Come si costruiscono le bufale. Il caso dello zucchero raffinato

Nella mia attività, sia di docente/ricercatore che, più recentemente, di divulgatore, mi trovo spesso di fronte a una serie di notizie che apparentemente sembrano serie, ma che in realtà sono delle vere e proprie bufale. La bufala nasce dal fatto che si mescolano ad arte informazioni vere con altre verosimili e con alcune del tutto prive di fondamento. L’obiettivo è quello di indurre il lettore poco preparato o poco attento a credere a delle vere e proprie sciocchezze. Volete un esempio?

Ho appena trovato un sito in cui si esaltano le proprietà della stevia partendo da presupposti tutt’altro che scientifici. Ecco il link.

Analizziamo quello che è scritto nell’incipit:

“Stevia, tutto quello che c’è da sapere sul dolcificante naturale del momento. Lo zucchero raffinato, si sa, non è benefico per il nostro organismo e molte persone cercano alternative naturali alla sua dolcezza artificiale

Ho colorato in rosso una frase in cui compare, messo lì apparentemente in modo casuale, “zucchero raffinato” e  “si sa”. Ovvero, secondo gli autori di questo articoletto, è noto ormai anche a cani e porci che lo zucchero raffinato non è benefico per il nostro organismo.

Cosa vuol dire “zucchero raffinato”?

La raffinazione dello zucchero è un processo che parte dalla frammentazione meccanica della barbabietola da zucchero (è la pianta da cui ricaviamo il saccarosio nelle zone a clima temperato come l’Europa; nei paesi tropicali, il saccarosio viene ricavato dalla canna da zucchero) e passa per l’estrazione delle componenti idrosolubili usando acqua calda. Non mi risulta che l’acqua calda sia tossica. Certo se uno immerge la mano in acqua bollente si ustiona, ma questa è un’altra storia e, comunque, l’elevata temperatura non rende l’acqua tossica. A questo link si trova il significato dell’aggettivo “tossico” secondo l’enciclopedia Treccani.

L’estrazione in acqua calda genera un miscuglio (o sugo grezzo) che contiene anche il saccarosio. Tale miscuglio, però, è ben lontano dall’essere appetibile. Per poter ottenere il saccarosio dal caratteristico sapore dolce, occorre usare idrossido di calcio (Ca(OH)2) che consente la precipitazione di tante componenti poco appetibili oltre che la neutralizzazione delle sostanze acide contenute nel sugo grezzo (il termine tecnico è “defecazione”, ma mi rendo conto che non è una parola molto gettonata nel linguaggio comune quando associata a qualcosa che dobbiamo mangiare). Anche l’idrossido di calcio non è tossico. Al massimo può causare irritazioni, ma solo quando non è sciolto in acqua alle concentrazioni usate per la raffinazione dello zucchero (qui la scheda tecnica). In ogni caso, la fase successiva è la rimozione di tutto il calcio mediante uso di anidride carbonica (CO2). Quest’ultima permette la precipitazione del carbonato di calcio che poi viene successivamente allontanato. Neanche l’anidride carbonica è tossica. Certo, se saturiamo un ambiente chiuso con questo gas moriamo, ma non perché la CO2 sia tossica, solo perché ci asfissiamo per mancanza di ossigeno. Non sto a farla lunga, aggiungo solo che dopo queste operazioni, vengono operati processi di cristallizzazione successivi che servono  per separare i cristalli di saccarosio dalle impurezze ancora presenti nel sugo che lo contiene. La cristallizzazione non viene fatta usando solventi organici (questi si potenzialmente tossici), ma attraverso variazioni di temperatura. Infine, lo sbiancamento definitivo viene fatto usando il vapor d’acqua. Anche il vapor d’acqua non è tossico. Se fosse così saremmo già morti da un pezzo considerando tutta l’umidità che è presente nell’aria.

Raffinato non non vuol dire tossico

Il termine “raffinato”, in definitiva, non è sinonimo di “pericoloso” o “tossico”. Non so da cosa nasca l’idea comune che tutto ciò che è raffinato sia pericoloso. Forse perché si associa l’idea di “raffinazione” alla lavorazione del petrolio (che certamente non è commestibile) per ottenerne le frazioni da usare nelle diverse attività antropiche? Ma cosa c’entra la raffinazione del petrolio con quella del saccarosio? Assolutamente nulla.

Sotto l’aspetto chimico, “raffinare” significa “purificare”, ovvero, nel caso specifico del saccarosio, eliminare dallo zucchero comune tutte quelle componenti che non lo rendono appetibile, come avete letto nel paragrafo precedente.

Vi sembra, allora, che la polvere bianca che usiamo per dolcificare il nostro cappuccino la mattina sia tossica? No. Non lo è. Non c’è nulla lì dentro che la renda tossica. Al più il saccarosio rappresenta un problema serio per i diabetici, ma questa è un’altra storia di cui ho già parlato qui.

Quindi se “raffinato” non è sinonimo di tossico, il “si sa” buttato lì è solo uno specchietto per le allodole. È solo un modo per attirare l’attezione dei gonzi e far loro credere che esiste una lobby del saccarosio (big-sucrose) che ci vuole tutti morti. Non c’è male come complottismo, devo dire. Fa il paio con “big-pharma”, le scie chimiche e, piuttosto di recente, con big-microwave (sì perché grazie al mio articolo sui forni a microonde sono stato indicato come servo del potere industriale dei forni a microonde).

In ogni caso, se non siamo soggetti a diabete e ci sentiamo male dopo aver esagerato con l’assunzione di dolci, il responsabile non è il saccarosio, ma la nostra intemperanza che non ci consente di controllarci e fare attenzione alle dosi di dolce che assumiamo.

Le bufale sulle alternative naturali

Come avete potuto leggere, ho evidenziato in blu un altro pezzo dell’incipit dell’articolo sulla stevia. “le persone cercano altenative naturali alla dolcezza artificiale”. Ma ha un senso questa frase? Il saccarosio viene estratto dalla barbabietola da zucchero (o dalla canna da zucchero). Si tratta per caso di sistemi artificiali? Cosa c’è di più naturale di una pianta come la barbabietola? Il saccarosio che si estrae dalla barbabietola non si forma per un atto magico. È un prodotto del metabolismo della pianta stessa. E perché la stevia dovrebbe essere una pianta più naturale della barbabietola?

La differenza tra un edulcorante steviolitico ed il saccarosio è che il primo non contiene il secondo e può essere usato senza problemi dai diabetici. È il glucosio contenuto nel saccarosio il vero problema per chi è affetto da diabete. Eliminando il saccarosio, si elimina il glucosio e si tengono sotto controllo i problemi di iperglicemia. La stevia, come qualsiasi altro edulcorante privo di glucosio, offre il vantaggio di poter essere assimilato anche da persone affette da questa patologia molto limitante.

Come si ottiene l’edulcorante steviolitico?

Nel paragrafo più su ho descritto per sommi capi l’estrazione del saccarosio dalla barbabietola da zucchero ed ho evidenziato che non vengono utilizzati solventi tossici. Peraltro, il processo di estrazione è progettato in modo tale da non lasciare alcun residuo dei composti usati durante il processo di raffinazione. Ma come si ottiene un sacchettino di edulcorante steviolitico? Non voglio entrare nei dettagli della composizione chimica di questo edulcorante. Basti sapere che si tratta solo di una miscela di diversi composti che vengono estratti dalla pianta che si chiama Stevia rebaudiana. Ebbene sì. Anche l’edulcorante noto col nome commerciale di stevia viene estratto da una pianta (esattamente come il saccarosio estrato dalla barbabietola). Ma sapete come? Esistono diversi metodi. Si può usare una miscela di acqua calda ed alcol etilico, oppure si può usare il metanolo. Sì. Avete letto bene. Si può usare il metanolo, ovvero un composto che è tossico nel vero senso della parola. Ne volete sapere di più? Basta leggere la scheda di sicurezza di questo alcol: qui. È ovvio che ci sono anche altre procedure estrattive oltre a quelle appena citate. Per esempio si può procedere per macerazione in acqua seguita da processi di filtrazione vari, scambio ionico, osmosi inversa ed essiccamento. Si tratta di un processo di produzione che può essere indicato come “raffinazione”, esattamente come quella del saccarosio. Il punto è che i supporters dei prodotti naturali a fini meramente commerciali si guardano bene dall’usare il termine “raffinazione” o “raffinato” quando parlano di dolcificante steviolitico. Anzi, molto subdolamente, come avete potuto leggere, parlano di dolcezza naturale dell’edulcorante steviolitico contro quella artificiale del saccarosio. Eppure si tratta di due edulcoranti entrambi di origine vegetale, con la stessa dignità chimica di fregiarsi dell’aggettivo “naturale”.

Conclusioni

Non lasciatevi fregare da chi esalta le proprietà della stevia spingendo sul concetto di edulcorante naturale. Da questa beve nota potete capire che non è così. Nessuno vieta di utilizzare la stevia al posto del saccarosio o di qualsiasi altro dolcificante di sintesi o meno. L’importante è essere coscienti del fatto che si tratta solo di una scelta soggettiva che deve incontrare i propri gusti personali. Per esempio, a me piace molto il sapore dell’aspartame rispetto a quello della stevia, ma è solo un fatto assolutamente soggettivo.

Fonte dell’immagine di copertina: Wikimedia Commons

I forni a microonde fanno male (spoiler: no è falso ed è pure da ignoranti sostenerlo)

Ci si trova di fronte ad una situazione del tipo in Figura 1: “per coerenza con la cultura del biologico, abbiamo deciso di evitare il forno a microonde”.

Che fare? Entrare farsi una risata e passare oltre oppure affrontare la situazione di petto e trattare certe persone per quello che sono (ok, non me lo fate scrivere, ci siamo capiti)? Ritengo che il tempo della tregua sia finito. Occorre mettere fine a queste religioni naturiste che sorgono come piante infestanti e si basano sul nulla più assoluto. Non è tanto il fatto che uno decida di alimentarsi in un modo ovvero nell’altro. Ognuno è libero di fare scientemente le proprie scelte e gestirne le ovvie conseguenze. Tuttavia deve essere chiaro che ammantare di scientificità certe scelte di natura culturale è assolutamente privo di senso. Cosa vuol dire il cartello mostrato in foto?

Figura 1. Cartello appeso in uno dei tanti centri NaturaSì

Questa catena di negozi afferma che “per coerenza con la cultura del biologico” hanno scelto di riscaldare le pietanze con un un forno tradizionale e non con quello a microonde. Su cosa si basa questa scelta? Facendo una breve ricerca in rete con le parole “microonde, biologico” si trova un link ad un sito che si chiama “Agro-bio notizie”. Si tratta del portale della “Associazione onlus di produttori e consumatori biologici e biodinamici” in cui si trova un lungo articolo sui danni prodotti dall’uso del forno a microonde (il link è qui, lo inserisco solo per completezza di informazione sapendo benissimo che regalo visibilità a questi individui).

Per poter capire le sciocchezze di cui parlano, serve fare una breve introduzione.

Cosa sono le microonde

Ho già avuto modo di spiegare che cos’è la luce (qui). Si tratta di una radiazione elettromagnetica, cioè, di una radiazione costituita da un campo elettrico ed un campo magnetico tra loro perpendicolari che si propagano nello spazio con le caratteristiche di un’onda (Figura 2).

Figura 2. Radiazione elettromagnetica

La distanza tra due creste (o due valli) della radiazione elettromagnetica viene indicata come lunghezza d’onda (λ). L’insieme di tutte le lunghezze d’onda delle radiazioni elettromagnetiche viene indicato come “spettro”. Esempio di spettro elettromagnetico è in Figura 3.

Figura 3. Spettro elettromagnetico (Fonte)

Dalla figura si evince come quelle che noi chiamiamo “microonde” non siano altro che delle radiazioni elettromagnetiche che si estendono in un intervallo di lunghezze d’onda che va da 1 mm a 10 cm.

Fin dai tempi delle superiori è noto che esiste una relazione diretta tra lunghezza d’onda (λ) e contenuto energetico (E) di una radiazione elettromagnetica. Questa relazione è: E = h c λ-1, dove h è la costante di Planck (6.62 · 10-34 J s) e c la velocità di propagazione della luce nel vuoto (2.998 · 103 m s-1).

Quando una radiazione elettromagnetica interagisce con la materia possono accadere tante cose in funzione del contenuto energetico della radiazione stessa. Per esempio, se la radiazione elettromagnetica ha lunghezza d’onda <1 pm (raggi γ), compresa tra 1 pm e 10 nm (raggi X), 10 nm e 380 nm (raggi UV), l’interazione con la materia produce alterazioni chimiche (ovvero rottura e formazione di legami) che comportano insorgenza di patologie come i tumori. Se la radiazione ha una lunghezza d’onda compresa tra 380 e 750 nm (luce visibile), l’energia associata ad essa è in grado di produrre delle transizioni elettroniche in sistemi in cui sono presenti dei legami multipli (per esempio il β-carotene di cui ho parlato qui). La radiazione non assorbita è quella che conferisce il colore all’oggetto che contiene molecole come il β-carotene. Se la radiazione elettromagnetica ha lunghezza d’onda compresa tra 750 nm e 1 mm (radiazione infrarossa o IR), l’energia ad essa associata non è in grado di produrre transizioni elettroniche e men che meno promuovere reazioni chimiche. Quello che, invece, accade è che il momento dipolare non nullo (Figura 4) dei sistemi chimici tende ad orientarsi con la direzione del campo elettrico della radiazione IR che si propaga nello spazio.

Figura 4. Momento dipolare di un sistema chimico

Poichè il campo elettrico è oscillante (Figura 2),  anche il momento dipolare oscilla. L’oscillazione del momento dipolare può essere in fase oppure fuori fase rispetto all’oscillazione del campo elettrico associato alla radiazione IR. Quando l’oscillazione del momento dipolare è fuori fase, l’energia assorbita dalla molecola viene rilasciata sotto forma di calore. L’intensità dell’energia termica emessa dalla molecola nel processo di rilassamento dipende dall’entità dello sfasamento tra le oscillazioni del campo elettrico e del momento dipolare (Figura 5).

Figura 5. Oscillazioni del campo elettrico e del momento dipolare

Detto in termini più umani, le molecole che assorbono la radiazione IR vibrano e ruotano più velocemente intorno ai legami in esse contenuti. L’effetto macroscopico è il riscaldamento della molecola (in effetti, questo è, in soldoni, il meccanismo dell’effetto serra di cui ho parlato qui).

Come funzionano le microonde?

Alla luce di quanto scritto, appare intuitivo che la quantità di energia associata alle radiazioni che ricadono nell’intervallo di lunghezza d’onda delle microonde (1 mm – 10 cm) non è in grado di influenzare il comportamento degli elettroni, né di promuovere processi chimici, ovvero reazioni vere e proprie  con rottura e formazione di legami, come le radiazioni con lunghezze d’onda molto più corte (radiazioni UV, raggi X e raggi γ).

In realtà l’energia associata alle radiazioni che hanno lunghezze d’onda nell’intervallo 1 mm – 10 cm (ovvero le microonde) è in grado di promuovere le oscillazioni del momento dipolare delle molecole di acqua secondo il meccanismo illustrato nel paragrafo precedente. La conseguenza è che l’acqua si riscalda.

Nel caso particolare degli alimenti, il forno a microonde promuove le oscillazioni del momento dipolare delle molecole di acqua in essi contenute. Le oscillazioni dei momenti dipolari delle sostanze organiche di cui sono composti gli alimenti sono trascurabili. La conseguenza è che un alimento nel forno a microonde viene riscaldato grazie all’azione delle microonde sui momenti dipolari delle molecole di acqua. Se non c’è acqua, un alimento non può essere riscaldato.

Ed allora come è possibile che il pop corn possa essere preparato nel forno a microonde? Beh…no problem: leggete qui. È sempre questione di acqua.

La bufala del forno a microonde Che fa male

Nel 1989 a pagina 18 del numero 8 di un giornalino senza alcune pretese scientifiche (il Journal  Franz Weber), appare un articolo-intervista di tre pagine a un tale che si chiama Hans-Urich Hertel. Il titolo dell’articolo è: “Dans le four à micro-ondes aussi, la mort est à l’affût”. Non sono molto bravo in francese; anzi, direi che il mio francese è del tutto assente, ma, grossomodo, in italiano l’effetto del titolo dovrebbe essere “Anche nel forno a microonde la morte è in agguato” (se qualcuno dei lettori che mi legge vuole aiutarmi a tradurre, è il benvenuto). In linea di massima l’articolo citato, che potete trovare nell’archivio del Journal Franz Weber, non è altro che un insieme di idee new age e di affermazioni a-scientifiche che sono in completa contraddizione con i modelli che descrivono il comportamento delle microonde come sommariamente riportato nei paragrafi precedenti. Esempi di affermazioni prive di ogni senso scientifico sono:

“Je suis loin d’etre le seul scientifique ou penseur a avoir reconnucette exigence. Notre technique produit effectivement des rayons electromagnetiques, insupportables pour toute le form de vie. Ce rayonnement hostile a la vie ne se limite pas seulement au four a micro-ondes qui nous occupe plus particulierment aujourd’hui. Il inclut au contraire tout rayonnement technique, des ondes radio au rayonnement gamma radioactif en passant par les micro-ondes. Tout ces rayonnements sont absolutement et sans exception hostiles a la vie, meme si, bien souvent, le le processus de destruction de certe demiere est relativement lent. Pourtant, la consequence en sera invariablement le cancer et une mort prematuree aussi long-temps que les causes de ces rayonnement continueront d’exister”

ovvero (da google translator, per cui mi perdonino i lettori che conoscono il francese. Vale sempre la richiesta di aiuto fatta prima)

“Sono ben lontano dall’essere l’unico scienziato o pensatore ad aver riconosciuto questo problema. La nostra tecnologia produce effettivamente raggi elettromagnetici, insopportabili per tutte le forme di vita. Questa radiazione ostile alla vita non è limitata solo al forno a microonde che ci interessa in modo particolare oggi. Al contrario, essa include tutte le radiazioni, dalle onde radio alle radiazioni gamma radioattive passando per le microonde. Tutte queste radiazioni sono assolutamente e senza eccezioni ostili alla vita, anche se, molto spesso, il processo di distruzione operato dalle ultime è relativamente lento. Tuttavia, il risultato sarà invariabilmente il cancro e la morte prematura fino a quando le cause di tali radiazioni continueranno ad esistere”.

Quanto riportato è l’incipit dell’intervista a Hans-Urich Hertel. Considerando che la luce che ci viene dal sole è un insieme di radiazioni elettromagnetiche con lunghezze d’onda che coprono l’intero spettro luminoso, non si capisce in che modo potremmo evitare tali radiazioni se non vivendo al buio e sempre coperti. Naturalmente le conseguenze di una vita priva di sole sono estremamente dannose. Però Hans-Urich Hertel ha una risposta:

“La difference entre ces deux types de rayonnement reside dans la qualitè. Bien que les micro-ondes, soient de nature electromagnetique, il exist entre elles des differences parfois enormes dans les frequences, les longueurs d’onde et les amplitudes, donc dans leur qualité. Les frequences techniques ne suivent pas les frequences de la lumiere: elles sont toujours pratiquement plus ou moins a cote, c’est-a-dire en dissonance par rapport a certe derniere. De plus, elles reposent sur le principe du courant alternativf tandis que la nature utilise le principe du courant continue ondulé. Le courent alternatif est mortel pour la nature. Sur ce point, il n’y a absolutament plus a discuter”

Ovvero:

“La differenza tra questi due tipi di radiazioni [naturale e dei forni a microonde, NDT] sta nella qualità. Sebbene le microonde siano di natura elettromagnetica, a volte ci sono enormi differenze nelle frequenze, nelle lunghezze d’onda e nelle ampiezze, e quindi nella loro qualità. Le frequenze artificiali non seguono le frequenze della luce: sono sempre praticamente più o meno vicine, cioè in dissonanza rispetto a queste ultime. Inoltre, si basano sul principio della corrente alternata mentre la natura usa il principio della corrente continua ondulata. La corrente alternata è mortale per la natura. Su questo punto, non c’è assolutamente nulla da discutere”

Come si legge, questo pseudo-scienziato (non saprei come altro definirlo) sta facendo un miscuglio abominevole di concetti presi qui e là dai libri di chimica fisica.

Come ho evidenziato nei paragrafi precedenti, col termine di “microonde” si intende un insieme di radiazioni elettromagnetiche le cui lunghezze d’onda sono comprese nell’intervallo 1 mm – 10 cm.

Lunghezze d’onda, frequenze e ampiezze d’onda sono tutti parametri che descrivono le radiazioni elettromagnetiche e sono tutti correlati tra di loro. Basta leggere una qualsiasi appendice di un qualsiasi libro scientifico usato alle scuole superiori per capire la correlazione tra i parametri anzidetti. Questo vuol dire che nell’intervallo di lunghezze d’onda considerato ci sono radiazioni elettromagnetiche che hanno un contenuto energetico variabile in funzione del valore della lunghezza d’onda presa in considerazione. A seconda del contenuto energetico della radiazione elettromagnetica, l’acqua è soggetta a riscaldamento più o meno rapido in funzione del numero di gradi di libertà che contraddistingue le singole molecole di acqua. In altre parole, insiemi di molecole di acqua libera (ovvero non legate alla matrice organica degli alimenti) si riscaldano a una velocità differente rispetto a molecole di acqua legate (cioè interagenti con la matrice alimentare di cui fanno parte) quando sottoposte all’interazione con le microonde a lunghezza d’onda differente.

Il nostro pseudo-scienziato afferma, inoltre, che la differenza tra le radiazioni “naturali” e quelle “artificiali” (ovvero, per esempio, del forno a microonde) è che le prime sono generate da una corrente continua, mentre le seconde sono generate da corrente alternata. Senza alcuna base teorica, egli afferma inoltre che la corrente alternata è nociva, mentre quella continua no, perché è naturale. Mi sembra di leggere le sciocchezze di chi afferma che “chimica” è male e “naturale” è buono di cui ho già avuto modo di parlare qui. Non c’è spazio sufficiente in questo blog per affrontare nei dettagli la fisica di Maxwell che nel 1864 presentò alla Royal Society britannica le sue famose equazioni che unificavano magnetismo ed elettricità. Se volete averne idea basta cliccare qui, ma sappiate che scaricherete un file molto pesante. Inutile ricordare anche che la prima forma di elettricità utilizzata fu quella continua e che oggi usiamo quella alternata perché nella battaglia della elettricità tra Edison e Tesla, quest’ultimo ebbe la meglio (la corrente alternata si dimostrò migliore in termini di distribuzione sulle grandi distanze rispetto a quella continua). Ed è inutile ricordare che non c’è la benché minima prova che la corrente continua sia a favore della vita, mentre quella alternata … no … beh … in realtà se metto le dita in una presa di corrente forse qualche problema lo potrei avere…

Non voglio tediarvi molto. Questo articolo sta diventando sempre più lungo. Basti sapere che nelle sue farneticazioni, Hans-Urich Hertel parla di esperimenti condotti su otto (sì, leggasi otto di numero) volontari alimentati con alimenti cotti o in microonde o in modalità tradizionale. Per ammantare di scientificità questo esperimento da quattro soldi, Hans-Urich Hertel spiega che l’alimentazione dei volontari era fatta in cieco (ovvero essi non sapevano se mangiavano cibo cotto in microonde oppure no). Le analisi del sangue effettuate su questi volontari dimostrarono la propensione ad alterazioni ematiche negli individui soggetti ad alimentazione col cibo cotto al microonde.

Ora, dire che otto volontari è un numero che non ha alcun significato sotto l’aspetto di una sperimentazione clinica mi sembra superfluo. Dire che manca un campione controllo, anche. Aggiungere che le affermazioni fatte da questo individuo sotto forma di intervista su un giornalino che non ha nulla di scientifico non è solo superfluo, ma anche inutile. Tutto il quadro porta alla conclusione che questo pover’uomo ha avuto un momento di notorietà e continua ad averlo in quella parte della società che ha fatto del naturismo la propria religione. E si sa. Quando si ha a che fare con la fede, non c’è discorso razionale (ovvero scientifico) che regga.

Come stanno le cose

Utilizzando la parola chiave “microwave” in Google Scholar, si accede ad una serie di lavori sull’uso delle microonde nella trasformazione degli alimenti. Uno è per esempio questo: “Effect of microwave and conventional cooking on insoluble dietary fibre components of vegetables” pubblicato nel 2003 su Food Chemistry. Gli autori evidenziano come le variazioni nel contenuto di fibre alimentari non dipenda dal modo con cui gli alimenti vengono cotti, ma dalla cottura stessa. In particolare, la cottura in alta pressione è quella che ha mostrato le differenze maggiori. Ancora: “The effect of cooking methods on total phenolics and antioxidant activity of selected green vegetables” pubblicato nel 2005 su Food Chemistry. Gli autori dimostrano come la modalità di cottura (microonde o meno) non influenza il contenuto di molecole antiossidanti in alcuni vegetali. Laddove la differenza si è vista, è stata attribuita solo al fatto che la variazione di temperatura del forno a microonde è  meno leggera che nella cottura tradizionale.

Insomma, come dire. L’effetto delle microonde è solo legato alla temperatura. La degradazione di vitamine o proteine o altre tipologie di nutrienti si ha sia che venga usato il forno a microonde, sia che venga usata la cottura tradizionale. Per evitare perdita di nutrienti bisogna saper regolare bene la potenza del forno a microonde.

E l’effetto delle microonde sul corpo umano? beh … se metto una mano nel microonde mi scotto esattamente come quando metto la mano in un pentolone di acqua bollente. Il meccanismo della “scottatura” è diverso, alla luce di quanto spiegato, ma l’effetto (il dolore) è lo stesso.

Per concludere, trovate a questo link tutte le informazioni in merito all’uso delle microonde per la cottura degli alimenti. Non è un sito qualsiasi, si tratta del World Health Organization che certo non può essere accusata di essere a capo delle lobby di big-microwave.

Glossario

cm = centimetro (1 · 10-2 m)

Gradi di libertà. Con la locuzione “gradi di libertà” si intende il movimento (traslazionale, vibrazionale e rotazionale) cui ogni singolo atomo in una molecola è soggetto. Se la molecola è fatta da N atomi, il numero di gradi di libertà, ovvero il numero di movimenti cui la molecola è soggetta è: 3N.

nm = nanometro (1 · 10-9 m)

mm = millimetro (1 · 10-3 m)

pm = picometro (1 · 10-12 m)

Fonte dell’immagine di chiusura

Zucchero di canna, zucchero raffinato

il 20 Aprile è stato pubblicato sul sito www.sanitainformazione.it una mia intervista (rilasciata in occasione del 2° Convegno Nazionale su Medicina e Pseudoscienza) in merito alla bufala dello zucchero di canna più salutare di quello raffinato. Avevo già scritto in merito a questa bufala un po’ di tempo fa (link).

Il testo dell’intervista ripreso dal sito di Sanità&Informazione a questo link, è riportato qui sotto:

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Lo zucchero di canna fa meno male rispetto a quello bianco? È la domanda che ci facciamo tutti, e che abbiamo rivolto anche al professor Pellegrino Conte, Docente di Chimica Agraria presso l’Università di Palermo.

Professore, uno dei nostri grandi dubbi riguarda lo zucchero di canna; è vero che fa bene ed è più salutare rispetto a quello tradizionale?

«No, è esattamente la stessa cosa perché lo zucchero di canna contiene il 96% di saccarosio ed un 3-4% di altri composti che sono metalli, sali minerali e un po’ di vitamine. Facendo l’analisi quantitativa di questi composti risulta che l’apporto nutrizionale è molto basso. Facendo riferimento solo allo zucchero, per assumere il giusto corrispettivo vitaminico giornaliero, dovremo usare più di 100 grammi di zucchero. Questo non è possibile, perché in base alle linee guida dell’Organizzazione Mondiale della Sanità noi dobbiamo assumere al massimo due, tre bustine di zucchero al giorno».

Come ha fatto a diffondersi questa credenza in base alla quale lo zucchero di canna sarebbe meglio dello zucchero raffinato?

«Semplicemente per un fatto commerciale, basta instillare nella mente delle persone che “raffinato” significa “non salutare” e   “non raffinato” significa “migliore”. È sufficiente manipolare i dati chimici dicendo che nello zucchero di canna ci sono vitamine non presenti in quello bianco ed il gioco è fatto».

Quindi la soluzione è ridurre il quantitativo di zucchero?

«La soluzione è esattamente questa: ridurre il quantitativo di zucchero e attenersi a quelle che sono le indicazioni dei nostri medici».

Anche lo zucchero di canna più “scuro” è ugualmente raffinato, ma in una percentuale più bassa?

«Esatto. Nel processo di purificazione dello zucchero ci si ferma ad uno stadio precedente la sbiancatura, c’è un po’ più di melassa che dà quel colore marroncino tipico, ma è trattato allo stesso modo».

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Link diretto all’intevistahttp://www.sanitainformazione.it/melalgiorno/nutrizione/zucchero-canna-male-verita/

L’immagine di copertina è un fotogramma dell’intervista al linkhttps://www.youtube.com/watch?v=c_TgtcN-3dk&feature=youtu.be

Scie chimiche e sabbia

Qualche giorno fa è piovuto in tutta Italia. La pioggia ha sporcato tutto perché conteneva la sabbia portata dai deserti africani. Si tratta di un fenomeno del tutto naturale.

I venti forti provenienti dall’emisfero meridionale sollevano la sabbia del deserto che viene dispersa nell’atmosfera. I venti trasportano questa sabbia lungo il loro percorso assieme a tutte le altre componenti dell’aria, inclusa l’acqua. Quando i venti anzidetti incontrano i fronti freddi provenienti dal nord, si verifica la condensazione dell’acqua atmosferica. Le gocce di acqua che si formano, una volta raggiunte dimensioni tali da risentire dell’effetto della forza gravitazionale, precipitano sotto forma di pioggia. Durante il processo di condensazione, le gocce di acqua inglobano anche la sabbia presente in atmosfera. La conseguenza è che diciamo che “piove sabbia”.

Naturalmente frotte di capre ignoranti (senza offesa per quei simpatici animaletti; si tratta solo di un modo di dire) hanno cominciato a fantasticare di complotti mondiali ad opera non si sa bene chi, in base ai quali ci starebbero avvelenando mediante l’irrorazione di sostanze tossiche attraverso le cosiddette “scie chimiche”. La prova di ciò è che caproni, la cui sottocultura proviene dai meandri più nascosti e maleodoranti del mondo della rete (le famose università della vita), hanno fatto pseudo esperimenti casalinghi in cui dimostrano che la sabbia piovuta nei giorni scorsi viene attirata dalle calamite. Potete trovare un esempio di ciò in questo link. Secondo queste capre, questo fenomeno è strano perché la sabbia non deve essere attirata dalle calamite.

Il punto è che sarebbe meglio che adulti rincretiniti dal troppo vedere filmati porno in rete, si fermassero e cominciassero a spendere il loro tempo in modo più proficuo aprendo qualche libro. Andrebbe bene anche un sussidiario della quinta elementare. Vediamo perché.

La sabbia è fatta da piccoli frammenti minerali le cui dimensioni sono per lo più inferiori a 2 mm. Sotto l’aspetto della composizione chimica, si può dire che non esiste “la sabbia”, ma esistono diverse sabbie in funzione di quello che contengono. Più correttamente dovrei dire che la composizione delle sabbie dipende dalla natura delle rocce dalla cui erosione esse si producono. Possiamo per esempio avere le sabbie bianche, come la sabbia di San Vito lo Capo in Sicilia o delle Maldive. Il colore bianco è dovuto alla presenza di gesso (il solfato di calcio, CaSO4), come nel caso del White Sands National Monument nel New Mexico (USA), o di calcare (il carbonato di calcio, CaCO3), come nel caso delle Maldive. Si può avere sabbia verde come quella di Papakōlea nelle Hawaii. In questo caso il colore verde è dovuto alla presenza di olivina, un minerale contenente sia ferro che magnesio. Si tratta, in effetti, di un silicato misto di ferro e magnesio con formula generale (Fe, Mg)2SiO4.

Come si evince da quanto appena scritto, le sabbie possono contenere anche il ferro. Il ferro è paramagnetico. Il termine “paramagnetico” non è una parolaccia. Vuol dire, sotto il profilo chimico, che il ferro ha elettroni spaiati; sotto il profilo pratico l’aggettivo “paramagnetico” si traduce nel fatto che il ferro viene attirato dalle calamite.

Ecco, quindi, spiegato lo strano fenomeno che il caprone ignorante ha osservato nel filmato di facebook (Figura 1)

Figura 1. Fotogramma del filmato in cui si vede come la sabbia venga attirata da una calamita

Non basta mettersi gli occhiali alla Men in Black per sembrare acculturati. Purtroppo la cultura va alimentata con lo studio continuo e la lettura approfondita. Come diceva Umberto Eco, oggi la rete ha dato visibilità a frotte di scemi del villaggio.

Fonte dell’immagine di copertina: http://www.energynnovation.it/la-sabbia-riscaldata-puo-produrre-energia/2015/06/09/

Fonte dell’immagine di chiusura: https://www.cinematographe.it/news/men-in-black-f-gary-gray/

L’omeopatia è innocua?

Torno di nuovo sull’ omeopatia. Di tanto in tanto fa bene riportare alla memoria le sciocchezze relative a questa pratica di cui ho già avuto modo di scrivere e parlare tanto (qui la collezione di articoli presenti nel blog ed una intervista radiofonica nel programma Neandhertal Pride di Lele Pescia, Ivo Ortelli e La Iena Ridens, mentre qui c’è la lezione sull’omeopatia tenuta al Caffè dei Libri di Bassano del Grappa qualche anno fa). Le cose scritte in questo articolo riprendono quanto avevo scritto all’inizio del 2017 sulla mia pagina scientifica in Facebook, prima che venisse reso pubblico questo blog.

Uno dei fatti più importanti che bisogna evidenziare in merito alla omeopatia è che le aziende che producono rimedi omeopatici non sono in grado di né interessate a sviluppare conoscenza. Infatti, dal momento che esse basano i loro prodotti su credenze nate nella prima metà del XIX secolo e sono ferme alle conoscenze dell’epoca, benché lo sviluppo scientifico abbia cominciato a smentirle già a partire dal 1811, le suddette aziende non hanno interesse alcuno a sviluppare ricerca e tecnologia e, di conseguenza, non possono essere considerate come un settore produttivo di crescita a lungo termine per un qualsiasi paese.

Solo con un piccolo investimento, senza alcuna velleità di sviluppo culturale perché ferme a idee di circa 200 anni fa ormai superate dalle moderne conoscenze scientifiche, le aziende di prodotti omeopatici vendono sogni e si fanno pagare a peso d’oro. Non sto parlando di fitoterapia che, sebbene entro certi limiti, una qualche bio attività la dimostra, ma di omeopatia, ovvero di preparati che non hanno alcun ruolo biochimico se non quello placebo che è di carattere psicologico.

Nelle varie discussioni seguite alla pubblicazione on line dei miei articoli, ho dovuto notare, con mia enorme sorpresa oltre che dispiacere, che una gran quantità di interventi era fatta da persone che spengono il cervello, assieme al proprio pensiero critico, quando si tratta di argomenti che vanno ad intaccare le proprie convinzioni fideistiche. Sì, perché l’omeopatia, purtroppo, deve essere considerata come un vero e proprio atto di fede che va ad affiancare e/o sostituire la fede canonica in una qualsiasi entità soprannaturale.

Naturalmente, la fede rende ciechi e chiude ogni possibilità di dialogo razionale. In tutte le discussioni in cui sono intervenuto e tuttora intervengo mi son preso e mi prendo tantissimi insulti e, naturalmente, una buona dose di “ignorante”, nonostante dichiari la natura della mia professione (sono un chimico e tengo alla differenza tra “professione” e “mestiere”, come insegnato alle elementari dei miei tempi).

Tra le tante argomentazioni a sostegno dell’omeopatia compare la famosa    “ognuno si cura come vuole”, oppure “se le cure omeopatiche sono rimborsate dal SSN allora vuol dire che funzionano”; queste argomentazioni sempliciotte fanno solo sorridere perché fanno capire i limiti culturali di chi si espone in questo modo e ritiene che un giudice o un legislatore qualunque possa intervenire nel modificare quelle che sono leggi scientifiche; confondono le leggi chimiche o biochimiche con quelle del codice civile. Ma va bene, perché non tutti possono essere addentro alla chimica. La cosa grave si osserva quando di fronte ad argomentazioni serie di natura scientifica, queste persone si trincerano, o meglio si arroccano, nelle loro false convinzioni ed alzano barriere impenetrabili a qualsiasi argomento razionale.

Da qualche parte ho letto che il fact checking, ovvero la semplice esposizione dei fatti, sortisce l’effetto opposto a quello desiderato: le persone invece di aprire la loro mente si rinchiudono sempre più nel loro mondo. E sempre gli esperti suggeriscono di utilizzare tanta pazienza come quando i genitori cercano di blandire i figli piccoli cocciuti che non ne vogliono sapere di prendere una medicina o mangiare la verdura. Il punto è che in questo caso si ha a che fare con persone adulte che hanno delle responsabilità. Tuttavia, nonostante tutto, esse ancora perseverano nelle loro convinzioni invocando il principio di autorità: “ho consultato tantissimi medici preparati”, “se tanti medici la consigliano vuol dire che funziona” e così via di seguito. Si tratta dello stesso principio di autorità contro cui si scagliano quando qualche scienziato preparato cerca di far loro capire le sciocchezze che affermano. Interessante questa dissociazione mentale, vero? Sono contro il principio di autorità solo quando fa loro comodo. Ma tant’è.

Dagli interventi sempliciotti si passa a quelli pseudo scientifici: “su di me (sui miei animali) funziona” come se le osservazioni soggettive fatte senza un controllo fossero attendibili e come se sugli animali non fosse mai stato osservato l’effetto placebo.

Ma ciò che colpisce di più è la assoluta incongruenza logica di questi individui, fan sfegatati dell’ omeopatia. L’omeopatia, secondo loro, è innocua.

Invocare l’innocuità dell’ omeopatia è una contraddizione in termini. Se uno ammette che l’assunzione di preparati omeopatici apporta benefici, non può parlare di innocuità. Se si ammette che l’omeopatia in qualche modo funziona sul nostro organismo, allora non può essere innocua. Tuttavia, capisco che per queste persone il termine “innocuità” si riferisce all’assenza di effetti collaterali. Questa assenza sarebbe certificata dai bugiardini dei preparati omeopatici che non riportano le lunghissime liste di contro indicazioni trovate nei bugiardini dei farmaci veri. In realtà, queste persone non sanno o fanno finta di non sapere o ancora dimenticano che la legislazione che regolamenta l’immissione in commercio dei farmaci veri è molto stringente e richiede diverse fasi di sperimentazione oltre ad imporre la descrizione di tutti i possibili effetti indesiderati verificatisi o osservati, sebbene non necessariamente correlati all’assunzione del farmaco, durante la sperimentazione. Al contrario i preparati omeopatici non sono soggetti ad alcuna sperimentazione oltre a essere soggetti ad una legge più “tenera” di quella cui sono soggetti i farmaci veri. Mancano le contro indicazioni dai bugiardini dei preparati omeopatici semplicemente perché, non avendo alcuna funzione biochimica, essi non hanno alcun effetto. L’unico effetto dei preparati omeopatici è quello placebo, di tipo psicologico, come detto prima.

“I preparati omeopatici non uccidono”. Ecco un’altra argomentazione. Come se ad uccidere una persona non fosse la grave patologia diagnosticata, ma il rimedio farmacologico usato per combatterla. Capisco la necessità psicologica di individuare un “nemico fisico” contro cui scagliarsi nelle avversità della vita. Ci passiamo o ci siamo passati tutti. Ma questo non ci autorizza a spegnere la nostra razionalità. I preparati omeopatici non uccidono nel senso che non sono un veleno. Ma quando l’omeopatia si sostituisce alle terapie accreditate e valide, allora sì, l’omeopatia uccide. Come non ricordare il caso di quella ragazza diabetica morta perché la terapia insulinica era stata sostituita con una omeopatica? Mi si potrà dire che le cure omeopatiche coadiuvano quelle farmacologiche, ma anche l’amore di un genitore, l’affetto di chi ti è vicino sono degli ottimi coadiuvanti e, soprattutto, costano molto meno di un preparato omeopatico.

Dal mio punto di vista, il problema dei fan dell’omeopatia è un forte distacco dalla realtà ed una assurda lontananza dalle regole fondamentali della logica del pensiero razionale. La cosa è preoccupante. Queste persone votano e col loro voto sono in grado di influenzare le scelte politiche ed economiche di una intera nazione portandola a livelli di devoluzione/involuzione quanto mai assurdi.

Fonte dell’immagine di copertinahttp://ildubbio.news/ildubbio/2017/05/30/omeopatia-la-grande-truffa/

I dolcificanti. L’aspartame

Faccio molto uso di dolcificanti. Quando vado al bar per prendere il mio cappuccino mattutino chiedo sempre un dolcificante per rendere più dolce la bevanda che già di per sé è dolce. In genere mi viene sempre fornito aspartame, qualche volta acesulfame-K, molto meno spesso sucralosio o altri tipi di dolcificanti. Quante volte ho dovuto sentire, anche da parte di colleghi universitari, “ma non hai paura? I dolcificanti sono tossici” oppure “inducono il cancro” ed altre amenità del genere. Non parliamo poi delle sciocchezze che ascolto nei locali cosiddetti “bio”: è un apoteosi di cretinate salutistiche e di sparate pseudo chimiche nei confronti di questi prodotti “alternativi” al saccarosio che sono estremamente utili per chi ha serie patologie come il diabete e, per questo, non può fare uso di “zucchero normale” – ovvero di dolcificanti contenenti glucosio.

Se l’informazione veicolata dalla stampa generalista non scientifica oppure di nicchia (come per esempio qui) in base alla quale “i dolcificanti fanno male” attecchisce nei professori universitari – che hanno tutti i mezzi per poter controllare la validità di certe informazioni – non posso aspettarmi maggiore maturità culturale da parte di persone senza un background scientifico. Ed allora cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. Oggi parliamo di aspartame

aspartamE: cos’é?

L’aspartame è un dipeptide il cui nome IUPAC è “N-(L-α-Aspartyl)-L-phenylalanine, 1-methyl ester”(Figura 1A). In altre parole, è ottenuto per formazione di un legame peptidico tra l’acido aspartico (Figura 1B) e la fenilalanina (Figura 1C). Il gruppo carbossilico (-COOH) della fenilalanina è esterificato mediante l’inserzione di un gruppo metile.

Figura 1. Struttura dell’aspartame (A), acido aspartico (B) e fenilalanina (C)

L’aspartame è anche indicato con la sigla E951, per cui quando leggete gli ingredienti presenti in un alimento e notate la sigla anzidetta, sapete che l’alimento contiene aspartame.

Dei due amminoacidi presenti nell’aspartame, la fenilalanina (Figura 1C) è essenziale, ovvero il nostro organismo non è in grado di sintetizzarlo; la conseguenza è che dobbiamo assumere fenilalanina attraverso la dieta per consentire la corretta sintesi delle proteine che contengono tale amminoacido, per consentire la sintesi di alcuni ormoni e quella di alcuni neuro trasmettitori (per esempio qui).

L’aspartame è tossico?

La Figura 2 mostra la reazione di decomposizione cui può essere soggetto l’aspartame per effetto dell’interazione con molecole di acqua in ambiente acido, come quello presente nel nostro stomaco, o per azione della temperatura, come quelle usate per cucinare i nostri alimenti. Da quanto appena detto, si capisce che il dolcificante in oggetto non può essere usato per preparare alimenti che devono essere soggetti a cottura. Infatti, l’aspartame, quando sottoposto ad elevate temperature, si decompone nelle sue componenti elementari (ovvero acido aspartico, fenilalanina e metanolo) perdendo completamente il suo potere dolcificante (che è circa 200 volte più intenso di quello del saccarosio.

Figura 2. Degradazione dell’aspartame per idrolisi. Quest’ultima può avvenire in ambiente acido come quello del nostro stomaco, o per effetto delle alte temperature, come quelle usate per cucinare.

Delle tre componenti, il metanolo è quello che può fare più paura. Infatti, il metanolo provoca mal di testa e vertigini, può portare a crampi, nausea, vomito e cecità oltre che alla morte quando assunto in quantità superiori a circa 0.1 g/kg. Tradotto in altre parole, se un individuo dal peso medio di 80 kg assume circa 8 g di metanolo in un giorno, può morire. Se, per sua fortuna, non muore, può tuttavia rimanere menomato per effetto di gravi danni neurologici permanenti (scheda di sicurezza del metanolo).

Alla luce di quanto scritto, mi potreste chiedere: “ma allora già solo per la formazione del metanolo, l’aspartame deve essere considerato pericoloso. Perché ci dici che non dobbiamo preoccuparci?”.

Come ho appena scritto, perché il metanolo prodotto dalla degradazione dell’aspartame possa dare gravi danni neurologici e finanche la morte, è necessario superare una certa soglia limite che è, mediamente, intorno agli 0.1 g/kg.

La Figura 3 mostra la composizione chimica di un dolcificante comprato in una nota catena di supermercati. La confezione contiene 200 pillolette dal peso complessivo di 8.4 g. Ogni pilloletta pesa, quindi, 0.042 g. Il 43% di tale peso è dovuto all’aspartame. Questo vuol dire che ogni pilloletta contiene 0.019 g di aspartame. Alla luce della reazione riportata in Figura 2, la quantità di metanolo ottenuta per decomposizione di 0.019 g di aspartame è pari a 2.0 mg, ovvero una quantità circa 4000 volte più piccola di quella che può provocare danni permanenti o uccidere un individuo dal peso medio di 80 kg. Insomma, per avere problemi dovuti alla formazione di metanolo, un individuo del peso di 80 kg deve usare almeno 4000 pillolette di quelle descritte in Figura 3; si tratta, cioè di 20 scatolette al giorno. Un po’ troppo, non trovate? Conoscete qualcuno che mangia pillolette di dolcificante come fossero caramelle o prende tanti di quei caffé da arrivare a far uso di un tale ammontare di aspartame? Io, personalmente, no. Peraltro se un individuo prende tanti caffè da far uso di oltre 4000 pillolette di aspartame, rischia seri problemi di salute non solo a causa del dolcificante, ma anche a causa del numero spaventoso di caffè giornalieri.

Figura 3. Dolcificante a base di aspartame comprato in una nota catena di supermercati

E le altre due componenti che si formano per degradazione dell’aspartame hanno qualche conseguenza sulla salute? In realtà, l’unica componente che può avere seri effetti sulla salute umana è proprio la fenilalanina. Infatti, esiste una patologia rara che si chiama iperfenilalaninemia che provoca seri danni neurologici. Questa malattia è genetica e consiste nella incapacità da parte dell’organismo di metabolizzare la fenilalanina per la sintesi di un altro amminoacido che si chiama tirosina. Rimando a pagine più dettagliate e specifiche della mia per approfondimenti su questa patologia (per esempio qui). E’ per questo motivo che la dose giornaliera di aspartame consigliata è di circa 40 mg/kg. Un individuo del peso medio di 80 kg può assumere fino a 3.2 g di aspartame al giorno prima di avere problemi di salute legati alla fenilalanina. Ma 3.2 g di aspartame corrispondono a un po’ più di 200 pillolette al giorno di quelle mostrate in Figura 3; si tratta, cioè, di utilizzare una scatoletta al giorno del dolcificante di Figura 3. Insomma, ancora una volta, bisogna assumere aspartame in dosi massicce prima di poter riscontrare un qualche effetto sulla nostra salute.

Aspartame e cancro: cosa c’è di vero?

Come già accennato sopra, di tanto in tanto tornano alla carica informazioni pseudo scientifiche in merito al rapporto assunzione di aspartame ed insorgenza di tumori o altra tipologia di patologia. Per esempio, nel 2005 un gruppo di ricerca Italiano (Soffritti M, Belpoggi F, Esposti DD, Lambertini L. Aspartame induces lymphomas and leukaemias in rats. European Journal of Oncology 2005; 10(2):107–116) ha evidenziato una correlazione tra uso di aspartame ed insorgenza di linfomi e leucemia nei ratti. A seguito di questo studio, la Food and Drug Administration americana (l’equivalente della nostra Agenzia Europea del Farmaco) ha messo sotto la lente di ingrandimento l’uso alimentare dell’aspartame ed ha potuto evidenziare non solo che tale correlazione non esiste su basi meta-analitiche, ma che lo studio citato era anche affetto da limiti metodologici. Se siete curiosi, potete leggere qui le informazioni sull’aspartame, mentre qui le conclusioni della FDA e qui la storia completa sulla canceroginità inesistente di tale dipeptide. Insomma, per non farla tanto lunga, la correlazione tra insorgenza di tumori ed uso di aspartame è solo una leggenda metropolitana. Come ogni sistema chimico destinato all’alimentazione, anche l’aspartame è soggetto a controlli molto stringenti che escludono categoricamente ogni effetto negativo ad esclusione di quelli già evidenziati nel paragrafo precedente.

Aspartame, dieta e diabete

Siamo tutti umani, diciamo la verità. E come esseri umani siamo convinti che se usiamo dei dolcificanti che non forniscono “calorie” al nostro organismo, possiamo permetterci  “sgarri” più frequentemente di quanto faremmo se fosse presente il tradizionale saccarosio. Ecco; forse il problema dell’aspartame, come, in effetti, di tutti i dolcificanti, è che ci fanno illudere di poter abusare degli alimenti che li contengono.

“Bevo la coca cola zero, tanto è senza zuccheri e non fa ingrassare”; quante volte abbiamo pensato una cosa del genere? In effetti la coca cola zero non contiene quello che nel linguaggio comune è indicato come zucchero, ovvero il saccarosio, ma contiene vari dolcificanti tra cui l’aspartame. La Figura 4 mostra la composizione della coca cola zero.

Figura 4. Composizione chimica della Coca Cola zero (Fonte)

Come si può leggere, oltre ai dolcificanti (del ciclammato di sodio e dell’acesulfame-K parleremo in altro momento), la coca cola zero contiene anidride carbonica, il 4-metilimidazolo (indicato come  colorante E 150d), l’acido fosforico, aromi naturali (inclusa caffeina) e, come correttore di acidità, il citrato trisodico.

Un consumo eccessivo di coca cola zero, oltre a comportare assunzione di aspartame in quantità elevate, determina senzazioni di gonfiore ed aerofagia (a causa della presenza di anidride carbonica), carenza di calcio con conseguente possibile osteoporosi negli adulti e rachitismo nei bambini (l’acido fosforico forma sali di calcio insolubili; la dose giornaliera consigliata per i fosfati è di circa 70 mg/kg, ovvero un individuo adulto del peso medio di 80 kg può assumere circa 6 g di fosfato al giorno) e  possibile insorgenza di cancro per effetto della presenza del 4-metilimidazolo. Infatti, quest’ultimo, se assunto in quantità superiori a 751 mg/kg/die (ovvero pari a circa 60 g al giorno per un individuo dal peso medio di 80 kg), può portare ad insorgenza di tumori (qui la scheda di sicurezza del 4-metilimidazolo). Insomma, come aveva già stabilito Paracelso nel XIII secolo, è la dose che fa il veleno. Bevete pure la coca cola zero, ma senza abbuffarvi.

E che c’entra il diabete con l’aspartame? Nel 2014 è stato pubblicato su Nature un lavoro dal titolo “Artificial sweeteners induce glucose intolerance by altering the gut microbiota” in cui gli autori hanno evidenziato che il consumo eccessivo di dolcificanti di sintesi comporta una alterazione della flora microbica intestinale con conseguenze negative sulla capacità dell’organismo di metabolizzare il glucosio. Per poter ristabilire le condizioni pre-esperimento è necessario far uso di antibiotici in grado di ripristinare le condizioni microbiche di partenza.

Conclusioni

L’aspartame non è pericoloso se assunto in modo equilibrato ed al di sotto delle dosi consigliate. I prodotti della sua degradazione vengono escreti dalle vie urinarie, per cui non ci sono problemi di accumulo. Del resto anche una fetta di sachertorte (Figura 5) è una delizia per il palato e migliora l’umore. Tutto quanto della sachertorte serve al nostro organismo viene metabolizzato, il resto viene escreto. Il consumo eccessivo, oltre che frequente, di intere sachertorte comporta, invece, l’insorgenza del diabete di tipo II con le conseguenze che tutti conosciamo. In altre parole, a distanza di circa cinque secoli, è ancora valida la locuzione “è la dose che fa il veleno”.

Figura 5. Sachertorte (Fonte)
Fonte dell’immagine di copertina: Wikimedia Commons

Omeopatia e fantasia. Parte V. Aggiornamenti

Sta girando in rete una notizia in merito ad uno studio denominato EPI3 che secondo gli amici dell’omeopatia avrebbe prodotto le prove definitive sulla validità di questa pratica risalente al XIX secolo e basata su teorie metafisiche oggi non più  valide, considerando lo sviluppo che la chimica, la biologia e, non ultima, la medicina hanno avuto negli ultimi 150 anni.

Ho già avuto modo di parlare dell’omeopatia in più articoli su questo blog. Li potete trovare a questo link in ordine inverso di apparizione temporale.

I principi dell’omeopatia

In breve, nel 1810, Hahnemann pubblica il suo “Organon of medicine” nel quale pone le basi teoriche dell’omeopatia:

  1. il simile cura il simile
  2. più alta è la diluizione, più efficace risulta il rimedio omeopatico
  3. l’efficienza del rimedio omeopatico raggiunge il suo massimo non solo con la diluizione, ma anche con la succussione, ovvero una agitazione meccanica operata in modo sistematico con un movimento verticale (dall’alto verso il basso) e sbattendo il recipiente contenete il rimedio su una tavoletta rivestita di pelle morbida o crine di cavallo
  4. le malattie sono il risultato di alterazioni delle condizioni psico-fisiche soggettive del paziente per cui i rimedi non hanno tutti la stessa efficacia per la stessa tipologia di malattia in pazienti differenti
  5. la cura omeopatica non sopprime la malattia, ma la espelle

I principi omeopatici si basano sul concetto di vis vitalis, ovvero di una forza metafisica che permeerebbe tutti gli esseri viventi ed i sistemi riconducibili al mondo dei viventi. La vis vitalis era ritenuta assente in tutti i sistemi riconducibili al mondo dei non viventi o dell’inanimato. Questa teoria, introdotta da Berzelius – uno dei padri fondatori della chimica moderna – è stata definitivamente accantonata nel 1828, quando Whöler riuscì a convertire l’isocianato di ammonio – una sostanza inorganica che come tale appartiene ai sistemi non viventi – in urea – una sostanza tipica del mondo dei viventi.

Nel momento di massima espansione della teoria della vis vitalis, quando ancora non si conosceva il risultato del lavoro di Avogadro apparso nel 1811, Hahnemann elaborò il suo codice in base al quale un qualsiasi sistema organico poteva essere soggetto a diluizione infinita senza perdita alcuna di efficacia biologica. Infatti, il processo di diluizione, associato a quello di succussione, “estraeva” la vis vitalis dal sistema organico – ovvero riconducibile al mondo dei viventi – e la trasferiva al solvente. In definitiva, non era importante la presenza del principio attivo per la cura delle patologie – come anche la farmacologia dell’epoca riteneva – ma bastava la sola presenza della vis vitalis “estratta” dal principio attivo per allontanare le perturbazioni della vis vitalis dall’organismo vivente.

Da quanto detto, potete facilmente rendervi conto che la teoria omeopatica di Hahnemann poteva avere un senso nel XIX secolo quando il mondo chimico/biologico/medico, ancora in fasce, era affiancato dal mondo magico i cui esponenti potevano essere considerati a tutti gli effetti maghi, fattucchiere e stregoni (qui).

Lo sviluppo della moderna chimica, di cui potete trovare espressione nei libri della foto di Figura 1, ci consente di dire, semmai ce ne fosse bisogno, che le teorie di Hahnemann – a cui dobbiamo essere comunque grati per l’apporto dato allo sviluppo delle conoscenze umane – sono basate sul nulla.

Figura 1. Nella mia collezione di libri di chimica ce ne sono alcuni che sono i capisaldi della materia. Vanno studiati con attenzione se uno decide di intraprendere il percorso chimico come professionista
Un invito

Prima di entrare nel merito del progetto EPI3 voglio suggerire a naturopati, pseudo-chimici (sono i chimici passati al lato oscuro della scienza), pseudo-medici (sono tutti quelli che, sebbene laureati in medicina, prestano le loro conoscenze alla pseudo-medicina/pseudo-scienza) e a tutti gli amici dell’omeopatia, di ristudiare o di studiare ex-novo i testi riportati nell’immagine di Figura 1 (o anche simili) prima di addentrarsi in critiche di ogni tipo nei commenti di questo blog. Commenti spazzatura in cui non si entra nel merito, ma si applicano pedissequamente le fallacie logiche che potete trovare qui, non saranno neanche minimamente presi in considerazione se non per esporre l’autore al pubblico ludibrio scientifico.

Il progetto EPI3

Ed entriamo ora nel merito. Scrivevo poco più su che gira in rete la notizia di un mega studio, durato alcuni anni e che ha consentito la pubblicazione di ben undici lavori scientifici, che confermerebbe la validità dei trattamenti omeopatici per alcune patologie quali ansia, depressione, disturbi del sonno, infezioni del tratto respiratorio superiore e dolori muscolo-scheletrici. Il link alla notizia è qui. Naturalmente, come ogni buon giornalista NON dovrebbe fare, in calce all’articolo non si riporta alcun riferimento degli undici lavori pubblicati. Tuttavia, c’è un link ad un sito in francese (qui) che riporta una bibliografia di dodici lavori. Tra questi i primi undici sono relativi al progetto EPI3. Ecco la lista degli undici lavori:

  1. Rossignol et al., Who seeks primary care for musculoskeletal disorders (MSDs) with physicians prescribing homeopathy and other complementary medicine ? Results form the EPI3-LASER survey in France. BMC Musculoskeletal Disorders, 2011, 12:21 doi:10.1186/1471-2474-12-21 ; 1-6.
  2. Rossignol et al., Benchmarking clinical management of spinal and non-spinal disorders using quality of life. Results from the EPI3-LASER survey in primary care. European Spine Journal, 2011, doi:10.1007/s00586-011-1780-z ; 1-7.
  3. Grimaldi-Bensouda et al., EPI3-LA-SER group. Benchmarking the burden of 100 diseases. Results of a nationwide representative survey within general practices. BMJ Open, 2011, 1:e000215. doi:10.1136/bmjopen-2011-0002 ; 1-11.
  4. Grimaldi-Bensouda et al., EPI3-LA-SER group. Who seeks primary care for sleep, anxiety and depressive disorders from physicians prescribing homeopathic and other complementary medicine? Results from the EPI3 population survey. BMJ Open, 2012, 2(6): e001498. doi: 10.1136/bmjopen-2012-001498. ; 1-10.
  5. Lert et al., EPI3-LA-SER Group. Characteristics of patients consulting their regular primary care physician according to their prescribing preferences for homeopathy and complementary medicine. Homeopathy, 2014, 103(1) ; 51-57.
  6. Rossignol et al., EPI3-LA-SER group. Impact of physician preferences for homeopathic or conventional medicines on patients with musculoskeletal disorders. Results from the EPI3-MSD cohort. Pharmacoepidemiology and Drug Safety, 2012, 21(10) : 1093-1101. doi:10.1002/pds. 3316 ; 1-9.
  7. Grimaldi-Bensouda et al., EPI3-LA-SER Group. Utilization of psychotropic drugs by patients consulting for sleeping disorders in homeopathic and conventional primary care settings: the EPI3 cohort study. Homeopathy. 2015 Jul;104(3):170-5.
  8. Grimaldi-Bensouda et al., Management of upper respiratory tract infections by different medical practices, including homeopathy, and consumption of antibiotics in primary care: the EPI3 cohort study in France 2007-2008. PLoS ONE, 2014, 9(3) doi: 10.1371/journal.pone.0089990. eCollection 2014 ; 6 p.
  9. Danno et al., Physician practicing preference for conventional or homeopathic medicines in elderly subjects with musculoskeletal disorders in the EPI3-MSD cohort. Clinical Epidemiology, 2014, 6 ; 333-341.
  10. Colas et al.,  Economic impact of homeopathic practice in general medicine in France. Health Econ Rev. 2015 Dec;5(1):55. doi:10.1186/s13561-015-0055-5.
  11. Grimaldi-Bensouda et al., EPI3-LA-SER group. Homeopathic medical practice for anxiety and depression in primary care: the EPI3 cohort study. BMC Complement Altern Med. 2016 May 4;16(1):125. doi:10.1186/s12906-016-1104-2.

La lista riportata è copia-incollata dal sito in francese. Ho evidenziato il termine EPI3 contenuto nel titolo delle pubblicazioni ed ho inserito – per consentire una più facile consultazione – il link ai lavori quando disponibili.

Le riviste

I lavori sono stati pubblicati nelle seguenti riviste di settore:

BMC Musculoskeletal disorders (Impact factor 1.739; n. lavori pubblicati: 1)

European Spine Journal (Impact factor non noto; n. di lavori pubblicati: 1)

BMJ open (Impact factor 2.369; n. di lavori pubblicati: 2)

Homeopathy (Impact factor 1.160; n. di lavori pubblicati: 2)

PDS Pharmacoepidemiology & Drug Safety (Impact factor 2.552; n. di lavori pubblicati: 1)

PlosOne (Impact factor 2.806; n. di lavori pubblicati: 1)

Clinical Epidemiology (Impact factor 7.056; n. di lavori pubblicati: 1)

Health Economics Review (Impact factor non noto; n. di lavori pubblicati: 1)

BMC Complementary Alternative (Impact factor non noto; n. di lavori pubblicati: 1)

Come si evidenzia dalla tabella appena letta, 3 riviste non sono indicizzate, ovvero non hanno impact factor. Una sola ha un impact factor abbastanza alto (si tratta di Clinical Epidemiology), tutte le  altre non vanno oltre un impact factor di 3. Non sono esperto di riviste del settore medico per cui non posso dire nulla in merito alla qualità delle riviste anzidette. Conosco solo PlosOne, rivista di carattere generalista, di cui pensavo molto meglio. Ed infatti, andando a spulciare la storia dell’impact factor di questa rivista, risulta che essa aveva nel 2015 un impact factor di 4.411. In altre parole, dal 2015 al 2016 l’impatto di questa rivista è sceso di ben 1.605 punti. E’ molto. Vuol dire che i lavori pubblicati nei tre anni precedenti al 2016 non sono stati citati quanto quelli nei tre anni precedenti al 2015. Come mai? Questo non lo posso sapere, naturalmente. Dovrei entrare nel merito di tutto quanto pubblicato tra il 2012 ed il 2015. Si tratta, ovviamente, di lavori molto diversificati (ed io non ho una cultura enciclopedica che mi permette di entrare nel merito di tutto), oltre che di una quantità di lavori molto elevata la cui lettura richiederebbe un tempo che non ho a disposizione. In questa sede analizzo solo il dato numerico. Ciò che posso dire è che l’insieme di riviste in cui sono apparsi i lavori del progetto EPI3 sono del settore medico o del settore generalista tutte con peer review. In altre parole, ognuna di esse sottopone i manoscritti ricevuti al giudizio di scienziati dello stesso settore degli autori. Questo va bene. E’ così che funziona il mondo delle pubblicazioni in ambito scientifico.

Essendo pubbliche ed accessibili a tutti, ognuno di noi può leggere ciò che è scritto in queste pubblicazioni (nello specifico basta cliccare sui link presenti nella lista precedente). Se chi legge ha familiarità col metodo scientifico può giudicare da solo la validità di quanto è riportato. Considerando la mia attività, entro, allora, nel merito della validità del metodo scientifico usato negli undici lavori elencati sopra.

I limiti metodologici

Quando si fa un disegno sperimentale per validare/falsificare un certo modello scientifico bisogna cercare di essere quanto più dettagliati e precisi possibile. Faccio un esempio molto semplice per me. Se penso di monitorare (lo so, i puristi della lingua italiana mi diranno strali. Ma non me ne importa. Io uso e continuerò ad usare questo termine che è del gergo tecnico scientifico) la contaminazione di un suolo rispetto ad un elemento qualsiasi della tavola periodica, non posso campionare solo il suolo che ho deciso di analizzare e “vedere” se quell’elemento è semplicemente presente in esso. Mi chiederete: perché? Perché quasi sicuramente io troverò quell’elemento nel suolo che voglio studiare. Per dire che esso è contaminato ho necessità di confrontarlo con uno del tutto analogo che mi deve servire da “bianco”, ovvero da termine di paragone. Nel linguaggio tecnico quest’ultimo suolo viene indicato come “suolo vergine”. Questa locuzione indica un suolo che non è stato sottoposto alla contaminazione che ho deciso di monitorare.

Se l’elemento che voglio osservare è presente sia nel bianco che nel suolo sotto osservazione, posso parlare di contaminazione solo se la quantità di quell’elemento è molto più alta nel suolo “incriminato” rispetto al bianco. Se le quantità sono confrontabili tra loro, posso dire che non c’è contaminazione oppure che il bianco era contaminato come il suolo osservato. Per eliminare il dubbio in merito alla qualità del suolo vergine, posso andare a campionare un altro suolo e considerarlo come controllo rispetto agli altri due. Se ancora una volta le quantità dell’elemento che ho deciso di monitorare sono confrontabili, posso dire che rispetto al nuovo suolo controllo, gli altri due non sono contaminati. La conseguenza è che la scelta del primo suolo controllo era giusta. Se voglio essere ancora più pignolo (i siciliani usano un termine che a me fa morire dal ridere: pillicusu) posso campionare un quarto suolo come bianco e confrontarlo con gli altri tre. E si potrebbe continuare.

Dall’esempio fatto, si comprende che in un disegno sperimentale bisogna prendere in considerazione sempre un campione controllo rispetto al quale poter trarre le conclusioni dell’esperimento.

Prendiamo, ora, in considerazione gli undici lavori elencati sopra.

I lavori dal n. 1 al n. 6 sono uno screening di pazienti, medici, farmaci etc in cui si cominciano a porre le basi per le valutazioni statistiche che vengono proposte nei lavori successivi. In tutti questi lavori vengono considerati pazienti a cui si prescrivono farmaci convenzionali (indichiamoli per semplicità con la sigla FC), rimedi omeopatici (indichiamoli RO) e pazienti sottoposti sia all’azione di farmaci convenzionali che di rimedi omeopatici (indichiamoli con la sigla Mix).

Dopo lo screening, vengono confrontati gli effetti che i FC hanno rispetto ai RO e ai Mix (lavoro n. 7, n. 8, n. 9 e n. 11). Le conclusioni sono che le tre tipologie di rimedi apportano  i medesimi benefici ai pazienti cui essi vengono somministrati.

Nel lavoro n. 10 viene riportato un confronto economico, nell’ambito della sanità francese, nell’uso di FC, RO e Mix. Il lavoro conclude che l’uso dei RO è più conveniente, economicamente parlando, rispetto a quello dei FC.

Dall’analisi, neanche troppo attenta, dei lavori pubblicati grazie al progetto EPI3, salta subito all’occhio che non vengono presi in considerazione “suoli vergini”, ovvero controlli. In altre parole, si confrontano pazienti a cui vengono somministrati FC, RO e Mix e si conclude che RO e Mix hanno la stessa efficacia dei FC, ovvero non è vero che l’omeopatia non funziona. L’omeopatia sembra funzionare almeno quanto i farmaci convenzionali per le patologie prese in considerazione e per il numero statisticamente significativo di pazienti protagonisti del progetto. Neanche tanto velatamente, gli autori sembrano indicare che i rimedi omeopatici hanno il medesimo effetto biologico dei farmaci convenzionali.

La domanda nasce spontanea: come mai non hanno preso in considerazione l’effetto placebo? (ne ho parlato qui). Come mai hanno escluso la considerazione che sia la somministrazione dei farmaci convenzionali che quella dei rimedi omeopatici potesse comportare un miglioramento delle condizioni di salute dovute ad un effetto di carattere psicologico, piuttosto che a un effetto di un principio attivo più o meno diluito?

La risposta a questa domanda è che, sebbene in tutti i lavori che ho letto gli autori facciano un copia/incolla dei limiti che essi hanno visto nel loro disegno sperimentale, manca una popolazione di controllo con le patologie summenzionate ed a cui fosse somministrato un rimedio placebo. Gli autori hanno voluto vedere l’aspetto positivo del loro progetto sperimentale. Hanno dimenticato che i loro dati possono essere letti anche in un altro modo: i farmaci convenzonali non hanno alcun effetto biochimico esattamente come non ne hanno i rimedi omeopatici. Sia i farmaci convenzionali che i rimedi omeopatici agiscono attraverso l’azione del solo effetto placebo.

Conclusioni

Gli autori del progetto EPI3 sono rimasti “fulminati” dal loro pregiudizio di conferma. Hanno voluto vedere degli effetti positivi dell’omeopatia senza prendere in considerazione letture diverse dei loro dati sperimentali.

Come mai, nonostante questo, i lavori sono stati pubblicati? Beh, la validità di un modello scientifico o la bontà di dati sperimentali devono passare il vaglio temporale. Non dimentichiamoci che ci son voluti 12 anni prima che ci si rendesse conto che il lavoro di Wakefield sulla relazione vaccini-autismo fosse un falso; altrettanti ne sono passati prima che qualcuno si accorgesse che i lavori di Schoen sui superconduttori organici fossero anche essi dei falsi; e tanti altri casi di falsa scienza potete leggere qui. In definitiva: lasciamo lavorare gli anticorpi presenti nell’apparato scientifico. Se sono riuscito ad accorgermi io di questo limite metodologico, altri, più preparati di me nel campo, si accorgeranno non solo di questo, ma anche di altri limiti che io non sono stato in grado di vedere, vuoi per noia, vuoi per impreparazione medica.

Integrazioni

Dopo la pubblicazione di questo articolo sul blog sono arrivati tantissimi commenti. Uno di questi da parte di Stefano Cervigni, autore di utilissimi libri di chimica, in cui scrive:

Ciao Rino, per curiosità mi sono andato a guardare un po’ più in dettaglio gli articoli che hai indicato. Anzi, dico la verità: mi sono letto per bene solo il numero 9, quello di Clinical Epidemiology, l‘articolo del giornale col più alto impact factor.
Oltre alla completa mancanza di prove in bianco, come giustamente osservavi, mi permetto di far notare qualche altra „peculiarità“ di questo articolo (ripeto, quello pubblicato sul posto ‘migliore’ di tutti)
1) Due su quattro autori dell’articolo lavorano per la Boiron, mentre uno lavora per il Cyklad Group, che Google mi dice essere “une société spécialisée dans le coaching des entreprises.” (?)
2) I risultati sono molto incoraggianti. Guarda la figura: qualsiasi cosa prendi, dopo 1 anno di trattamento stai messo esattamente uguale a prima.
3) La conclusione a cui arrivano è da incorniciare: tanto dal mal di schiena e artrite non si guarisce comunque. Tanto vale che ti prendi la caramellina mia.

Come gli omeopatici siano riusciti da questo a strombazzare titoli come: Omeopatia vs allopatia, il piùgrande studio fatto in Francia, EPI3, dice che l’efficacia delle cure è la stessa”e che: “Dopo 7 anni di osservazioni su oltre migliaia di pazienti, EPI3 mostra che la percentuale di guarigione è la stessa, ma usando l’omeopatia ci sono meno effetti collaterali” mi è completamente oscuro.
Grazie ancora e in bocca al lupo!

Fonte dell’immagine di copertina: Wikipedia Commons

Sui somari, sugli stupidi e della pseudoscienza

Scienza e democrazia

Ho appena finito di leggere il libro del Prof. Burioni dal titolo “La congiura dei Somari. Perché la scienza non può essere democratica”, in cui l’autore spiega, semmai ce ne fosse bisogno, cosa vuol dire la locuzione “la scienza non è democratica”.
In breve, come sanno tutti coloro che a vario titolo si occupano di scienza, questa non è democratica nel senso che chiunque si svegli la mattina ha diritto di parola e può dire ciò che vuole su qualunque argomento; la scienza è democratica perché chiunque lo desideri può approfondire un particolare aspetto della realtà che ci circonda e dare il suo personale contributo nella spiegazione dei fatti che ha deciso di osservare. In altre parole, la scienza non si basa sulle opinioni di nessuno – sia scienziati che gente che fa altro nella propria vita – ma sui fatti. Si osserva un fenomeno, si ipotizza un modello interpretativo, si conducono esperimenti per validare o falsificare quel modello; nel primo caso il modello funziona e diventa teoria, nel secondo il modello non funziona e bisogna riformularlo; a questo punto gli esperimenti devono essere ripetuti. Come si capisce da questa breve disamina, la modellizzazione dei fatti sperimentali è alla base di quella che viene indicata come verità scientifica. La verità scientifica non ha una valenza assoluta ma è relativa alle condizioni entro le quali le ipotesi sono state formulate.

Ottimismo scientifico

Da quanto appena descritto nasce l’ottimismo scientifico in base al quale una nuova idea o una nuova osservazione mai fatta prima possono condurre ad una nuova verità scientifica che può inglobare quella precedente oppure semplicemente sostituirla: è accaduto per il modello geocentrico dell’universo sostituito da quello eliocentrico, sebbene entrambi avessero pari dignità in termini di formulazione matematica, per la teoria del flogisto sostituita dalle leggi di Lavoisier, per la fisica di Newton inglobata nella meccanica quantistica e così via di seguito.
L’ottimismo scientifico viene male interpretato da chi non conosce la scienza. Infatti, spesso si nasconde la propria ignoranza affermando che le proprie idee siano valide perché si è sicuri che in un futuro non si sa bene quanto lontano, ci sarà qualcuno che proverà la validità delle affermazioni formulate. Il più delle volte ci si riferisce alla vita romanzata di Galilei o di Einstein attraverso un confronto piuttosto spinto: “come quei due grandi scienziati sono stati avversati dall’establishment dei loro tempi, così vengo avversato io perché le mie idee sono innovative e contrarie alle opinioni comuni. Tuttavia, ci sarà in futuro chi mi darà ragione come è accaduto a Galilei ed Einstein”. Chi fa questi pensieri, che io definisco osceni, non si rende conto che quei due hanno avuto ragione non perché avessero espresso delle opinioni generiche basate sul nulla, ma perché avevano generato un impianto fisico che si è dimostrato valido alla prova del tempo. Hanno fatto esperimenti, hanno controllato e ricontrollato i loro dati, e le loro teorie hanno subito l’attacco del mondo scientifico che ha tentato di falsificarle. Non è stato possibile trovare incrinature nel loro impianto teorico. La conseguenza è che esse sono state accettate. Ma solo fino a prova contraria. Se c’è qualcuno che pensa che le teorie di Galilei ed Einstein siano verità assolute, farebbe meglio a ricredersi. Non è così. E non è così per tutte le teorie scientifiche che oggi studiamo sui libri. Sono sicuro che in qualche laboratorio in giro per il mondo c’è qualcuno che sta tentando di falsificare – in senso popperiano – uno qualsiasi dei modelli attualmente accettati nella letteratura scientifica. Tuttavia, i tentativi di falsificazione sono condotti non sulla base di teorie astruse venute in mente durante notti di plenilunio dopo aver mangiato pesante ed ecceduto in libagioni, bensì sulla base di disegni sperimentali sempre più innovativi che servono per comprendere fino a dove ci possiamo spingere con le teorie al momento accreditate.

Sui somari

Il Prof. Burioni va oltre le spiegazioni appena riassunte. Egli, infatti, da ottimo docente quale è, definisce il termine “somaro” che è attualmente desueto, ma era molto di moda quando persone della mia età, che grosso modo è la stessa di Burioni, andavano alle elementari. Un “somaro” nella accezione dell’autore – che poi è l’accezione di quando eravamo piccoli noi – è colui che, pur non avendo studiato, pensa di poter dare un contributo ad argomenti di cui non conosce nulla, alla pari di chi di quegli argomenti ha fatto non solo il proprio oggetto di studi, ma anche la propria ragione di vita.
Alla luce di quanto scritto, tutti siamo dei somari. Prendendo spunto da quanto scrive il Prof. Burioni, io chimico sono un somaro se pretendo di discutere alla pari col mio elettricista, col mio meccanico o finanche con un altro chimico che si occupi di un settore completamente differente dal mio. Ma questo è chiaro. Ho passato la mia vita a studiare chimica; certo ho studiato anche la fisica ed, in particolare, l’elettromagnetismo per cui so cos’è una corrente alternata ed una corrente continua, ma da qui a poter mettere le mani sull’impianto elettrico di casa mia ce ne passa: ho bisogno di un elettricista esperto che sappia cosa fare. Potreste dirmi: ma se hai studiato chimica, come mai non puoi confrontarti con un chimico che lavora in un campo che non è il tuo? Appunto! Io passo la mia vita a studiare la dinamica molecolare dell’acqua e dei nutrienti nei vari comparti ambientali; come potrei anche solo pensare di discutere alla pari con un chimico che si occupa di dinamica di nutrienti nel corpo umano? Come potrei discutere alla pari con un chimico che si occupa di chimica computazionale o di chimica di sintesi? Solo chi non conosce le varie sfumature dei vari rami della chimica può pensare che un chimico abbia familiarità con lo scibile chimico. Se mi addentrassi con le mie conoscenze attuali in una discussione con un esperto sulla chimica computazionale, verrei riconosciuto subito per quello che sono in quell’ambito: un somaro. Ma non ho motivo di offendermi. Sono consapevole di non conoscere tutto, per cui cerco di discutere alla pari solo con chi ha la mia stessa formazione. In tutti gli altri casi o ascolto ed imparo oppure sono io che do lezioni. Certo sono in grado di seguire una discussione in un qualunque ambito chimico, ma non sono in grado di dare un contributo significativo se non nel mio ristretto ambito professionale.
Sulla base di quanto ho finora scritto, non capisco perché apostrofare gli antivaccinisti col termine “asini” abbia scatenato in rete tutta una serie di invettive da parte di chi, volendo applicare le modalità del pensiero debole, ritiene che l’approccio di Burioni non serva per convincere le persone. Qui non si tratta di convincere nessuno. Qui si tratta di dire le cose come stanno: la mamma informata che non vaccina i figli perché ritiene che gli adiuvanti siano tossici o che il sistema immunitario degli infanti sia perfetto o che l’igiene protegga dai virus, altro non é che una somara perché rientra nella tipologia di persone che non solo parla di cose che non sa, pretendendo di dare consigli come se fosse un medico, ma nemmeno si informa correttamente perché cerca solo le informazioni che avallano le sue personalissime opinioni.

Sugli stupidi

Ed ora vengo al punto. Quanto riportato dal Prof. Burioni non è cosa nuova nel panorama culturale italiano. Molto prima di lui, uno storico Italiano, specializzato in storia economica, definisce con il termine “stupido” quello  che è il “somaro” di Burioni. Si tratta di Carlo M. Cipolla la cui biografia si può leggere qui. In realtà, lo “stupido” del Prof. Cipolla ha una accezione più ampia del “somaro” di Burioni. Infatti, mentre il “somaro” è colui che non ha studiato ma, soggetto all’ effetto Dunning-Kruger, ritiene di sapere tutto di un qualsiasi ramo dello scibile umano intervenendo così a sproposito in ogni discussione, lo “stupido” è colui che ha un comportamento grazie al quale arreca un danno sia a se stesso che alla società di cui fa parte.

Ma andiamo con ordine.

Nel suo “Le leggi fondamentali della stupidità umana”, Carlo Cipolla descrive quattro tipologie umane che, in modo analitico, egli dispone nei quattro quadranti di un sistema di assi cartesiani (Figura 1).

Figura 1. Distribuzione delle varie tipologie umane. L’asse x riporta il vantaggio crescente (da sinistra a destra) per il singolo soggetto, mentre l’asse y mostra il vantaggio crescente (dal basso verso l’alto) per un insieme di persone o la società (Fonte)

La disposizione delle quattro tipologie umane segue un andamento ben preciso in funzione del vantaggio crescente che l’individuo dà a se stesso ed alla comunità di individui a cui appartiene. In questo modo, è possibile distinguere individui intelligenti che, col loro comportamento, riescono ad ottenere vantaggi per se stessi e per gli altri (quadrante I del sistema di assi cartesiani in Figura 1); se, invece, gli individui ottengono solo vantaggi per se stessi, ma non per la società, allora si identificano come banditi (quadrante II del sistema di assi cartesiani in Figura 1); quando gli individui oltre ad essere dannosi per se stessi fanno anche danno alla società, vengono catalogati come stupidi (quadrante III del sistema di assi cartesiani in Figura 1); quando un individuo arreca danno a se stesso, ma nel contenpo un vantaggio alla società, può essere catalogato come uno sprovveduto (quadrante IV del sistema di assi cartesiani in Figura 1). Oggi lo sprovveduto verrebbe identificato col termine “sfigato”; ma come si diceva una volta “o tempora, o mores”. Cipolla ha pubblicato le sue leggi fondamentali all’inizio degli anni ’70 del ventesimo secolo, quando ancora non era in uso il termine “sfigato”.

Non esiste un modo oggettivo per poter catalogare ognuno di noi in uno qualsiasi dei quattro quadranti considerati in Figura 1. Lo si può fare solo caso per caso andando a valutare le conseguenze delle nostre azioni su noi stessi e sulla società. Come regola generale possiamo dire che gli intelligenti tendono ad agire in modo tale da non apportare danni a nessuno. Può, tuttavia, capitare che in un determinato momento della propria esistenza, una persona intelligente possa commettere degli errori così da diventare o uno sprovveduto o un bandito. La probabilità che una persona intelligente  ha di essere catalogata tra gli stupidi in un qualsiasi momento della propria vita è piuttosto bassa, se non addirittura nulla. Infatti, riprendendo l’attenta analisi del Prof. Cipolla si può dire che “la grande maggioranza delle persone stupide sono fondamentalmente e fermamente stupide — in altre parole essi insistono con perseveranza nel causare danni o perdite ad altre persone senza ottenere alcun guadagno per sé, sia esso positivo o negativo. Ci sono tuttavia persone che, con le loro inverosimili azioni, non solo causano danni ad altre persone, ma anche a se stesse. Queste sono un genere di super-stupidi che, in base al nostro sistema di computo, appariranno in qualche punto dell’area S alla sinistra dell’asse delle Y (si tratta del quadrante III di Figura 1, NdA)”.

I somari, Gli stupidi e la scienza

Perché ho fatto questa lunga premessa citando sia il libro del Prof- Burioni che l’opera del Prof. Cipolla? Semplicemente perché, sebbene il primo si riferisca ai somari nel contesto scientifico ed il secondo agli stupidi in un contesto economico (il Prof. Cipolla, ricordo, era uno storico dell’economia), non riesco a non catalogare tra gli stupidi tutti quelli che il Prof. Burioni cataloga tra i somari; sono quelli che si professano anti-vaccinisti o seguaci dell’omeopatia; allo stesso modo non riesco a non catalogare tra i banditi tutti coloro che propagandano il credo antivaccinista e quello omeopatico.

Provo a spiegarmi meglio.

Quante volte abbiamo letto che qualcuno è morto per gli effetti di una malattia che avrebbe potuto evitare attraverso la vaccinazione? Quante volte abbiamo letto di morti causate dalla cattiva pratica medica che ha impedito l’uso di cure efficaci per applicare l’omeopatia? Vogliamo parlare del bimbo morto per le conseguenze di un’otite curata con l’omeopatia (qui)? Vogliamo discutere delle vittime della difterite (qui) o di quelle del morbillo (qui)?

Quando dei genitori decidono di non vaccinare il proprio figlio sulla base di paure infondate nonostante tutte le rassicurazioni dei medici, fanno un danno a se stessi (perché la possibile perdita di un figlio è certamente un danno per se stessi), un danno al proprio figlio (che da adulto non vaccinato potrà essere soggetto a malattie mortali come è capitato recentemente in Sicilia, qui) ed un danno alla società (perché consentono la riduzione dell’immunità di gregge, qui, con il conseguente ritorno di malattie oggi ritenute impropriamente scomparse o poco importanti). In altre parole, l’atteggiamento no-vaxx o quello di chi segue le medicine alternative è un atteggiamento che nel linguaggio moderno potrebbe venir catalogato come atteggiamento lose-lose-lose, ovvero tutti ci perdono: dai genitori, ai figli, alla società. Non è detto che i genitori che rifiutano le vaccinazioni o utilizzano medicina alternativa per i propri cari siano somari nell’accezione usata dal Prof. Burioni. Se un somaro è colui che non conosce la materia di cui parla, non può essere il caso di quei genitori che hanno perso il figlio come riportato nella notizia a questo link. Non può essere considerato somaro neanche l’operatore sanitario che, seguendo la filosofia antivaccinista, non somministra i vaccini procurando un danno sia a se stesso che agli altri (la notizia è qui). In questi casi specifici va applicata la teoria della stupidità elaborata dal Prof. Cipolla, con la conclusione che ognuno di noi può trarre autonomamente.

E i banditi?

Alla luce della definizione data in modo analitico dal prof. Cipolla, i banditi sono quelli che per procurare un vantaggio per se stessi, fanno un danno agli altri. Esempi di banditi secondo questa accezione? Indubbiamente Wakefield che, per procurare a se stesso dei guadagni, ha fatto grossi danni alla società dal momento che, grazie a lui, oggi spopola la falsa correlazione vaccini-autismo alla base del movimento antivaccinale. La storia di Wakefield è qui. In generale, tutti coloro che hanno tanto da guadagnare dalla pseudo scienza (per esempio con la vendita di libri, con le comparsate ai convegni, con fondi di qualsiasi tipo) e dall’aumento del numero di seguaci, sono da considerarsi banditi.

Conclusioni

Cosa ho voluto evidenziare con questo articolo neanche tanto breve? Che i personaggi che si muovono nell’ambito della pseudo scienza non sempre possono essere catalogati come somari. Io li distinguo in due tipologie: stupidi e banditi. I primi sono quelli che, anche se in buona fede, perserverano nelle loro false convinzioni provocando danni a se stessi, alle loro famiglie ed alla società che li circonda;  vanno tenuti sotto controllo in modo tale da difendere sia la società che loro stessi dal loro comportamento. I secondi sono quelli che, pur avendo gli strumenti adatti per poter discriminare verità scientifiche da falsi miti, non lo fanno o scientemente – ed allora sono banditi intelligenti che vanno perseguiti per evitare danni alla società – o inconsapevolmente – ed allora sono banditi stupidi da perseguire come i primi perché oltre alla società fanno danni anche a se stessi.

Per approfondire

La stupidità: http://www.aepsi.it/Stupidita_2.pdf

Le leggi fondamentali della stupidità umana

Fonte dell’immagine di copertina

http://funnystack.com/category/funny-donkey/page/9/

Omeopatia e fantasia. Parte IV

Ed eccoci giunti all’ultima parte di questo lungo reportage sull’omeopatia. Questa serie di articoli divulgativi è nata da uno studio cominciato un po’ di tempo fa che ha consentito prima una pubblicazione divulgativa e poi una lezione divulgativa che ho tenuto a Bassano del Grappa il 29 Dicembre 2016 (qui l’articolo e qui la lezione se non siete interessati a leggere l’articolo).

L’esigenza di un reportage divulgativo più approfondito dell’articolo citato è nata dalla constatazione che i pro-omeopatia (quelli che io definisco “amici dell’omeopatia”) battono sempre sugli stessi tasti ogni volta che si parla di tale pratica che più volte ho definito “magica” ed “esoterica”. In particolare, l’opinione corrente di questi individui informatissimi sull’omeopatia, ma di certo molto poco informati sulla scienza chimica, fisica e biologica, è che gli scienziati sono, mediamente, contro l’omeopatia perché chiusi intellettualmente e rifiutano a-priori questa pratica sulla base di preconcetti culturali che ne impediscono una adeguata apertura mentale.

Ho voluto far vedere che, in realtà, non è così. Sono stati condotti studi molto dettagliati su tutti gli aspetti dell’omeopatia e tutti questi studi si incanalano in un’unica direzione: l’omeopatia è veramente una pratica magica al di fuori dal tempo. Il suo uso si basa solo su una fede cieca ed incondizionata che denota, purtroppo, ascientificità, illogicità e scarsa cultura scientifica.

Riassunto delle puntate precedenti

Nella prima parte di questo reportage (qui) ho evidenziato i limiti dei lavori di Benveniste e Montagnier intesi come “paladini” dell’omeopatia. I lavori di questi due “eroi” contengono tante di quelle incongruenze sperimentali da renderli del tutto inaffidabili. Tuttavia, nonostante l’inaffidabilità, le loro ipotesi affascinanti sono state tenute in debito conto tanto è vero che sono stati condotti studi per verificare la validità dell’ipotesi della “memoria” dell’acqua che è alla base della presunta efficacia dei rimedi omeopatici. La seconda parte del reportage (qui) è stata proprio dedicata alla valutazione delle prove a sostegno dell’ipotesi “memoria”. La conclusione è che tale ipotesi è frutto solo di fantasia e di scienza patologica. Nella terza parte del reportage (qui) ho preso in considerazione le varie meta-analisi che nel corso degli anni sono state fatte per valutare, in modo statistico, l’eventuale efficacia dell’omeopatia. Ne è venuto che gli effetti dell’omeopatia sono ascrivibili al solo effetto placebo.

effetto placebo

Quando parliamo di “effetto placebo” intendiamo riferirci ad un qualsiasi cambiamento positivo (nel caso di un cambiamento negativo si parla di “effetto nocebo”) nello stato di salute di un paziente come conseguenza di un’azione aspecifica non attribuibile ad alcun trattamento o farmaco.

Tale effetto si osserva solo in pazienti che sono in stato di veglia e coscienti. Questa è una considerazione importante perché permette ai seguaci dell’omeopatia di affermare che tale pratica, a discapito di quanto già evidenziato nelle “puntate precedenti”, ha un effetto biochimico reale sebbene ancora non conosciuto nei suoi particolari. Infatti, quale coscienza può avere un neonato o un animale a cui vengono somministrati i rimedi omeopatici?

I meccanismi alla base dell’effetto placebo

I principali meccanismi che consentono di spiegare l’effetto placebo sono i seguenti:

  1. effetto Rosenthal o effetto aspettativa
  2. apprendimento per imitazione
  3. condizionamento Pavlov o riflesso condizionato
  4. effetto Hawthorne o effetto dell’osservatore.

L’effetto Rosenthal consiste nel fatto che ogni individuo tende a modulare il proprio comportamento secondo quanto ci si aspetta in base ai risultati attesi. Per esempio, se un medico somministra un medicamento ad un paziente e si attende un risultato positivo, trasmette, anche inconsciamente, al paziente quelle che sono le sue aspettative. Il paziente risponderà alla somministrazione del preparato fornendo al medico le indicazioni che egli si aspetta in merito alla terapia.

L’apprendimento per imitazione si riferisce al processo in cui un individuo modula il suo comportamento osservando e imitando/emulando le azioni di un individuo di riferimento. Questo tipo di apprendimento è molto sfruttato, per esempio, nel campo della comunicazione. Il testimonial pubblicitario, modello da cui prendere esempio, induce un comportamento emulativo/imitativo nell’acquirente che si immedesima nel modello stesso ed immagina di poterlo incarnare così da identificarsi con lui e con i valori che egli rappresenta.

Il condizionamento Pavlov consiste nella modulazione involontaria di un determinato comportamento quando l’individuo è soggetto a stimoli sia interni che esterni a se stesso. Supponiamo che un individuo assuma un rimedio convinto che possa essere utile a far passare un dolore. A seguito dell’assunzione del rimedio si attiveranno nel suo cervello delle aree che porteranno alla produzione di sostanze deputate al raggiungimento dello stato di benessere. Una volta “abituato a guarire” con quel rimedio, l’individuo avvertirà la diminuzione del dolore ogni volta che è convinto di assumere quel particolare rimedio a cui associa la cura di quel determinato dolore.

L’ effetto Hawthorne consiste nella variazione di un comportamento quando un individuo è soggetto all’osservazione da parte di un terzo. Il nome di questo effetto deriva da quello di una cittadina dell’Illinois in cui fu condotto uno studio per valutare le azioni da intraprendere per il miglioramento dell’efficienza produttiva degli impiegati di una azienda elettrica. I risultati dimostrarono che l’efficienza lavorativa non migliorava per effetto di migliori condizioni lavorative come, per esempio, migliore illuminazione, mensa meglio organizzata, migliore retribuzione etc, ma grazie alle attenzioni personali da parte dei responsabili dell’azienda. In altre parole, si evidenziò che il miglioramento dell’efficienza lavorativa era legato ad una migliore comunicazione, una più elevata attenzione per i sentimenti individuali, comprensione dei problemi personali, etc. etc. Insomma, è l’osservatore che induce un comportamento positivo da parte dell’osservato.

Effetto placebo in pediatria, veterinaria e agricoltura

L’azione dell’effetto placebo è descritto in tutti gli studi sull’uso dei rimedi omeopatici in pediatria , veterinaria ed agricoltura .

Nel caso di applicazioni pediatriche, l’effetto placebo si può realizzare o attraverso l’apprendimento per imitazione, o attraverso il condizionamento Pavlov o attraverso l’effetto Hawthorne .

Un bambino nell’età in cui è in grado di comprendere ed a cui viene applicato un rimedio omeopatico che secondo i genitori ha una qualche efficacia terapeutica, viene condizionato dalle aspettative e dalle attenzioni dei genitori.

In altre parole, il suo comportamento nei confronti della patologia si adegua a quanto i genitori si attendono dal rimedio. Se il bambino è un neonato o è in una condizione tale da non poter comprendere, allora l’effetto placebo dipende solo dalle aspettative dei genitori. Questi ultimi interpretano le variazioni comportamentali come effetti positivi del rimedio, mentre, invece, si tratta solo di correlazioni senza causazione.
Le aspettative dell’osservatore influenzano anche le osservazioni sugli animali e sulle piante. Un animale o una pianta appaiono riprendersi per effetto dell’azione dei rimedi omeopatici solo perché l’osservatore “pretende” di vedere cambiamenti positivi che, in realtà, non esistono.

Conclusioni

Ed eccoci finalmente alle conclusioni. Dall’insieme delle informazioni riportate nelle diverse parti di questo reportage, appare chiaro che l’omeopatia è stata ampiamente studiata ed opportunamente falsificata in senso popperiano. Quando scrivo che questa pratica è assimilabile ad una pratica magica di tipo esoterico, lo faccio a ragion veduta: la mia opinione scientifica si basa sulla valutazione delle osservazioni sperimentali che si sono accumulate nel corso degli anni.

Mentre l’omeopatia, nata ufficialmente nel 1810 con la pubblicazione dell’ “Organon of medicine” di Hanhemann, è rimasta ferma alle conoscenze primitive in voga nel XIX secolo, la scienza è andata avanti; ha elaborato un impianto di conoscenze col quale è in grado di spiegare gran parte dei fenomeni osservabili intorno a noi. L’omeopatia, purtroppo, pur essendo una pratica cosiddetta “dolce” e non invasiva, non è osservabile e, per questo, priva di ogni significato. Le osservazioni in merito alla sua presunta efficacia sono riconducibili ai meccanismi dell’effetto placebo.

Mi rendo perfettamente conto che tutto quanto riportato non convincerà gli estremisti dell’omeopatia. Ma non è importante. Questi individui sono e rimarranno ignoranti. Le loro obiezioni si baseranno sulle solite chiacchiere come per esempio “ciò che non è osservabile oggi, lo sarà domani” oppure “anche gli elettroni non si osservano, eppure esistono”. Queste posizioni sono illogiche ed antiscientifiche. Neanche oggi noi siamo in grado di osservare gli elettroni. La loro esistenza è teorizzata sulla base di osservazioni indirette che ci hanno permesso di capire che la materia è fatta da particelle elementari con certe particolari caratteristiche. Noi osserviamo solo gli effetti che queste caratteristiche hanno sul mondo che ci circonda.

L’obiettivo di questo reportage scientifico è quello di mettere assieme le informazioni sperimentali più attuali per cercare di far capire, a chi ancora nutre dei dubbi, che l’omeopatia non serve. Per la cura di patologie serie bisogna sempre ed esclusivamente rivolgersi a medici e farmacisti seri.

Ringraziamenti

Devo ringraziare il Prof. Stefano Alcini per le utilissime chiacchierate che mi hanno consentito di chiarire i miei dubbi in merito all’effetto placebo. In realtà, sto ancora studiando i meccanismi psicologici alla base di tale effetto. Mi scuso per le eventuali inesattezze ed il linguaggio non corretto che ho potuto utilizzare in quest’ultima nota. La responsabilità è tutta mia ed è legata alla mia ignoranza dovuta al fatto che non sono né un medico né uno psicologo. Qualsiasi suggerimento utile a migliorare la nota è più che benvenuto.

Letture consigliate

R. Rosenthal, L. Jacobson (1966) Teachers’ expectancies: determinants of pupils’ IQ gains, Psycological Reports, 19: 115-118

R.W. Byrne, A.E. Russon (1998) Learning by imitation: a hierarchical approach, Behavioural and Brain Sciences, 21: 667-721

I. Pavlov (2010) Conditioned reflexes: an investigation of the physiological activity of the cerebral cortex (Translated by G.V. Anrep), Annals of Neurosceinces, 17: 136-141

E. Mayo (1945) The social problems of an industrial civilization, Boston: Division of Research, Harvard Businness School

K. Weimer et al. (2013) Placebo effects in children: a review, Pediatric Research, 74: 96-10

R.T. Mathie, J. Clausen (2015) Veterniary homeopathy: meta-analysis of randomised placebo-controlled trials, Homeopathy, 104: 3-8

Altre letture divulgative

www.laputa.it

Omeopatia pratica esoterica senza fondamenti scientifici

Fonte dell’immagine di copertinahttps://daily.wired.it/news/internet/2011/08/17/boiron-minacce-blogger-14039.html

Omeopatia e fantasia. Parte III

Nelle prime due parti di questo reportage scientifico sull’omeopatia ho discusso dei limiti chimici dei modelli proposti da Benveniste e Montagnier (Omeopatia e fantasia. Parte I Parte II).

Le conclusioni a cui sono giunto indicano chiaramente che sia il lavoro di Benveniste che quello di Montagnier non sono attendibili (Omeopatia e fantasia. Parte I); e non sono attendibili, perché affetti da bias metodologici, nemmeno i lavori che cercano di spiegare la memoria dell’acqua, cavallo di battaglia di chi assume che l’omeopatia funzioni (Omeopatia e fantasia. Parte II).

Nelle conclusioni della seconda parte di questo reportage ho anche evidenziato che sono più che sicuro che gli amici dell’omeopatia non si arrenderanno neanche di fronte alle evidenze più ovvie e diranno che è vero che la memoria dell’acqua non esiste, ma l’omeopatia funziona (ovvero ha effetti) in ogni caso. Si tratta solo di individuare il corretto meccanismo per cui essa ha effetto contro tutte le basi chimiche e biochimiche di cui oggi disponiamo.

Lo scopo di questa terza parte è evidenziare quale sia il reale meccanismo di funzionamento dei rimedi omeopatici.

Effetto placebo

Un placebo è un trattamento – o un farmaco – che non ha alcuno effetto specifico sulle condizioni di salute che vengono studiate durante una sperimentazione.

“Effetto placebo” è una locuzione che indica un qualsiasi cambiamento positivo (nel caso di un cambiamento negativo si parla di “effetto nocebo”) nello stato di salute di un paziente come conseguenza di un’azione aspecifica non attribuibile ad alcun trattamento o farmaco.

Perché un trattamento possa avere un effetto placebo, il paziente deve essere in stato di veglia e cosciente. In caso contrario, l’effetto placebo non si osserva.

La storia delle origini della medicina è ricca di trattamenti aspecifici la cui efficacia terapeutica, alla luce delle conoscenze odierne, era nulla. Per questo motivo possiamo dire che la medicina di 100-150 anni fa era lo studio e l’osservazione degli effetti placebo.

Omeopatia ed effetto placebo nella letteratura scientifica

Linde et al. (1997) [1] riportano che dagli 89 studi selezionati tra i 186 pubblicati fino al 1995, si evince che i  rimedi omeopatici, statisticamente parlando, sembrano funzionare meglio dei rimedi placebo. Tuttavia, due anni dopo, nel 1999, gli stessi autori [2], dopo aver rivisto i parametri di qualità usati per la scelta degli studi da valutare comparativamente, concludono:

THE EVIDENCE OF BIAS WEAKENS THE FINDINGS OF OUR ORIGINAL META-ANALYSIS […]. IT SEEMS, THEREFORE, LIKELY THAT OUR META-ANALYSIS AT LEAST OVERESTIMATED THE EFFECTS OF HOMEOPATHIC TREATMENTS”.

In altre parole, gli autori ammettono che in molti degli studi che avevano preso in considerazione per la loro indagine del 1997, sono individuabili dei limiti metodologici che hanno condotto ad una sovrastima della validità dell’omeopatia. Infatti, rimuovendo dall’indagine tutti gli studi meno rigorosi, si conclude che l’efficacia terapeutica dei rimedi omeopatici non è superiore al placebo.

Le conclusioni rivedute e corrette di Linde et al. (1999) [2] sono state confermate anche da Ernst (2002) [3]:

THE HYPOTHESIS THAT ANY GIVEN HOMEOPATHIC REMEDY LEADS TO CLINICAL EFFECTS THAT ARE RELEVANTLY DIFFERENT FROM PLACEBO OR SUPERIOR TO OTHER CONTROL INTERVENTIONS FOR ANY MEDICAL CONDITION, IS NOT SUPPORTED BY EVIDENCE OF SYSTEMATIC REVIEWS”.

Per cercare di ri-equilibrare una situazione abbastanza sfavorevole per l’omeopatia, Mathie (2003) [4] pubblica una nuova analisi in cui decide di prendere in considerazione lavori pubblicati tra il 1975 ed il 2002 per un totale di 93 studi. La motivazione che spinge Mathie a rifare una meta-analisi con un numero di studi appena più alto di quello preso in considerazione da Linde et al. (1997) [1], è che:

THE RESULTS OF SEVERAL META-ANALYSES OF CLINICAL TRIALS ARE POSITIVE, BUT THEY FAIL IN GENERAL TO HIGHLIGHT SPECIFIC MEDICAL CONDITIONS THAT RESPOND WELL TO HOMEOPATHY”.

In altre parole, secondo Mathie, le meta-analisi finora pubblicate, pur dimostrando l’efficacia dell’omeopatia (non si sa bene su cosa si basi questa sua convinzione considerando quanto realmente riportato in letteratura), non danno indicazioni sul tipo di patologie per le quali essa risulta maggiormente efficiente. Per questo, egli decide di evidenziare nella sua meta-analisi quali siano le patologie per le quali ci sono state risposte positive oltre il placebo e quali, invece, quelle per le quali le risposte sono state negative al di sotto del placebo.

Le conclusioni a cui Mathie giunge sono che i rimedi omeopatici funzionano meglio del placebo per la diarrea infantile, la fibriomalgia, la rinite allergica, l’influenza, dolori di varia origine, effetti collaterali di chemio- e radio-terapie, distorsioni ed infezioni del tratto respiratorio superiore. L’omeopatia si è, invece, dimostrata inutile per mal di testa, ictus e verruche.

Ciò che in realtà colpisce della meta-analisi di Mathie è che egli non tiene in alcun conto né della rivalutazione che Linde et al. hanno fatto del loro primo studio riportando che le loro precedenti conclusioni avevano sovrastimato gli effetti dei rimedi omeopatici [1, 2], né di quanto riportato da Ernst nel 2002 [3]. In particolare, del lavoro di Ernst, Mathie dice che, date le premesse scelte dall’autore, non si poteva non concludere che l’omeopatia fosse una pratica inutile. Insomma, attribuisce la valutazione negativa che Ernst fa dell’omeopatia al modo con cui quell’autore ha deciso di selezionare e riportare gli studi di riferimento: studi che descrivono l’omeopatia in modo vantaggioso vengono contrapposti ad un ugual numero di lavori in cui l’omeopatia non ha rivelato la sua efficienza. Mediamente, quindi, il peso dei primi viene annullato da quello dei secondi ed il risultato è che l’omeopatia non fa meglio del placebo.

Tuttavia, non si può non evidenziare che la tabella 1 del lavoro di Mathie (2003) [4] riporta  il numero di studi presi in considerazione per tipologia di patologia. Per esempio, la diarrea infantile è stata studiata solo in tre lavori, la fibriomalgia in due, le distorsioni in due, gli ictus in due e così via di seguito. Trarre conclusioni in merito all’efficacia o alla non efficacia di un certo trattamento solo sulla base di un numero così esiguo di studi, è quantomeno azzardato. La meta-analisi condotta da Ernst nel 2002 [3] è certamente più significativa sotto l’aspetto statistico.

Nel 2005 compare in letteratura una meta-analisi a firma di Shang e collaboratori [5] che mette un punto definitivo in merito al rapporto tra efficacia dell’omeopatia ed effetto placebo.

Utilizzando 19 database diversi, gli autori individuano 165 studi pubblicati tra il 1995 ed il 2003 da cui ne selezionano 105 sulla base di criteri di inclusione/esclusione che si basano sulla presenza di gruppi di controllo con placebo; sulla descrizione degli esiti clinici dei vari trattamenti; sulla presenza di indicazioni in merito alla scelta randomizzata sia degli individui da inserire nei gruppi di controllo che della somministrazione dei rimedi omeopatici e placebo; sul fatto che i risultati siano apparsi su riviste non predatorie e siano, quindi, stati soggetti ad una seria revisione tra pari (peer review).

Senza entrare troppo nei dettagli tecnici dell’analisi statistica riportata in Shang et al., le principali conclusioni di questi autori sono:

OUR STUDY POWERFULLY ILLUSTRATES THE INTERPLAY AND CUMULATIVE EFFECT OF DIFFERENT SOURCES OF BIAS. WE ACKNOWLEDGE THAT TO PROVE A NEGATIVE IS IMPOSSIBLE, BUT WE HAVE SHOWN THAT THE EFFECTS SEEN IN PLACEBO-CONTROLLED TRIALS OF HOMEOPATHY ARE COMPATIBLE WITH THE PLACEBO HYPOTHESIS. BY CONTRAST, WITH IDENTICAL METHODS, WE FOUND THAT THE BENEFITS OF CONVENTIONAL MEDICINE ARE UNLIKELY TO BE EXPLAINED BY UNSPECIFIC EFFECTS”.

In definitiva, gli autori evidenziano come gli studi condotti per valutare  gli effetti dei rimedi omeopatici siano soggetti a pregiudizi di conferma che impediscono di raggiungere conclusioni oggettive in merito alla distinzione tra effetto reale di tipo biochimico ed effetto placebo. Quest’ultimo, in realtà, è l’ipotesi più semplice e, di conseguenza, più plausibile per spiegare il successo dei rimedi omeopatici.

L’importanza del lavoro di Shang et al. si evince dal tiro incrociato a cui, negli anni, è stato sottoposto dagli amici dell’omeopatia. Per esempio, subito dopo la sua pubblicazione, appaiono su The Lancet – la rivista che ospita lo studio di Shang et al – delle lettere all’editore a firma, la prima, di Walach, Jonas e Lewith [6], la seconda di Linde e Jonas [7], la terza ad opera di una moltitudine di autori tra cui compare Mathie e di nuovo Walach [8].

Sebbene a firme (quasi) differenti, le tre lettere all’editore lamentano tutte di una mancanza di chiarezza da parte di Shang e collaboratori [5] in merito al modo con cui essi hanno deciso di applicare i criteri di inclusione/esclusione e criticando il fatto che le conclusioni sono troppo pessimistiche per l’omeopatia.

Queste critiche vengono mosse nonostante venga indicato, da un lato, che:

there are, after all, been very few placebo-controlled randomized trials in homeopathy, which is why there is an absence of evidence

dall’altro che:

we agree that homeopathy is highly implausible and that the evidence from placebo-controlled trials is not robust

In altre parole, per gli autori  delle lettere anzidette, l’omeopatia funziona nonostante non ci siano evidenze positive al di là di ogni possibile dubbio perché studi in cui viene fatto un confronto con il placebo non ce ne sono ed anche quei pochi pubblicati soffrono di un qualche pregiudizio metodologico.

A mio avviso questa è una posizione veramente antiscientifica. Uno scienziato deve sospendere ogni possibile giudizio se ritiene che non siano presenti dati sufficienti per avallare una posizione o un’altra in merito ad un determinato modello scientifico. Non può dire “questa cosa funziona, sebbene non ci siano prove a sostegno di una tale evidenza” e sulla base di questo criticare uno studio che cerca di fare chiarezza utilizzando il meglio di quanto la ricerca in omeopatia ha finora prodotto.

Gli argomenti della lettera di cui al riferimento [8] sono ripresi in un lavoro pubblicato di Rutten e Stolper (2008) [9].

La critica al lavoro di Shang et al. [5] si basa sul fatto che secondo Rutten e Stolper (2008) [9] la qualità della meta-analisi dipende fortemente dal modo in cui vengono selezionati i criteri di inclusione/esclusione. In particolare, vengono confrontati lo studio di Shang et al. [5] con quello di Linde et al. [1]. La conclusione è che, applicando i criteri riportati da Linde et al. agli studi selezionati da Shang et al. [5], non si può dire, come hanno fatto Shang e collaboratori [5], che l’efficacia dell’omeopatia sia dovuta all’effetto placebo.

Devo dire, come mia personale considerazione, che la lettura del lavoro di Rutten e Stolper [9] mi lascia molto perplesso per la velata disonestà intellettuale dei due autori.

Come mai prendono in considerazione un lavoro scritto nel 1997 che, nel 1999, gli stessi autori (Linde et al. [2]) hanno rielaborato arrivando a scrivere che quanto da loro riportato in precedenza era affetto da una sovrastima dei dati relativi all’efficacia dell’omeopatia? Come mai non hanno mai citato il lavoro scritto da Linde et al. nel 1999 [2]? Leggendo meglio lo studio di Rutten e Stolper [9] noto che il primo si firma “homeopathic physician” ed il secondo come “general practioner, homeopathic physician”, ovvero sono entrambi dei “medici omeopati”, peraltro operanti nella libera professione, ovvero non sono affiliati ad alcuna università o ente di ricerca. Non è che ci sia un conflitto di interessi con la loro attività privata, per cui un lavoro anti-omeopatia apparso su una delle riviste più prestigiose del mondo medico (ovvero il lavoro di Shang e collaboratori pubblicato su The Lancet [5]) dia molto fastidio e debba essere in qualche modo “smontato” cercando di intaccarne la credibilità con ogni mezzo possibile, anche attraverso un opportuno “cherry picking”?

Il sospetto di “cherry picking” si rinforza quando si legge il lavoro apparso su Journal of Clinical Epidemiology [10] di cui uno degli autori è lo stesso Rutten del cui studio ho discusso fino ad ora. Infatti, nello studio a firma di Lüdtke e Rutten [10] non solo si citano entrambi i lavori di Linde et al. [1, 2] (prova che Rutten conosce l’esistenza della rivalutazione fatta nel 1999 da Linde et al.[2] ma volutamente non la prende in considerazione), ma si conclude anche che:

Our results do neither prove that homeopathic medicines are superior to placebo nor do they prove the opposite”.

Insomma, a quanto pare anche Rutten e Stolper [10] non sono in grado di poter dire che l’efficacia dei rimedi omeopatici possa andare oltre l’effetto placebo.

Nel 2010 appaiono in letteratura altre meta-analisi a firma di Teixeira et al. [11], Nuhn et al. [12] ed Ernst [13] in cui ancora una volta viene ribadito che l’efficacia dell’omeopatia è attribuibile all’effetto placebo.

Le stesse conclusioni sono riportate in un lavoro di Mathie pubblicato nel 2014 [14] ed in uno a firma di Unlu et al. appena apparso on line sul sito del Journal of Oncological Sciences [15]. In particolare, in quest’ultimo lavoro non solo viene evidenziata l’inutilità dell’omeopatia nella cura di patologie come i tumori, ma viene riportato anche che i rimedi omeopatici possono essere tossici se non preparati nel modo adeguato. Infatti, per molti rimedi sono state riscontrate tracce non omeopatiche di contaminanti che hanno portato a problemi gastrointestinali, melanosi ed epatite.

Conclusioni

Dalla breve disanima qui riportata si comprende che non c’è discussione. I rimedi omeopatici hanno un effetto che equivale a quello di un qualsiasi placebo. Se vi sentite bene dopo aver assunto un rimedio omeopatico non è perché ci sia stato un qualche effetto di carattere biochimico. La vostra patologia sarebbe passata anche bevendo un semplice bicchiere di acqua e facendovi credere che esso sia stato toccato dalla bacchetta magica di Harry Potter.

Ma la storia non è certamente finita. L’ultima opposizione degli amici dell’omeopatia è che l’effetto placebo non può essere osservato sugli animali e sui bambini. Quindi ci deve essere qualcosa che non va in tutto quello che sto scrivendo. Questo sarà l’oggetto della quarta parte di questo reportage sull’omeopatia.

Riferimenti

[1] K. Linde et al. (1997) Are the clinical effects of homeopathy placebo effects? A meta-analysis of placebo-controlled trials, The Lancet, 350: 834-843

[2] K. Linde et al. (1999) Impact of study quality on outcome in placebo-controlled trials of homeopathy, Journal of Clinical Epidemiology, 52: 631-636

[3] E. Ernst (2002) A systematic review of systematic reviews of homeopathy, Journal of Clinical Pharmacology, 54: 577-582

[4] R.T. Mathie (2003) The research evidence base for homeopathy: a fresh assessment of the literature, Homeopathy, 92: 84-91

[5] A. Shang et al. (2005) Are the clinical effects of homeopathy placebo effects? Comparative study of placebo-controlled trials of homeopathy and allopathy, The Lancet, 366: 726-732

[6] H. Walach et al. (2005) The Lancet, 366: 2081

[7] K. Linde e W. Jonas (2005) The Lancet, 366: 2081-2082

[8] AA. VV. (2005) The Lancet, 366: 2082

[9] A.L.B. Rutten, C.F. Stolper (2008) The 2005 meta-analysis of homeopathy: the importance of post-publication data, Homeopathy, 97: 169-177

[10] R. Lüdtke, A.L.B. Rutten (2008) The conclusions on the effectiveness of homeopathy highly depend on the set of analysed trials, Journal of Clinical Epidemiology, 61: 1197-1204

[11] M.Z. Teixeira et al. (2010) The placebo effect and homeopathy, Homeopathy, 99: 119-129

[12] T. Nuhn et al. (2010) Placebo effect sizes in homeopathic compared to conventional drugs – a systematic review of randomised controlled trials, Homeopathy, 99: 76-82

[13] E. Ernst (2010) Homeopathy: what does the “best” evidence tell us? The Medical Journal of Australia, 192: 458-460

[14] R.T. Mathie et al (2014) Randomised placebo-controlled trials of individualised homeopathic treatment: systematic review and meta-analysis, Systematic Reviews, 3: 142

[15] A. Unlu et al. (2017) Homeopathy and cancer, Journal of Oncological Sciences, http://dx.doi.org/10.1016/j.jons.2017.05.006

Fonte dell’immagine di copertina: http://www.ilpost.it/2015/03/12/omeopatia-inutile/

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