Clima e pseudoscienza: anatomia di una discussione

Qualche giorno fa ho pubblicato il terzo e, speravo, ultimo articolo di un reportage sui cambiamenti climatici. In questo articolo, intitolato I cambiamenti climatici? Sì, siamo noi i responsabili, ho discusso delle prove oggettive – corredate da riferimenti puntuali – che hanno portato l’intera comunità scientifica alla conclusione che i responsabili di quanto sta accadendo attualmente sulla superficie terrestre, ovvero l’aumento delle temperature globali e la conseguente alterazione degli ecosistemi, siamo noi esseri umani.

In quel testo ho cercato di mostrare, in modo accessibile ma rigoroso, perché la tesi dell’origine antropica dell’attuale riscaldamento globale non sia più un’ipotesi, ma una conclusione supportata da una mole imponente di dati.

Ho parlato del ruolo dei gas serra, in particolare della CO₂ prodotta dalla combustione di combustibili fossili, la cui impronta isotopica è ben riconoscibile in atmosfera. Ho discusso anche delle fonti indipendenti che confermano il trend in atto – dalle carote glaciali agli anelli degli alberi, dai sedimenti oceanici alle misurazioni satellitari – e delle ragioni per cui né l’attività solare né le eruzioni vulcaniche possono spiegare ciò che osserviamo oggi.

Infine, ho evidenziato come la rapidità del riscaldamento attuale – oltre un grado in appena un secolo – sia senza precedenti nella storia recente del pianeta, e come l’intero corpo scientifico internazionale, sintetizzato nei report dell’IPCC, abbia ormai raggiunto un consenso solido e ben documentato su questo punto.

Non è necessario riproporre qui tutti i riferimenti bibliografici: si trovano nell’articolo appena riassunto (qui il link).

Eppure, eccomi di nuovo a scrivere sull’apporto antropico all’effetto serra. Non per aggiungere nuove evidenze, ma per riflettere sul modo estremamente fallace – e sempre più diffuso – di ragionare dei negazionisti del cambiamento climatico. Non si tratta, in questo caso, di negazionisti tout court: anche loro, ormai, devono riconoscere l’evidenza dell’aumento delle temperature globali. Si tratta piuttosto dei negazionisti dell’origine antropica, coloro che rifiutano di accettare che la causa principale del riscaldamento sia l’attività umana.

In un gruppo Facebook che aiuto a gestire – Bufale e dintorni gruppo – sono comparsi i primi commenti al mio post con cui pubblicizzavo l’articolo (potete farvene un’idea a questo link).
Poiché si tratta di un gruppo privato – quindi i post non sono visibili pubblicamente – e considerando che non tutti hanno un account Facebook attivo, riporto di seguito gli screenshot della discussione.

La Figura 1 riporta la condivisione dalla mia pagina Facebook “Rino Conte”.

Figura 1. Screenshot relativo alla condivisione del mio articolo sull’effetto antropico nei cambiamenti climatici. Questo thread ha dato la stura a una discussione con un negazionista di tale effetto.

La Figura 2 riporta (spero in modo leggibile, altrimenti è necessario da parte dei volenterosi scaricare l’immagine ed effettuarne uno zoom) la discussione in corso tra me ed il negazionista dell’effetto antropico sul clima.

Figura 2. Discussione in corso tra me ed il negazionista dell’effetto antropico sul clima.

E proprio mentre sto scrivendo questo articolo la discussione continua (Figura 3).

Figura 3. Proseguimento della discussione mentre scrivo questo articolo.

Come si evince dagli screenshot, il tutto ha inizio dall’inserimento di un link a un articolo giornalistico in cui si riporta un filmato che mostra il comportamento di certi ghiacciai negli ultimi 800 000 anni. Questo filmato è tratto da un lavoro scientifico dal titolo “Modelling last glacial cycle ice dynamics in the Alps” pubblicato nel 2018 sulla rivista The Cryosphere della European Geoscience Union, associazione per la quale anche io ho organizzato in passato dei miniconvegni nell’ambito delle attività congressuali più generali che si fanno ogni anno a Vienna in Austria (per esempio, uno è qui).

Chi ha condiviso questo studio nella discussione lo ha fatto con l’intento – più o meno esplicito – di suggerire che, dal momento che i ghiacciai alpini si sono espansi e ritirati ciclicamente nel passato, il cambiamento climatico attuale potrebbe essere semplicemente parte di una lunga variabilità naturale. È un’inferenza del tutto errata, che nasce da un fraintendimento delle finalità e dei contenuti del lavoro scientifico citato.

Infatti, lo studio in questione (Seguinot et al., 2018) non parla di cambiamenti climatici attuali né tantomeno ne discute le cause. Si tratta di un lavoro di modellizzazione numerica della dinamica glaciale delle Alpi durante l’ultimo ciclo glaciale (da 120.000 a 0 anni fa), che ha lo scopo di testare la coerenza tra ricostruzioni geologiche e simulazioni del comportamento dei ghiacciai su scala millenaria. Non c’è nel testo alcuna analisi delle cause del riscaldamento moderno, né alcun confronto con l’evoluzione recente del clima terrestre.

Quello che il mio interlocutore ha fatto è un tipico esempio di bias di conferma: ha estrapolato da un articolo tecnico una conclusione che non c’è, perché questa coincide con la propria convinzione preesistente. È un meccanismo comune tra i cosiddetti “negazionisti soft” – persone che, pur riconoscendo che il clima sta cambiando, rifiutano l’idea che l’essere umano ne sia il principale responsabile.

La dinamica della discussione su Facebook lo conferma: ogni volta che si porta un dato, una misura, una ricostruzione paleoclimatica, l’interlocutore non contesta la validità della fonte, ma sposta il piano, relativizza, introduce “dubbi” storici o filosofici. E infine si rifugia nel mito del “Galileo solitario”, come se ogni minoranza fosse destinata a diventare verità solo perché è minoranza. Ma Galileo non aveva ragione perché era solo: aveva ragione perché aveva i dati e un metodo.

Ecco il punto: il problema non è tanto avere un’opinione diversa, quanto non saper distinguere tra opinione personale e conoscenza scientifica. E non è un caso che questo tipo di retorica si ritrovi spesso in altri ambiti della disinformazione scientifica: chi si sente “eretico” rispetto al sapere ufficiale tende a sopravvalutare le proprie intuizioni e a sottovalutare il lavoro, faticoso e rigoroso, di chi fa scienza sul serio.

Discutere con chi rifiuta le conclusioni della scienza può essere faticoso, ma è anche necessario. Non per convincere chi ha già deciso di non ascoltare, ma per fornire strumenti a chi legge in silenzio, a chi cerca chiarezza in mezzo al rumore. La scienza non ha bisogno di essere difesa come un dogma: si difende da sé, con i dati, con la trasparenza dei metodi, con la disponibilità al confronto critico. Ma proprio per questo va protetta dalle distorsioni, dalle semplificazioni, e soprattutto dal relativismo delle opinioni travestite da verità.
Il cambiamento climatico attuale è un fenomeno reale, misurabile e in larga parte causato dalle attività umane. Continuare a negarlo non è esercizio di pensiero critico, ma una forma di resistenza ideologica che rischia di ritardare l’unica cosa che oggi dovremmo fare: affrontare il problema con serietà, competenza e senso di responsabilità.

EDIT

Mentre mi accingevo a pubblicare questo articolo, il mio interlocutore ha pubblicato un’ultima risposta che ho deciso di riportare integralmente per completezza. Qui sotto trovate anche la mia replica con cui ho deciso di concludere la discussione pubblica.

Interlocutore:

Pellegrino

  1. Lei stesso parla di “stime solide”; che sono appunto stime, non misurazioni dirette.
  2. “Sappiamo perché”, è un’altra forzatura. In realtà abbiamo delle interpretazioni plausibili per molte di esse, ma ciò non equivale a una certezza assoluta. Anche nelle osservazioni attuali, ci si imbatte in anomalie impreviste, tipo l’impatto dello scioglimento del permafrost, temperature previste che poi non si sono verificate… E parliamo di osservazioni dirette; figuriamoci sulle “stime” di fenomeni non osservati direttamente. Per non parlare dell’infinito dibattito su quanto influiscano o meno le macchie solari…

Stesso discorso sul fatto che le oscillazioni in passato non avvenissero in decenni, trascurando che non possiamo sapere se gli strumenti che abbiamo a disposizione siano davvero affidabili con tale precisione. Mancando l’osservazione diretta, non possiamo verificarlo.

Dire che “potrebbero esserci state” significa semplicemente dire che il modello generale è ancora soddisfatto; per dimostrare l’anomalia bisogna dimostrare che davvero non ci siano precedenti. È un discorso di presunzione d’innocenza: per dare la colpa all’uomo bisogna dimostrarla; il “ragionevole dubbio” è a favore dell’imputato. Foss’anche solo per mancanza di prove.

  1. Il moto dei pianeti era noto da sempre (“planities” significa appunto “errante”), ma lui (anzi, Copernico) fornì solo un modello di calcolo semplificato. Infatti, a dirla tutta, il sole non è affatto al centro dell’universo ma si muove pure lui… In questo ha ragione l’insegnante del prof. Barbero che diceva che il card. Bellarmino era più moderno di Galileo.
  2. A “negazionista” si potrebbe contrapporre “fideista”, ovvero uno che sposa senz’altro ciò che dice la maggioranza stigmatizzando il dubbio. Ma io continio a ricordare che la stessa comunità scientifica oggi certa del riscaldamento globale appena quarant’anni fa era ugualmente certa dell’imminenza di un’era glaciale. Un cambio di rotta di 180 gradi in meno di mezzo secolo, e si dovrebbe prendere per oro colato anche l’attribuzione di responsabilità? Anche a fronte di numerose previsioni rivelatesi poi errate?
  3. Su un punto, concordo senz’altro: sulla separazione netta tra dissertazione scientifica e azione concreta (e non potrei dire diversamente, dato che come ho già detto opero nella Protezione Civile).

Il punto certo è che vi sia in atto un cambiamento climatico che attualmente va verso un aumento delle temperature, che il problema è serio e che la cosa va affrontata. Ridurre il più possibile (e possibilmente azzerare) l’impatto antropico non ha controindicazioni, e quindi va benissimo farlo; e infatti ne sono da sempre un convinto sostenitore.

A mio modesto parere, non servirà a granché, perché se Madre Natura ha deciso che è tempo di un nuovo Eocene, Eocene sarà; che ci piaccia o no.

Quindi, oltre ad azzerare le emissioni, miglioriamo l’efficienza dei condizionatori, perché ne avremo comunque bisogno. Tutto qui.

Io:
grazie per aver chiarito ulteriormente il suo punto di vista. Le rispondo un’ultima volta, per chi ci legge e non per la soddisfazione di “avere l’ultima parola”, che non mi interessa.

Sì, le proxy sono stime, ma sono stime calibrate, validate e incrociate da molte fonti indipendenti. Nessun climatologo confonde una proxy con una misura diretta, ma la scienza lavora ogni giorno per rendere sempre più affidabili quelle stime. E il fatto che convergano tutte sul medesimo trend dà forza alla ricostruzione. Questo è il normale funzionamento della scienza, non una debolezza.

Nessuno pretende certezze assolute, né le scienze naturali le promettono. Lei invece sembra richiedere una prova “oltre ogni dubbio”, come se fossimo in un’aula di tribunale. Ma la scienza si basa sulla probabilità, sul peso delle evidenze, sulla capacità predittiva dei modelli. Oggi, la quantità di prove che puntano all’origine antropica del riscaldamento è così ampia da rendere l’ipotesi alternativa – quella esclusivamente naturale – altamente improbabile. Ed è su questo che si fondano le politiche, non sull’attesa della perfezione epistemologica.

Il paragone con Galileo e Bellarmino è affascinante ma fuori luogo. Galileo non aveva solo un modello “più semplice”: aveva anche l’evidenza delle fasi di Venere e delle lune di Giove. Il suo valore non sta nel ribellarsi alla maggioranza, ma nell’aver offerto dati e osservazioni migliori. Lei invece continua a proporre “dubbi” senza portare nessun dato nuovo, solo generalizzazioni.

La comunità scientifica non era “certa” dell’era glaciale negli anni ’70. Questa è una leggenda urbana, smentita dai dati storici: all’epoca la maggior parte degli articoli già indicava un riscaldamento, non un raffreddamento. Se guarda i paper dell’epoca, lo vede chiaramente.

Quanto agli errori previsionali: il fatto che un modello venga corretto o raffinato è normale in ogni scienza. Non è un fallimento, è progresso. Non confondiamo fallibilità con inattendibilità.

Mi fa piacere leggere che riconosce l’urgenza del problema e sostiene l’azione per ridurre le emissioni. Su questo ci troviamo d’accordo. Tuttavia, dire “tanto non servirà a nulla” è una rinuncia mascherata da fatalismo. La scienza climatica non dice che siamo condannati, ma che abbiamo una finestra temporale per ridurre gli impatti futuri. La differenza tra +1,5 °C e +4 °C non è affatto irrilevante. E anche se non possiamo evitare ogni effetto, possiamo evitare quelli peggiori. Questa è responsabilità, non fideismo.

Chiudo qui il mio intervento, perché i fatti, i dati e il consenso scientifico sono pubblici e verificabili. Il resto è opinione personale – legittima – ma non equiparabile alla conoscenza prodotta dalla scienza.

Nota finale: ho riportato per esteso questo scambio non per dare visibilità a una posizione pseudoscientifica, ma per mostrare, in modo documentato, come ragiona chi nega l’origine antropica del cambiamento climatico, e perché queste argomentazioni non reggano al vaglio della scienza.

Parlo di biodinamica con la Senatrice Cattaneo e Gianluca Nicoletti

Oggi sono stato nella trasmissione di Gianluca Nicoletti (Melog) a parlare della biodinamica. Ho preceduto il bellissimo intervento della Senatrice Elena Cattaneo. Per ascoltare il podcast basta cliccare sull’immagine qui sotto per aprire la pagina dei podcast di Radio24 e da lì cliccare sul tastino “play”. Buon ascolto.

Il podcast si può ascoltare anche sulla pagina Facebook di Melog, qui sotto

Fonte dell’immagine di copertina

 

Parliamo di agricoltura biodinamica

“Parliamo ancora di agricoltura biodinamica?”, chiederete voi. “Ma non ti stanchi mai?”, aggiungerete. Il fatto è che se non si alza la voce, maghi e fattucchiere hanno la meglio sulla ragione e la logica.

Purtroppo è di queste ore la notizia che il Senato della Repubblica ha approvato un disegno di legge sull’agricoltura biologica (qui). Fin qui niente di strano, potrete dire. Il problema è che gli appassionati di esoterismo, che evidentemente non mancano tra quelli che siedono nei banchi del Senato, hanno approvato una legge in cui l’agricoltura biodinamica viene equiparata in tutto e per tutto all’agricoltura biologica. Quali sono le conseguenze di tutto ciò? Una tra tutte è che pagheremo con le nostre tasse gli incentivi all’agricoltura biodinamica esattamente come paghiamo quelli all’agricoltura biologica che, però, ha fondamenta scientifiche che la prima non ha.

Di questo e di altro parleremo in diretta streaming su YouTube e Twich e il 25 Maggio alle ore 20:30 assieme a Daniel Puente, che gestisce un interessantissimo canale YouTube (qui), e Valentino Riva.

Per la diretta YouTube basta cliccare qui: https://youtu.be/L26PJauNcfs

Per la diretta Twich basta cliccare qui: https://www.twitch.tv/biologic_twitch

Vi aspettiamo!

Sugli insetti e sui parabrezza

Avete mai sentito parlare del widescreen phenomenon? No? Eppure, tra gli ecologisti della domenica va per la maggiore. Si tratta della constatazione che il numero di insetti stia diminuendo perché i parabrezza delle auto non sono più così sporchi di insetti spiaccicati come quando eravamo piccoli.

Sono le classiche elucubrazioni di gente che di scienza non capisce niente e capisce ancor meno di come si realizza un disegno sperimentale per trovare una risposta alla domanda “la popolazione di insetti su scala globale sta veramente diminuendo?” oppure “esiste una relazione tra l’uso di agrofarmaci e numerosità della popolazione di insetti?”, e potrei continuare, naturalmente. È la stessa tipologia di approccio pseudoscientifico che viene usato dai fantastici fautori di quella robaccia che si chiama omeopatia e che si riassume con “su di me funziona” (ne ho già scritto qui).

La cosa bella è che queste elucubrazioni vengono diffuse da siti molto seguiti (per esempio qui e qui) che contribuiscono alla cosiddetta disinformazione o cattiva divulgazione scientifica.

Vediamo perché la relazione tra parabrezza, numero di insetti spiaccicati e popolosità degli stessi sia una bufala.

Innanzitutto, dobbiamo cominciare col dire che uno studio su scala globale relativo alla perdita di biodiversità (non solo, ma limitiamoci alla biodiversità) va disegnato in modo tale da ottenere risultati non solo replicabili, ma anche riproducibili[1]. Alla luce di quanto scritto, è possibile pensare che il numero di volte in cui puliamo il parabrezza delle nostre automobili sia un dato attendibile? La risposta è no. Il motivo è abbastanza semplice: percorriamo sempre la stessa strada? Sempre alla stessa velocità? Sempre nelle stesse condizioni climatiche? Sempre con la stessa auto?

Esistono strade di tantissime forme, dimensioni e condizioni, tutti fattori che vengono sempre ignorati quando il windscreen phenomen è usato come indice per misurare la popolazione degli insetti. Non dimentichiamoci, inoltre, che le strade generano i cosiddetti bordi nel paesaggio. Come sanno tutti quelli che si interessano di indagini analitiche di ogni tipo, gli effetti dei bordi sono sempre difficili da misurare e generalizzare.

E come facciamo il campionamento? Guidiamo verso i bordi della carreggiata? Allora ci dobbiamo aspettare di campionare una popolazione di insetti di corporatura più massiccia di quelli che potremmo rilevare sul parabrezza se guidassimo esattamente al centro della strada. E a che ora pensiamo di fare il campionamento? Persino io che non sono un entomologo so che la tipologia di insetti che vivono negli ambienti intorno alle strade differisce a seconda del periodo della giornata in cui ci muoviamo. E cosa andiamo a misurare? Il numero di resti presenti sul parabrezza? La loro densità? La forza che usiamo per staccare i poveri resti degli insetti spiaccicati?

Ma non basta. Se io guido sempre nella stessa microzona del pianeta, mi posso permettere di estrapolare le mie pseudo-osservazioni ad altre zone del pianeta? Ovviamente no, perché le mie pseudo-osservazioni sono valide solo per la strada che percorro abitualmente, non per le altre. Chi mi assicura che gli insetti non si siano evoluti in modo tale da andare a popolare le zone limitrofe a quelle che io frequento abitualmente con la mia auto, solo perché hanno imparato che la zona che frequento è quella più pericolosa del sistema in cui essi vivono?

Eh, sì. Tutte quelle elencate, ed anche di più, sono le domande a cui dobbiamo rispondere per rendere un dato attendibile. Sfido tutti gli pseudo-ambientalisti che usano il windscreen phenomenon a rispondere in modo coerente a tutte le domande sopra elencate.

Letture aggiuntive e note

The windscreen phenomenon: anecdata is not scientific evidence

More than 75 percent decline over 27 years in total flying insect biomass in protected areas

Declining abundance of beetles, moths and caddisflies in the Netherlands

Parallel declines in abundance of insects and insectivorous birds in Denmark over 22 years

[1] Replicabilità e riproducibilità non hanno lo stesso significato. La prima si riferisce alla capacità del medesimo ricercatore (o gruppo di ricerca) di ottenere i medesimi risultati nello stesso laboratorio in tempi differenti. La seconda si riferisce alla capacità di ricercatori differenti in laboratori differenti e fisicamente lontani tra loro, di ottenere i medesimi risultati di una data ricerca scientifica.

Fonte dell’immagine di copertina

Omeopatia, ultima frontiera

Eccovi i viaggi onirici degli amici dell’omeopatia nella loro missione secolare diretta all’elaborazione di nuove ipotesi ad hoc per giustificare i loro bias cognitivi, fino ad arrivare là dove la fantasia umana non è mai giunta prima.

Chi è appassionato di fantascienza capirà sicuramente la citazione di cui potete godere in questo brevissimo filmato

Richiami alle origini

Come ormai è noto a tutti, l’omeopatia nasce ufficialmente nel 1810 quando Hannheman pubblica il suo Organon of medicine. Non ho molta voglia di ripetermi perché ho già scritto in merito alla storia dell’omeopatia. Per dare una lettura veloce a ciò che ho già riportato, potete cliccare qui sotto.

L’omeopatia. Una pratica esoterica senza fondamenti scientifici

Sempre uguale a se stessa

1810-2019. Sono passati 209 anni. Durante tutto questo tempo la scienza è progredita; è nata e si è sviluppata la termodinamica con il suo famoso secondo principio; siamo arrivati sulla Luna  e finanche su Marte; è nata la meccanica quantistica che ci ha consentito di sviluppare la risonanza magnetica nucleare, la tomografia assiale computerizzata e tante altre tecniche per la diagnostica medica; stiamo progettando i computer quantistici, e parecchio altro ancora.  Nonostante tutto questo, mentre il nostro mondo è diventato un villaggio globale grazie alla rete internet sviluppata proprio grazie all’evoluzione sempre più incessante della scienza, l’omeopatia è rimasta sempre uguale a se stessa.

Fatevi un giro sui siti di medicina alternativa (quella che io chiamo medicina fuffa) e vi renderete conto che da oltre 200 anni si ripetono sempre ed esclusivamente le stesse cose. Ne volete un campionario? Eccolo.

l’omeopatia funziona
il meccanismo è ancora da scoprire
quello che non si sa oggi, verrà conosciuto domani
non c’entra nulla l’effetto placebo
funziona su piante, animali e bambini. Come lo spieghi con l’effetto placebo?
su di me funziona

e poi ancora: voi scienziati siete una setta; siete al soldo di big pharma; il riduzionismo ha fatto danni.

Insomma, ce ne è per tutti i gusti e per tutte le pazienze. Sì. Per tutte le pazienze, perché bisogna avere veramente una pazienza inesauribile per cercare di star dietro a tutte le scemenze che gli omeopati ci propinano quotidianamente. Per fortuna c’è anche chi segue la filosofia del “una risata li seppellirà” (grazie Orsetto per il buon umore mattutino)

Omeopatia, ultima frontiera

Anche la spasmodica ricerca di prove scientifiche in merito alla presunta efficacia dei rimedi ompeopatici oltre l’effetto placebo è un must.

Caduta con Whöler l’idea della vis vitalis sulla quale si basava il principio secondo cui un rimedio diventa tanto più efficace quanto più esso è diluito mediante processi che prevedevano l’uso di energiche agitazioni meccaniche, sono nate molte altre ipotesi create ad hoc per spiegare degli effetti terapeutici oltre il placebo del tutto inesistenti: si va dalla memoria dell’acqua di cui ho parlato in diversi articoli in questo blog (per esemio qui e qui), alle onde elettromagnetiche (trovate una disamina anche qui) fino ad arrivare alle più recenti trovate secondo cui i principi attivi sono comunque presenti alle dluizioni omeopatiche (se ne parla in modo divulgativo qui e qui). In altre parole, ricopiando il breve riassunto dell’articolo di giornale appena citato (qui),

“Jayesh Bellare, professore di ingegneria chimica in India, grazie al microscopio elettronico a trasmissione (TEM) ha dimostrato in maniera incontrovertibile la presenza di un rilevante numero di molecole di principio attivo in tutte le diluizioni omeopatiche. I suoi studi sono stati discussi nell’ambito del seminario internazionale tenutosi a Firenze durante l’ottavo convegno triennale della Siomi”.

Da questo si evince una cosa molto importante: i fan di questa pratica magica hanno cambiato strategia. I rimedi omeopatici funzionano perché contengono ancora molecole di principio attivo.

Fermo restando che eventuali principi attivi, la cui natura di solito è di tipo organico, non viene rilevata attraverso la microscopia elettronica (e questo perfino gli iscritti al primo anno di ogni facoltà scientifica lo sanno), ciò che il guru indiano ha rilevato sono tracce di sistemi inorganici quali oro, rame, stagno, zinco, argento e platino. Da dove escono questi metalli? Nel lavoro, che potete scaricare qui, è chiaramente indicato che gli autori hanno acquistato dei prodotti che contengono questi metalli:

The homeopathic medications used for the purpose of research were obtained commercially from authorized distributors of a leading homeopathic drug manufacturer in India (SBL) and an Indian subsidiary of a multi-national homeopathic company viz. Dr. Willmar Schwabe India Pvt. Ltd. Random batch number samples were purchased from the market and no special effort was made to get samples from the company. Since we purchased these medicines
from the market, only in certain cases were we able to obtain them from a single manufacturing batch. Also no special efforts were made to obtain the drugs from a batch

Ma allora è vero che rimane qualcosa e ciò che rimane può avere un effetto oltre il placebo!

Andiamoci piano, per favore.

Volete sapere come è fatto un vetro? Basta cliccare qui. Per comodità vi ricopio quanto scritto nel link appena citato:

Il vetro artificiale […] è un materiale inorganico solido amorfo privo di struttura cristallina, prodotto mediante rapida solidificazione di un materiale viscoso composto di sostanze naturali. E’ costituito da un vetrificante, un fondente, uno stabilizzante e vari ossidi, rispettivamente, in percentuale decrescente: silice, sotto forma di sabbia (69 – 74 %), soda, sotto forma di carbonato o solfato (12 – 13 % nei vetri per lastre, 13 – 16 % nei vetri per contenitori, 20% nei vetri artistici), calce, sotto forma di calcare (5 – 12 %), magnesio (0 – 6 %) e allumina (0 – 3 %)“.

Direte voi: ebbene? Allora hanno ragione gli omeopati. Dove sono i metalli che il Professore indiano ha trovato?

Vi ripeto: andiamoci piano, per favore.

Avete scaricato il lavoro (qui)? Avete notato che gli autori non dicono da nessuna parte in che modo erano conservati i preparati che hanno preso in considerazione per le loro analisi? Non scrivono se i preparati erano conservati in bottiglie di vetro e se il vetro era colorato oppure no.

Mi chiederete: e quindi?

beh…il vetro colorato, oltre ai sistemi elencati precedentemente, contiene altri composti il cui elenco potete trovare nella tabella qui sotto (fonte della tabella).

Come vedete i vetri colorati contengono tutti i metalli che il Professore indiano ha rilevato nelle sue analisi. Nel link seguente (qui) trovate altri dettagli che mancano nella tabella citata.

Conclusioni

In definitiva cosa ha trovato il professore indiano nei preparati che ha analizzato? Semplicemente residui provenienti dai contenitori di vetro che, molto verosimilmente, sono stati usati per la preparazione dei rimedi omeopatici presi in considerazione. Non ci dimentichiamo che i rimedi omeopatici vengono ottenuti non solo mediante diluizioni successive, ma anche attraverso succussioni, ovvero scuotimento vigoroso del contenitore che contiene la soluzione diluita n volte. Durante questo scuotimento, il vetro, specialmente se colorato, può rilasciare parte dei suoi componenti che sono stati effettivamente trovati nei rimedi analizzati. In effetti ne parlo anche nel mio libro (Frammenti di Chimica) nel capitolo dedicato all’omeopatia.

Come al solito, i fan dell’omeopatia fanno esperimenti monchi. Dimenticano sempre le prove negative che servono proprio per evitare contestazioni come quella che ho fatto io in questo breve articoletto.

Fonte dell’immagina di copertina: https://www.tuttobiciweb.it/article/75108

Titolacci e titolini

Viviamo nel villaggio globale, non c’è dubbio.

La facilità con cui si possono avere le connessioni di rete per navigare in quel mare magnum caotico che è internet, promuove la diffusione veloce in ogni parte del globo di ogni tipo di informazione.

La cultura internettiana promuove l’evoluzione del nostro linguaggio e, di conseguenza, anche del nostro modo di pensare ed affrontare i problemi.

Qual è il modo migliore per attirare un utente sulla propria pagina? Bisogna incuriosirlo e fornirgli un’immagine o un titolo che possa spingerlo a cliccare e ad entrare nel sito. Non importa se l’utente leggerà o meno ciò che è scritto. Ancora meno importa se capirà ciò che leggerà. La cosa importante è attirare il click perché ad ogni click corrisponde un introito pubblicitario. Più click, più pubblicità, più soldi. Ecco, infine, la filosofia che predomina in rete. Ogni click è denaro.

Questa filosofia si è impadronita anche della carta stampata. Non che prima dell’avvento della rete non fosse così. La vendita delle copie dei giornali era legata all’abilità dei titolisti di fornire un titolo accattivante alle notizie di rilievo in modo tale che il passante venisse attirato e comprasse il giornale. Potrei dire che non c’è nulla di male in tutto ciò. Il problema è che gli addetti al settore ci dicono che oggi stiamo vivendo nel periodo della cosiddetta post-verità. Con questo termine “qualcuno indica una modalità di comunicare secondo la quale i fatti oggettivi sono meno rilevanti rispetto alle emozioni ed alle convinzioni” [1]. In ambito scientifico, questo significa diffusione di pseudoscienza di cui esempio sono l’omeopatia, l’agroomeopatia, l’agricoltura biodinamica, le sciocchezze che si leggono in merito alla Xylella e così via cantando.

Ma veniamo a noi.

Il 4 Luglio nell’inserto Scienze del quotidiano La Repubblica  appare un articolo dal titolo “E il moscerino cominciò a mangiare bio” con sottotitolo “Studenti di Foligno, come i veri biologi, hanno osservato gli effetti provocati dagli alimenti” (Figura 1).

Figura 1. Titolo dell’articolo apparso nell’inserto Scienze di La Repubblica del 4/07/2019

Fermiamoci al titolo ed al sottotitolo. Se io fossi uno che ha “fede” nell’agricoltura biologica, penserei “Mooooolto interessante. Hanno sicuramente fatto esperimenti per stabilire se i prodotti bio sono “attaccati” dai moscerini ed hanno visto che tra un alimento da agricoltura tradizionale ed uno da agricoltura bio, i moscerini, che fessi non sono, hanno cominciato a mangiare i secondi. Figo! È chiaro che i prodotti bio sono i preferiti anche dagli insetti“.

Ma leggiamo l’articolo (Figura 2)

Figura 2. Articolo che descrive l’esperimento fatto da studenti di Foligno

Gli studenti, provenienti da diversi istituti della cittadina umbra e impegnati in un programma di alternanza scuola-lavoro, […] sentono parlare sempre di “bio” e così si sono chiesti quali fossero gli eventuali effetti di regimi alimentari diversi, basati sul consumo di prodotti derivanti da agricoltura biologica e non“.

E già da questa introduzione si capisce che il titolo (titolaccio o titolino?) non c’entra proprio ma proprio nulla con l’esperienza fatta dagli studenti né con la qualità degli alimenti prodotti seguendo il disciplinare del biologico. In altre parole, gli studenti devono aver utilizzato due popolazioni differenti di moscerini alle quali sono stati somministrati prodotti differenti: da un lato alimenti da agricoltura tradizionale, dall’altro alimenti biologici. Insomma, non è che i moscerini preferiscono i secondi rispetto ai primi. Sono stati costretti a nutrirsi di biologico.

Ma andiamo avanti.

Abbiamo costruito un esperimento, utilizzando moscerini appartenenti a diverse specie di Drosophila, […] che condivide con gli esseri umani il 70 percento del patrimonio genetico. Nel corso dello studio i ragazzi hanno verificato gli effetti di una dieta sulla fertilità“.

Si incomincia a vedere la luce in fondo al tunnel. Gli studenti hanno misurato la numerosità della popolazione dei moscerini appartenenti a diverse specie di Drosophila, quando questa è soggetta a due diversi regimi alimentari: con prodotti da agricoltura tradizionale e con biologico. I moscerini non possono scegliere: o si mangiano quella minestra o si buttano dalla finestra (si diceva quando io ero piccolo).

E ancora

Nel corso dell’esperimento i ragazzi hanno riscontrato una maggiore fertilità dei moscerini alimentati con cibo non bio, osservando però che lo sviluppo di muffe negli alimenti bio potrebbe aver influito sulla deposizione delle uova – a cui il pasto fa anche da “incubatrice” – e la crescita della prole“.

E finalmente siamo giunti al punto cruciale. La popolazione di moscerini costretta ad alimentarsi con prodotti bio si è ridotta di dimensioni. Il motivo? Nella lotta alla sopravvivenza, tutti gli organismi viventi competono per le stesse fonti alimentari. I moscerini, in questo caso, competevano con le muffe che erano in grado di aggredire più velocemente i prodotti bio rispetto a quelli da agricoltura convenzionale. La conseguenza è stata che i moscerini alimentati a bio hanno perso la guerra per la sopravvivenza. Quelli che, invece, erano costretti a mangiare cibo da agricoltura tradizionale erano più fertili perché le muffe non erano efficienti come quelle che si sviluppavano sugli alimenti bio.

A questo punto mi si potrebbe dire: vedi che il biologico è migliore? I prodotti da agricoltura convenzionale sono meno suscettibili di attacco da muffe a causa dei “veleni” che vengono usati. Chi fa questa considerazione è semplicemente uno che non ha capito nulla di quanto scritto fino ad ora e soffre di analfabetismo funzionale. Noi siamo esseri viventi come i moscerini. Questi ultimi hanno perso la guerra contro le muffe. Le muffe che sconfiggono i moscerini sono le stesse che sconfiggono noi. Un alimento aggredito da muffe non è edibile e ci viene sottratto. I composti usati per la lotta alle muffe non sono un rischio per l’essere umano se usati seguendo tutte le indicazioni codificate. Il problema, quindi, non è il composto chimico ma l’essere umano stesso. Se uno fa un uso criminoso di un composto chimico, non è quest’ultimo a dover essere condannato, ma il criminale che lo usa in modo sconsiderato.

Conclusioni

Il titolaccio dell’articolo di La Repubblica lascia intendere qualcosa che non ha nulla a che fare con la realtà sperimentale che è stata messa in atto dai volenterosi studenti di Foligno. Gli studenti sono stati bravissimi; il titolista dell’inserto Scienze di La Repubblica molto meno. Bocciato. Si ripresenti alla prossima sessione!

Riferimenti

[1] A.M. Lorusso (2018) Postverità, Edizioni Laterza

Fonte dell’immagine di copertina

https://www.theatlantic.com/science/archive/2018/02/fruit-fly-drosophila/553967/

Omeopatia: aridaje

 

Pensavo fosse finita o, quantomeno, che i fan dell’omeopatia non utilizzassero sempre gli stessi argomenti, triti e ritriti, ormai da tempo sbufalati, e si rinnovassero nel loro repertorio in merito all’omeopatia che non mi stancherò mai di assimilare alle pratiche sciamaniche utilizzate dagli uomini di Neanderthal.

Perché scrivo questo? Semplicemente perché è comparsa sul Quotidiano Sanità una lettera al direttore (qui) in cui l’autrice, presidente ed amministratore delegato della Boiron (nota azienda di prodotti omeopatici), non fa altro che riutilizzare, per l’ennesima volta, a mo’ di mantra, le stesse argomentazioni che ho già avuto modo di confutare nel merito più volte anche in una lezione fatta qualche anno fa a Bassano del Grappa e visibile su YouTube (tutta la serie dei miei articoli divulgativi è qui, oltre che nel mio libro “Frammenti di Chimicaqui e qui).

Ma andiamo nei dettagli: data base e validità dei lavori scientifici

L’autrice scrive:

Il primo fatto oggettivo è che – al contrario di quanto continuano ad affermare gli oppositori dell’omeopatia – la letteratura scientifica sull’argomento, seppur lontana dall’essere esaustiva e ne siamo consapevoli, è ampia. Per rendersene conto basta consultare banche dati biomedicali quali PubMed e leggere i lavori scientifici pubblicati su riviste peer review, con Impact Factor. Tra questi, meta-analisi, studi osservazionali, clinici e preclinici, per citarne alcuni. E’ peraltro online da alcuni mesi anche un database nel quale sono raccolti gli studi pubblicati sul tema negli ultimi 70 anni. La mia impressione è che, spesso, chi dice che non esistono ricerche di qualità sull’omeopatia non le abbia mai cercate e tantomeno studiate. Un atteggiamento in completa antitesi a ciò che dovrebbe essere il pensiero scientifico, che spinge a studiare e sperimentare ciò che non si comprende fino in fondo

Vediamo dove sono le fallacie in quanto scritto.

L’autrice usa il classico “appello all’autorità” (qui) in base al quale se una fonte autorevole riporta delle affermazioni, queste automaticamente sono vere (laddove il “vero” scientifico non ha forza in senso assoluto).

L’autorevolezza di una rivista scientifica si misura mediante l’impact factor (IF), ovvero un numero che tiene conto della quantità di citazioni che gli articoli pubblicati nella rivista stessa ricevono. Se i lavori vengono molto citati, vuol dire che hanno un buon impatto nel settore scientifico di riferimento e la rivista che li pubblica, di conseguenza, ha essa stessa un buon impatto.

Come si calcola l’impact factor?

L’IF si calcola confrontando il numero di citazioni di tutti gli studi pubblicati in un biennio col numero totale di studi pubblicati nello stesso biennio. Per esempio, supponiamo che il numero di citazioni di tutti gli studi pubblicati sulla rivista “tal-dei-tali” nel biennio 2015-2016 sia 13000, mentre il numero di studi pubblicati nello stesso periodo sia 5000. L’impact factor si ottiene dal rapporto 13000/5000, ovvero IF=2.6. Questo valore di IF è alto o è basso? Preso da solo, non ha alcun significato. Per stabilire quanto una rivista sia importante, occorre confrontare l’IF di tutte le riviste che appartengono allo stesso settore scientifico. Per questo motivo le agenzie di indicizzazione stabiliscono delle classifiche di merito – o rating – in cui le riviste più prestigiose – perché pubblicano i lavori che hanno maggiore impatto sul mondo scientifico, ovvero sono i più citati – sono quelle che hanno IF più alto. 

Perché non ha senso quanto riportato nella lettera al direttore scritta dalla AD della Boiron?

Appare chiaro, da quanto detto, che l’autorevolezza di una rivista non si riflette in quella dei singoli lavori pubblicati nella stessa. Quindi, io posso scrivere un lavoro e poi pubblicarlo su una rivista autorevole come The Lancet, per esempio. Non per questo il mio studio diventa automaticamente importante. Ne volete un esempio? Vi ricordate di quella frode scientifica che correlava autismo e vaccini? Ebbene quel lavoro fu pubblicato proprio su The Lancet, una delle riviste più autorevoli in campo medico, ma fu poi ritirato quando, dopo una decina di anni, il mondo scientifico poté verificare l’inconsistenza dei risultati ivi riportati (ne ho anche parlato in uno dei miei tanti articoli sulle frodi scientifiche qui).

Di meta-analisi ed omeopatia.

La signora in questione, sempre per difendere le sue posizioni ideologiche – del tutto lecite vista la posizione che occupa, cita meta-analisi e studi osservazionali in cui si dimostrerebbe la validità dell’omeopatia. Per scrivere il mio libro “Frammenti di Chimica” (in cui un capitolo di 75 pagine è dedicato proprio a questo argomento), ho scaricato, letto e studiato i lavori più importanti e significativi del settore omeopatia. Inutile dire che le meta analisi più importanti riportino esattamente quello che non piace alla scrivente della lettera al direttore e che i cosiddetti lavori osservazionali pecchino di difetti sperimentali che li rendono del tutto inutili per trarre le conclusioni di cui la signora accenna nella sua lettera. Se volete leggere quello che ho scritto in merito, potete far riferimento anche al mio blog dove ho riportato un estratto di quanto scritto nel libro sotto forma di reportage in quattro puntate.

In breve, nella prima parte del reportage (qui) ho evidenziato i limiti dei lavori di Benveniste e Montagnier considerati i paladini dell’omeopatia. La seconda parte del reportage (qui) è  dedicata alla valutazione delle prove a sostegno dell’ipotesi “memoria” dell’acqua delizia dei fan dell’omeopatia. La conclusione è che si tratta solo di fantasia e di scienza patologica. Nella terza parte del reportage (qui) ho preso in considerazione le varie meta-analisi che nel corso degli anni sono state fatte per valutare, in modo statistico, l’eventuale efficacia dell’omeopatia. Ne è venuto che gli effetti dell’omeopatia sono ascrivibili al solo effetto placebo. Infine, nella quarta parte del reportage (qui) descrivo l’effetto placebo, l’unico effetto che i rimedi omeopatici hanno sugli organismi viventi.

Perché l’effetto placebo è malvisto dai sostenitori dell’omeopatia?

Più che dai sostenitori generici dell’omeopatia, l’effetto placebo sembra essere odiato soprattutto da coloro che a vario titolo sono coinvolti nella commercializzazione dei rimedi omeopatici. Mi sembra anche ovvio perché. Un rimedio omeopatico come l’Oscillococcinum, per esempio, contiene soltanto due tipi di zuccheri (saccarosio e lattosio) che costano la bellezza di 2000 € al chilogrammo. Insomma delle pillolette fatte di zucchero costano un occhio della testa. Come posso pretendere di vendere questo prodotto a qualcuno affermando che il suo effetto è solo di tipo placebo? Per poter giustificare il prezzo esorbitante, devo appellarmi a presunti meccanismi biochimici ancora sconosciuti che la cosiddetta “scienza ufficiale” (che ricordo NON esiste) si rifiuta di indagare. Indubbiamente troverò persone semplici che, per cultura, non sono in grado di affrontare ragionamenti scientifici complessi, a cui potrò far credere ciò che voglio e che possono rappresentare il mio bacino di utenti. Queste stesse persone diventeranno, poi, strenui difensori dell’omeopatia perché non sono sufficientemente preparate a poter distinguere ciò che è soggettivo da ciò che non lo è. Ho parlato dell’indotto economico della big pharma omeopatica in una intervista a Il Sole 24 Ore (qui).

Il database dell’omeopatia.

Alla luce di tutto quanto scritto, affermare che esiste un data base che raccoglie gli studi sull’omeopatia fatti negli ultimi 70 anni serve solo come specchietto per le allodole e distrarre l’attenzione del lettore dal vero problema: i rimedi omeopatici hanno solo effetto placebo. Anche se si raccogliessero i lavori fatti a partire da quando fu pubblicato l’Organon di Hannhemann nel 1810, nulla potrebbe cambiare questo dato di fatto.

Antiscienza.

Ha senso, allora, parlare di atteggiamento antiscientifico da parte di chi, come me, si oppone con forza a questi rimedi che non servono a nulla? No. La fondatezza di uno studio scientifico diventa progressivamente più forte col passare del tempo, man mano che l’accumulo delle prove sperimentali rende sempre più difficile la sua falsificazione. Mi dispiace moltissimo per i sostenitori dell’omeopatia, ma questa pratica ha basi scientifiche che sono state falsificate in senso popperiano. Di conseguenza essa è entrata a pieno titolo nella storia passata della scienza. Andiamo avanti e lasciamo il ramo secco dell’albero della scienza dove esso è: nel paradiso delle ipotesi sbagliate di cui il mondo scientifico è pieno.

La registrazione dei rimedi omeopatici.

L’autrice continua la sua disamina scrivendo:

Il secondo fatto oggettivo è relativo al processo di registrazione dei farmaci omeopatici. È fuorviante dire che “nessuna azienda omeopatica ha fatto richiesta di inserire i propri prodotti nel percorso autorizzativo per i farmaci con indicazione terapeutica”.  Se le aziende non lo hanno fatto, è perché mancano le linee guida per la registrazione non semplificata con indicazioni terapeutiche, possibile solo attraverso l’articolo 18 del D.Lgs. 219/2006, che afferma: “Per tali prodotti (ndr.: i farmaci omeopatici) possono essere previste, con decreto del Ministro della Salute, su proposta dell’AIFA, norme specifiche relative alle prove precliniche e alle sperimentazioni cliniche, in coerenza con i principi e le caratteristiche della medicina omeopatica praticata in Italia”. E’ in corso da alcuni anni un confronto con il Ministero della Salute perché si arrivi all’emanazione di queste linee guida, presenti in quasi tutti gli altri Paesi che hanno recepito in modo completo la Direttiva europea

Non ci vuole molto ad andare sul sito web dell’Agenzia Italiana del farmaco (AIFA) e trovare quanto riportato in questo link. Se avete la pazienza di leggere cosa è scritto lì, si capisce che le indicazioni su come effettuare la registrazione dei rimedi omeopatici sono state date. Evidentemente i problemi che le aziende che producono questi rimedi incontrano sono altri e non voglio indagare. In ogni caso, un articolo divulgativo in merito lo trovate anche sul sito web di Scienza in Rete (qui).

Le indicazioni terapeutiche.

L’autrice scrive ancora:

Il terzo fatto oggettivo è strettamente connesso al punto precedente. E’ vero che le indicazioni terapeutiche non si possono comunicare ai pazienti, ma è falso affermare che non esistono, tanto che proprio per legge esse vengono consegnate ai medici e ai farmacisti (art. 120, D.Lgs 219/2006), previa notifica all’Agenzia del Farmaco, esattamente come avviene per tutti gli altri farmaci“.

Sempre dal sito dell’AIFA è possibile trovare che le indicazioni terapeutiche sono “malattie o gruppi di malattie contro cui un farmaco è efficace” (qui). Per poter dire che un farmaco è efficace contro una data patologia è necessario condurre studi clinici in doppio cieco. Alla luce di quanto scritto fino ad ora, lascio al lettore le conclusioni in merito alla serietà progettuale degli studi clinici condotti con i rimedi omeopatici.

Il progetto EPI3.

E ci risiamo. L’autrice scrive:

i risultati del programma di ricerca EPI3, il più importante studio farmaco-epidemiologico realizzato nel campo della medicina generale in Francia, indicano che, per tutte le condizioni cliniche prese in esame, un paziente seguito da un medico che prescrive medicinali omeopatici ha un decorso clinico simile a quello di un paziente seguito da un medico che non lo fa, senza perdita di opportunità terapeutica e con un minor consumo di farmaci che possono provocare effetti indesiderati“.

Sfortunatamente per la signora, ho scaricato tutti i lavori del progetto EPI3 (sono circa una decina) e li ho studiati per bene. Ne parlo nel mio libro “Frammenti di Chimica“. Ma ne parlo anche nel mio blog: qui. Non voglio riscrivere cose di cui ho già discusso, per cui vi invito ad aprire il link precedentemente indicato ed a leggere perché il progetto EPI3 – finanziato dalla stessa Boiron con circa 6 milioni di euro –  è inconsistente e privo della solidità scientifica che un progetto di questa portata dovrebbe avere (del progetto EPI3 ho discusso con Francesco Mercadante nella mia intervista a Il Sole 24 Ore qui).

Conclusioni

Capite, ora, perché il titolo di questo lungo articolo è “aridaje”? Quando la lettera sul Quotidiano Sanità è venuta ai miei occhi, mi sono innervosito: possibile che non si faccia altro che ripetere sempre e continuamente le stesse cose? Possibile che questa storia non finisca mai? Perché volete ammantare di scientificità qualcosa che di scientifico ha nulla? Qual è il problema nell’ammettere che i rimedi omeopatici sono solo una moda che si inserisce in una mentalità new age che consente di occupare solo una nicchia di mercato più o meno florida? Nessuno vuol vietare l’uso di questi rimedi. Ciò che importa è che le scelte vengano fatte in modo consapevole sapendo che l’eventuale efficacia di un rimedio omeopatico è dovuta solo all’effetto placebo che è ben studiato e conosciuto in letteratura (a tal proposito cito il libro del mio amico Giorgio Dobrilla “Cinquemila anni di effetto placebo“, edra edizioni).

Ringraziamenti

Sono molto grato al mio amico Marco Cappadonia Mastrolorenzi per la consulenza sul romanesco usato nel titolo di questo articolo.

Fonte dell’immagine di copertina: available on Wikimedia Commons. The photo has been licensed under Creative Commons Zero (Source)

Un nuovo scoop

 

di Enrico Bucci e Pellegrino Conte

Il Tempo, che in questi giorni ci ha abituato ai suoi rilanci in tema di sicurezza di vaccini, riporta oggi a pagina 6 l’ennesimo articolo a firma dell’ex senatore e presidente dell’ordine dei biologi D’Anna, che ancora una volta ritorna a modo suo sulla questione della sicurezza vaccinale.

Il titolo recita così:

Ecco lo studio segreto sui vaccini

Segreto? Davvero? Trattasi di un lavoro così segreto da essere stato pubblicato nel 2013 su una rivista scientifica ad accesso libero, cosiddetta “OpenSource” (PlosOne), scaricabile qui; una presentazione da parte del dott. Pellegrino, uno degli autori, è presente pure sul sito di EpiCentro (AIFA), qui.

Giusto per essere chiari, al tempo della pubblicazione l’articolo fu ampiamente condiviso dalla comunità scientifica, è citato ed è ben noto a chi lavora nel settore.

Di cosa parla la pubblicazione? Di uno dei possibili effetti collaterali della vaccinazione, la cosiddetta ADEM, encefalomielite acuta disseminata, che può insorgere in soggetti probabilmente predisposti a seguito dell’esposizione ad antigeni diversi (non necessariamente quelli presenti in un vaccino). Ricordiamo che i vaccini sono farmaci, e come tali non son esenti da effetti collaterali (anche se per esempio molti di meno dell’aspirina).

Peraltro, nel lavoro di PlosOne gli autori onestamente ammettono che lo studio:

“suffers from lack of rigorous case verification due to the weakness intrinsic to the surveillance databases used”

Per chi non avesse dimestichezza con l’Inglese, vuol dire che i dati riportati nel lavoro vanno presi con le pinze.

In ogni caso, a dar retta agli autori dello studio cui fa riferimento l’ex senatore nel suo articolo di oggi sul Tempo, si parla di 205 e 236 casi di encefalomielite acuta disseminata riportati nel periodo 2005-2012 in due diversi database che contengono tutti gli eventi avversi da vaccino registrati negli USA e in Europa.

Ed ecco che qui si comincia a capire: poche centinaia di casi (di cui ancor meno fatali), in tutte le nazioni occidentali, in un periodo di 8 anni, su un insieme che contiene dati, a detta degli stessi autori, di questa dimensione:

“information on adverse events having occurred in over one billion people”

ovvero informazioni ottenute su più di un miliardo di persone.

Cosa vuol dire questo? Vuol dire che su oltre un miliardo di persone che hanno denunciato almeno un evento avverso, sono stati rilevati solo 441 casi di encefalomielite acuta disseminata. In altre parole, l’evento avverso preso in considerazione si presenta nello 0.0000441 % dei casi di evento avverso – circa 4-5 persone ogni 10 milioni di persone che hanno denunciato almeno un evento avverso.

Naturalmente, come è ben noto le persone che hanno riportato negli anni almeno un evento avverso da vaccino sono una piccola minoranza del totale dei vaccinati; per cui la domanda che sorge spontanea è quella relativa a quanti eventi di encefalomielite acuta disseminata si osservano sul totale dei vaccinati (non su quelli che riportano eventi avversi).

La risposta è contenuta in un apposito studio, che potete trovare qui: su un campione di 64 milioni di dosi vaccinali (di tutti i tipi di vaccini), si sono osservati 8 casi di encefalomielite acuta disseminata.

Sono tanti? Sono pochi?

Andiamo un attimo sulla pagina dell’ISTAT (qui). Si può vedere che nel 2016, per l’Italia, l’incidenza di incidenti domestici è stata di circa l’1.1 %. Questo numero vuol dire che su mille persone che svolgono una qualche attività domestica, 11 subiscono un qualche incidente più o meno grave.

Non è difficile a questo punto comprendere che fare una qualsiasi attività casalinga sia molto ma molto più pericoloso rispetto al rischio di incorrere in encefalomielite acuta disseminata dopo un qualsiasi vaccino.

Ma lasciamo stare le casalinghe: qual è la probabilità di morire colpiti da un fulmine in Italia? Ogni anno, secondo i dati disponibili, 10-15 persone muoiono per fulminazione (come riportato anche qui), che come abbiamo visto sono molte di più di quelle che rischiano di prendersi una encefalomielite acuta disseminata dopo un vaccino (considerando il numero di dosi di vaccino somministrate ogni anno in Italia). Aspettiamo quindi di vedere su “Il Tempo” il pubblicato quindi un articolo di cui ci sentiamo di suggerire il titolo: “Studio segreto sui fulmini”.

A questo punto si potrebbe obiettare che, sebbene il rischio di subire incidenti domestici o quello di essere fulminati siano molto maggiori dei rischi discussi da Il Tempo nell’articolo di oggi, essi sono rischi inevitabili, mentre la vaccinazione è comunque in linea di principio un atto che avviene per scelta del legislatore o dell’individuo.

Consideriamo allora la più blanda forma di trattamento volontario possibile, uno di quelli che abbiamo spesso entrambi criticato per la sua base pseudoscientifica: qual è il rischio di eventi avversi connesso all’assunzione di una pillola omeopatica, un prodotto cioè completamente privo di principi attivi e che in linea di principio dovrebbe essere assolutamente innocuo? Qui, per esempio, si riporta che circa 3 persone su 100 possono sperimentare effetti avversi anche molto gravi e potenzialmente letali, dovuti ad esempio all’allergia al lattosio delle pillole omeopatiche.

In conclusione: lancereste un allarme mettendo in guardia le persone dal bere acqua, perché l’acqua fresca può a volte avere effetti letali?

Link alla pagina di Enrico Bucci (qui)

Ancora sulla chimica cattiva

 

Ormai anche le dolomiti sanno che sono un chimico; sanno anche che sono alquanto irritabile quando leggo certe cose. E guardando alla foto di Figura 1 mi sono irritato non poco.

 

Figura 1. Post comparso sulla pagina pubblica di una nutrizionista

La dottoressa scrive: “i dolcificanti artificiali, che sono chimici e tossici”.

Cosa vuol dire che i dolcificanti artificiali sono chimici? Forse che il saccarosio (ovvero quella polverina bianca che usiamo per dolcificare il caffè al bar) non è inquadrabile come un composto chimico? Ed il fruttosio? E tutti gli altri zuccheri? Non sono forse anche essi composti chimici? Ma, del resto, esiste un qualche composto nell’intero universo che possa essere definito come “non chimico”? Anche le rocce che sono su Marte sono composti chimici.

Ancora una volta il termine “chimico” viene usato male.

Come sto ripetendo fino alla nausea da un po’ di tempo a questa parte, la chimica è una forma di conoscenza. Come questa conoscenza possa essere utilizzata è ben altro. Non voglio ripetermi per l’ennesima volta. Vi invito a leggere le interviste che ho rilasciato a “La medicina in uno scatto” (qui) e Gravità Zero (qui) oppure l’intervista che è apparsa su Il Sole 24 Ore (qui).

Il linguaggio popolare

Capisco che per le persone che non sono abituate al linguaggio scientifico il termine “chimico” voglia dire “di sintesi”, ovvero fatto in laboratorio. Ma il fatto che un composto chimico sia fatto in laboratorio non vuol dire che esso sia necessariamente tossico. Nella intervista a “La medicina in uno scatto” (qui) faccio l’esempio della nitroglicerina che è un composto che non esiste in natura; può essere usato come esplosivo (e di fatto è l’ingrediente della dinamite), ma anche come medicinale, dal momento che il suo sottoprodotto di degradazione nell’organismo umano è un ottimo vasodilatatore e viene usato come farmaco antianginoso. Questo è solo uno dei tanti esempi che si possono fare. Un altro è l’insulina. Fino a una cinquantina di anni fa, l’insulina (sì, quel famoso ormone la cui carenza è legata all’insorgenza del diabete) era isolata dal pancreas animale (in particolare del maiale). Il suo grado di purezza non era sufficiente a garantirne una completa innocuità perché gli individui che assumevano questo prodotto di origine animale potevano rispondere negativamente alle impurezze in esso contenuto. Oggi l’insulina è fatta in laboratorio (mediante l’uso di organismi geneticamente modificati, sì, proprio i bistrattati OGM) ed il suo grado di purezza assicura agli esseri umani un ottimo grado di tollerabilità. Oggi i diabetici possono condurre una vita “normale” fino a tarda età facendo ovviamente attenzione a ciò di cui si alimentano e facendo uso costante di questo farmaco di sintesi.

I dolcificanti di sintesi

Ed ora ritorniamo ai dolcificanti di sintesi. Sono tossici? Non più di quanto lo sia un qualsiasi altro alimento. Ne parlo molto dettagliatamente nel mio libro “Frammenti di Chimica“, ma ne ho parlato anche diverse volte in un mio reportage sui dolcificanti. Per esempio qui parlo dell’acesulfame K, qui della “tossicità” dello zucchero raffinato (ma ne parlo anche nell’intervista a Gravità Zero, qui), qui parlo della saccarina, qui dell’aspartame. Insomma, la “tossicità” degli edulcoranti di sintesi è una leggenda. È ovvio che se assumiamo quantità enormi di un qualsiasi dolcificante, questo bene non fa. Il trucco è tutto nella moderazione e nella variabilità alimentare.

Metabolismo veloce; metabolismo lento

Altro punto che mi lascia perplesso, e molto, è il concetto di “accelera il metabolismo”. Il metabolismo è una complessa serie di reazioni chimiche dalle quali traiamo la nostra capacità autopoietica (per approfondire ne ho già parlato in passato qui e qui). Il metabolismo (la cui complessità è in Figura 2) non può essere inteso come un’automobile che accelera quando pigiamo sul pedale dell’acceleratore o rallenta quando pigiamo il pedale del freno.

Figura 2. Mappa metabolica (Fonte)

Le reazioni metaboliche vanno in una direzione o nell’altra a seconda delle attività che svolgiamo durante la giornata. “Accelerare” o “rallentare” il metabolismo è un non-senso biochimico; in altre parole non significa nulla. L’uso di questi termini non fa altro che alimentare dei miti e delle leggende popolari che, a loro volta,  posso generare bufale.

Come difendersi dalle bufale?

L’educazione alla scienza, la difesa dalle bufale, passa anche dal modo con cui noi professionisti del settore usiamo le parole. Non possiamo, noi, abbassarci al linguaggio popolare. Dobbiamo fare in modo che il linguaggio popolare venga dismesso e le parole vengano usate nel modo opportuno. Questo lo possiamo fare solo se noi tutti ci impegniamo nella corretta divulgazione ed educhiamo il salumiere, la massaia, il professionista che è fuori dal contesto scientifico, all’uso corretto delle parole che appartengono al nostro mondo.

 

Fonte dell’immagine di copertinahttps://www.scientificast.it/chimica-bella-chimica-brutta-scientificast-126/

Il Workshop “Società e Salute: tra scienza e pseudoscienza” sui giornali

Il 25 Ottobre 2018 si è concluso il primo CNMP Workshop dal titolo “Società e Salute. Tra scienza e pseudoscienza”. Obiettivo dell’evento è stata la sollevazione del mondo scientifico contro la diffusione delle pseudoscienze. Spettatori attenti, non solo professionisti di ogni settore, ma anche studenti. Ed è proprio a questi ultimi che il Workshop è dedicato. Bisogna fornire proprio ai più giovani gli strumenti adatti per riconoscere le fake news o bufale che si presentano ovunque: dai siti web alla carta stampata.

Diversi gli interventi tra cui quello del Dr. Nino Cartabellotta presidente dell’Osservatorio GIMBE. La sua lezione è stata oggetto di un articolo su LiveSicilia

Uno dei temi toccati si riassume in queste parole del Dr. Cartabellotta: “Siamo cresciuti nella cultura dell’aneddoto, quello che fa notizia è il sensazionalismo del trattamento straordinario e non i risultati della ricerca media”.

In attesa del montaggio dei filmati relativi ad ogni intervento, si può avere un sunto della lezione del Dr. Cartabellotta al link della redazione di LiveSicilia qui.

 

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