Un indizio ci arriva da un curioso fenomeno psicologico, studiato qualche anno fa da un gruppo di ricercatori di Harvard e pubblicato su Science: il prevalence-induced concept change, o, per dirla in breve, la tendenza ad ampliare i confini di un concetto man mano che il problema, cui il concetto si riferiva, diventa sempre meno visibile.
Gli autori dello studio – condotto attraverso sette esperimenti su centinaia di volontari – hanno utilizzato compiti molto diversi, dai più semplici ai più complessi. In uno di questi, ad esempio, hanno mostrato ai partecipanti migliaia di puntini colorati che variavano lungo un continuum dal viola al blu e hanno chiesto, test dopo test, di stabilire se ciascun puntino fosse blu oppure no. Al diminuire del numero di puntini blu, i soggetti cominciavano a essere più inclusivi nella definizione: anche puntini che in precedenza avrebbero classificato come viola cominciavano a essere etichettati come blu.
Lo stesso schema si è ripetuto in altri contesti. Per esempio, la valutazione delle espressioni facciali tendeva ad ampliare la definizione di minacciosità quando il numero di volti realmente minacciosi diminuiva. In altre parole, i partecipanti finivano per giudicare come “minacciose” anche espressioni neutre.
Lo stesso si è osservato quando ai volontari è stato chiesto di valutare l’eticità di proposte di ricerca: quando quelle eticamente discutibili diventavano sempre meno numerose, i volontari finivano per giudicare “non etiche” perfino proposte del tutto innocue.
Insomma, al calare della frequenza del problema reale, la mente dei volontari spostava i confini della definizione, includendo dentro la categoria situazioni che in precedenza ne sarebbero rimaste fuori.
In questo vuoto di percezione, ogni piccolo segnale post-vaccinazione viene sovradimensionato. Un dolore al braccio o una febbriciattola diventano indizi di pericolo grave. Episodi rarissimi finiscono in prima pagina e assumono un peso sproporzionato rispetto all’enorme beneficio collettivo. La percezione si deforma: non vediamo più il quadro generale – la scomparsa o il contenimento di malattie mortali – ma inseguiamo il dettaglio marginale.
E qui entra in gioco la disinformazione. Basta prendere un evento raro, magari un caso clinico eccezionale, e presentarlo come se fosse frequente. L’effetto è immediato: chi legge o ascolta ha l’impressione che i vaccini siano pieni di insidie, anche se i dati mostrano l’esatto contrario. Anzi, paradossalmente la loro stessa sicurezza – dimostrata da miliardi di dosi somministrate senza conseguenze gravi – alimenta la nostra disponibilità a credere alle paure: siccome le malattie non le vediamo più, ci concentriamo sul resto.
La disinformazione, però, non è mai neutrale. C’è sempre qualcuno che ha interesse a diffonderla o, quantomeno, a cavalcarla. Cui prodest? Chi ci guadagna? A volte sono gruppi organizzati che vendono prodotti alternativi, dalle cure miracolose agli integratori “rinforzanti” da assumere al posto dei vaccini. Altre volte sono influencer e canali che cercano visibilità, like, condivisioni: la paura è un potente amplificatore di traffico. E non mancano attori politici che, agitando lo spettro di un presunto complotto, riescono a costruire consenso e identità contro il “sistema”.
Il risultato è che un successo straordinario della scienza – i vaccini che hanno ridotto poliomielite, difterite, morbillo e tante altre infezioni – rischia di apparire, nella percezione comune, come una minaccia anziché come una protezione. È l’ennesima dimostrazione che i dati, da soli, non bastano: servono anche strumenti culturali per difendersi dalla manipolazione del giudizio.
E allora, la prossima volta che qualcuno ci racconta un aneddoto allarmistico, proviamo a fermarci un istante e chiederci: sto giudicando i dati o sto cedendo a un’illusione della percezione?
Perché non sempre ciò che vediamo riflette la realtà. Spesso riflette i tranelli della nostra mente.
Ed è proprio su questi tranelli che i movimenti no-vax costruiscono la loro narrazione: ingigantiscono casi marginali, ignorano le prove scientifiche e alimentano paure che non hanno alcun fondamento. Ma i dati parlano chiaro: i vaccini salvano milioni di vite ogni anno, hanno debellato il vaiolo, ridotto la poliomielite e reso rare malattie che per secoli hanno mietuto vittime. Rifiutarli non è un atto di libertà: è un atto di incoscienza che mette a rischio non solo chi li rifiuta, ma anche chi non può vaccinarsi.
La vera libertà non è cedere a una menzogna rassicurante. La vera libertà è scegliere sulla base delle evidenze, senza farsi manipolare da chi, per interesse o ideologia, lucra sulla paura degli altri.
Uno dei cavalli di battaglia degli antivaccinisti, soprattutto durante la pandemia di Covid, è stato: “Non sappiamo cosa ci iniettano”. Una frase che sembra prudente, ma che in realtà nasconde il vuoto più assoluto. In rete, e purtroppo anche in certi palchi mediatici, si sono lette e ascoltate fandonie indegne: vaccini pieni di grafene, di materiale “fetale”, di microchip. Panzane. Bufale. Balle cosmiche spacciate per verità scomode.
Il punto è che la percezione del rischio, quando si parla di vaccini, viene distorta fino al ridicolo. Gli stessi che si indignano davanti a una fiala di vaccino non si fanno problemi ad abusare di Voltaren per un mal di schiena, di Tachipirina per un raffreddore o di Aspirina a stomaco vuoto. Farmaci che, se presi male o in dosi eccessive, hanno effetti collaterali ben documentati e tutt’altro che lievi. Ma nessuno apre gruppi Telegram per denunciare il “complotto della Tachipirina”.
E allora torniamo alle basi. La differenza tra pericolo e rischio.
Il pericolo è una proprietà intrinseca di una sostanza: la candeggina, per esempio, è pericolosa. Ma il rischio dipende dall’uso: se non la bevi, se non la respiri, la candeggina non ti ammazza. Lo stesso vale per i farmaci. Aspirina e Tachipirina hanno pericoli reali, ma li consideriamo a basso rischio perché li usiamo con buon senso.
Con i vaccini si è creata la tempesta perfetta: un farmaco nuovo, un’emergenza sanitaria mondiale e un esercito di disinformatori pronti a manipolare la paura. Eppure, i dati clinici erano chiari già nel 2021: i vaccini anti-Covid erano molto più sicuri di tanti farmaci da banco. I rischi di complicazioni gravi erano rarissimi, infinitamente inferiori rispetto a quelli legati alla malattia. Ma invece di guardare i numeri, ci si è lasciati spaventare dai fantasmi.
C’è chi liquida la pandemia come una “farsa”, chi parla di “censura” e di “virostar” in televisione. È il classico copione: invece di discutere sui dati, si attacca chi li porta. Roberto Burioni e altri virologi sono stati accusati di essere “ospiti fissi” senza contraddittorio. Ma davvero serve un contraddittorio tra chi studia i virus da decenni e chi diffonde complotti sui microchip nei vaccini? Sarebbe come chiedere di contrapporre un astrologo a un astronomo quando si parla di orbite planetarie.
La realtà è che i dati c’erano, e chiunque poteva consultarli: studi clinici, report di farmacovigilanza, pubblicazioni scientifiche. Non erano nascosti – erano ignorati. La vera censura è quella che gli antivaccinisti applicano a se stessi e ai loro seguaci: censura dei numeri, censura dei fatti, censura del pensiero critico.
Il risultato? Una percezione capovolta: farmaci familiari diventano “innocui per definizione”, mentre vaccini che hanno salvato milioni di vite vengono descritti come “veleni sperimentali”. Non è prudenza, è ignoranza travestita da saggezza.
Chiariamo una volta per tutte: i vaccini non sono perfetti, ma nessun farmaco lo è. La differenza è che i vaccini non curano soltanto: prevengono, riducono i contagi, salvano intere comunità. Attaccarli con menzogne non è opinione, è irresponsabilità sociale.
In fondo, la chimica e la farmacologia ci dicono una cosa semplice: nessuna sostanza è innocua, nemmeno l’acqua. È il contesto, la dose, l’uso che fanno la differenza. Non capirlo – o, peggio, fingere di non capirlo per ideologia – significa giocare con la salute propria e quella altrui.
Il vero pericolo, oggi, non sono i vaccini. Sono gli antivaccinisti.
vi siete mai chiesti perché si formano gli aloni gialli sotto le ascelle delle maglie chiare? È tutta questione di chimica.
Oltre alla normale igiene personale – uso di acqua e sapone – facciamo molto ricorso a quelli che chiamiamo deodoranti ascellari. In realtà, molti di essi sono deodoranti nel senso che contengono profumi che servono a coprire i cattivi odori che produciamo dopo una giornata intensa. Tuttavia, la maggior parte dei prodotti in commercio contiene anche sostanze chimiche in grado di ridurre la produzione di sudore. In altre parole, sono veri e propri antitraspiranti.
I miei amici biologi e medici mi perdonino se uso un linguaggio un po’ semplificato: il mio obiettivo qui non è fare un trattato, ma spiegare in modo chiaro ciò che accade sotto le nostre ascelle.
Il sudore: un condizionatore naturale
Innanzitutto. diciamo che il sudore ha un ruolo fisiologico molto importante. Per capire meglio, proviamo con un esempio semplice: avete mai bagnato le mani con alcol etilico in estate? Ricorderete la sensazione di fresco che si avverte subito dopo. Perché succede?
L’evaporazione di un liquido – cioè, il passaggio dalla fase liquida a quella gassosa – è un processo che richiede energia. In termini fisici, il sistema assorbe calore dall’ambiente circostante, ovvero la pelle su cui abbiamo messo l’alcol etilico: ecco perché, dopo applicazione di alcol, abbiamo una sensazione di freschezza.
Il sudore funziona allo stesso modo. È composto principalmente da acqua, che evaporando sulla nostra pelle porta via calore e ci aiuta a regolare la temperatura corporea. A questo si aggiungono sali (soprattutto cloruro di sodio), piccole quantità di proteine, lipidi e altre molecole prodotte dal metabolismo.
Da solo, il sudore non ha un odore particolarmente sgradevole. Quell’odore tipico che associamo alle “ascelle sudate” nasce in realtà dall’azione dei batteri che vivono normalmente sulla nostra pelle: essi degradano alcune delle sostanze organiche contenute nel sudore, producendo composti maleodoranti.
Il ruolo dei deodoranti e degli antitraspiranti
Ed eccoci ai deodoranti e agli antitraspiranti. Molti prodotti contengono sali di alluminio (come il cloruro o il cloridrato di alluminio), che riducono la traspirazione formando una sorta di tappo temporaneo nei dotti sudoripari. In questo modo restiamo “asciutti” più a lungo, ma si innescano anche conseguenze meno gradite per i nostri vestiti. Gli aloni gialli, infatti, non derivano semplicemente dal sudore, bensì da una vera e propria orchestra di reazioni chimiche che coinvolgono diversi attori: i sali di alluminio presenti negli antitraspiranti interagiscono con le proteine e i metaboliti azotati del sudore, generando complessi stabili dalle sfumature giallo-brune che si fissano nelle fibre del cotone. Una parte dell’ingiallimento ricorda, in scala ridotta, le reazioni di Maillard, le stesse che fanno dorare pane e biscotti: qui entrano in gioco gli amminoacidi del sudore e i carboidrati della cellulosa del tessuto, catalizzati dal calore corporeo e dalla presenza di metalli. Anche i lipidi e gli acidi grassi secreti dalle ghiandole apocrine danno il loro contributo, andando incontro a processi di ossidazione che producono composti colorati, simili a quelli che rendono irrancidito un olio da cucina. Infine, i residui organici dei deodoranti stessi – fragranze, tensioattivi, polimeri – possono degradarsi e ossidarsi, consolidando l’alone. È, in definitiva, una piccola “reazione chimica da guardaroba”, in cui si intrecciano almeno quattro sistemi: complessi metallo-proteici, reazioni zuccheri-proteine, ossidazioni lipidiche e trasformazioni dei composti organici residui.
Dall’alone al buco: la lenta agonia del cotone
C’è poi un’altra conseguenza meno evidente ma altrettanto fastidiosa: con il tempo le fibre di cellulosa del tessuto, sottoposte a sudore e residui di deodorante, tendono a irrigidirsi e a diventare fragili. Anche qui la chimica ha un ruolo chiave. I sali di alluminio si comportano come veri e propri agenti reticolanti: creano legami incrociati tra le catene della cellulosa, irrigidendo la trama del tessuto. A questo si aggiunge l’effetto dei prodotti di ossidazione del sudore e dei lipidi, che modificano la struttura superficiale delle fibre, rendendole meno elastiche e più inclini a rompersi sotto stress meccanico. È per questo che, oltre agli aloni gialli, le magliette “storiche” finiscono spesso per bucarsi proprio nella zona delle ascelle: le fibre non cedono più in modo elastico, ma si spezzano come se fossero diventate fragili.
Alochimica o chelichimica?
Traendo spunto dall’intervista impossibile a Herr Goethe, potremmo battezzare questo intreccio di reazioni quotidiane con un nome nuovo: Alochimica, la chimica degli aloni, che ci accompagna tanto nel cielo quanto nell’armadio. Il termine deriva dal greco ἅλως, “alone luminoso”, riferito agli astri. In realtà, a voler essere più precisi, dovremmo guardare a κηλίς, che significa “macchia”: da qui il possibile neologismo Chelichimica. In italiano, però, Alochimica suona più evocativo e musicale, mentre Chelichimica è forse più corretto dal punto di vista etimologico sebbene meno immediato. A voi la scelta: quale vi piace di più?
Come prevenire gli aloni (o almeno ridurli)
Alcuni semplici accorgimenti possono limitare il problema:
usare deodoranti privi di sali di alluminio (almeno a giorni alterni),
lasciare asciugare bene il prodotto prima di indossare la maglia,
lavare i capi il prima possibile dopo aver sudato,
Dietro un alone giallo c’è molta più chimica di quanto immaginiamo. È la stessa chimica che ci permette di sudare e sopravvivere al caldo, che regola l’equilibrio del nostro corpo e ci difende dallo stress termico. Ma è anche quella che, una volta trasferita sui tessuti insieme ai deodoranti, avvia una catena di reazioni che finisce per lasciare un segno visibile e, a volte, indelebile. Così una semplice maglietta bianca diventa una piccola lavagna su cui si scrivono storie di evaporazione, ossidazione, complessi metallici e fibre irrigidite.
Ecco allora che possiamo parlare, con un pizzico di ironia, di una vera e propria chimica degli aloni domestica: qualcuno la chiamerebbe Alochimica, dal greco ἅλως, “alone luminoso”; altri preferirebbero Chelichimica, da κηλίς, “macchia”. Due nomi diversi per lo stesso intreccio di reazioni quotidiane, che non si manifesta solo nel cielo quando guardiamo il sole o la luna, ma anche nel nostro armadio, tra i vestiti di tutti i giorni. Una scienza silenziosa che ci accompagna ovunque e che, a saperla leggere, trasforma persino un alone giallo sotto l’ascella in un piccolo racconto di meraviglia chimica.
Lo ammetto: come poeta non valgo molto. Niente a che vedere con Gabriele D’Annunzio, che in pochi versi seppe rendere l’acqua una creatura viva, brillante, sempre in movimento:
Acqua di monte,
acqua di fonte,
acqua piovana,
acqua sovrana,
acqua che odo,
acqua che lodo,
acqua che squilli,
acqua che brilli,
acqua che canti e piangi,
acqua che ridi e muggi.
Tu sei la vita
e sempre sempre fuggi.
“Acqua che squilli, acqua che brilli,
dacci l’ossigeno senza rovelli.”
Ma se io non sono un poeta, nel campo della chimica c’è chi riesce a fare ancora peggio di me con le parole – e soprattutto con i numeri. Nonostante la mia attività divulgativa (o forse proprio a causa di essa), mi capita ancora di imbattermi nei suggerimenti di Facebook che pubblicizzano la cosiddetta “acqua arricchita di ossigeno”, presentata come un toccasana universale.
Ora, tralasciando l’iperbole pubblicitaria, proviamo a capire: a cosa servirebbe tutta questa abbondanza di ossigeno disciolto nell’acqua.
L’ossigeno disciolto e la vita acquatica
Da un punto di vista ambientale, la presenza di ossigeno disciolto in acqua è fondamentale. I pesci, i crostacei e la maggior parte degli organismi acquatici hanno bisogno di ossigeno per vivere, proprio come noi terrestri. La differenza è che loro lo ricavano dall’acqua grazie alle branchie, mentre noi lo ricaviamo dall’aria grazie ai polmoni.
Quando un pesce respira, fa passare l’acqua attraverso sottilissime membrane branchiali: da un lato c’è l’acqua con l’ossigeno disciolto, dall’altro il sangue povero di ossigeno. Per semplice diffusione, l’ossigeno passa nelle cellule del pesce (Figura 1).
Figura 1. Meccanismo di respirazione di un pesce: l’acqua con ossigeno disciolto attraversa le branchie e, per diffusione, l’ossigeno passa nel sangue povero di O₂.
Per questo motivo, i chimici quando valutano la qualità di un’acqua non guardano solo alla sua purezza, ma anche a due parametri legati all’ossigeno:
il BOD (Biochemical Oxygen Demand), che indica quanta parte dell’ossigeno disciolto viene consumata dai microrganismi per decomporre la sostanza organica;
il COD (Chemical Oxygen Demand), che misura quanta parte dell’ossigeno è necessaria per ossidare la sostanza organica, indipendentemente dai microrganismi.
Più alti sono BOD e COD, meno ossigeno resta a disposizione degli organismi acquatici. Insomma, per un pesce l’ossigeno disciolto è questione di vita o di morte.
E per noi terrestri?
Qui arriva il punto dolente. Noi abbiamo bisogno di ossigeno come gli organismi acquatici, ma senza branchie e con un fluido diverso: i nostri polmoni catturano l’ossigeno dall’aria, lo legano all’emoglobina e lo trasportano in tutto il corpo (Figura 2). Se ci immergessimo nell’acqua tentando di respirare come un pesce, non estrarremmo neppure una molecola di ossigeno perché semplicemente non abbiamo le branchie.
Figura 2. Meccanismo della respirazione polmonare: l’ossigeno viene inspirato, catturato dai polmoni, legato all’emoglobina nei globuli rossi e trasportato in tutto il corpo.
In altre parole, l’ossigeno disciolto nell’acqua che beviamo non ci serve a nulla.
Eppure, le aziende che vendono “acqua ricca di ossigeno” promettono ogni genere di beneficio: più energia, digestione facilitata, migliore resistenza fisica, addirittura un gusto esaltato delle pietanze. Sembra quasi di leggere il bugiardino di un olio di serpente moderno.
La realtà è molto più banale: quando beviamo, l’acqua raggiunge lo stomaco e l’intestino, non i polmoni. Da lì non può passare ossigeno nel sangue: l’assorbimento avviene solo attraverso l’apparato respiratorio. Se vogliamo ossigenare i tessuti, l’unico modo resta respirare.
Quanta aria può davvero entrare nell’acqua?
La chimica ci offre uno strumento molto semplice per rispondere: la legge di Henry, secondo la quale la quantità di gas che si scioglie in un liquido dipende dalla pressione parziale del gas stesso e dalla temperatura.
Tradotto:
più alta è la pressione, più gas si può sciogliere;
più bassa è la temperatura, maggiore è la solubilità;
la presenza di altri soluti (come i sali) riduce la quantità di gas che può sciogliersi.
Per dare un numero concreto: a 25 °C e alla normale pressione atmosferica, la quantità massima di ossigeno che si può sciogliere in acqua pura è circa 8–9 milligrammi per litro. Anche spremendo al massimo le condizioni di pressione e temperatura, non si arriva certo a quantità “miracolose”. Eppure, non di rado, si trovano in rete percentuali di ossigeno disciolto così esagerate da sembrare uscite da un fumetto, ben oltre il 100%: numeri che la chimica smentisce senza appello.
Inoltre, una volta che apriamo una bottiglia di acqua “ossigenata” e la riportiamo alle condizioni di pressione e temperatura ambientali, l’ossigeno in eccesso tende a liberarsi, esattamente come accade con le bollicine di una bibita gassata. Ciò che resta, in definitiva, è una comunissima acqua potabile.
Conclusione: acqua arricchita o arricchita di marketing?
Possiamo anche saturare un litro d’acqua con più ossigeno del normale, ma quando la beviamo il nostro corpo non ne ricava alcun vantaggio: non abbiamo branchie e non possiamo estrarre ossigeno dall’acqua come i pesci.
Queste bevande, quindi, non sono altro che acqua — buona e potabile, certo — ma identica a quella del rubinetto o delle bottiglie del supermercato, con l’unica differenza che costano di più.
In sintesi: l’ossigeno per vivere continuiamo a prenderlo dall’aria. Per l’idratazione basta la normale acqua. Per il resto, fidiamoci dei nostri polmoni: sono molto più efficienti di qualsiasi “acqua ricca di ossigeno”.
Ormai i pochi lettori che mi seguono lo sanno. Sto conducendo un reportage avanti e indietro nei secoli per incontrare le figure più note e impattanti del mondo scientifico. Ho incontrato Boyle, Lavoisier, Faraday e Franklin. Ognuno di essi ha dato un’impronta impagabile allo sviluppo della scienza. Ma, come abbiamo capito dalle interviste, tutti questi personaggi erano molto eclettici: si sono interessati di tante cose, dalla letteratura alla filosofia naturale, dalla filosofia alle arti figurative fino alla politica. Ora, però, voglio cambiare prospettiva. Voglio provare a intervistare qualcuno che non era uno scienziato vero e proprio, ma aveva una mente eclettica esattamente quanto quella degli scienziati già intervistati.
Siamo nel suo studio di Weimar, tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento. Scaffali colmi di volumi di botanica, filosofia e poesia fanno da cornice a un tavolo ingombro di carte, calamai ed erbarî. Prismi di cristallo catturano la luce della finestra, mentre accanto riposano conchiglie e minerali raccolti nei suoi viaggi. Un globo e alcune mappe richiamano la sua curiosità geografica, e alle pareti schizzi di piante e figure anatomiche dialogano con disegni di architetture classiche.
Goethe mi accoglie in questo microcosmo con il suo sguardo inconfondibile: curioso, penetrante e sereno, come se in lui convivessero il poeta, il filosofo e il naturalista.
– Buongiorno Herr Goethe, lei è stato un viaggiatore indefesso ed un osservatore attento delle abitudini e degli usi delle popolazioni i cui paesi ha visitato. Celebre il suo “Viaggio in Italia”. Cosa mi dice di noi italiani?
– L’Italia fu per me rivelazione e rinascita. Vi trovai non solo la luce e i colori che nutrono l’anima, ma anche un popolo che viveva con naturalezza ciò che noi tedeschi spesso smarrivamo nella teoria: la gioia dell’arte, il gusto del convivere, l’intreccio fra bellezza e vita quotidiana. Scrissi che “qui finalmente mi sento uomo intero”, perché in Italia compresi che la cultura non è un ornamento, ma respiro stesso dell’esistenza. Ogni strada, ogni piazza, ogni rovina mi insegnava qualcosa che nessun libro avrebbe potuto contenere. E fu proprio osservando la luce che accarezzava i marmi di Roma o il cielo che si specchiava sul mare di Napoli che la mia attenzione si rivolse sempre più ai colori: non solo come fenomeni naturali, ma come linguaggio segreto della vita stessa.
– Ecco. I colori. Lei è celebrato come poeta e letterato, ma spesso viene ricordato per la sua “Teoria dei colori”. Perché?
– Perché in essa vi è la mia vera vocazione: comprendere la natura nel suo intreccio con l’esperienza umana. Newton aveva mostrato con grande rigore matematico che la luce bianca si scompone in fasci colorati; io non contesto la precisione dei suoi strumenti, ma credo che la verità della natura non si esaurisca nei calcoli. La luce non è un’entità fredda: è esperienza vissuta, è emozione. Per questo osservai i colori non solo come fenomeni fisici, ma come espressioni del rapporto fra luce e oscurità, mediate dai nostri sensi. Guardando attraverso un prisma, non vedevo angoli e raggi, ma bordi vivi, sfumature, vibrazioni che parlavano direttamente all’anima. Per me i colori sono il linguaggio segreto della natura: ci rivelano non ciò che la materia è soltanto, ma ciò che essa significa nell’esperienza umana.
– Sa che io sono uno scienziato. La mia forma mentis è molto limitata perché io vedo la luce e, quindi, i colori in modo diverso da lei. Per me rappresentano il fascino del microscopico: una danza incessante legata al movimento di fotoni ed elettroni che innescano delle reazioni chimiche non meno affascinanti attraverso cui riusciamo a vedere. Purtuttavia, la sua visione è utilizzata ancora oggi nella moderna fotografia.
– Mi rallegra sentirlo. Sì, la mia teoria dei colori ha trovato eco anche in tempi a me lontani, persino nella vostra arte fotografica. Io attribuii a ciascun colore un diverso valore di luminosità percepita: il giallo, il più radioso, lo stimai pari a nove; l’arancione a otto; il rosso e il verde a sei; il blu a quattro; e il viola a tre. Questa scala non è un gioco numerico, ma un modo per bilanciare l’occhio e l’animo. E ancora oggi, so che alcuni fotografi la utilizzano per creare armonia nelle immagini: se accostano il giallo e il viola, ad esempio, sanno che il viola deve occupare più spazio per compensare la potenza luminosa del giallo, così che l’insieme risulti equilibrato e piacevole. La fisica moderna vi parla di fotoni ed elettroni, ma io volevo ricordare che i colori non sono soltanto reazioni della materia: sono emozioni visive, proporzioni di bellezza, strumenti per parlare all’anima. È per questo che i fotografi e gli artisti ancora oggi vi trovano un valore, al di là dei vostri schemi tecnici come RGB o CMYK.
– Quello che lei dice è molto evocativo. Mi viene in mente un fisico moderno, Richard Feynman, premio Nobel per la fisica, noto non solo per le sue scoperte ma anche per la capacità di comunicare la scienza con passione. Egli sosteneva che la bellezza della natura non diminuisce con la conoscenza scientifica, ma anzi cresce: più comprendiamo i meccanismi profondi, più aumenta la meraviglia. Lei, Herr Goethe, come guarda a questa idea di bellezza che nasce dall’intreccio tra conoscenza e stupore?
– Ah, Feynman… un uomo di straordinaria vivacità d’intelletto, mosso da una passione per la scoperta che è di per sé poeta, seppure nel linguaggio dei numeri e delle particelle. Mi risuona particolarmente quel titolo che gli fu dedicato: Il piacere di scoprire. Perché il sapere non è solo una cattura della verità, ma una danza gioiosa nell’ignoto. Ho letto che egli sosteneva che più si scopre, più aumenta la meraviglia, il mistero, l’ammirazione stessa per quel che ci circonda, e che nutriva una profonda onestà intellettuale, pronta a confessare l’ignoranza quando necessario. Un tratto raro: riconoscere che il sapere vero richiede non solo logica, ma stupore. Feynman vedeva nella bellezza della natura – nei suoi schemi eleganti, nelle sue leggi sorprendenti – non una decorazione, ma una guida. Credeva che in questo universo il sapere ci spalancasse la bellezza, rendendo la realtà non meno incantata dell’immaginazione stessa. Io, che ho brandito il pennino e il prisma con pari fervore, comprendo bene: la bellezza non è accessoria nella scienza, ma è segno di quel respiro vitale che lega il cuore dell’uomo alla natura. Feynman la cercava nei grafici, nei calcoli, nelle particelle – io la cercavo nei colori, nei versi, nei fiori –, ma entrambi sognavamo lo stesso: un sapere che fosse anche stupore.
– Herr Goethe, lei non si limitò a osservare i colori. Nei suoi studi botanici parlò anche della “metamorfosi delle piante” e dell’idea di una pianta originaria, la Urpflanze. Che cosa intendeva?
– Io vedevo nelle forme vegetali un principio unitario: foglie, fiori, sepali non erano che metamorfosi di un’unica idea, varianti di una stessa forma primordiale. La chiamai Urpflanze, la pianta originaria. Non la immaginavo come un oggetto reale da trovare in natura, ma come un archetipo che spiega la molteplicità delle forme. Per me, la scienza non era contare petali o descrivere radici, ma cogliere il ritmo profondo della trasformazione. E ancora una volta, ciò che vale per le piante vale anche per la vita umana: cambiamo forma, ma restiamo sempre.
– Il suo eclettismo culturale l’ha portata ad essere viaggiatore, osservatore di popoli e costumi, studioso della natura, fisico e persino chimico. Proprio dalla chimica nasce una delle sue opere più celebri, “Le affinità elettive”. Vuole raccontarci come la scienza si è trasformata in letteratura?
– Nella chimica del mio tempo, il concetto di “affinità” era centrale: le sostanze non si univano a caso, ma seguivano attrazioni precise, come se fossero chiamate l’una dall’altra da un segreto magnetismo. Io vi scorsi un’immagine potente dell’animo umano. Così nacque Le affinità elettive: un romanzo, certo, ma anche un esperimento, in cui gli uomini e le donne diventano elementi di una reazione. Ogni personaggio, come una sostanza, porta con sé un potenziale nascosto che, al contatto con un altro, si libera irresistibile. Lì non c’è solo passione, ma una sorta di legge naturale che governa i rapporti, spesso al di là della nostra volontà. È la stessa forza che nel laboratorio unisce acidi e basi, sali e metalli: un dramma di attrazioni e separazioni. Scrivendo quel libro, non intendevo soltanto raccontare un amore impossibile: volevo mostrare che l’uomo non è separato dalla natura. Le leggi chimiche che osserviamo nelle fiale e nei crogioli parlano anche dei nostri legami più intimi. Scienza e poesia, qui, non si contraddicono: si specchiano l’una nell’altra.
– La sua è una visione alquanto atipica se la confrontiamo con la mentalità chimica moderna, improntata principalmente alla razionalità esasperata. Tuttavia, anche se in modo atipico, lei anticipava l’idea del legame chimico.
– È vero, la mia prospettiva era insolita, ma non priva di fondamento. Nelle Affinità elettive non cercavo di descrivere reazioni in un manuale di laboratorio: volevo mostrare come dietro ogni legame, sia esso tra molecole o tra persone, si celino forze invisibili e potenti. Noi amiamo credere di governare sentimenti e decisioni, ma spesso siamo come elementi che obbediscono a una necessità silenziosa: l’attrazione, il desiderio, la passione. In questo senso, sì, ho anticipato l’idea del legame chimico, ma ho anche voluto suggerire che la chimica non parla solo dei flaconi e dei crogioli, parla anche di noi. È il linguaggio della natura che, con regole misteriose, unisce e separa.
– Herr Goethe, dalle sue parole emerge che per lei la scienza non è mai stata separata dalla vita, dall’arte e dalla poesia. Oggi invece si tende a distinguere nettamente: da un lato le discipline scientifiche, dall’altro quelle umanistiche. Si parla molto di lauree STEM, considerate essenziali, mentre filosofia, letteratura e storia vengono spesso relegate a orpelli marginali. Lei che visione avrebbe di questo rapporto tra saperi?
– Vede, la separazione che oggi amate tracciare tra “scienze” e “umanesimo” mi pare una povertà più che una conquista. La natura non si lascia prendere tutta con il goniometro, né tutta con la lira: chiede entrambe le mani. Con una misurate, con l’altra interpretate. Se togliete il pensiero storico, la lingua, l’etica, la filosofia, la scienza diventa un calcolo senza criterio; se togliete l’osservazione e il metodo, la cultura diventa parola senza mondo. Io stesso non conobbi confini: la Farbenlehre (Teoria dei colori, N.d.A.) nacque da esperimenti e da sguardo educato alle arti; la Urpflanze (La metamorfosi delle piante, N.d.A.) è insieme ipotesi morfologica e immagine poetica; le Affinità elettive prendono dalla chimica una legge di attrazioni e la restituiscono alla vita. Questo non è un capriccio: è il modo in cui la verità si rivela, per metamorfosi, passando da forma a forma senza perdere l’unità. Capisco l’utilità dell’iperspecializzazione: costruisce strumenti fini. Ma gli strumenti, senza un orizzonte, diventano padrini di illusioni. Non crediate che una laurea STEM immunizzi dal delirio: nel vostro secolo ho visto giganti cadere in tentazioni di pensiero ristretto. Pauling innamorato della vitamina C come panacea; Montagnier sedotto dalla “memoria dell’acqua”; Mullis nel negare la relazione fra HIV e AIDS; Watson che piega la biologia a pregiudizi razziali; Zichichi che confonde devozione e prova; Rubbia che sottrae all’uomo la responsabilità del clima. Tutti uomini d’abilità somma! Dunque, non è la tecnica a salvare dall’errore, ma l’ampiezza dell’animo e della mente: capacità di dubitare, di ascoltare i dati e la loro storia, di dare alle parole il peso che meritano. Ricordate: Aristotele fu osservatore prima che sistema; il basso Medioevo, con scuole e traduzioni, preparò il Rinascimento; Galileo non sorge in un deserto, ma in una tradizione che impara a interrogare la natura con esperimenti e con lingua. L’umanesimo scientifico, come oggi lo chiamate, non è un compromesso tiepido: è un principio di fecondità. Date al giovane scienziato algebra e Omero, laboratorio e biblioteca; insegnategli a descrivere con precisione e a chiamare per nome ciò che vede; abituatelo alla bellezza, perché la bellezza è un indizio di ordine, non un fronzolo. La mia massima, se volete, è semplice: lasciate che il prisma e la poesia stiano sullo stesso tavolo. Il primo separa per capire; la seconda ricongiunge per comprendere. Solo così la conoscenza non si fa arrogante e l’incanto non si fa cieco. E la luce – che per Newton si scompone e per me si vive – potrà finalmente illuminare anche gli occhi che la guardano.
– In parole ancora più chiare: come si costruisce un pensiero robusto, secondo lei?
– Un pensiero robusto non nasce mai da un sapere unico, ma dall’intreccio di molti. La matematica vi insegna il rigore, il latino e il greco vi danno la radice delle parole con cui pensate, la poesia vi educa a cogliere sfumature, la storia vi ricorda che non siete soli né primi nel tempo. Chi poi sceglie di specializzarsi deve farlo, certo, ma portando con sé questa ricchezza: è ciò che impedisce all’esperto di diventare cieco al di fuori del suo piccolo campo. Non si tratta di “decorazioni”, ma di fondamenta. Perché un sapere che non sa parlare la lingua dell’altro si impoverisce e si espone all’errore. La scienza senza immaginazione diventa meccanica; l’arte senza conoscenza diventa vuota. Persino nei vostri tempi avete coniato un termine curioso, tricochimica: la chimica del capello. Ebbene, perfino un capello, se osservato con attenzione, può rivelare storie di bellezza, di salute, di vita quotidiana. Questo mi conferma che ogni dettaglio, anche il più minuto, può diventare punto d’incontro fra scienza e umanesimo, se lo si guarda con occhi capaci di vedere oltre la superficie. Un pensiero robusto nasce quando la precisione dei numeri incontra la profondità delle parole, la memoria della storia e perfino i segreti nascosti in un filo di capelli. È allora che lo specialista diventa anche cittadino del mondo: capace non solo di misurare, ma di comprendere.
– Cosa direbbe oggi a un giovane che si avvicina alla scienza?
– Direi: non guardare la natura come un oggetto da dominare, ma come una sorella da comprendere. Coltiva la ragione, ma anche l’immaginazione e la memoria storica: i numeri sono fondamenta, ma senza poesia diventano pietre fredde. Ricorda che ogni scoperta non è solo conquista, ma anche responsabilità. Perché la luce che illumina il mondo non è completa se non illumina anche gli occhi che la vedono, e il cuore che li guida.
L’intervista è finita. Mi sento frastornato e insieme illuminato dalla grandezza della mente di Herr Goethe. Ci stringiamo la mano e mi allontano lungo le strade di Francoforte sul Meno. E mentre penso alle sue parole, che mi serviranno come linee guida per quello che mi resta ancora da vivere, mi preparo all’incontro con l’infinito…
Chiunque navighi un po’ sui social sa che prima o poi finirà per imbattersi in una teoria del complotto. Le scie chimiche, il 5G, i vaccini, società segrete che tirerebbero i fili del mondo: racconti affascinanti che spesso viaggiano più veloci delle notizie verificate. A volte fanno sorridere, altre volte mettono i brividi. Ma il punto interessante è un altro: perché sembrano così attraenti? E perché, nonostante viviamo nell’epoca della massima disponibilità di informazioni, hanno tanto successo?
Che cos’è una teoria del complotto
Una teoria del complotto non è semplicemente un sospetto o un dubbio legittimo. È un racconto strutturato, che propone una spiegazione alternativa di eventi complessi attribuendone la responsabilità a un gruppo ristretto e potente che agirebbe nell’ombra. In sé, l’idea di complotto non è assurda: la storia è piena di trame segrete e accordi illeciti che hanno avuto un impatto reale. Basti pensare al Watergate negli Stati Uniti o a Tangentopoli in Italia, episodi che hanno mostrato come politici e imprenditori possano effettivamente cospirare per i propri interessi.
La differenza fondamentale tra un complotto reale e una teoria complottista sta nelle prove. Nel primo caso disponiamo di documenti, testimonianze, indagini giornalistiche e processi che permettono di ricostruire i fatti. Nel secondo, invece, le “prove” sono spesso vaghe: interpretazioni arbitrarie o coincidenze cucite insieme in un’unica trama.
Come si è visto, nella nostra lingua il termine complotto viene usato in entrambi i sensi, generando ambiguità. Una distinzione più chiara sarebbe parlare di cospirazione quando ci riferiamo a eventi storici reali e documentati, e riservare l’espressione teoria del complotto ai racconti speculativi privi di fondamento.
Indipendentemente dal lessico scelto, resta il fatto che il fascino delle teorie complottiste non nasce dalla loro solidità logica, ma dalla loro capacità di trasformare frammenti sparsi in storie suggestive e coinvolgenti.
Psicologia dei complotti: perché ci crediamo
Molti studiosi hanno mostrato come le teorie del complotto facciano leva su meccanismi profondi della nostra mente. Uno dei più radicati è la tendenza a riconoscere schemi anche dove non ci sono: è ciò che lo psicologo Michael Shermer ha chiamato patternicity. Collegare eventi casuali in una trama coerente ci dà l’impressione di capire meglio il mondo, anche quando in realtà stiamo solo costruendo connessioni inesistenti.
Un altro ingrediente che contribuisce al successo dei complotti è quello che gli psicologi David Dunning e Justin Kruger hanno descritto ormai più di vent’anni fa: il cosiddetto effetto Dunning-Kruger. Si tratta della tendenza, molto diffusa, delle persone con competenze limitate a sopravvalutare le proprie conoscenze. Chi conosce poco un argomento non ha gli strumenti per valutare la propria ignoranza e finisce per sentirsi molto più competente di quanto sia.
Sui social media questo fenomeno è evidente: chi non ha una formazione scientifica solida può mostrarsi estremamente sicuro di “aver capito” meccanismi complessi che, in realtà, studiosi con anni di esperienza trattano con cautela. È la paradossale sicurezza di chi sa poco, contrapposta al dubbio metodico di chi sa di più.
Quando la sovrastima di sé si unisce alla scarsa comprensione dei contenuti complessi, il terreno è fertile per i complotti. Una spiegazione semplice, anche se sbagliata, risulta più convincente di una realtà intricata che richiede studio e pazienza per essere compresa.
Così, una voce marginale può crescere rapidamente fino a diventare un fenomeno di massa. Le comunità online che si formano intorno a queste narrazioni funzionano come camere dell’eco: chi ne fa parte trova continuamente conferme, rafforzando la propria convinzione e allontanandosi progressivamente da fonti alternative. L’effetto è quello di una polarizzazione crescente, dove chi prova a introdurre dubbi o dati correttivi viene percepito come un nemico o un ingenuo “complice del sistema”.
I complotti possono minare la fiducia nelle istituzioni democratiche, spingere le persone a rifiutare dati scientifici fondamentali – come quelli sul cambiamento climatico – e perfino fomentare conflitti sociali. Non mancano esempi in cui comunità online complottiste hanno alimentato forme di odio, radicalizzazione e violenza. In fondo, ogni complotto funziona un po’ come una lente distorta: divide il mondo in “noi” e “loro”, i pochi illuminati contro i tanti manipolati, creando una frattura che si allarga nella società reale.
A questo punto, il discorso si sposta su un piano più profondo: quello epistemologico, cioè del modo in cui costruiamo e valutiamo la conoscenza. Qui il pensiero di Evandro Agazzi, filosofo della scienza che ha riflettuto molto sul rapporto tra razionalità e verità, può essere illuminante. Agazzi distingue tra razionalità critica e sfiducia generalizzata.
La differenza è sottile, ma decisiva. La scienza vive della prima, mentre le teorie complottiste prosperano sulla seconda. In altre parole, non è lo spirito critico a generare complotti, ma la sua caricatura: una sfiducia cieca che porta a credere solo a ciò che si adatta al proprio pregiudizio.
Conclusione: la verità è meno spettacolare, ma più solida
Ridicolizzare chi crede ai complotti è una tentazione comprensibile, ma spesso controproducente. Le persone finiscono per sentirsi attaccate e si rifugiano ancora di più nelle proprie convinzioni. È più utile capire i meccanismi che portano a credere in certe narrazioni e proporre alternative: una buona educazione al pensiero critico, la capacità di distinguere tra scetticismo sano e sfiducia totale, la diffusione di una cultura scientifica accessibile ma rigorosa.
La verità, ammettiamolo, non avrà mai il fascino di un grande intrigo segreto: non promette trame lineari né colpi di scena spettacolari. È frammentaria, complessa, a volte persino noiosa. Ma ha un vantaggio che nessun complotto inventato può vantare: resiste al tempo. L’ombra seducente dei complotti svanisce alla luce dei fatti, e alla lunga, è sempre quella luce a illuminare la strada.
È da tanto tempo che mi interrogo sulle enormi differenze culturali che esistono tra gli Stati Uniti e l’Europa. Gli USA sono sempre stati l’emblema della realizzazione dei sogni più audaci. Io stesso ho una parte della mia famiglia dislocata in diversi stati di quel paese: persone che sono emigrate per inseguire i propri sogni e realizzare una vita migliore rispetto a quella che avrebbero avuto in Italia. A questo aggiungiamo pure il fatto che gli USA hanno contribuito notevolmente alla liberazione del nostro Paese dal nazi-fascismo, lasciando un segno profondo e positivo nella nostra storia collettiva.
Eppure, proprio questo contrasto tra l’immagine luminosa dell’America dei sogni e alcune sue ombre mi ha sempre colpito. Pur riconoscendo la vitalità e l’influenza americana, non ho mai potuto ignorare una contraddizione: come può un Paese che mantiene la pena di morte proporsi come esempio di libertà e democrazia? Una domanda che diventa ancora più urgente se pensiamo alla qualità — talvolta pirandelliana — della sua classe politica attuale.
Ma c’è un altro aspetto che rende gli Stati Uniti culturalmente distanti dall’Europa: la forte coscienza religiosa che attraversa la società americana. Secondo il Pew Research Center (2025), più del 60% degli adulti si definisce cristiano, quasi la metà prega quotidianamente e un terzo frequenta regolarmente i servizi religiosi. Oltre l’80% dichiara di credere in Dio o in una forza spirituale, e circa due terzi affermano che la religione ha un ruolo importante nella propria vita. Numeri che mostrano come la religione, pur in un contesto di crescente pluralismo e presenza di “non affiliati”, rimanga un pilastro dell’identità nazionale e della vita pubblica.
È proprio da qui che parte la mia riflessione: come spiegare una divergenza così marcata tra due rami dello stesso ceppo culturale occidentale, Europa e Stati Uniti? Una divergenza che, a ben vedere, somiglia molto a un processo di speciazione culturale.
Nota a margine:
Non sono un sociologo né un filosofo. Questo articolo non pretende quindi rigore accademico in quei campi: è piuttosto una riflessione personale che nasce dal mio sguardo di scienziato applicato a un terreno diverso dal solito.
Un’analogia evolutiva per capire la divergenza religiosa
In biologia evolutiva, quando una popolazione viene separata da una barriera naturale, inizia spesso un processo detto speciazione allopatrica. Isolate in ambienti diversi, le popolazioni non condividono più le stesse pressioni selettive e, col tempo, accumulano differenze genetiche e comportamentali.
Un esempio classico riguarda le lucertole mediterranee (Podarcis siculus). Studi condotti su popolazioni introdotte artificialmente in piccole isole dell’Adriatico e del Tirreno hanno mostrato cambiamenti sorprendenti in poche decine di generazioni. Alcuni gruppi hanno sviluppato crani più robusti e mascelle più larghe, adattamenti che permettono di sfruttare risorse alimentari diverse, come piante e semi in aggiunta agli insetti. In parallelo, è comparsa una maggiore lunghezza dell’intestino, necessaria per digerire materiale vegetale più fibroso. Anche la colorazione della pelle è cambiata, diventando talvolta più scura o con disegni differenti, per mimetizzarsi meglio nei nuovi ambienti (Figura 1). Persino i comportamenti sociali hanno subito modifiche: in alcune popolazioni si è osservata una minore aggressività territoriale, probabilmente favorita dalla necessità di condividere risorse limitate.
Stessa origine, dunque, ma adattamenti diversi: la spinta selettiva di ambienti distinti ha prodotto fenotipi riconoscibilmente differenti, pur restando nello stesso genere.
Questa immagine si presta bene a descrivere — in senso metaforico — la divergenza culturale tra Europa e Stati Uniti, in particolare nel rapporto tra religione e vita pubblica.
Figura 1. Confronto morfologico tra popolazioni di Podarcis siculus. A sinistra, la popolazione originaria, con testa più slanciata e dieta prevalentemente insettivora; a destra, la popolazione insulare divergente, con cranio più robusto, mascelle potenti e adattamenti digestivi che consentono una dieta più ricca di materiale vegetale. Immagine generata con l’ausilio di ChatGPT.
Radici comuni
Europa e Stati Uniti condividono un patrimonio culturale di partenza che può essere visto come il terreno comune da cui sono germogliate due piante destinate a crescere in direzioni diverse. Alla base vi è la tradizione giudaico-cristiana, che per secoli ha fornito il linguaggio morale e simbolico con cui interpretare il mondo. A questo si aggiungono le grandi eredità giuridiche: da un lato il diritto romano, con le sue strutture codificate che hanno dato stabilità e ordine alle società europee, dall’altro il diritto anglosassone, fondato più sulla prassi e sul precedente che sulla norma scritta, ma capace di influenzare profondamente la nascente America. Infine, non si può dimenticare l’Illuminismo europeo, che con la sua enfasi sulla libertà, la razionalità e la fiducia nel progresso ha fornito l’impalcatura intellettuale di quella che chiamiamo modernità.
Su queste basi comuni, Europa e Stati Uniti hanno costruito la loro civiltà. Alexis de Tocqueville, osservatore attento della giovane democrazia americana, aveva già colto nel XIX secolo un aspetto sorprendente: negli Stati Uniti la religione non si contrapponeva alla libertà, ma la sosteneva. La fede, lungi dall’essere vista come un ostacolo, era parte integrante della vita pubblica, un collante che dava senso e coesione alle comunità. In Europa, invece, la stessa radice religiosa si intrecciava spesso con i poteri monarchici e con istituzioni secolari, generando conflitti e suscitando movimenti di contestazione. Così, pur partendo dallo stesso ceppo culturale, i due continenti hanno cominciato a prendere strade diverse, guidati da ambienti storici e politici che avrebbero portato a esiti divergenti.
L’“habitat” europeo: secolarizzazione
In Europa, per molti secoli, la religione non è stata solo una questione di fede personale ma una vera e propria istituzione politica. Papi, vescovi e chiese nazionali hanno avuto un ruolo determinante non solo nell’orientare la vita spirituale, ma anche nel decidere le sorti di regni e imperi. Basti pensare all’alleanza tra trono e altare: i sovrani traevano legittimità dalle benedizioni ecclesiastiche, mentre le chiese godevano di privilegi e potere grazie alla protezione dei monarchi.
Questa vicinanza al potere secolare, però, ha avuto un effetto collaterale importante: quando le istituzioni religiose si sono mostrate troppo oppressive o conservatrici, sono diventate il bersaglio diretto delle contestazioni. La Riforma protestante del Cinquecento, la Rivoluzione francese con la sua spinta anticlericale, il Risorgimento italiano con la lotta al potere temporale del papato: tutti momenti in cui la religione istituzionalizzata è stata percepita come un ostacolo al cambiamento.
Secondo il sociologo Peter Berger e altri teorici della secolarizzazione, questo processo si è intensificato con la modernità. Con l’avanzare delle rivoluzioni industriali e sociali, lo Stato ha progressivamente assorbito molte delle funzioni che un tempo erano affidate alle chiese: l’educazione dei giovani, l’assistenza ai poveri, la cura dei malati. Ciò che un tempo era prerogativa religiosa è diventato un compito dello Stato moderno e, più tardi, dello Stato sociale.
Il risultato è che, in gran parte dell’Europa occidentale, la religione ha perso centralità pubblica. Non è scomparsa, ma si è ritirata sempre di più nella sfera privata, diventando per molti individui una scelta personale, senza più un ruolo decisivo nella vita politica e civile. In alcuni Paesi, come la Francia, questa separazione è stata addirittura sancita come principio fondante: la laïcité non solo separa lo Stato dalla religione, ma diffida dell’ingerenza del religioso nello spazio pubblico.
In altre parole, l’habitat europeo ha favorito un processo di secolarizzazione profondo: la religione resta come radice culturale e tradizione, ma la sua influenza quotidiana sulla vita politica e sociale si è progressivamente attenuata.
L’“habitat” americano: pluralismo religioso
Negli Stati Uniti il contesto era profondamente diverso da quello europeo. Molte delle colonie furono fondate da gruppi di dissidenti religiosi in fuga dalle persecuzioni del Vecchio Mondo. Per questi coloni la religione non era un apparato di potere che controllava le coscienze, ma la ragione stessa della loro ricerca di libertà. Questo tratto originario rimase impresso a lungo nella mentalità americana: la fede come esperienza di emancipazione, non come vincolo.
La Costituzione, con il Primo Emendamento, proibì esplicitamente l’istituzione di una religione di Stato. Questa scelta non indebolì la fede, anzi: permise a ciascuna comunità di vivere la propria religiosità senza interferenze governative, creando un terreno fertile per la nascita di un pluralismo religioso senza precedenti. In America non c’era una chiesa nazionale, ma decine, poi centinaia di chiese e denominazioni, tutte in competizione fra loro per attirare fedeli.
Il sociologo Max Weber sottolineò come l’etica protestante, con il suo richiamo al lavoro, alla sobrietà e alla responsabilità individuale, avesse alimentato lo spirito del capitalismo. Negli Stati Uniti questa connessione si manifestò con particolare intensità: il successo economico non era visto solo come un traguardo terreno, ma anche come segno di benedizione divina.
Questa vitalità è stata spiegata, in tempi più recenti, con la cosiddetta teoria del “mercato religioso” proposta da Rodney Stark: la competizione fra chiese funziona come un motore che mantiene viva la religione. Ogni comunità deve offrire qualcosa – un senso di appartenenza, servizi di sostegno, attività culturali e caritative – per convincere le persone a farne parte. In questo modo, le chiese americane sono diventate non solo luoghi di culto, ma veri centri di socialità, di solidarietà e persino di mobilitazione politica. Un esempio famoso è quello delle Chiese battiste afroamericane, che hanno avuto un ruolo decisivo nel movimento per i diritti civili guidato da Martin Luther King.
A questa dimensione comunitaria si aggiunge un altro elemento: la religione si è intrecciata con il mito fondativo della nazione. L’idea del manifest destiny, la convinzione che il popolo americano avesse una missione speciale da compiere, quasi un disegno provvidenziale, ha trasformato la fede in un elemento di legittimazione patriottica. Essere religiosi, in America, ha significato per lungo tempo non solo credere in Dio, ma anche sentirsi parte integrante del destino nazionale.
Così, mentre in Europa la religione perdeva influenza pubblica, negli Stati Uniti la fede diventava parte della vita civile e politica, contribuendo a forgiare un’identità collettiva che ancora oggi resta profondamente segnata dal riferimento religioso.
Divergenze oltre la religione: giustizia e punizione
Le differenze tra Europa e Stati Uniti non si fermano al rapporto con la religione: emergono anche in altri campi fondamentali della vita collettiva. Uno degli ambiti più significativi è quello della giustizia penale.
Negli Stati Uniti, il sistema giudiziario conserva una forte impronta punitiva. Le pene sono spesso pensate in termini di deterrenza e vendetta sociale: l’idea è che chi ha commesso un crimine debba “pagare” in modo esemplare, così da scoraggiare altri a seguire la stessa strada. È in questo contesto che si spiega la persistenza della pena di morte in diversi Stati della federazione, una pratica che in Europa è ormai vista come inaccettabile. La carcerazione di massa, con pene molto lunghe e spesso inflessibili, riflette la stessa mentalità.
In Europa – e in Italia in particolare – prevale invece un approccio diverso, che affonda le radici nella tradizione giuridica e umanistica del continente. Le pene non vengono pensate soltanto come retribuzione o vendetta, ma soprattutto come strumenti di recupero e reinserimento del reo nella società. La Costituzione italiana, all’articolo 27, è molto chiara: le pene devono tendere alla rieducazione del condannato. È un principio che, almeno nelle intenzioni, sposta l’attenzione dalla punizione alla possibilità di cambiare, di ricostruire un percorso di vita.
Questa differenza riflette due mentalità culturali distinte: da un lato un approccio più pragmatico e spesso implacabile, dall’altro una visione che si richiama a valori di umanesimo e di fiducia nel cambiamento dell’individuo. Due modi diversi di intendere la giustizia, nati da radici comuni ma plasmati da storie, società e sensibilità culturali differenti.
Le radici storiche: la frontiera americana
Per capire da dove nasca questa diversa concezione della giustizia, bisogna guardare alle origini della società americana. I coloni che lasciarono l’Europa si trovarono immersi in un ambiente percepito come selvaggio e ostile, privo delle istituzioni consolidate del Vecchio Continente. La sopravvivenza dipendeva dall’autorganizzazione delle comunità e dalla capacità di difendere le risorse con fermezza. In questo contesto, la legge non era tanto uno strumento di recupero, quanto un mezzo immediato per mantenere l’ordine e scoraggiare i trasgressori.
Lo storico Frederick Jackson Turner, con la sua celebre Frontier Thesis, ha descritto la frontiera americana come il laboratorio in cui si è forgiata l’identità nazionale: un confine mobile, sempre da conquistare, dove individualismo, pragmatismo e uso della forza diventavano virtù necessarie. Col tempo, questa esperienza ha lasciato un’impronta culturale duratura: l’idea che la giustizia debba essere severa, esemplare, capace di garantire sicurezza prima ancora che rieducazione. Non è un caso che ancora oggi il linguaggio politico statunitense evochi con forza il motto law and order.
In termini evolutivi, si potrebbe dire che la “frontiera” abbia agito come una barriera ecologica: lo stesso patrimonio culturale europeo, trapiantato in un nuovo habitat, ha dovuto adattarsi a condizioni radicalmente diverse. Così, come accade alle popolazioni animali separate da un ostacolo geografico, anche qui i tratti originari hanno preso strade divergenti: da una parte, in Europa, l’orientamento verso la rieducazione e il recupero; dall’altra, in America, una giustizia temprata dal bisogno di sopravvivere in un mondo percepito come incerto e pericoloso.
Religione e giustizia: due volti della stessa divergenza
Se osserviamo insieme il ruolo della religione e quello della giustizia, emerge con chiarezza come entrambi riflettano la stessa logica di adattamento agli ambienti originari. In Europa, dove le istituzioni erano antiche, stratificate e spesso intrecciate con il potere politico, la religione ha finito per secolarizzarsi e la giustizia per assumere un volto rieducativo, più attento all’individuo che alla punizione. Negli Stati Uniti, al contrario, la condizione della frontiera ha richiesto comunità coese, capaci di trovare forza e identità nella religione, e leggi dure che garantissero l’ordine in un contesto incerto.
Religione e giustizia, dunque, non sono ambiti separati, ma due espressioni dello stesso processo di divergenza culturale. Come in natura popolazioni della stessa specie, poste in habitat diversi, sviluppano tratti distinti per sopravvivere, così i due rami del ceppo occidentale hanno maturato risposte differenti: in Europa l’indebolimento dell’autorità religiosa e la fiducia nel recupero del reo, in America la vitalità delle comunità di fede e un sistema penale improntato alla severità. Due adattamenti diversi, nati da un’origine comune ma selezionati da ambienti culturali opposti.
Divergenze accumulate
Nel corso dei decenni, Europa e Stati Uniti hanno seguito traiettorie culturali sempre più distinte, proprio come popolazioni isolate che, pur partendo dallo stesso ceppo, si adattano in modi diversi. Oggi, in Europa molti percepiscono la religione come una scelta privata, che ha perso parte della sua influenza pubblica e politica. Le politiche secolari, l’emergere di una sfera laica e il calo della partecipazione religiosa hanno ridisegnato il ruolo della fede nella vita civile.
I numeri confermano questa trasformazione. In base ai dati Eurobarometer, circa il 64% degli europei si identifica come cristiano, ma una parte significativa – tra il 17% e il 27%, a seconda dei Paesi – si dichiara non religiosa o agnostica. In Italia, ad esempio, il 74% dei cittadini crede in un qualche Dio, mentre il 6% esplicitamente nega l’esistenza di una forza spirituale.
Negli Stati Uniti, invece, la religione continua a svolgere un ruolo di grande visibilità pubblica. Circa il 62% degli adulti si definisce cristiano, con un 29% che si descrive come «non affiliato» (agnostico, ateo o “niente in particolare”). Le pratiche religiose sono inoltre più radicate: circa il 44% delle persone prega quotidianamente e il 33% partecipa mensilmente ai riti religiosi. Questo divario si osserva anche nell’intensità della spiritualità: negli USA una forte maggioranza crede in un’anima, in un anteriore all’esistenza e in una forza divina oltre il tangibile.
In sintesi, mentre in gran parte dell’Europa la religione tende a essere vissuta in modo più simbolico, culturale o rituale – spesso relegata alla sfera privata – negli Stati Uniti continua a rappresentare un ingrediente centrale dell’identità nazionale, della politica, del senso civico. È una distinzione che riflette quella “speciazione culturale” di cui parliamo: due rami evolutivi dello stesso albero, plasmati da ambienti storici diversi, che hanno prodotto adattamenti profondi e duraturi.
Una speciazione incompleta
Nonostante le differenze accumulate nei secoli, Europa e Stati Uniti non possono essere considerati due mondi del tutto separati. Entrambi restano parte dello stesso “genoma culturale occidentale”, fatto di valori condivisi, scambi continui e una rete fitta di influenze reciproche. La scienza, ad esempio, parla una lingua comune su entrambe le sponde dell’Atlantico: università, laboratori e centri di ricerca collaborano costantemente, dando vita a scoperte che appartengono a un patrimonio globale. Lo stesso si può dire per la tecnologia, per il diritto internazionale e persino per la cultura popolare: cinema, musica, letteratura e moda circolano senza confini, creando un immaginario collettivo in cui è difficile distinguere ciò che è nato a Los Angeles da ciò che è stato elaborato a Berlino o a Parigi.
Eppure, dentro questo fondo comune, la divergenza sul ruolo pubblico della religione resta marcata. In Europa il processo di secolarizzazione ha portato le istituzioni a dichiararsi neutrali, quando non apertamente diffidenti verso ogni ingerenza del religioso nella sfera politica. Negli Stati Uniti, invece, la religione continua a presentarsi come una forza vitale e pluralista: non un ostacolo, ma un elemento che alimenta identità, comunità e perfino legittimazione politica. Si tratta, in un certo senso, di una speciazione incompleta: due rami dello stesso albero che, pur riconoscendosi affini e dialogando costantemente, hanno ormai sviluppato tratti distintivi difficilmente reversibili.
Conclusione
L’Atlantico, più che un oceano, ha agito come una barriera evolutiva. Dalle stesse radici culturali sono nate due traiettorie distinte: da un lato un’Europa che ha progressivamente secolarizzato le proprie istituzioni, relegando la religione a fatto privato; dall’altro un’America in cui la fede è rimasta vitale, competitiva e parte integrante della sfera pubblica.
La metafora evolutiva ci aiuta a capire che queste differenze non sono il frutto di superiorità o arretratezza, ma di ambienti diversi che hanno selezionato tratti diversi. Come accade alle specie animali, che pur condividendo un antenato comune sviluppano adattamenti peculiari in risposta al proprio habitat, così Europa e Stati Uniti hanno maturato risposte divergenti alle sfide della modernità.
Eppure, nonostante queste distanze, i due mondi non sono estranei l’uno all’altro. La scienza, la tecnologia, l’economia globale, la cultura pop e i sistemi politici continuano a intrecciarsi in mille modi. Si può dire che Europa e America appartengano ancora allo stesso ecosistema, anche se i loro fenotipi culturali sono ormai chiaramente distinti.
In definitiva, due rami dello stesso albero hanno imparato a vivere in mondi separati, ma restano legati da una radice comune. Capire questa “speciazione incompleta” non significa scegliere quale modello sia migliore, ma riconoscere la ricchezza della diversità culturale e imparare a leggerla come il risultato di storie, ambienti e adattamenti differenti. È forse proprio in questa pluralità di percorsi che risiede la forza dell’Occidente: la capacità di restare una famiglia, pur nella differenza delle sue voci. C’è chi ammira la vitalità americana: io, personalmente, preferisco di gran lunga l’Europa.
Mi accingo a scrivere questo articolo prendendo spunto da un recente pezzo del mio amico e collega Enrico Bucci, pubblicato su Il Foglio e disponibile anche sul suo blog al seguente link: Contro il populismo sanitario.
Ad Enrico va il merito di aver messo a fuoco con grande chiarezza un nodo cruciale del dibattito contemporaneo: l’uso distorto di parole come libertà e pluralismo per giustificare la presenza, nei tavoli scientifici, di opinioni che nulla hanno a che vedere con la solidità delle prove.
Partendo dalle sue riflessioni, vorrei proporre un parallelismo storico che ci aiuta a comprendere meglio la posta in gioco, ma che al tempo stesso mostra come noi italiani non abbiamo mai fatto buon uso delle lezioni che la storia ci consegna.
Non è un caso, del resto, se oggi viviamo in una realtà che, a mio avviso, ricorda la fine dell’Impero Romano e preannuncia gli anni più bui dell’alto medioevo. Pur disponendo di una tecnologia senza precedenti e di possibilità di conoscenza mai così ampie, siamo circondati da ignoranza bieca e da un populismo slogan-based che erode secoli di evoluzione culturale.
Il parallelismo di cui voglio discutere ci porta indietro di quasi un secolo, nell’Unione Sovietica di Stalin, quando un agronomo di nome Trofim Denisovič Lysenko riuscì a piegare la scienza alle esigenze della politica, con conseguenze drammatiche.
Chi era Lysenko
Trofim Denisovič Lysenko nacque in Ucraina nel 1898, in un’epoca in cui la genetica mendeliana stava già gettando basi solide in Europa e negli Stati Uniti, aprendo una nuova stagione di scoperte che avrebbe cambiato per sempre la biologia. Mentre il mondo avanzava verso la modernità scientifica, egli imboccò una via diversa: più comoda per la retorica del potere che per la verità sperimentale.
Convinto che i caratteri acquisiti dalle piante durante la loro vita – come l’adattamento al freddo – potessero essere trasmessi alle generazioni successive, Lysenko resuscitava sotto nuove vesti un lamarckismo ormai screditato. Non era innovazione, ma regressione: una costruzione ideologica spacciata per scienza, utile a chi voleva piegare la natura alla volontà politica.
La sua pratica più celebre, la cosiddetta vernalizzazione, prometteva raccolti miracolosi. “Educando” i semi al gelo, sosteneva, li si sarebbe resi più fertili e produttivi. Una favola travestita da metodo, priva di fondamento sperimentale, che però parlava il linguaggio dei sogni collettivi e delle promesse facili: quello stesso linguaggio che i regimi totalitari e i populismi di ogni epoca amano usare per sedurre le masse e zittire la scienza.
L’appoggio di Stalin
Il destino di Lysenko cambiò radicalmente nel 1935, quando presentò le sue teorie davanti al vertice del regime. In quell’occasione, Stalin lo incoraggiò pubblicamente con un secco ma inequivocabile: «Bravo, compagno Lysenko!». Quelle parole, apparentemente banali, furono in realtà una sentenza: da quel momento, la sua ascesa divenne inarrestabile.
Non contavano più le prove, non contavano i dati, non contava la comunità scientifica internazionale: ciò che contava era la fedeltà ideologica. Lysenko incarnava perfettamente il messaggio che Stalin voleva trasmettere al popolo: la natura, come l’uomo sovietico, era malleabile, poteva essere piegata e trasformata a piacere dal potere politico.
In un Paese dove il dissenso significava prigione o morte, l’agronomo ucraino divenne il simbolo della “scienza ufficiale”, il vessillo di una biologia che non cercava la verità, ma l’approvazione del dittatore. La fedeltà alla linea sostituiva la fedeltà ai fatti: e da quel momento, in URSS, non era più la scienza a guidare la politica, ma la politica a decidere che cosa fosse scienza.
Il crimine contro la ragione
Il prezzo di questa deriva fu immenso, pagato non solo dalla comunità scientifica ma da milioni di cittadini sovietici.
La genetica mendeliana venne bandita come “scienza borghese” e i libri che la insegnavano finirono al macero. Le cattedre universitarie furono svuotate, i laboratori costretti ad abbandonare ricerche rigorose per piegarsi alle direttive di regime. In un colpo solo, l’Unione Sovietica si amputò di decenni di progresso scientifico.
Gli scienziati che osavano resistere pagarono un prezzo terribile. Il caso più emblematico fu quello di Nikolaj Vavilov, uno dei più grandi genetisti del XX secolo, che aveva dedicato la vita a raccogliere semi da ogni angolo del pianeta per assicurare all’umanità la sicurezza alimentare. Arrestato, processato come “nemico del popolo” e internato in un gulag, morì di stenti nel 1943. La sua fine è il simbolo di una scienza libera sacrificata sull’altare della fedeltà ideologica.
Le pratiche agricole di Lysenko, prive di fondamento, furono applicate su larga scala e condannarono intere regioni alla fame. Le promesse di raccolti miracolosi si infransero nella realtà dei campi sterili, e carestie devastanti falciarono milioni di vite.
Così, nel nome di un dogma politico, la verità fu soffocata, la scienza ridotta a propaganda e la popolazione trasformata in vittima sacrificale. Il lisenkoismo non fu soltanto un errore scientifico: fu un crimine storico contro la ragione e contro il popolo.
Le ombre di casa nostra
Il fascismo italiano
E non è necessario guardare soltanto a Mosca per cogliere questo meccanismo. Anche l’Italia fascista impose il suo controllo alle università attraverso il giuramento di fedeltà al regime. Solo dodici professori ebbero il coraggio di rifiutare: un numero esiguo, che mostra quanto fragile diventi la libertà accademica quando il potere politico pretende obbedienza invece di pensiero critico.
Il fascismo non si fermò lì: con il Manifesto della razza, firmato da accademici italiani compiacenti, la scienza fu ridotta a strumento di propaganda, piegata a giustificare l’ideologia razzista del regime. È un precedente che dovrebbe farci rabbrividire, perché dimostra che anche nel nostro Paese la comunità scientifica può essere sedotta, intimidita o resa complice.
L’Italia di oggi
E oggi? Il controllo non passa più attraverso giuramenti di fedeltà o manifesti infami, ma attraverso nuove forme di ingerenza: la burocratizzazione estrema, la trasformazione dell’università in un apparato amministrativo svuotato di senso critico, e persino la proposta – inquietante – di introdurre i servizi segreti all’interno degli atenei (Servizi segreti nelle università: i rischi del ddl sicurezza; Ricerca pubblica, servizi segreti: il ddl sicurezza e l’università). Cambiano le forme, ma la logica resta la stessa: soffocare la libertà del sapere sotto il peso del controllo politico.
Pluralismo o propaganda?
Oggi nessuno rischia più il gulag, ma il meccanismo che vediamo riproporsi ha la stessa logica corrosiva.
Ieri, in Unione Sovietica, l’accesso al dibattito scientifico era subordinato alla fedeltà ideologica al regime. Oggi, in Italia e in altre democrazie occidentali, il rischio è che l’accesso ai tavoli scientifici sia garantito non dalla forza delle prove ma dalla forza delle pressioni politiche e mediatiche, camuffate sotto la parola rassicurante di pluralismo.
Qui sta l’inganno: confondere due piani radicalmente diversi.
Il pluralismo politico è un pilastro della democrazia: rappresenta valori, interessi, visioni del mondo.
Il pluralismo scientifico invece non è questione di sensibilità o di opinioni: è confronto tra ipotesi sottoposte allo stesso vaglio, alla stessa verifica, alla stessa brutalità dei fatti.
Se i due piani vengono confusi, allora ogni opinione – per quanto priva di fondamento – reclama pari dignità. È così che la pseudoscienza trova la sua sedia accanto alla scienza:l’omeopatia diventa “alternativa terapeutica”, la biodinamica “agricoltura innovativa”, il no-vax “voce da ascoltare”. È il falso equilibrio, l’illusione che esista sempre una “controparte” legittima anche quando le prove hanno già da tempo pronunciato il loro verdetto.
Ecco il punto: quando la politica impone la par condicio delle opinioni in campo scientifico, non difende la democrazia, ma la tradisce. Toglie ai cittadini la bussola della conoscenza verificata e li abbandona in balìa delle narrazioni. È la stessa logica che portò Lysenko al trionfo: non contavano i dati, contava il gradimento del potere.
Oggi, in un’Italia soffocata da slogan e da populismi che si travestono di democrazia mentre erodono la cultura, questo monito pesa come un macigno. La lezione di Lysenko ci dice che non esiste compromesso tra scienza e ideologia: o la scienza resta fedele al metodo e ai fatti, o smette di essere scienza e diventa propaganda.
Conclusione
La vicenda di Lysenko non è un reperto da manuale di storia della scienza: è un monito vivo, che parla a noi, oggi. Ci ricorda che ogni volta che la politica pretende di piegare la scienza a logiche di consenso, ogni volta che si invoca il “pluralismo” per spalancare le porte a tesi già smentite, ogni volta che l’evidenza viene relativizzata in nome della rappresentanza, non stiamo ampliando la democrazia: stiamo segando il ramo su cui essa stessa si regge.
La scienza non è perfetta, ma è l’unico strumento che l’umanità abbia costruito per distinguere il vero dal falso in campo naturale. Se la sostituiamo con il gioco delle opinioni, ci ritroveremo non in una società più libera, ma in una società più fragile, più manipolabile, più esposta all’arbitrio dei potenti di turno.
Ecco perché il parallelismo con il lisenkoismo non è un eccesso retorico, ma un allarme. Allora furono milioni le vittime della fame; oggi rischiamo vittime diverse, più silenziose ma non meno gravi: la salute pubblica, l’ambiente, la fiducia stessa nelle istituzioni.
La domanda che dobbiamo porci, senza ipocrisie, è semplice: vogliamo una scienza libera che guidi la politica, o una politica che fabbrica la sua scienza di comodo?
La storia ci ha già mostrato cosa accade quando si sceglie la seconda strada. Ignorarlo, oggi, sarebbe un crimine non meno grave di quello commesso ieri. Oggi l’Italia deve scegliere se vuole una scienza libera o un nuovo lisenkoismo democratico
Di recente Paolo Bellavite, professore associato presso l’Università di Verona, in pensione dal 2017 e noto per le sue posizioni critiche verso le vaccinazioni e per la promozione dell’omeopatia, ha pubblicato un post sui social (Figura 1) in cui denuncia presunte “censure” e un rifiuto del confronto scientifico da parte delle istituzioni sanitarie. Il pretesto è lo scioglimento del comitato NITAG (National Immunization Technical Advisory Group) da parte del Ministero della Salute.
Il NITAG fornisce indicazioni basate su prove per le strategie vaccinali a livello nazionale, valutando costantemente rischi e benefici in relazione a età, condizioni di salute e contesto epidemiologico. Di questo tema ho già parlato in un mio precedente articolo (Nomine e cortocircuiti: quando l’antiscienza entra nei comitati scientifici).
Al di là della cronaca, però, il post di Bellavite si rivela soprattutto un insieme di slogan e artifici retorici non supportati da evidenze scientifiche solide, costruito sui più classici argomenti cari ai critici delle vaccinazioni. Ed è proprio qui che torna utile un altro parallelismo: le stesse strategie comunicative – indipendentemente dal campo, che si tratti di vaccini o di agricoltura – le ritroviamo nell’universo della “scienza alternativa”. Ne ho dato esempio in un altro articolo, Agricoltura biodinamica e scienza: il dialogo continua… con i soliti equivoci.
I toni retorici possono apparire convincenti a chi non ha dimestichezza con il metodo scientifico ma non reggono alla prova dei fatti. Proviamo dunque a smontare, punto per punto, le argomentazioni dell’ex professore Paolo Bellavite.
Figura 1. Screenshot dalla pagina facebook del Dr. Bellavite.
Il mito della “censura”
Uno degli argomenti più frequenti nella retorica tipica dei critici dei vaccini è l’idea che la comunità scientifica “censuri” le voci “fuori dal coro” per paura o per difendere interessi di un qualche tipo.
Per rafforzare questa immagine, viene spesso evocata la vicenda di Ignác Semmelweis, il medico che nell’Ottocento intuì l’importanza dell’igiene delle mani per ridurre la febbre puerperale. Il paragone, però, è fuorviante. Semmelweis non fu osteggiato perché considerato “eretico” ma perché il contesto scientifico dell’epoca non disponeva ancora degli strumenti teorici e sperimentali necessari a comprendere e verificare le sue osservazioni. La teoria dei germi non era stata ancora formulata e l’idea che “qualcosa di invisibile” potesse trasmettere la malattia appariva inconcepibile. Nonostante ciò, i dati raccolti da Semmelweis erano solidi e difficilmente confutabili: nelle cliniche in cui introdusse il lavaggio delle mani la mortalità scese in maniera drastica. Quei numeri, alla lunga, hanno avuto la meglio.
Oggi, il confronto scientifico avviene tramite peer-review, conferenze specialistiche e comitati di valutazione sistematica delle evidenze (ne ho parlato qualche tempo fa in un articolo semiserio dal titolo Fortuna o bravura? osservazioni inusuali sul metodo scientifico). In definitiva, la scienza non mette a tacere: filtra. Ogni idea può essere proposta e discussa, ma per sopravvivere deve poggiare su dati riproducibili, verificabili e coerenti con l’insieme delle conoscenze disponibili. In mancanza di queste condizioni, non viene esclusa per censura, bensì perché non regge al vaglio delle prove.
Trasformare questo processo di selezione in un racconto di “persecuzione” significa confondere il metodo scientifico con un tribunale ideologico, quando in realtà è solo il meccanismo che permette alla conoscenza di avanzare.
La falsa richiesta di “prove definitive”
Un espediente retorico molto diffuso tra chi vuole mettere in discussione i vaccini è quello di pretendere “prove definitive” – come se esistesse una singola evidenza in grado di dimostrare in modo assoluto l’utilità di un vaccino. La verità è che nessuna terapia medica è vantaggiosa sempre e comunque, ma le raccomandazioni vaccinali si basano su analisi robuste e ben documentate di rapporto rischio/beneficio.
Ecco alcuni esempi concreti e supportati da fonti autorevoli:
Vaccino anti‑morbillo: secondo la Fondazione Veronesi, nel 2023 il morbillo ha causato circa 107500 decessi, per lo più tra bambini sotto i 5 anni, nonostante esista un vaccino efficace da decenni. Dati dell’ISS evidenziano che nelle aree dove la copertura vaccinale è scesa sotto la soglia del 95 %, il morbillo è tornato a circolare con forza.
Chiedere quindi una singola prova assoluta significa distogliere l’attenzione da un ampio corpus di evidenze solide e riproducibili, e puntare invece su un vuoto nella narrazione che non corrisponde alla realtà scientifica.
“I bambini vaccinati non sono più sani”
Alcuni insinuano che non esistano prove che i bambini vaccinati siano “più sani” o addirittura suggeriscono l’opposto. Ma qui il trucco retorico sta nella vaghezza del concetto di “salute” che può essere interpretato in molti modi.
I dati concreti parlano chiaro: i bambini vaccinati hanno un rischio nettamente ridotto di contrarre malattie infettive gravi e le evidenze epidemiologiche mostrano riduzioni significative della mortalità, delle complicanze e degli accessi ospedalieri.
Questi dati si legano strettamente al paragrafo precedente in cui si evidenziava che vaccinare i bambini – come con il caso del vaccino anti-COVID e la prevenzione del morbillo – non solo limita le infezioni specifiche, ma contribuisce a migliorare la salute complessiva della popolazione infantile.
Questo si traduce in una maggiore efficienza delle campagne, minori costi logistici e un impatto complessivo più forte sulla salute pubblica. Lo confermano anche diversi studi su riviste di settore. Per esempio, un trial pubblicato su Lancet ha documentato un’efficacia del 94.9 % contro la varicella e fino al 99.5 % contro altre forme virali moderate o severe, mentre una meta-analisi del 2015 ha evidenziato che le formulazioni combinate mantengono un profilo di sicurezza e immunogenicità paragonabile, ma più efficiente rispetto alle somministrazioni separate. Infine, in un recente studio caso-controllo, il vaccino Priorix‑Tetra (MMRV) ha mostrato un’efficacia dell’88‑93 % contro la varicella dopo una sola o due dosi, e del 96 % contro le ospedalizzazioni.
Uno dei cavalli di battaglia dei critici dei vaccini è l’utilizzo di analisi pre‑vaccinali – come test genetici, tipizzazione HLA o dosaggi di anticorpi – per valutare il rischio individuale o l’immunità naturale. A prima vista può sembrare una precauzione intelligente ma in realtà è un’idea infondata e controproducente. Gli eventi avversi gravi legati alle vaccinazioni sono estremamente rari e non correlabili a marcatori genetici o immunologici conosciuti. Al momento non esistono esami in grado di prevedere in anticipo chi potrebbe sviluppare una reazione avversa significativa.
L’introduzione obbligatoria di esami prevaccinali renderebbe logisticamente impossibili le campagne, ostacolando la copertura diffusa necessaria per l’immunità di gregge. Le vaccinazioni funzionano proprio perché applicate su larga scala, creando uno scudo comunitario che riduce la circolazione dei patogeni.
L’inversione retorica: “noi siamo la vera scienza”
Un tratto distintivo della comunicazione di chi contesta le vaccinazioni è la pretesa di incarnare la “vera scienza”, accusando al tempo stesso le istituzioni di rifiutare il confronto. È un vero rovesciamento di prospettiva: si imputa alla comunità scientifica un atteggiamento dogmatico, mentre ci si propone come gli unici detentori delle “vere prove”. In pratica, si pretende di cambiare le regole del gioco scientifico, così che affermazioni prive di fondamento possano essere messe sullo stesso piano delle evidenze prodotte e validate dall’intera comunità. È come voler riscrivere le regole del Monopoli per far sì che a vincere non sia chi accumula dati e dimostrazioni, ma chi urla di più o pesca la carta giusta al momento opportuno.
La realtà è un’altra: il confronto scientifico non si svolge sui social o nei talk show, ma nelle riviste peer-reviewed, nei congressi specialistici e nei comitati di valutazione delle evidenze. Ed è in questi contesti che certe tesi non trovano spazio, non per censura, ma per una ragione molto più semplice: mancano dati solidi che le sostengano.
Conclusione: la scienza contro gli slogan
Il caso Bellavite mostra come il linguaggio della scienza possa essere piegato e trasformato in uno strumento di retorica ideologica: un lessico apparentemente tecnico usato non per chiarire ma per confondere; non per spiegare ma per insinuare dubbi e paure privi di basi reali.
I vaccini rimangono uno dei più grandi successi della medicina moderna. Hanno ridotto o eliminato malattie che per secoli hanno decimato intere popolazioni. Certo, come ogni atto medico comportano rischi, ma il rapporto rischi/benefici è da decenni valutato e aggiornato con metodi rigorosi ed è incontrovertibile: il beneficio collettivo e individuale supera enormemente i rari effetti collaterali.
In politica, come nei discorsi attraverso cui si criticano le vaccinazioni, accade spesso che a prevalere siano slogan facili e interpretazioni personali. Il dibattito si trasforma così in un’arena di opinioni precostituite, dove il volume della voce sembra contare più della solidità delle prove. Ma la scienza non funziona in questo modo: non si piega alle opinioni, non segue le mode e non obbedisce agli slogan. È un processo collettivo, autocorrettivo e guidato dai dati, che avanza proprio perché seleziona ciò che resiste alla verifica e scarta ciò che non regge all’evidenza.
Chi tenta di manipolare questo processo dimentica un punto essenziale: la verità scientifica non appartiene a chi urla più forte, ma a chi misura, dimostra e sottopone i risultati al vaglio della comunità. È questo meccanismo che, tra errori e correzioni, consente alla scienza di progredire e di migliorare la vita di tutti.
Nota a margine dell’articolo
Sono perfettamente consapevole che questo scritto non convincerà chi è già persuaso che i vaccini siano dannosi o chi si rifugia dietro un malinteso concetto di “libertà di vaccinazione”. Desidero però ricordare ai miei quattro lettori che l’Art. 32 della nostra Costituzione recita:
“La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”.
La Corte Costituzionale, interpretando questo articolo, ha più volte ribadito che la salute pubblica può prevalere su quella individuale. Già con la sentenza n. 307/1990 e la n. 218/1994 ha chiarito che l’obbligo vaccinale è compatibile con la Costituzione se proporzionato e giustificato dall’interesse collettivo. La sentenza n. 282/2002, pur riguardando i trattamenti sanitari obbligatori in ambito psichiatrico, ribadisce il principio generale: un trattamento sanitario può essere imposto per legge, purché rispettoso della dignità della persona. Infine, la più recente sentenza n. 5/2018 ha confermato la piena discrezionalità del legislatore nell’introdurre obblighi vaccinali a tutela della salute pubblica.
Il mio intento non è convincere chi non vuole ascoltare, ma offrire strumenti a chi esita, a chi è spaventato. La paura è umana, comprensibile, ma non ha fondamento: i dati dimostrano che vaccinarsi significa proteggere sé stessi e, soprattutto, la comunità di cui facciamo parte. È questo il senso profondo dell’art. 32: la salute non è mai solo un fatto privato, ma un bene comune.
Ed eccomi a volare con la fantasia nel nuovo mondo. Sono verso la fine del Settecento, e mi ritrovo in un ambiente completamente diverso dal laboratorio di Faraday. Qui tutto profuma di carta, inchiostro e… ozono. È il tipico studio settecentesco con scaffali pieni di libri, strumenti per esperimenti elettrici, penne d’oca e un calamaio ancora macchiato di lampi. Di fronte a me, un uomo dallo sguardo vivace, i capelli incorniciati da una parrucca bianca, gli occhi pieni di una curiosità che sembra non aver conosciuto stanchezza. È Benjamin Franklin.
– Dr. Franklin, grazie per avermi accolto. Come sa, sto facendo un reportage di interviste impossibili. Ho già incontrato i Professori Boyle, Lavoisier e Faraday. Immagino che lei abbia un’idea chiara del loro ruolo nello sviluppo della chimica.
– Eccome se ce l’ho! Boyle ha fatto ordine nel caos, Lavoisier ha messo la logica sopra i miti, Faraday ha liberato l’elettricità dalle catene del mistero. Io, modestamente, sono stato il più impaziente: mentre loro costruivano i palazzi della chimica, io mi divertivo a bussare alle porte della natura con un aquilone in mano. Non sarà accademico, ma ha funzionato.
– L’aquilone… ma come le è venuto in mente?
– Guardi, io non avevo un laboratorio attrezzato come i vostri scienziati moderni. Ma avevo occhi, mani e fantasia. L’aquilone era un gioco da bambini, e io lo usai come un filo teso fra cielo e terra: bastò un po’ di coraggio per trasformarlo in esperimento. In fondo la scienza è questo: prendere ciò che sembra un passatempo e scoprire che nasconde una legge dell’universo.
– Sa che oggi esperimenti del genere sarebbero liquidati come estremamente pericolosi e verosimilmente non verrebbero autorizzati?
– Ne sono certo! Se avessi chiesto un permesso ufficiale per far volare un aquilone sotto un temporale, mi avrebbero rinchiuso prima ancora di spiegare il progetto. Ma vede, la conoscenza non nasce dall’attesa di un timbro: nasce dall’osservazione e dal coraggio. Senza un po’ di rischio, non avremmo mai imparato che il fulmine e la scintilla erano fratelli.
– Cosa pensa, allora, delle normative attuali che impongono l’uso di strumenti sicuri, sia per l’ambiente che per gli umani per realizzare esperimenti?
– Penso che siano un segno di maturità. Io ho corso rischi che oggi giudico folli: la curiosità mi salvò, ma avrei potuto perderci la vita. E nessuna scoperta vale quanto una vita umana. Indiana Jones può far sorridere sullo schermo, ma nella realtà un uomo che gioca costantemente con la morte non è un eroe, è uno sciocco. La vera grandezza della scienza sta nel proteggere e migliorare la vita, non nel sacrificarla per un colpo di fortuna.
– Il parafulmine è stata una delle sue invenzioni più utili. È curioso che anche qui ci fu chi si oppose, accusandola quasi di voler interferire con la volontà divina.
– Già! Alcuni predicatori sostenevano che fermare il fulmine significasse ribellarsi a Dio. Io replicai che Dio ci aveva dato l’intelligenza proprio per proteggerci. Non vedo differenza fra un tetto che ripara dalla pioggia e un parafulmine che ripara dal fuoco celeste.
– Lei ha fatto chiarezza, molta chiarezza, nel “decodificare” i fulmini. Alla fine, lei ha capito che si trattava di fenomeni naturali legati all’elettricità. In qualche modo ha aperto un varco nella comprensione di fenomeni che venivano associati all’ira divina: una volta Zeus, poi il Dio dei cristiani.
– Esatto. E non mi pare che Dio si sia offeso perché abbiamo capito come funziona un fulmine. Se la pioggia non è più vista come il pianto degli dèi ma come il ciclo dell’acqua, nessuno si scandalizza. Io credo che l’Onnipotente ci abbia dato la ragione proprio per usarla: ignorare i fenomeni naturali in nome della paura non è fede, è superstizione. E una società che resta prigioniera della superstizione non cresce, resta in ginocchio davanti al tuono.
– Ma le sue scoperte hanno fatto comprendere che la religione interviene solo quando non riusciamo a spiegarci qualcosa. Noi abbiamo bisogno di comprendere e, se non ci riusciamo, invochiamo un dio…
– È vero: gli uomini hanno sempre chiamato “divino” ciò che non sapevano spiegare. Ogni tuono era Zeus, ogni fulmine l’ira del Cielo. Il guaio è che, a forza di scoprire, gli dèi si sono ritrovati con meno lavoro: ecco perché dico che la scienza, in fondo, li mette in pensione anticipata. Ma questo non toglie dignità alla fede: anzi, la libera dalla superstizione. Un Dio ridotto a tappabuchi della nostra ignoranza è un Dio fragile; un Dio che ci ha dato intelletto e curiosità, invece, si aspetta che li usiamo. Perché la vera bestemmia non è capire il fulmine: è restare in ginocchio davanti al tuono senza mai volerlo capire.
– La capisco, Dr. Franklin. Io però sono ateo, e non riesco a vedere Dio neppure come ipotesi di lavoro. Mi tornano in mente le parole di Margherita Hack: “Dio è un’ipotesi non necessaria”.
– Non mi scandalizza affatto. Io vivevo in un tempo in cui la religione era il linguaggio comune: negarla avrebbe significato isolarsi dal dialogo civile. Ma vede, il bello della scienza è proprio questo: non impone a nessuno la fede o l’ateismo, chiede solo la voglia di capire. Che uno veda in quell’ordine la mano di Dio, o che lo chiami semplicemente Natura, poco importa: la verità resta verità, e il fulmine non obbedisce né al prete né all’ateo.
– Dr. Franklin, lei è passato alla storia come un individuo molto versatile: scienziato, inventore, diplomatico, politico, editore. Chi è lei, in realtà?
– Sono stato tutte queste cose e, al tempo stesso, nessuna soltanto. Non ho mai sopportato le etichette: erano i problemi concreti a chiamarmi, e io rispondevo come potevo. Se serviva un esperimento, facevo lo scienziato; se serviva un accordo, il diplomatico; se serviva chiarezza, scrivevo da editore. Ironia della sorte, mi sentivo più un apprendista della Natura che un maestro, un uomo con troppi mestieri e troppe poche tasche per contenerli. Se dovessi scegliere una definizione, direi che sono stato questo: un curioso ostinato, convinto che la vera identità dell’uomo non stia nel titolo che porta, ma nella scintilla che lo spinge a capire e migliorare il mondo.
– Lei dice giustamente: “la vera identità dell’uomo non è nel titolo che porta, ma nella scintilla che lo spinge a capire e migliorare il mondo”. Allora le rivolgo la medesima domanda che ho fatto al Professor Faraday: sa che una frase del genere nella mia epoca potrebbe essere usata dai complottisti di ogni risma? Questi interpreterebbero la sua dichiarazione come uno sdoganamento dell’ignoranza.
– E allora che lo facciano pure: non sarà certo il loro gracchiare a spegnere il fulmine. Ma sia chiaro: la scintilla che muove l’uomo non è la superbia di credere alle proprie fantasie, è l’umiltà di inchinarsi davanti ai fatti. I complottisti, invece, si fermano al lampo: gridano di aver visto la luce, ma non scaldano nessuno. Non sono ribelli coraggiosi: sono pigri travestiti da profeti, che scambiano il sospetto per pensiero critico e l’ignoranza per libertà. La curiosità autentica smonta i dogmi, anche quelli comodi: chi rifiuta prove e ragione non è un cercatore di verità, è un ciarlatano che preferisce restare al buio.
– Lei non fu solo scienziato. Fu anche diplomatico a Parigi e padre fondatore degli Stati Uniti. Crede che la scienza debba sempre dialogare con la politica?
– La politica senza scienza è cieca, la scienza senza politica è muta. Ma attenzione: quando un governante chiude gli occhi davanti ai fatti, non è soltanto cieco, è pericoloso. Governa con l’illusione, e l’illusione uccide più del ferro e del fuoco. Un politico che ignora la scienza è come un capitano che butta la bussola in mare e pretende di guidare la nave “a sentimento”: può anche ingannare i passeggeri per un po’, ma alla fine li porterà sugli scogli. La scienza, se resta chiusa nei laboratori, non salva nessuno; ma la politica che la calpesta condanna un popolo all’ignoranza, alla malattia e alla fame. La verità non si vota e non si compra: un virus non chiede il permesso a un ministro, il clima non attende il consenso di un parlamento. Chi governa contro la scienza governa contro la vita stessa, e questo non è solo un errore politico: è un tradimento morale.
– Negli ultimi anni, anche negli Stati Uniti che lei ha contribuito a fondare, ci sono state politiche definite “antiscientifiche”. L’amministrazione Trump, in particolare, è stata accusata di negare l’evidenza del cambiamento climatico e di ostacolare la ricerca ambientale. Come vede tutto questo?
– Con sgomento. Vede, un politico che rinnega la scienza non è solo ignorante, è colpevole. Trump tratta i fatti come se fossero merce da mercato: accettabili quando tornano comodi, rifiutati quando disturbano i suoi affari. Questo non è governo, è ciarlataneria. Negare il cambiamento climatico non ferma lo scioglimento dei ghiacci, come negare una malattia non guarisce un malato. La politica che finge di non vedere i dati condanna il proprio popolo a pagare il prezzo della menzogna. Io dico che un leader che calpesta la scienza non tradisce solo i suoi contemporanei: tradisce anche le generazioni future, perché lascia in eredità un mondo più fragile, più povero e più ingiusto.
– Quindi la negazione del cambiamento climatico le sembra un grave errore politico?
– Non è un errore: è un atto di irresponsabilità criminale. Perché negare l’evidenza non rallenta il riscaldamento globale, ma lo accelera. Un governante che finge che il problema non esista non solo inganna il suo popolo: lo espone consapevolmente a catastrofi che si potevano prevenire. E questo non è politica, è complicità con il disastro.
– Oggi un tema che divide molto l’opinione pubblica è quello dei vaccini. Alcuni li vedono come una conquista di civiltà, altri come una minaccia alla libertà personale. Lei da che parte starebbe?
– Dalla parte della ragione. La libertà individuale non è mai licenza di danneggiare gli altri. Io stesso mi sono battuto per la libertà politica e religiosa, ma non avrei mai confuso la libertà con il diritto di mettere in pericolo la comunità. Un vaccino protegge non solo chi lo riceve, ma chi gli sta accanto. Rifiutarlo senza motivo è come gettare scintille in una polveriera e chiamarlo “atto di coraggio”: non è coraggio, è incoscienza.
– E come si combatte la disinformazione che avvelena il dibattito pubblico?
– Con la stessa arma che usavo io: rendendo la verità semplice e utile. Io pubblicavo almanacchi pieni di proverbi e osservazioni quotidiane, perché sapevo che la gente non leggeva i trattati, ma capiva benissimo un consiglio chiaro. Oggi dovreste fare lo stesso: spiegare la scienza in modo diretto, farne vedere l’utilità concreta. Una bugia urlata può sedurre, ma una verità spiegata bene è inespugnabile. Chi continua a diffondere fake news non è un ribelle della verità: è un avvelenatore del pozzo comune.
– Una curiosità: se fosse vivo oggi, su cosa avrebbe lavorato?
– Avrei un laboratorio pieno di pannelli solari e aquiloni per misurare l’inquinamento atmosferico! Mi divertirei a trasformare il vento e il sole in energia pulita: perché solo un folle preferirebbe restare schiavo del carbone quando il cielo offre elettricità gratis.
– Sì, ma oggi oltre al sole e al vento abbiamo a disposizione anche il nucleare…
– E allora usatelo con intelligenza. Non c’è nulla di “immorale” nell’atomo, immorale è sprecarne il potere o trasformarlo in arma. Io non ho mai avuto paura dell’elettricità: l’ho studiata, imbrigliata, resa utile. Con il nucleare dovreste fare lo stesso. Chi rifiuta l’atomo per pregiudizio è miope quanto chi lo idolatra come panacea. Se il vostro obiettivo è liberare il mondo dalla dipendenza dai combustibili fossili, non potete permettervi dogmi: ogni fonte sicura e sostenibile è un alleato. E ricordatevi che l’ignoranza uccide più di qualsiasi radiazione.
– Prima di salutarla, Dr. Franklin, una battuta finale per chi oggi lotta contro politiche antiscientifiche, magari con la sua ironia pungente.
– Dite ai vostri contemporanei che gli ignoranti sono come aquiloni senza filo: volano un attimo, poi si perdono. Ma noi dobbiamo essere parafulmini: attrarre la verità e scaricarla sulla paura. Quanto a chi rifiuta i fatti, lasciatelo gridare al vento: cadrà da solo. Voi intanto costruite scuole, vaccini, energie pulite. Perché il futuro non lo fanno i ciarlatani: lo fanno i coraggiosi che hanno scelto di restare dalla parte della ragione.
E con un sorriso complice, Franklin solleva la penna e lascia un tratto di fulmine tra le righe: non un addio, ma un invito a custodire la scintilla della scienza, sempre.
E mentre il lampo si spegne sulla carta, capisco che la conoscenza non vive soltanto nei laboratori e negli strumenti, ma anche nei libri, nei versi, negli sguardi di chi cerca la verità nel cuore dell’uomo e nella natura. È lì che mi attende il mio prossimo viaggio…
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