Corni rossi in laboratorio: mito e metodo, scaramanzia e superstizione

Una delle prime cose che insegno, all’inizio dell’anno accademico nei miei corsi triennale e magistrale, è il metodo scientifico: guardi, ti fai un’idea, provi a smentirla.

Pulito, lineare: tutto misurabile, tutto spiegabile in modo oggettivo e razionale.

Eppure…

C’è stato un tempo in cui avevo la maglia fortunata. Non sostenevo esami senza indossarla. Era la mia coperta di Linus. A nulla valeva ricordarmi che superare un esame dipendesse da me: da quanto avessi studiato e da quanto avessi capito quella disciplina. No: senza il talismano non andavo da nessuna parte. E se venivo bocciato? La risposta era unica e certa: non indossavo il mio “dispositivo apotropaico” perché proprio quel giorno mia madre l’aveva messo a lavare per togliere le puzze.

Dopo cinque anni e una trentina di esami, quella maglia sembrava un gatto spelacchiato sopravvissuto a una centrifuga da 2000 giri al minuto.

Vi sembra stupido, vero? Lo è. Ma sono in buona compagnia. Oggi vi parlo delle abitudini strambe – e poco razionali – di alcuni dei più grandi scienziati passati sulla Terra.

Isaac Newton e la pietra filosofale

Isaac Newton, simbolo della ragione e dell’ordine matematico, passò anni chinato su testi di alchimia, annotando in latino formule e segni cifrati, vicino alla fornace. Non era un passatempo: era un’ossessione. Cercava la pietra filosofale, il segreto capace di trasmutare i metalli e, in fondo, di svelare il vocabolario nascosto della materia.

Col senno di poi parleremmo di errore concettuale. Eppure quell’alchimia “superstiziosa” conteneva anche i semi della chimica moderna: tecniche di purificazione (sublimazione, calcinazione, distillazione), un’idea operativa di trasformazione, un metodo di laboratorio fatto di prove, fallimenti, registri. Newton non separava nettamente scienza e mistero: cercava leggi nella natura e, insieme, significati nascosti. Forse per questo – scrisse Keynes  –  “non fu il primo dell’età della ragione, ma l’ultimo dei maghi.”

Dietro la reputazione di glaciale geometra c’era un uomo che alimentava il fuoco del crogiolo di notte, che copiava e commentava pagine e pagine di autori alchemici (tra cui l’enigmatico Eirenaeus Philalethes), che inseguiva il “mercurio filosofico” come chi sospetta l’esistenza di una chiave sola per molte serrature. La sua mano era la stessa che, con pazienza feroce, scomponeva la luce nel prisma: dall’ottica alla gravità, fino alla trasmutazione dei metalli, Newton cercava un principio unificante, un ordine segreto capace di tenere insieme mondi lontani.

C’era anche segretezza: i quaderni alchemici circolavano poco, spesso in codice. Parte per prudenza (il confine con l’eterodossia religiosa era sottile), parte per vanità intellettuale, parte per timore del ridicolo. Ma quelle pagine, così diverse dai Principia, rivelano la stessa postura: occhi sul dettaglio, mani nel laboratorio, mente ostinatamente monoteistica nella sua idea di ordine – un universo costruito con pochi mattoni e poche regole, tutte da decifrare.

È facile sorridere del mago nel matematico. Più difficile è riconoscere che senza quella tenacia quasi rituale, senza notti passate a distillare e fallire, la sua idea di legge naturale non avrebbe avuto la stessa densità. L’alchimia non fu la sua verità scientifica; fu però il suo lessico di apprendistato, il luogo in cui imparò che la materia non si concede a slogan ma a procedimenti. E in questo scarto tra talismano e metodo – tra crogiolo e calcolo – sta il fascino di Newton: un uomo che portò la ragione lontanissimo, senza smettere di ascoltare il richiamo, antico e umano, di un ordine nascosto.

Fermi e la fortuna calcolata

Enrico Fermi, l’uomo che stimava l’energia di un’esplosione nucleare lasciando cadere pezzetti di carta per misurare la distanza d’urto dell’onda, non credeva nella sorte cieca. La misurava. A Los Alamos, nelle pause lunghe come notti, si racconta che facesse conti mentali sulle probabilità di vincere a carte con colleghi altrettanto brillanti: non per denaro, ma per vedere quanto della “fortuna” si potesse spogliare di mistero con un calcolo rapido, un’approssimazione ragionevole, un ordine di grandezza.

La sua erano superstizioni con la matita in mano. Fermi rispettava un principio quasi liturgico: non cambiare un assetto sperimentale che aveva funzionato; ripetere la sequenza di passaggi nello stesso modo, con la stessa cura, quasi con lo stesso ritmo. Non era magia: era metrologia affettiva – l’idea che la regolarità delle cose meriti un cerimoniale minimo perché il rumore non divori il segnale. Nei suoi taccuini la scaramanzia si riduceva a un algoritmo pratico: tieni ferma la procedura, lascia variare una sola cosa alla volta, abbi rispetto per gli strumenti e per i loro capricci.

C’era in lui una fiducia spietata nelle buone stime. I famosi “problemi di Fermi” nascevano da qui: la convinzione che, se scomponi l’ignoto in fattori semplici e plausibili, la realtà si lascia avvicinare. La superstizione, in questo schema, diventa la sorella educata della statistica: non un talismano, ma un set di abitudini che tolgono peso all’ansia e lo spostano sulla ripetibilità. Nel laboratorio come al tavolo da gioco, Fermi domava il caso non negandolo, ma mettendolo al lavoro.

Anche attorno a lui, a Los Alamos, i rituali pullulavano: lavagne ripulite solo a fine turno, gessetti “fortunati”, tazze sempre nello stesso posto. Fermi partecipava con un sopracciglio alzato e un cronometro in tasca. Della fortuna accettava il residuo: quel tanto che resta quando hai contato tutto il contabile. Il resto lo affidava a ciò che sapeva fare meglio – ridurre il mondo a numeri onesti, abbastanza robusti da non crollare alla prima raffica di vento.

È forse qui la sua “scaramanzia”: un rispetto laico per l’ordine. Se qualcosa aveva funzionato ieri, non la si toccava oggi. Non per paura, ma per gratitudine alla regolarità. In quell’interstizio – tra l’onda d’urto misurata con un foglietto e il mazzo di carte ridotto a probabilità – la fortuna smette la maschera e diventa varianza; e Fermi, con calma quasi scaramantica, continua a prenderne le misure.

Niels Bohr e il ferro di cavallo

Niels Bohr, premio Nobel e padre della fisica quantistica, teneva appeso un ferro di cavallo alla porta di casa. Si racconta che, quando un amico gli chiese: “Ma davvero credi che porti fortuna?”, Bohr sorridesse: “No, ma mi hanno detto che funziona anche se non ci credi.” Una battuta che sembra un vezzo, e invece è una piccola lezione di epistemologia domestica.

Bohr viveva nella regione di confine tra ciò che possiamo dire e ciò che possiamo solo prevedere. La sua “complementarità” chiedeva di accettare verità parziali che non possono valere insieme nello stesso esperimento, ma che insieme descrivono il mondo meglio di qualunque assolutismo: onda o particella, a seconda di come guardi. Il ferro di cavallo appeso alla porta diventa allora un’immagine perfetta: una “teoria” pratica che non pretende fede, ma chiede ospitalità. Non serve crederci: basta ammettere che il reale è più scaltro dei nostri schemi e che, nel dubbio, un piccolo rito può convivere con una grande teoria.

C’era ironia in quella risposta, ma non leggerezza. Bohr sapeva che la scienza non elimina l’incertezza: la addomestica. Anche la meccanica quantistica – la più predittiva delle teorie – mette il caso al centro. Niente traiettorie segrete, niente consolazioni classiche: probabilità ben educata, sì; certezza, no. Di fronte a questo, un ferro di cavallo non è un talismano contro la ragione: è una metafora di modestia. Ricorda allo scienziato che i modelli funzionano finché funzionano, e che il mondo non ha il dovere di rientrare nella griglia che abbiamo preparato per lui.

Bohr non chiedeva di credere al ferro, ma di tollerare il paradosso: si può non credere e, tuttavia, lasciare uno spazio all’ignoto, come quando accetti che la luce “sia” onda e particella a seconda della domanda che poni. È il suo stile: una lucidità che non ha paura di tenere in tasca un sorriso. In quell’oggetto appeso alla porta c’è il suo invito più serio: restare intelligenti senza diventare arroganti, custodire i riti minimi che ci aiutano a vivere l’alea, e continuare, nonostante tutto, a misurare, a fare esperimenti, a scegliere bene le domande. Perché la fortuna – qualunque cosa sia – magari non esiste; ma il modo in cui ci disponiamo ad accoglierla può fare tutta la differenza.

Marie Skłodowska Curie e la luce nel buio

Marie Skłodowska Curie portava con sé la sua luce. Non un corno, non un ferro: una piccola fiala di sali di radio che al buio emanava un bagliore azzurrognolo. Più che un portafortuna, era un gesto pratico e insieme poetico: la materia che le aveva cambiato la vita, resa visibile. Le piaceva spegnere le lampade e guardare quel chiarore minimo, come se il mondo le concedesse, per un attimo, di vedere ciò che di solito resta nascosto.

Non era superstizione: era vicinanza alla scoperta. Nei baracconi gelidi dell’Institut du Radium, tra cariole di pechblenda rimescolata per mesi, Marie coltivava una liturgia povera: grembiule, provette, registri fitti, e poi quell’istante notturno in cui controllare se il campione “respirava” luce. Il radio diventava il suo segnaposto nel buio, un promemoria tangibile che la materia parla anche quando tacciamo. Non chiedeva protezione; chiedeva attenzione.

C’era dolcezza e durezza insieme in questo rito. Dolcezza nello stupore – la bellezza di un azzurro che fiorisce da una sostanza nera, quasi un fiat di laboratorio. Durezza nella determinazione: la pazienza feroce di chi riduce, filtra, calcina, misura, annota. Quel filo di luce era la prova che il metodo non è arido: è un modo di stare nelle cose, di non separarsi da ciò che si studia. E, sì, anche un modo di non separarsi da Pierre, perché in quel chiarore c’era la memoria condivisa di un lavoro fatto insieme, quando le notti finivano con le mani stanche e gli occhi pieni di scintille.

Guardiamo oggi a quei gesti con una consapevolezza diversa: taccuini e strumenti di Marie sono ancora radioattivi, custoditi in contenitori piombati. La sua “luce” aveva un prezzo. Ma proprio qui, nel contrasto tra incanto e rischio, il suo rito si fa simbolo: un amuleto laico che non promette fortuna, ma ricorda responsabilità. Tenere una fiala che brilla non per scaramanzia, bensì per fedeltà alla realtà: per dirci che la scienza, quando è grande, non smette di cercare la verità – e di riconoscerne, senza paura, il bagliore.

Richard Feynman e i bonghi quantistici

Richard Feynman, premio Nobel e spirito irrequieto, aveva un rito semplice e scandalosamente terrestre: suonare i bonghi. Prima di una conferenza, la sera di un’idea nuova, perfino tra un calcolo e l’altro: due mani, una pelle tesa, un ritmo che mette ordine. Diceva, senza enfasi, che lo aiutava a entrare nello stato giusto: non tanto la “fortuna”, quanto la frequenza su cui far vibrare attenzione e curiosità.

La sua scienza era una danza tra regole e improvvisazione. Nei diagrammi tracciati col gesso c’era la disciplina di un formalismo elegante; nei bonghi, l’altra metà: la sincope che scioglie l’ansia e fa spazio all’intuizione. Feynman conosceva bene la trappola del controllo assoluto: quando il cervello stringe troppo, l’idea scivola via. Il ritmo serviva a spalancare una finestra, a ricordare al corpo che pensare è anche respirare, che la mente ragiona meglio quando il resto di noi non è in apnea.

Non era una superstizione in cerca di indulgenza, ma una igiene dell’attenzione. Come il disegno (le modelle, i quaderni pieni di linee) o il samba imparato in Brasile, i bonghi facevano parte di una palestra sensoriale con cui Feynman teneva vivo il piacere di scoprire. Un piacere fisico, quasi infantile, che non ha paura di battere le mani su un tamburo prima di battere i denti su un integrale. Il laboratorio, per lui, restava un posto serio; ma la serietà non era seriosità: si poteva arrivare alla verità ridendo, purché si restasse onesti con i dati.

C’era poi una lezione morale, che in Feynman non mancava mai: il rito va bene finché non sostituisce la prova. Nei suoi discorsi contro la “cargo cult science” c’è l’avvertimento netto: i gesti possono aiutare a disporci alla verità, ma non la producono. I bonghi, allora, sono il contrario di un talismano: non promettono risultati, promettono presenza. Ti ricordano che il mondo non si piega alla scaramanzia; si lascia capire, a volte, se entri con il passo giusto.

È facile immaginarlo dietro il sipario: camicia arrotolata, qualche colpo secco, poi un sorriso di bambino colto sul fatto. Il pubblico sente ancora l’eco del tamburo quando Feynman comincia a parlare di particelle come se fossero personaggi su un palcoscenico: entrano, escono, si scambiano segnali. Il ritmo, ormai interno, batte sotto le parole. E quando l’argomento si fa sottile, resta quella musica appena percettibile a tenere insieme rigore e gioia – la vera, inconfondibile firma di Feynman.

Quando la superstizione aiuta la scienza

In realtà, la superstizione – o meglio, il rito – non è l’opposto della scienza. È una scorciatoia mentale che ci fa sentire più stabili davanti all’incertezza. Gli esperimenti falliscono, i risultati tardano, la variabilità domina. A volte un piccolo gesto serve solo a ricordarci che non controlliamo tutto, ma possiamo almeno disporre bene noi stessi.

La psicologia la chiama illusione di controllo: l’idea di poter influenzare un esito incerto attraverso comportamenti ripetitivi. Detto così sembra un difetto; in micro-dose è una risorsa. Il rito abbassa l’ansia basale, ancora l’attenzione e mette il corpo in assetto. È un pre-fallimento controllato: una sequenza che conosciamo a memoria e che ci restituisce padronanza quando il resto è imprevedibile. Il chirurgo che allinea gli strumenti, il violinista che accorda nello stesso ordine, la ricercatrice che riempie la scheda come prima cosa: non è magia, è frizione cognitiva ridotta.

C’è poi un altro effetto, più sottile: il rito sposta il fuoco dall’esito al processo. Per qualche minuto non contano il p-value o il referee n. 2; conta il gesto giusto fatto al momento giusto. Questo disinnesca la ruminazione, che è la vera nemica della performance intellettuale. È come dire alla mente: “riparti da qui, dal concreto”. Da lì tornano il metodo, la misura, la pazienza.

Naturalmente il confine è chiaro: il rito è utile finché resta strumento. Quando pretende di sostituire l’evidenza, diventa superstizione nel senso deteriore: cargo cult. La scienza chiede prove, non propiziazioni. Per questo i rituali buoni sono brevi, economici, falsificabili: se disturbano il dato, si cambiano; se aiutano, restano. Nessun dramma, nessun dogma.

Se volessimo distillare una guida pratica per tenere i riti dalla parte della ragione, potremmo scrivere che essi devono essere:

  • Piccoli e ripetibili: un minuto, sempre uguale.
  • Non intrusivi: non devono alterare protocollo e misure.
  • Orientati al processo: preparano la mente, non “chiamano” l’esito.
  • Sostituibili: se non servono più, si lasciano andare senza nostalgia.

Così il rito smette di essere una scialuppa contro il caso e diventa un metronomo: batte il tempo mentre facciamo ciò che davvero conta – osservare, ipotizzare, verificare. E quando, finalmente, il risultato arriva, non diremo “ha funzionato il portafortuna”, ma qualcosa di più adulto e più bello: ho lavorato bene, nel modo giusto.

Superstizioni d’alta quota

Anche oggi, tra scienziati e astronauti, i riti non mancano. Non chiedono fede: aiutano a respirare quando l’alea è alta.

  • Baikonur, la sosta più famosa. Da Gagarin in poi, i cosmonauti russi si fermano ancora accanto alla ruota posteriore del bus che li porta alla rampa. I maschi… urinano; alcune colleghe versano poche gocce da una fialetta, per tradizione. È un gesto semplice e spiazzante, nato dal bisogno e diventato rito: un modo per dire “si parte, ma restiamo umani”.
  • Cape Canaveral, liturgie di routine. In ambiente NASA abbondano abitudini “portaserenità”: la colazione di steak & eggs nel giorno di lancio, una mano di carte finché il comandante perde, e persino le noccioline “della fortuna” al JPL, nate con Ranger 7. Piccoli gesti che non spostano i numeri, ma allineano le teste.
  • Amuleti a gravità zero. Quasi ogni equipaggio porta a bordo un peluche: è simpatico, certo, ma soprattutto è un indicatore innocuo di microgravità — quando inizia a fluttuare, sai che sei in orbita. Una superstizione con funzione strumentale.
  • CERN, ironia ad alta energia. Nei corridoi del laboratorio circolano tazze, meme e particelle di peluche: l’autoironia come rito collettivo durante le fasi delicate dell’LHC. Non “propiziazioni”, ma talismani laici che ricordano che dietro al Bosone di Higgs ci sono persone. (Curiosità: esistono intere collezioni di plush del Modello Standard; persino Peter Higgs teneva il suo come fermacarte.)

La logica è sempre la stessa: abbassare il rumore interno. Che tu stia entrando in una Soyuz o accendendo un acceleratore, un rito minuscolo può trasformare l’ansia in gesto, e il gesto in attenzione operativa. Non cambia la fisica; cambia chi la maneggia. E, a quelle altitudini – letterali o metaforiche – è già tantissimo.

L’ultima mossa della ragione

La superstizione, vista da vicino, è spesso una regola empirica ante litteram: “ogni volta che faccio così, va meglio”. Una scorciatoia nata dall’esperienza. La domanda giusta non è crederci o no, ma perché sembra funzionare – e se funziona davvero. Qui la ragione fa la sua mossa: prende il rito, lo mette alla prova, lo tiene se aiuta il processo, lo lascia se inganna.

Newton cercava oro, e trovò leggi. Fermi mescolava carte, e scoprì il caso come alleato, non come nemico. Bohr appese un ferro di cavallo e ci ricordò che l’ironia può essere una forma di pensiero. Marie Skłodowska Curie guardò una fiala che brillava e trasformò l’incanto in misura. Feynman batteva i bonghi e convertiva l’ansia in attenzione.

Il punto è questo: i riti sono trampolini, non arrivi. Ti danno lo slancio per saltare, ma a metà aria devi affidarti alle prove. Quando la superstizione accetta questo patto – restare piccola, utile, rivedibile – smette di essere un alibi e diventa l’ultima cortesia che facciamo alla mente prima di chiedere alla realtà la sua risposta.

Epilogo

E se qualcuno mi chiedesse se credo nella fortuna, risponderei come Bohr: «No, ma mi hanno detto che funziona anche se non ci credi».

Poi, in silenzio, ripiegherei la mia vecchia maglia: i riti passano, il metodo resta.

Note e riferimenti

Dialogo sopra i due massimi sistemi di cura, nel quale si discorre delle virtù mirabili dell’omeopatia e dell’arte medica fondata su prove

Personaggi:

  • Simplicio, difensore fervente dell’omeopatia e delle medicine alternative.
  • Salviati, filosofo naturalista e uomo di scienza.
  • Sagredo, gentiluomo curioso e attento, che modera il discorso.

[Scena: in una loggia, i tre siedono a discorrere. Il sole volge al tramonto.]

Sagredo: Vi prego, signori miei, di proseguire quella disputa che già stamani cominciaste, acciocché io possa intendere meglio la ragione del contendere.

Salviati: Con piacere. Discorrevamo dell’arte medica, e in specie di quella setta che si vanta di guarire con nulla, chiamata omeopatia.

Simplicio: Vi prego di non schernirla, ché molti l’usano con profitto.

Salviati: Profitto spirituale, forse. Giacché altro effetto io non trovo se non quello che ogni placebo ben somministrato produce.

Simplicio: Eppure vi sono testimonianze infinite di chi fu sanato!

Salviati: Testimonianze infinite vi sono anche di chi ha veduto spiriti, eppure niuno spirito fu mai sezionato né posto in provetta.

Sagredo: Io comprendo che voi, Salviati, chiedete esperimento?

Salviati: E metodo. Che si faccia prova, in doppio cieco, con numero sufficiente, con analisi statistica e rigore.

Simplicio: Ah! Ma la scienza moderna non può comprendere i sottili influssi, le energie informate dall’acqua!

Salviati: Voi dite energie informate? Io non vedo che acqua distillata.

Simplicio: È perché non sapete veder oltre la materia!

Salviati: Se il “vedere oltre” vuol dir fingere, vi cedo volentieri il primato.

Sagredo: Oibò, vi prego di moderarvi!

Salviati: Sagredo, vedi che io sono pacato. Sol domando che, se effetto vi sia, si misuri; e se nulla si misura, si taccia.

Simplicio: Ma la medicina convenzionale ha effetti collaterali!

Salviati: E l’omeopatia ne ha così pochi che si contano sulle dita d’una mano amputata.

Sagredo: Questa è mordace!

Salviati: Mordace, ma vera.

Simplicio: Voi ridete, Salviati, ma ignorate che l’acqua possiede memoria!

Salviati: Memoria? Avete visto forse un quaderno in cui ella scriva?

Simplicio: Non di tal fatta! È memoria sottile, quantica! L’acqua si informa della sostanza e ne mantiene l’energia!

Salviati: Oh meraviglia. E quando la bollite, la memoria resta?

Simplicio: Non siate volgare. Vi son regole per non turbarla.

Salviati: Dunque non lavate i panni con acqua calda, ché potreste dimenticare la formula del sapone?

Sagredo: Orsù, Salviati, non lo provocate oltre!

Simplicio: In verità vi dico che scienziati illustri confermano la memoria dell’acqua!

Salviati: Quali? Quelli che stampano riviste in cui essi stessi son revisori?

Simplicio: Voi siete cieco alla Nuova Scienza Energetica!

Salviati: Mi chiamo uomo di prove. Mostratemi la differenza tra due fiale di pura acqua, una “informatizzata” e l’altra no.

Simplicio: Non avete gli strumenti adeguati!

Salviati: Né voi l’effetto.

Simplicio: Vi è però l’acqua C.G.E.!

Sagredo: Che novità è questa?

Simplicio: È acqua trattata con Codice Galattico Energetico!

Salviati: Galattico? Mi par termine assai vasto.

Simplicio: Appunto, abbraccia l’Universo. Si carica di frequenze armoniche inviate da Maestri Cosmo-spirituali!

Salviati: Mi fate intendere che l’acqua, già dotata di memoria, ora riceve telegrammi celesti?

Simplicio: Così è! E guarisce ogni male, dall’ansia alla calvizie.

Salviati: Oimè. Sagredo, non so se io debba replicare o piangere.

Sagredo: Ma questa acqua C.G.E. si vende?

Simplicio: Certamente, ed è ben cara! Ma non pensate al vile denaro: pensate alla salute!

Salviati: Non dubito che a costar molto sembri più mirabile.

Simplicio: Voi rimanete ottuso perché vi manca la fede!

Salviati: Io credo nella ragione. E in un bicchiere d’acqua fresca, purché non informatizzata.

Sagredo: Salviati, diteci in breve che cosa dunque vorreste?

Salviati: Semplice: che ogni rimedio si provi con metodo, che si misuri l’effetto, che si distingua la speranza dal risultato.

Simplicio: Che aridità di spirito!

Salviati: Che chiarezza di pensiero.

Sagredo: Bene, bene… Ma ditemi ora di quest’altra vostra invenzione. Ho sentito bisbigliare di un caffè omeopatico fatto con la vostra Acqua C.G.E.

Simplicio: Ah! Finalmente tocco un tema in cui l’arte mia brilla.

Salviati: Non dubito. Brilla come una lucciola in bottiglia vuota.

Simplicio: Vi spiego. Si prende l’Acqua C.G.E., già potentemente informata del Codice Galattico Energetico, e la si sottopone a energizzazione ulteriore con la firma vibrazionale del caffè.

Sagredo: Firma vibrazionale?

Simplicio: Sì! Basta avvicinare la tazzina di vero caffè alla bottiglia d’acqua. Le onde sottili trasmettono l’informazione aromatica e stimolante.

Salviati: Dunque non serve versarlo nell’acqua?

Simplicio: Che volgarità! Versare? No! Si comunica per risonanza quantica.

Salviati: E questa vostra pozione… stimola davvero?

Simplicio: Più del caffè stesso! È un caffè omeopatico di altissima potenza!

Salviati: Sicché con meno caffè si ottiene più effetto?

Simplicio: Esattamente. Con diluizioni di 30C, cioè una parte di caffè in un oceano, si ottiene energia infinita.

Sagredo: E quale è l’effetto sul bevitore?

Simplicio: Tiene svegli in eterno!

Salviati: In eterno?

Simplicio: Sì! Mai più sonno, mai più stanchezza. Il bevitore si eleva a stato di veglia permanente!

Salviati: Una condanna piuttosto che una cura.

Simplicio: Per voi scettici è sempre tutto negativo.

Salviati: Mi permetto di notare che chi non dorme impazzisce.

Simplicio: Ecco, siete schiavo della vostra scienza materialista. Noi, invece, vogliamo liberarci dal sonno imposto dalle convenzioni terrestri!

Salviati: Convenzioni? È fisiologia.

Simplicio: Schiavitù biologica.

Sagredo: Ma ditemi, il vostro caffè omeopatico ha sapore?

Simplicio: Solo per chi ha l’anima raffinata.

Salviati: E chi non lo sente?

Simplicio: Non è pronto.

Salviati: Ah, dunque il fallimento del rimedio è colpa del paziente.

Simplicio: Ora mi oltraggiate!

Salviati: No, vi studio come fenomeno curioso.

Sagredo: Insomma, lasciatemi capire. Prendete acqua C.G.E., la avvicinate a un caffè vero, la diluite fino a non aver più nulla, e la vendete come elisir di veglia eterna?

Simplicio: Esattamente. Ed è pur certificato dal Gran Collegio Omeopatico Cosmico!

Salviati: Dubito assai dell’accreditamento.

Sagredo: E il prezzo?

Simplicio: Accessibilissimo: solo cento ducati la boccetta.

Salviati: Rapina con garbo.

Simplicio: Innovazione, Salviati. Voi non comprendete il futuro.

Salviati: Se il futuro è questo, mi ritiro nel passato.

Sagredo: Signori miei, basta per oggi. Mi sento confuso. Devo bere un caffè… ma uno vero.

Salviati: Vi accompagno.

Simplicio: Ebbene, rimanete schiavi della caffeina grezza! Io avanzo con l’Acqua C.G.E. verso l’eternità vigile!

[Sipario]

 

Anche agli scienziati piace scherzare. La bufala dell’uomo del Piltdown

Piltdown. Sussex. Gran Bretagna. Anno 1912. Viene ritrovato il cranio di un ominide a metà tra uomo e scimmia. L’annuncio del ritrovamento viene dato nel Dicembre dello stesso anno nel convegno della Geological Society of London. Qui i due autori della comunicazione, Dawson (autore del ritrovamento) e Woodward, battezzarono l’ominide a cui apparteneva il cranio col nome di Eoanthropus dawsoni o anche uomo del Piltdown.

Al momento della scoperta del cranio dell’uomo del Piltdown, la teoria dell’evoluzione di Darwin aveva circa 53 anni – la famosa “Origine delle specie” aveva visto la luce intorno al 1859 – e si rincorrevano le interpretazioni più disparate sia per la comprensione dell’origine dell’uomo, sia per denigrare la teoria anzidetta che toglieva l’essere umano dal centro del creato per porlo in una dimensione meno centrale dell’universo.

Origine della specie

Secondo le prime interpretazioni della teoria di Darwin, l’essere umano doveva essere considerato come un diretto discendente delle scimmie. In altre parole, le scimmie avrebbero subito nel corso del tempo  delle costanti e continue trasformazioni mediate sia dall’ambiente che dalle abilità necessarie a sopravvivere ai cambiamenti ambientali.Secondo questa interpretazione, il passaggio graduale dalla scimmia all’uomo deve necessariamente aver prodotto degli ominidi con caratteristiche intermedie tra le due specie.

Una via di mezzo

L’uomo del Piltdown si pone a metà tra la scimmia e l’uomo dal momento che mostra caratteristiche simili a quelle di una scimmia, nella parte mandibolare del cranio, ed a quelle dell’uomo, nella parte superiore del cranio. Si tratta, quindi, dell’anello mancante. Nel 1953, però, gli studiosi del British Natural History Museum e dell’Università di Oxford capirono che il cranio ritrovato da Dawson era un falso. Indagini successive hanno confermato l’origine truffaldina del cranio dell’uomo di Piltdown evidenziando che Dawson “limò” e mise assieme ossa umane (di circa 700 anni) con ossa di diverse tipologie di scimmia.

Oggi sappiamo che l’evoluzione non è andata come si credeva all’inizio del XX secolo.

In realtà, l’uomo, così come tutte le specie viventi, si è evoluto per come lo conosciamo oggi grazie all’azione congiunta di “caso e necessità”.  In altre parole, modifiche ambientali del tutto casuali – come terremoti ed inondazioni – alterano l’habitat tipico in cui gli organismi vivono. Nell’ambito di una stessa popolazione esiste un certo numero di individui che, a causa di modificazioni genetiche casuali, si ritrova ad essere maggiormente adattato alla sopravvivenza nelle nuove condizioni ambientali. Per questo motivo, proprio gli individui più abituati alle nuove condizioni ambientali riescono ad avere maggiore possibilità riproduttiva. La conseguenza è che, nel corso del tempo, gli individui più adatti sono quelli che predominano, mentre quelli meno adatti si estinguono. Grazie a questo modello evolutivo possiamo dire che non ci dobbiamo aspettare nessun “anello mancante”. Uno scherzo come quello effettuato nel 1912 oggi sarebbe solo una bufala da primo Aprile.

Per saperne di più

Svolta nella beffa del Piltdown

La bufala dell’uomo di Piltdown

Il pesce d’aprile del 1912

Radar e carote. Quando le bufale aiutano a vincere la guerra

Radar e carote. Cosa c’entrano radar e carote gli uni con le altre? E perché le sciocchezze, oggi indicate col termine “bufala”, aiutano a vincere la guerra?

In realtà si tratta di un aneddoto che risale al secondo conflitto mondiale e che ha coinvolto scienza e scienziati in relazione al fatto che gli anni immediatamente precedenti la guerra sono stati ricchi di scoperte scientifiche nel campo biochimico. Fu infatti tra gli anni Venti e Trenta del Ventesimo secolo che venne individuato il ruolo di molte vitamine tra cui la vitamina A o retinolo.

Si scoprì che precursore di questa molecola, importante anche nei processi chimici legati alla visione (una rappresentazione di tale processo è nella figura di copertina), era il beta-carotene, molecola contenuta in parecchi alimenti di origine vegetale, tra cui le carote.

La seconda guerra mondiale conta diversi episodi di coraggio e tantissime innovazioni tecnologiche. Una di queste fu l’invenzione del radar  che, durante la battaglia d’Inghilterra, fu risolutivo per la sconfitta della Luftwaffe e la determinazione dell’andamento della guerra.

Ed allora cosa c’entrano radar e carote? In che modo sono correlati tra di loro?

Si narra che i Tedeschi fossero alla ricerca dei motivi per cui i piloti della RAF (Royal Air Force) fossero superiori a quelli della Luftwaffe. I primi pare sapessero anticipare le mosse dei secondi potendo colpirli ed abbatterli in tempi molto rapidi. Il trucco era nell’uso della tecnologia del radar che consentiva di “vedere” gli aerei nemici molto tempo prima del loro arrivo nei pressi delle bianche scogliere di Dover.

Ma c’era la guerra. Il radar ed il suo innovativo uso in campo bellico doveva essere protetto. Non si poteva permettere che una tale tecnologia cadesse nelle mani del nemico.

Cosa inventò il controspionaggio Inglese? Approfittando delle delucidazioni biochimiche in merito ai processi della visione e dal ruolo svolto dal beta-carotene come precursore del retinolo, le spie Inglesi sparsero la voce che la superiorità in battaglia del piloti della RAF fosse dovuta alla loro alimentazione a base di carote. Esse consentivano il potenziamento della vista dei militari che, per questo, erano in grado di individuare gli aerei nemici con largo anticipo rispetto al loro arrivo sulle coste Britanniche.

Non si sa se i Tedeschi abbiano abboccato ad una simile sciocchezza. In ogni caso, ancora oggi sia le mamme Inglesi che quelle Tedesche hanno una predilezione per le carote come alimento principe per la nutrizione dei loro pargoli.

Per saperne di più 

Le carote e la vista

La biochimica della visione

Fonte dell’immagine di copertina http://www.oilproject.org/lezione/come-funziona-la-vista-sono-utili-carote-beta-carotene-5280.html

Anche agli scienziati piace scherzare: lo strano caso del Dr. Bestiale

Chi di voi non ha mai sentito parlare del Dottor Bestiale? Si tratta di uno scienziato che di nome fa Stronzo. Ebbene sì, si tratta dello Stronzo Bestiale coautore di tre lavori pubblicati su altrettante riviste di fisica e chimica fisica nel 1987. Potete scaricare i lavori ai riferimenti [1-3].

Non è difficile da comprendere, per noi che siamo Italiani, che il Dr. Stronzo Bestiale non esiste e non è mai esistito (quale genitore chiamerebbe il proprio figlio col nome di Stronzo?), sebbene la conferma della sua non esistenza tra il personale dell’Università di Palermo, istituzione in cui – in prima istanza – egli fu collocato, è venuta anche dal recentemente scomparso Prof. Melisenda, all’epoca Rettore dell’Università degli Studi di Palermo [4].

Si tratta di uno scherzo architettato da Hoover (uno dei coautori dei tre lavori) che nei riferimenti [4] e [5] racconta di come sia nata la cosa.

In breve, pare che egli tentasse da tempo di pubblicare senza successo una teoria innovativa in merito alla dinamica molecolare nelle condizioni di non equilibrio. Le sue ipotesi, però, erano così innovative per l’epoca che le riviste a cui il suo lavoro veniva inviato puntualmente ne rifiutavano la pubblicazione. In alcuni viaggi in aereo, Hoover ebbe modo di ascoltare le parole “stronzo” e “stronzo bestiale”. Dopo averne chiesto il significato a dei colleghi Italiani, decise di aggiungere il Dr. Stronzo Bestiale tra gli autori dei tre lavori che, stranamente, vennero accettati dalle riviste e pubblicati.

Egli stesso rimase colpito da questo fatto perché il suo scherzo riuscì ad evidenziare quelli che, nel linguaggio informatico di oggi, possono essere indicati come dei bug nel sistema dei processi di revisione dei lavori scientifici. In poche parole, negli anni Ottanta del XX secolo era possibile inventarsi dei nomi da mettere tra i co-autori e nessuno se ne sarebbe accorto.

Oggi sarebbe possibile una cosa del genere? In base alla mia esperienza, no. Non è possibile inventare dei co-autori di fantasia. I controlli, grazie a procedure identificative di vario genere (ORCID e ResearchID sono solo alcune di esse), sono veramente stringenti. Occorre essere una persona fisica realmente esistente perché un lavoro possa essere preso in considerazione da una qualsiasi rivista.

Intanto, però, il Dr. Bestiale è ancora lì e pare sia anche abbastanza citato.

Riferimenti

[1] http://www.williamhoover.info/Scans1980s/1987-3.pdf
[2] http://aip.scitation.org/doi/abs/10.1063/1.453402
[3] http://www.williamhoover.info/Monterey.pdf
[4] http://www.parolacce.org/…/the-true-story-of-stronzo-besti…/
[5] https://www.timeshighereducation.com/…/who-…/2016568.article

Anche agli scienziati piace scherzare: il caso del Dr. ter Tisha

È vero. Avevo promesso che solo ogni tanto mi sarei dedicato agli scherzi degli scienziati. Tuttavia il mio amico Giorgio Castiglioni (se non lo conoscete potete dare una lettura alla sua pagina https://www.facebook.com/Mah-1529060910698693/) oggi mi ha informato di un caso veramente singolare del quale non si può tacere a lungo.

Sapete chi è Andre Geim? In realtà pochi lo sanno a meno di non essere del settore. Si tratta di un fisico russo che nel 2010 ha vinto il premio Nobel per i suoi studi sul grafene con la seguente motivazione:

“for groundbreaking experiments regarding the two-dimensional material graphene” [1].

Tuttavia, il Dr. Geim ha vinto un altro prestigioso premio nel 2000 [2]. Si tratta del famoso IgNobel assegnato agli scienziati che si sono distinti per gli studi più improbabili. Andre Geim ha vinto l’IgNobel grazie allo studio sulla levitazione delle rane. Gli esperimenti sulla levitazione gli hanno consentito di pubblicare, nel 2001, un lavoro su Physica B: Condensed Matter tra gli atti di un simposio dedicato alla ricerca sui campi magnetici [3]. Coautore di questo lavoro è il Dr H.A.M.S. ter Tisha. Di chi si tratta? Semplice. È il criceto (hamster) di nome Tisha che Andre Geim ha usato, assieme alle rane, per gli esperimenti sulla levitazione. Proprio un giocherellone, vero?

Nell’altra nota relativa agli scherzi degli scienziati [4] mi chiedevo se fosse possibile oggi mettere tra gli autori un fake. La mia risposta è stata un no convinto a causa dei rigidi controlli a cui siamo tutti sottoposti. Eppure nel 2001, ben quattordici anni dopo i lavori del Dr. S. Bestiale, un altro fake è apparso in letteratura. Come è possibile? Chi non è addentro al mondo scientifico non può saperlo, ma la pubblicazione degli atti di convegno non è soggetta a peer review, ovvero revisione, e non è necessario indicare i dati di tutti gli autori. Insomma, le maglie per pubblicare sono piuttosto larghe e un “criceto” è diventato uno scienziato.

Riferimenti

[1] http://www.nobelprize.org/…/…/laureates/2010/geim-facts.html
[2] http://www.science20.com/…/wacky_world_andre_geim_ig_nobel_…
[3] http://www.sciencedirect.com/…/article/pii/S0921452600007535
[4] https://www.facebook.com/RinoConte1967/posts/1923961591158701:0

Anche agli scienziati piace scherzare: esperimenti in doppio cieco sull’efficienza dei paracadute

Cosa c’entrano i paracadute con il metodo scientifico?

Paracadute: come recita il vocabolario Treccani, dispositivo che ha lo scopo di ridurre la velocità di caduta di un grave ad esso vincolato.

ll metodo scientifico si basa sull’osservazione dei fenomeni, sulla loro ripetibilità e riproducibilità. La ripetibilità si riferisce alla condizione per cui lo stesso laboratorio è in grado di rifare gli stessi esperimenti sempre nelle stesse condizioni. La riproducibilità è quella situazione per cui laboratori differenti sparsi per il mondo sono in grado di riprodurre gli stessi esperimenti utilizzando condizioni identiche. Ripetibilità e riproducibilità sono condizioni essenziali perché una ipotesi possa essere formulata e un modello in grado di spiegare l’osservato possa essere elaborato.

In campo chimico non è difficile riprodurre un esperimento ammesso che si abbiano fondi a sufficienza per attrezzare un laboratorio nel modo necessario. Per esempio, con pochi euro si possono comprare dei sali, acqua bidistillata, un viscosimetro. Si possono preparare delle soluzioni a concentrazione variabile dei diversi sali e se ne può misurare la viscosità.  Il buon senso ci dice che all’aumentare della concentrazione aumenta anche la viscosità. Tuttavia, chi si occupa di scienza sa benissimo che il “buon senso” può essere fallace. Per questo motivo, per evitare i pregiudizi di conferma di cui ho già parlato nei riferimenti [1, 2], si possono far misurare le viscosità a ricercatori che non sanno  di che tipo di soluzione stanno facendo l’analisi. Che so, una decina di soluzioni a concentrazioni differenti di sali differenti si possono conferire ad un ricercatore, un’altra decina di soluzioni diverse ad un altro ricercatore e così via di seguito. Si raccolgono le misure sperimentali e se ne fa una analisi. Ne viene che la variazione di viscosità varia in positivo (aumento) o in negativo (diminuzione) a seconda della natura del sale preso in considerazione. Tanto per fare un esempio banale, l’aumento di concentrazione del cloruro di sodio (NaCl) comporta un aumento della viscosità. Al contrario, nelle stesse condizioni, cambiando il sodio col potassio (quindi cambiando sale ed usando KCl, invece che NaCl), si osserva una diminuzione della viscosità. Non sto qui a spiegare perché. Il mio intento è altro. Questo esempio mi serve solo per far capire che se tutti i laboratori in giro per il mondo si attrezzano  con le stesse strumentazioni e fanno esperimenti con le modalità descritte, sono in grado di osservare sempre lo stesso comportamento delle diverse soluzioni saline.

Il paracadute entra in capo: nel settore medico le cose non sono così semplici!

Supponiamo di voler stabilire l’efficacia di un farmaco antitumorale. Un esperimento ben progettato dovrebbe prevedere un certo numero di persone che abbiano quel tipo di tumore. Questo insieme dovrebbe essere diviso in due gruppi, per esempio gruppo A e gruppo B. Il farmaco antitumorale dovrebbe essere somministrato in modo casuale agli individui dei due gruppi. Diciamo che al gruppo A si potrebbe somministrare il farmaco, mentre al gruppo B si potrebbe somministrare un placebo. Gli individui dei due gruppi non sanno cosa assumono. I medici addetti ai controlli sperimentali non sanno cosa stanno somministrando. Un esperimento di questo tipo, simile a quello descritto sopra, si chiama “in doppio cieco” perché nessuno dei protagonisti sa cosa sta assumendo o prescrivendo. Questa tipologia di esperimenti è utile perché, come nel caso chimico già illustrato, impedisce che i risultati sperimentali risentano dei pregiudizi di conferma  [1, 2].  In campo medico, tuttavia, questa tipologia sperimentale ha delle implicazioni etiche e morali insormontabili. Dal momento che  gli individui  di entrambi i gruppi sono affetti da tumore, in che modo si deve decidere quale dei soggetti è destinato a sicura morte? In altre parole chi decide e come fa a decidere quale delle persone coinvolte nell’esperimento deve assumere il placebo e, per questo, è destinata ad una morte molto probabile?

Un esperimento anche se ben progettato non è sempre fattibile sotto l’aspetto tecnico.

Un paradosso del genere è stato evidenziato in modo comico da due ricercatori britannici che hanno deciso di fare una meta-analisi dei lavori condotti in doppio cieco per la valutazione dell’efficienza dei paracadute nei lanci dagli aerei [3]. Il lavoro è stato pubblicato nel 2003 dal Biomedical Journal, una rivista medica abbastanza autorevole e famosa per la pubblicazione di paradossi come quello che sto descrivendo.  Gli autori affermano che:

“Our search strategy did not find any randomised controlled trials of the parachute”

In altre parole, non sono stati in grado di trovare in letteratura alcun lavoro in doppio cieco in grado di poter affermare con certezza scientifica che l’uso del paracadute è fondamentale per salvarsi la vita in un lancio aereo da 5000 m o più. In effetti, gli autori suggeriscono che, per poter affermare che il paracadute è utile, si dovrebbe condurre un esperimento selezionando un certo numero di persone da suddividere in due sottogruppi: sottogruppo A e sottogruppo B. Ad ognuna delle persone dei due sottogruppi, gli addetti alla distribuzione dei paracadute devono consegnare uno zaino. Gli addetti alla distribuzione non sanno cosa contengono gli zaini che distribuiscono: possono contenere oppure no il paracadute; ognuna delle persone che riceve lo zaino non sa cosa esso contenga. Entrambi i sottogruppi vengono imbarcati e portati ad una certa altezza; da lì si devono lanciare nel vuoto. Se si osserva che tutti quelli che hanno lo zaino col paracadute sopravvivono, mentre gli altri no, si può concludere, con ragionevole certezza, che il paracadute ha una certa efficacia, fino a prova contraria, nel salvare le vite umane.

Nelle loro conclusioni, in breve, gli autori affermano:

“As with many interventions intended to prevent ill health, the effectiveness of parachutes has not been subjected to rigorous evaluation by using randomised controlled trials. Advocates of evidence based medicine have criticised the adoption of interventions evaluated by using only observational data. We think that everyone might benefit if the most radical protagonists of evidence based medicine organised and participated in a double blind, randomised, placebo controlled, crossover trial of the parachute”.

In altre parole, i sostenitori compulsivi di esperimenti in doppio cieco in campo medico, quando esperimenti del genere sono insostenibili per motivi etici e morali, si dovrebbero offrire volontari per studi in doppio cieco sulla efficienza dei paracadute nei lanci aerei.

Morale della storia: ci sono situazioni in cui gli esperimenti randomizzati in doppio cieco è meglio non farli oppure è meglio farli non su esseri umani; la sopravvivenza della specie, in mancanza di alternative efficaci, si può assicurare tramite la sperimentazione animale.

Riferimenti:

[1] https://www.facebook.com/RinoConte1967/posts/1920705241484336:0

[2] https://www.facebook.com/notes/rino-conte/la-memoria-dellacqua-lomeopatia-ed-i-pregiudizi-di-conferma/1919125418308985

[3] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC300808/pdf/32701459.pdf

Ringraziamenti:

Si ringrazia il Dr. Arturo Di Girolamo per aver accennato agli esperimenti in doppio cieco sui paracadute nella sua lezione sull’utilità dei vaccini tenuta il 10 Febbraio 2017 presso il Caffè dei Libri di Bassano del Grappa. La lezione è a questo link: https://www.facebook.com/RinoConte1967/videos/1930788107142716/

 

Anche agli scienziati piace scherzare: il caso “Get me off Your Fucking Mailing List”

Mailing list: chi è impegnato in attività di ricerca conosce bene il problema. Ogni giorno riceviamo decine di e-mails con le quali veniamo invitati a sottoporre i nostri ultimi risultati a riviste open access dalle caratteristiche più improbabili. Per esempio io ricevo quasi ogni giorno inviti da Journal of Research Analytica, International journal of scientific and technical research in engineering, o addirittura da riviste del tipo BAOJ Diabetes che è una rivista medica. Cosa c’entri la mia attività con il diabete non è dato sapere, ma tant’è.

Come regola generale, la mattina, appena apro il mio programma di posta elettronica, perdo 5-10 min solo per selezionare e cancellare senza leggere tutta questa paccottiglia di posta eletronica. Questa posta è solo apparentemente innocua: occupa spazio di memoria che, per gli account istituzionali, è molto limitata, di conseguenza molto preziosa.

La cosa che colpisce molto in tutte le lettere è che tutte le riviste riportano su “otto colonne” l’informazione che esse sono soggette a peer review, ovvero revisione tra pari.

Per chi è poco informato, la procedura per la pubblicazione consiste nello scrivere ed inviare lo studio alla rivista prescelta; gli editor della rivista valutano la congruenza dello studio con gli obiettivi della rivista stessa; se il lavoro centra gli obiettivi, viene inviato a revisori anonimi che hanno il compito di valutare la congruenza tra i dati sperimentali e la loro interpretazione; i revisori possono suggerire la pubblicazione senza modifiche se i dati e la loro interpretazione sono congruenti tra loro; possono chiedere delle modifiche (che possono essere minor o major a seconda del livello di approfondimento richiesto); possono rifiutare il lavoro se dati ed interpretazione non sono congruenti.
Una volta che il lavoro è stato accettato per la pubblicazione, l’editor lo invia al comitato editoriale che ha il compito di formattare il lavoro secondo gli standard della rivista.

Adesso viene il bello.

La stragrande maggioranza delle riviste non chiede alcuna tassa di pubblicazione. Si tratta di riviste chiuse il cui accesso è garantito solo a chi paga un abbonamento annuale.

Esistono delle riviste, però, che consentono a tutti di poter accedere ai lavori pubblicati. Si tratta di riviste indicate semplicemente come open access. Tutte le riviste open access chiedono una tassa agli autori. Questa tassa serve per pagare le spese sostenute dal comitato editoriale che si occupa della formattazione dei lavori e della pubblicazione della rivista. La tassa di pubblicazione non è piccola. Si può andare dai 100 euro in su. Per esempio alcune riviste chiedono anche 1000 euro. Ne viene che se un ricercatore non ha fondi, si guarda bene dal pubblicare su riviste del genere.

Tutto bene, vero? Non c’è nulla di strano. Ognuno può scegliere come e dove pubblicare. Tuttavia, il sospetto che molte riviste open access siano solo uno specchietto per acchiappare soldi dai gonzi o per consentire la pubblicazione di sciocchezze è abbastanza forte.

Ciò che voglio evidenziare è che lo standard qualitativo delle riviste open access può essere abbastanza basso. I lavori possono essere accettati senza una seria revisione tra pari. Non tutte le riviste open access sono così. Ci sono riviste open access che, invece, sono molto serie: PlosOne, Scientific Reports, Agriculture etc etc etc (non faccio un elenco completo perché non è questo lo scopo del post).

Veniamo al punto.

Nel 2005, David Mazieres e Eddie Kohler, due ricercatori Statunitensi, scrissero un articolo dal titolo “Get me off Your Fucking Mailing List” (ho bisogno di tradurre?) [1].

Questo il titolo. Come ogni buon articolo scientifico, anche questo aveva un abstract, una introduzione e diversi altri paragrafi. A parte abstract ed introduzione che avevano i titoli canonici, tutti gli altri paragrafi erano intitolati “Get me off Your Fucking Mailing List” (ho sempre bisogno di tradurre?).

Ed il testo? Beh, tutto il testo di ogni singolo paragrafo e di ogni figura era solo ed esclusivamente “Get me off Your Fucking Mailing List” (a questo punto sono sicuro che non c’è bisogno di tradurre).

Peter Vamplew, un ricercatore dell’Università di Vittoria in Australia [2], pensò bene di inviare, per scherzo, il lavoro di questi due suoi colleghi alla rivista open access International Journal of Advanced Computer Technology, particolarmente molesta in quanto a spam. Con enorme sorpresa, dopo qualche tempo, arrivò la lettera di accettazione del lavoro con la richiesta della tassa di pubblicazione (qualcosa come 150$) come contributo per la pubblicazione open del lavoro accettato.

Siete curiosi vero? Volete conoscere il giudizio espresso dal revisore? Sì, perché pare che il lavoro sia stato inviato ad un solo revisore, piuttosto che ai 3-5 delle riviste più quotate. Ebbene la reviewer form la trovate nel riferimento [3]. In sintensi è scritto:

Accuracy: Excellent
Innovation: Very Good
Relevance: Very Good
Presentation: Good
Quality of writing: Very Good

Divertente, vero? Qualità del testo “molto buona”. Non c’è che dire; l’editor prima, il revisore, poi, hanno avuto un ottimo senso dell’umorismo. Ma l’hanno mai letto questo lavoro? Ne dubito fortemente così come dubito che esso sia mai stato inviato ad un qualsiasi revisore.

Inutile dire che lo scherzo ha fatto il giro del mondo ed è finito su molte testate giornalistiche [4-6] (basta cercare in Google e si trovano “vagonate” di pagine che riportano la notizia).

Morale della favola. Uno scherzo nato per caso e per fare un “dispetto” all’editor di una rivista open access particolarmente molesto nell’inviare posta indesiderata acchiappa-gonzi, ha smascherato un punto molto debole delle riviste open access: alcune di esse non effettuano alcuna peer review; sarebbe meglio dire che non solo non assicurano la peer review, ma i lavori possono passare i diversi filtri pre-pubblicazione senza nemmeno essere letti.

Questa storia è del 2005. Pensate che sia servita a qualcosa? Ebbene, no. Nel 2009, un articolo bufala sulla catastrofe del 11 Settembre 2001 fu pubblicato proprio su una rivista open access che oggi è chiusa e non pubblica più nulla [7]. Sulla validità di questo lavoro tornerò in un altro post. Stasera (sono in Canada in questo momento e qui sono solo le 20:25) sono stato fin troppo logorroico 🙂

Riferimenti

[1] http://www.scs.stanford.edu/~dm/home/papers/remove.pdf
[2] http://federation.edu.au/
[3] https://scholarlyoa.files.wordpress.com/…/11/review-form.pdf
[4] https://www.theguardian.com/…/journal-accepts-paper-request…
[5] http://www.skeptical-science.com/…/fucking-mailing-list-pe…/
[6] http://mobile.businessinsider.com/scientific-journal-accept…
[7] http://www.911research.wtc7.net/…/ActiveThermitic_Harrit_Be…

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