero dello zucchero che usiamo al bar. Insomma, ciò che usiamo come dolcificante non è la saccarina, ma il suo sale sodico. In realtà, in commercio non esiste solo il sale sodico, ma anche quello di calcio e di potassio. Il potere dolcificante, comunque non dipende dal catione, ma solo dall’anione. Infine, la saccarina ha una stabilità termica molto elevata (certamente più elevata di quella dell’aspartame di cui ho già scritto) per cui può essere anche utilizzata come valido sostituto del saccarosio nella preparazione di dolci che richiedono cottura ad alta temperatura.

Saccarina e salute

Il vantaggio nell’uso della saccarina è sempre stato legato al suo indice glicemico molto basso. In altre parole, non assomigliando neanche lontanamente al glucosio, la saccarina può essere usata senza alcun problema dai diabetici. In effetti, essa è stata il primo dolcificante per diabetici. Prima della sua sintesi, i diabetici non potevano assumere alimenti dolci. Questi erano per essi completamente proibiti. Tuttavia, nonostante quanto appena scritto, recentemente è apparsa una notizia nel sito della Fondazione Veronesi (qui) in cui si descrivono i risultati di uno studio che dimostrerebbe come un uso intenso di saccarina possa portare ad una alterazione della flora microbica intestinale con conseguente modifica del metabolismo del glucosio ed insorgenza di diabete. Insomma, a quanto pare la saccarina non sembrerebbe così inerte come si pensava e si pensa tuttora. Tuttavia, la stessa Fondazione Veronesi si guarda bene dal lanciare allarmi isterici perché finora lo studio di cui sto scrivendo è unico e solo. Come giustamente richiedono le regole del metodo scientifico, perché uno studio possa risultare attendibile è necessario superare la prova del tempo. Solo il tempo, durante il quale nuove prove potranno essere prodotte, potrà dirci se effettivamente la saccarina non è inerte nei confronti dell’insorgenza del diabete.

Uno dei tanti miti legati all’uso della saccarina è la relazione saccarina-cancro. Questo mito, che torna in auge di tanto in tanto soprattutto nelle pagine dei “nazi-salutisti”, è legato ad una serie di studi (molti descritti qui) in cui si è evidenziata una correlazione tra tumori alla vescica nei ratti e uso di saccarina. In realtà, non c’è mai stata una correlazione diretta tra uso di saccarina ed insorgenza di tumori alla vescica negli esseri umani. In particolare, è stato evidenziato che l’insorgenza di tumori vescicali nella sperimentazione animale era legata da un lato alle elevate concentrazioni di saccarina, cui gli umani non sono mai esposti, dall’altro alla fisiologia vescicale animale completamente diversa da quella umana che risultava, quindi, meno esposta all’azione del dolcificante in esame. Una trattazione più completa di quanto sto riportando è qui.

conclusioni

Come nel caso dell’aspartame di cui ho già detto, anche in quello della saccarina vale ciò che aveva intuito Paracelso qualche secolo fa: è la dose che fa il veleno. Notizie inneggianti ad una presunta pericolosità della saccarina sono assolutamente prive di ogni fondamento se decontestualizzate dallo specifico ambito sperimentale da cui esse sono tratte. Usate pure la saccarina se siete a dieta o se siete diabetici e soprattutto se incontra i vostri gusti, ma fatene un uso oculato. Come sono solito dire ai miei studenti, una sackertorte è buonissima. Ma se ne mangiate una fetta va bene. Il vostro palato ed il vostro umore ne trarranno vantaggi. Se la mangiate tutta o ne mangiate oltre ogni limite, non avrete alcun vantaggio ma solo un ricovero ospedaliero per indigestione, se siete fortunati, o per iperglicemia, se siete meno fortunati.

NotE

Ho messo in evidenza che Fahlberg si accorse del tutto casualmente di aver prodotto un dolcificante durante una cena a casa con la moglie dopo il suo lavoro. Ecco. Una cosa che NON bisogna mai fare è non lavare bene le mani e gli indumenti quando, dopo un lavoro in laboratorio, si è venuti a contatto con i prodotti con cui si è lavorato. Fahlberg è stato fortunato. La saccarina da lui prodotta non aveva effetti tossici. Tuttavia, quando si lavora in laboratorio NON bisogna mai operare a mani nude, ma sempre con gli opportuni dispositivi di sicurezza personali (camice, guanti, occhiali sono i più comuni). I composti che un chimico maneggia possono essere estremamente pericolosi. Mi ricordo ancora quando a noi studenti del primo anno di chimica veniva detto dai nostri professori che l’incidenza di cancro o altre patologie legate al laboratorio è molto alta tra i chimici. Col senno di poi, posso dire che non è granché vero. Però la lezione è servita. Anche io, ai miei collaboratori che entrano per la prima volta in laboratorio, spiego le basi della sicurezza di laboratorio. Un qualsiasi errore nel lavoro di laboratorio può portare a ferite serie o essere addirittura letale.

Fonte dell’immagine di copertina

La chimica dei giochi pirotecnici

Vi ricordate di quando vi ho descritto il fuoco greco? No!? Beh, era a questo link. Si trattava di una miscela di composti chimici in grado di bruciare anche nell’acqua. Devo dire che la chimica della combustione è molto affascinante, soprattutto se questa innesca una serie di reazioni spettacolari come quelle che si osservano alla mezzanotte di ogni fine di anno con i famosi botti di capodanno.

Cerchiamo di capire cosa accade a livello chimico fisico quando giochi pirotecnici come quelli nel filmato qui sotto (che si riferisce ai fuochi della festa di Santa Rosalia a Palermo nel 2016) ci meravigliano per il loro effetto scenico.

I saggi alla fiamma

Dovete sapere che gli studenti di chimica al primo anno (almeno ai miei tempi. Oggi non so più come sono i programmi delle ex facoltà di Chimica) studiano i saggi alla fiamma. In soldoni, si tratta di indagini che ci consentono di identificare gli elementi chimici nelle miscele attraverso il riconoscimento di certi colori caratteristici.

Andiamo con ordine.

Quando il metallo contenuto in un sale disciolto in una soluzione acida viene posto ad alta temperatura sulla fiamma di un becco Bunsen (cosa sia e come si usa, lo potete vedere nel simpatico filmato qui sotto), subisce una transizione elettronica, ovvero  i suoi elettroni passano da un livello energetico fondamentale ad uno eccitato. Quando gli elettroni ritornano nello stato fondamentale, emettono dei fotoni a delle lunghezze d’onda caratteristiche  che noi riconosciamo come colori.

Ogni elemento chimico è in grado di colorare la fiamma del becco Bunsen in modo caratteristico. In Figura 1 si vede come il rame sia in grado di produrre una fiamma verde, il sodio giallo-arancio molto intenso, lo stronzio rosso vivo et che etc.

Figura 1. Colori caratteristici di alcuni elementi della tavola periodica (Fonte)

I giochi pirotecnici

Cosa c’entrano i saggi alla fiamma con i giochi pirotecnici? Beh, prendiamo in considerazione la polvere da sparo. Si tratta di una miscela contenente: carbone (C), nitrato di potassio (KNO3)  e zolfo (S). Per effetto dell’innesco della combustione,  i composti anzidetti reagiscono in un processo esotermico portando alla formazione di carbonato di potassio (K2CO3), solfato di potassio (K2SO4), solfuro di potassio (K2S), carbonato di ammonio ((NH4)2CO3), oltre a un insieme di gas tra cui anidride carbonica (CO2), azoto molecolare (N2), idrogeno molecolare (H2), acqua (H2O), acido solfidrico (H2S) e metano (CH4),

Se la polvere da sparo viene compressa in un volume piccolo, per esempio un tubo, la reazione di combustione non produce solo calore. Infatti, la rapida espansione dei gas anzidetti produce anche un forte rumore che noi siamo abituati a chiamare “botto”.  Se la polvere da sparo viene miscelata con i sali di metalli quali il titanio, il calcio, il litio, l’antimonio, il sodio, il rame, il bario etc. all’esplosione, dovuta alla rapida espansione dei gas, si associa anche una  colorazione dovuta al fatto che, grazie alle alte temperature raggiunte durante la reazione, i metalli anzidetti emettono luce che noi percepiamo con i tipici colori illustrati nel paragrafo sui saggi alla fiamma.

Simpatica la chimica delle esplosioni, vero?

Fonte dell’immagine di copertinahttp://seekonkspeedway.com/event/labor-day-fireworks-thrill-show/

Ragni e farmaci psicotropi

Correva l’anno 1948 e lo zoologo H.M. Peters conduceva delle osservazioni sulle modalità con cui i ragni tessono la loro tela. Peters aveva necessità di documentare le sue osservazioni con delle foto. Incontrò ben presto un problema. I ragnetti non sembravano molto collaborativi. Tessevano la tela nelle prime ore del mattino, preferendo operare nella totale oscurità. Questo, oltre a costringere Peters a delle levatacce, impediva l’uso delle tecniche allora in uso per scattare le foto. Nel ‘48 non esistevano le macchine fotografiche di oggi e per ottenere immagini decenti era necessario illuminare la scena. L’illuminazione, tuttavia, contrastava con le abitudini dei ragnetti. Peters decise, allora, di rivolgersi ad un suo collega farmacologo, Peter Witt, per capire se fosse possibile somministrare un qualche farmaco ai ragnetti per spostare la loro attività dalla notte fonda alle prime luci del mattino.

Witt decise di somministrare ai ragnetti diverse sostanze psicotrope e di valutarne gli effetti sul comportamento e la produttività.

La Figura 1 mostra la tela normale di un ragno a cui non era stato somministrato nulla.

Figura 1. Tela fatta da un ragno non “drogato” (Fonte)

Dopo somministrazione di mescalina, la rete appariva come in Figura 2

Figura 2. Tela ottenuta dopo somministrazione di mescalina (Fonte)

La mescalina è una sostanza che si trova in un cactus che veniva masticato  dai nativi americani per indurre allucinazioni. Queste venivano descritte come veri e propri contatti con le divinità. Evidentemente, i ragnetti, a cui era apparsa improvvisamente la loro aracno-divinità suprema,  avevano dimenticato di costruire parte della loro tela lasciando il lavoro a metà.

La dietilammide dell’acido lisergico o LSD è una sostanza allucinogena la cui struttura è simile a quella dell’acido lisergico, tossina da cui è stata sintetizzata.  Quest’ultima è contenuta nella segala cornuta. La LSD, come lo stesso acido lisergico, provoca stati di alterazione che corrispondono ad un aumento delle percezioni sensoriali e visioni distorte della realtà. Sembra che la tossina contenuta nella segala cornuta sia stata responsabile delle allucinazioni che, nel XVII secolo, furono alla base delle accuse di stregoneria e della caccia alle streghe che si realizzò a Salem. Per effetto delle “allucinazioni” indotte da LSD, la tela dei ragnetti appariva come in Figura 3.

Figura 3. Tela tessuta dopo somministrazione di LSD (Fonte)

I ragni hanno “dimenticato” di tessere gran parte dei fili interni nella struttura portante della loro tela.

Quante volte diciamo “ma che ti sei fumato?” quando vogliamo riferirci a qualcuno il cui comportamento è svagato? Questa locuzione, come è ben noto, si riferisce all’uso di marijuana che ha la proprietà di alterare le proprietà cognitive degli individui. Ebbene, a quanto pare anche i ragni vengono influenzati dagli effetti della marijuana. La Figura 4 mostra la rete fabbricata dai ragni a cui è stata somministrato questo farmaco.

Figura 4. Ragnatela fatta da ragni soggetti all’azione della marijuana (Fonte)

I caffè, si sa, contengono caffeina, un alcaloide che, se assunto in grande quantità, può portare a problemi cardiaci. Oltre agli effetti cardiaci, la caffeina stimola anche il sistema nervoso centrale tanto è vero che molte volte diciamo “no, grazie. Il caffè mi rende nervoso”. Il ragno che ha tessuto la tela mostrata in Figura 5 si deve essere innervosito non poco per aver fatto una ragnatela che ha poco in comune con quella tradizionale di Figura 1.

Figura 5. Ragnatela fatta da un ragno sottoposto all’azione della caffeina (Fonte)

La benzedrina è una molecola che appartiene alla classe delle amfetamine, farmaci che stimolano sia il sistema nervoso centrale che periferico. La sua somministrazione “induce una spiccata capacità di iniziativa, stato di eccitazione ed esaltazione; scompare qualsiasi sensazione di fatica con conseguente aumento dell’attività motoria e logorrea; si fortifica mentalmente il soggetto senza che però si potenzi il rendimento personale”. I ragnetti che hanno prodotto la tela di Figura 6 hanno lavorato con maggiore velocità rispetto al normale fabbricando, in ogni caso, una rete molto più asimmetrica rispetto a quella di Figura 1.

Figura 6. Tela ottenuta sotto l’effetto di benzedrina (Fonte)

Quando i ragnetti sono stati sottoposti all’azione di un sonnifero, la ragnatela è risultata largamente incompleta, come mostrato in Figura 7.

Figura 7. Ragnatela ottenuta sotto l’effetto di un sonnifero (Fonte)

Gli esperimenti condotti da Witt alla fine degli anni quaranta del XX secolo, sono stati riprodotti, ed i risultati confermati, dagli scienziati della NASA molto recentemente. Purtroppo per Peters, i ragnetti non hanno modificato le loro abitudini mattutine, ma solo quelle relative alla loro capacità di costruire le ragnatele.

Interessante, vero?

Fonte: Wikipedia.en

per saperne di più

ScienceAlert

Kscience

Wikipedia

Fonte dell’immagine di copertina: qui

Acrilamide. Una molecola che fa paura

L’ acrilamide è una molecola di cui di tanto in tanto si sente parlare in giro per la rete o nei giornali a tiratura nazionale soprattutto nei periodi di festa durante i quali si prospettano enormi abbuffate.

Si tratta di una molecola dalle caratteristiche genotossiche e cancerogene, ovvero in grado di modificare il DNA e provocare il cancro, ottenuta per degradazione ad alte temperature (>120° C) di alcune molecole contenute negli alimenti sottoposti a cottura.

Ma andiamo con ordine.

L’ acrilamide ha la struttura riportata in Figura 1.

Figura 1. Struttura dell’acrilamide (Fonte)

Come si evince dalla struttura, si tratta di una molecola con doppi legami coniugati in cui il gruppo funzionale che ne determina le caratteristiche chimiche è quello amidico, ovvero il sistema -NH2 legato al carbonio carbonilico.

Il meccanismo attraverso cui l’ acrilamide si forma durante la cottura degli alimenti è stato delucidato solo nel 2003 (Figura 2).

Figura 2. Il lavoro in cui è stato proposto per la prima volta il meccanismo di formazione dell’acrilamide

La Figura 3 mostra tutte le reazioni coinvolte nella formazione dell’ acrilamide.

Figura 3. Meccanismo di formazione dell’acrilamide

Un aminoacido, l’arginina, reagisce con il gruppo carbonilico di uno zucchero. Si forma una base di Schiff, responsabile dell’imbrunimento dell’alimento durante la cottura, dalla cui decarbossilazione si ottiene una base di Schiff decarbossilata che può essere soggetta a due meccanismi di decomposizione. Da un lato si può avere idrolisi con formazione di 3-propionamide dalla cui de-amminazione si ottiene l’ acrilamide; dall’altro si può avere degradazione termica con formazione di acrilamide ed una nuova base di Schiff come sottoprodotto.

La Figura 3 è presa dal lavoro pubblicato su J. Agric. Food Chem. di cui si riporta il titolo in Figura 2. La rivista è una delle più accreditate in ambito agricolo ed alimentare. Nonostante questo non posso non rilevare un errore nel meccanismo descritto. Infatti, la decarbossilazione della base di Schiff porta alla formazione di una base di Schiff decarbossilata che, secondo gli autori, è soggetta all’equilibrio descritto in Figura 4.

Figura 4. Equilibrio cui è soggetta la base di Schiff decarbossilata secondo gli autori del lavoro pubblicato su J. Agric. Food Chem.

In realtà le due strutture descritte differiscono tra loro solo per la distribuzione degli elettroni, per  cui esse sono ibridi di risonanza e non possono essere correlate dalla doppia freccia. Esse devono essere correlate da una freccia a doppia punta (↔).

Il meccanismo di azione dell’ acrilamide

Il gruppo vinilico dell’acrilamide è molto reattivo e può dar luogo alla formazione dell’epossido mostrato in Figura 5.

Figura 5. Forma epossidica dell’acrilamide (Fonte)

È proprio questa forma epossidica che, in presenza delle basi nucleotidiche del DNA, reagisce per dare i prodotti mostrati in Figura 6.

Figura 6. Prodotti delle reazioni tra le basi nucleotidiche e la forma epossidica dell’acrilamide (Fonte)

Gli addotti ottenuti per reazione della forma epossidica dell’acrilamide con le basi nucleotidiche del DNA sono responsabili delle alterazioni strutturali del DNA e della possibile insorgenza di forme tumorali.

Cosa fare

Dalla breve disamina sulla chimica dell’acrilamide appare chiaro che gli alimenti più pericolosi per la salute, quando sottoposti a cottura ad alta temperatura, sono quelli con elevato contenuto di zuccheri liberi. Tra questi le patate e tutti quelli ad elevato tenore di amido. Per evitare la formazione di acrilamide quando si utilizzano le patate, bisogna usare un po’ di accorgimenti (fonte):

  1. per la frittura si devono utilizzare oli con un punto di fumo elevato; i piu’ idonei sono l’ olio di oliva, l’ olio di arachide e il tanto bistrattato olio di palma. L’ olio di girasole e l’ olio di semi di soia sono assolutamente da evitare. Di fatto, gli oli formulati per le fritture sono costituiti in genere da una miscela di olio di arachide e olio di palma;
  2. L’ olio non deve essere riutilizzato per piu’ fritture;
    le patatine non devono diventare troppo scure; bisogna diminuire il piu’ possibile i tempi di frittura;
  3. prima di friggerle è buona norma lasciare le patate in ammollo in acqua e sale per almeno 30 minuti; in questo modo parte degli zuccheri semplici passano nell’ acqua e di conseguenza si originerà un quantitativo inferiore di acrilammide;
  4. le patate devono essere conservate al buio ma non in frigorifero, perché il freddo le rende più dolci, dunque più ricche di zuccheri liberi in grado di reagire con l’asparagina;
  5. è da evitare la germinazione perchè essa riattiva il metabolismo della patata che si arricchisce di zuccheri semplici e di amminoacidi.
i limiti suggeriti

La tabella mostrata in Figura 7 mostra i limiti massimi di acrilamide che devono essere presenti in alcuni alimenti. Per una visione migliore di questa tabella si può cliccare qui.

Figura 7. Limiti massimi ammissibili di acrilamide in alcuni alimenti

Note conclusive

Devo delle scuse a quelli dei miei lettori che non hanno una preparazione chimica. In questo lungo post ho deciso di non usare un linguaggio semplice. Ho utilizzato il linguaggio chimico che richiede delle conoscenze almeno da primo anno di università. Non c’è un motivo particolare per aver fatto questa scelta se non la mia pigrizia che in questo momento mi impedisce di concentrarmi a sufficienza per elaborare un discorso accessibile a quante più persone possibili. Spero sia chiaro che bisogna fare attenzione ai sottoprodotti che si ottengono durante la preparazione degli alimenti. Questi possono avere effetti avversi. Tuttavia, come già evidenziato in tanti altri post sul mio blog, è la dose che fa il veleno. Una alimentazione sana ed equilibrata assicura un ottimo stato di salute.

La lettura di questo articoletto molto poco divulgativo deve evidenziare che è possibile trovare errori più o meno gravi anche  in lavori pubblicati su riviste molto ben accreditate in ambito scientifico. Purtroppo tali errori sono visibili solo agli occhi dei tecnici e talvolta nemmeno ad essi visto che questi errori possono superare i filtri della peer review. Nel caso specifico della chimica dell’acrilamide gli errori cui si fa riferimento sono stati superati grazie alla prova del tempo. Dal 2003 ad oggi il meccanismo proposto per la formazione dell’acrilamide è stato più volte confermato.

Mi scuso anche per la bassa qualità delle immagini dell’articolo proposto. L’articolo è stato scritto usando un tablet e su questo mezzo le immagini appaiono di buona qualità. Sui computer, purtroppo, non è così.

Fonte dell’immagine di copertinahttp://www.mixerplanet.com/panettone-patate-pizza-cancerogeni-dipende-dal-metodo-cottura_117089/

Riflessioni pre natalizie. Sviluppo scientifico e stasi tecnologica

Una delle riviste che mi piace leggere è Wired. Non sempre lo faccio perché è una rivista che esce un paio di volte all’anno e non sempre mi ricordo di prenderla in edicola. Stavolta sì; mi è capitata sotto gli occhi nell’edicola dell’aeroporto e l’ho presa. Capisco che sapere quali siano le mie letture preferite non è che importi a molti, così come non é particolarmente interessante sapere in che modo mi ricordi di prendere le riviste in edicola. Questo sproloquio introduttivo mi serve solo per dire che nell’ultimo numero di Wired, dedicato a come sarà il nostro futuro, ho trovato una introduzione di Carlo Rovelli, tra i fisici italiani più prestigiosi, che mi ha fatto molto riflettere.

Rovelli in sintesi afferma: “Il futuro non dipenderà da nuove prodigiose scoperte o inaspettate tecnologie ma sarà determinato dai governanti che ci sceglieremo: ragionevoli o irragionevoli”. Le sue argomentazioni sembrano molto ragionevoli e condivisibili: “parlare del futuro è sempre parlare del presente. Scienza e tecnologia continuano ad avanzare ma, fra le due, c’è uno scarto. Presto mi aspetto maggiori passi avanti nella conoscenza del mondo […]. Ma non credo che la tecnologia spiccherà grandi salti avanti. […] A me, in effetti, sembra che lo sviluppo tecnologico sia già in un periodo di forte rallentamento. Da quando sono nato ho visto arrivare l’uso di massa del trasporto aereo, i computer, internet. Sembra molto ma, se provo a confrontarlo coi cambiamenti che ha vissuto mia nonna le novità di oggi impallidiscono. Lei ha conosciuto la radio, la televisione, l’illuminazione stradale, le automobili, gli aeroplani, la penicillina, l’educazione generalizzata, l’uomo sulla Luna e la bomba atomica. E ci sono state, in passato, innovazioni tecnologiche che hanno sovvertito la vita del pianeta […]. Per esempio la diffusione dei trattori ha fatto sì che la percentuale di uomini che coltivava la terra passasse da più del novanta percento a meno del dieci, e ciò ha cambiato l’esistenza di milioni di esseri umani e sovvertito in modo radicale la struttura sociale della società”.

Devo dire che, probabilmente perché sono appassionato di fantascienza e per questo abbastanza sognatore, non sono molto d’accordo con Rovelli. Egli ha fatto una serie di esempi molto significativi, però a me non convincono molto.

Chi avrebbe potuto prevedere nel 1905 che la spiegazione dell’effetto fotoelettrico di Einstein avrebbe portato dopo più di ottanta anni ai cancelli automatici? E chi avrebbe potuto prevedere negli anni sessanta del novecento che le tavolette usate dal Dr. Spock in Star Trek, noto telefilm di fantascienza, sarebbero diventate reali con gli attuali e-reader e tablet? Vogliamo parlare degli attuali telefoni cellulari di cui si anticipa l’esistenza sempre in Star Trek?

Mi potreste dire: “ma di cosa stai blaterando? Stai confondendo finzione con realtà. Una cosa è l’effetto fotoelettrico altra è la fantasia degli sceneggiatori di Star Trek”. È vero. Solo che molte volte la realtà supera la fantasia come spiega Lawrence Krauss nel suo “La fisica di Star Trek”.

Dove voglio andare a parare? Voglio semplicemente dire che lo sviluppo delle nostre conoscenze scientifiche non ci consente di dire come, quando e quanto la tecnologia potrà subire salti in avanti. Quello che a Rovelli sembra un periodo di forte rallentamento tecnologico, io lo vedo in altro modo.

La tecnologia è indissolubilmente legata al progresso scientifico. Ma anche il progresso scientifico è legato allo sviluppo tecnologico. Cose che oggi sono possibili, solo qualche anno fa erano impensabili a partire da internet di cui parla Rovelli e dal World Wide Web. La necessità di superare la lentezza nello scambio di informazioni nel mondo scientifico portò Timothy John Berners-Lee ad inventarsi quello che a noi oggi sembra qualcosa di ovvio: il web a cui internet è legato a doppio filo. E col web oggi io posso lavorare sul mio tablet scrivendo questo articolo mentre sorseggio il mio caffè. Di esempi del genere ne potrei fare a bizzeffe. Solo per rimanere nel mio ambito settoriale che è quello della risonanza magnetica nucleare, chi potrà mai dire cosa ci consentirà di conoscere in termini scientifici l’applicazione della rilassometria NMR a ciclo di campo combinata con la risonanza magnetica per immagini? Questo che è uno sviluppo tecnologico non potrà fare altro che far avanzare le frontiere della nostra conoscenza. Con esse ci saranno altri sviluppi tecnologici che potranno consentire  ulteriori passi avanti nelle conoscenze in un ciclo senza fine.

La tecnologia che deriva dallo sviluppo scientifico non è neutra neanche nei nostri confronti. Essa influenza il nostro modo di pensare e di muoverci man mano che la utilizziamo. Faccio mie e rendo più generali le riflessioni di Nicholas Carr nel suo “Internet ci rende stupidi?”: quando facciamo uso di uno strumento, qualsiasi esso sia, il nostro cervello viene modificato. In altre parole, si modificano le nostre connessioni neuronali in modo tale da permetterci di adattarci allo strumento di cui facciamo uso. Lo sviluppo di strumenti sempre più innovativi ci porta ad una riprogrammazione continua del nostro computer interno – il nostro cervello – cosicché esso è di gran lunga differente rispetto a quello dei nostri nonni.

Pur non essendo il nostro hardware – il nostro aspetto fisico – differente da quello dei nostri antenati di 10000 anni fa, il nostro software – ovvero le connessioni neuronali nel nostro cervello – invece lo è perché si è dovuto riprogrammare progressivamente per poter adattarsi alle innovazioni avvenute nel corso dei secoli. Questa riprogrammazione richiede del tempo ed è, secondo me, quello che a Rovelli sembra il periodo di progressivo rallentamento tecnologico in cui viviamo.

La Figura 1 (fatta a mano in un rigurgito vintage scientifico) rappresenta quello che penso in merito al progresso scientifico – ovvero delle conoscenze – e tecnologico. Ogni volta che c’è una innovazione (segmenti con pendenza positiva) abbiamo bisogno di tempo per la riprogrammazione del nostro software interno (segmenti con pendenza quasi nulla). Dopo questo tempo si presentano nuove innovazioni seguite da nuovi periodi di apparente rallentamento.

Non sono un neuro-scienziato e so benissimo di essermi avventurato in un campo che non è il mio. È molto probabile che io abbia detto una serie di sciocchezze, ma è proprio questo lo scopo di queste riflessioni: intavolare una discussione proficua con chi è più esperto di me.

Immagine di copertina. Foto personale della copertina di Wired inverno 2017/18

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