La lucentezza dei metalli

Vi siete mai chiesti perché uno specchio restituisce la nostra immagine riflessa? Si tratta di una tipica propietà dei metalli che noi indichiamo col termine di “lucentezza”.

La tavola periodica

La tavola periodica è, ormai, nota a tutti. Tuttavia, una cosa è sapere che esiste una “tabella” in cui sono riportate le proprietà fondamentali di tutti gli elementi chimici noti, altra è conoscere i dettagli di queste proprietà tra cui va certamente annoverata la lucentezza dei metalli.

Avete sicuramente maneggiato i fogli di alluminio come quello mostrato in Figura 1A. Si usano, per esempio, per conservare gli alimenti (Figura 1B), cucinare (Figura 1C) o applicare la tintura per capelli (Figura 1D).

Figura 1. Foglio di alluminio (A) e suoi usi. Conservazione degli alimenti (B); cottura (C); applicazione della tintura per capelli (D)

Come potete vedere si tratta di un materiale caratterizzato da una certa lucentezza, ovvero dalla capacità di riflettere la luce. Come l’alluminio, anche gli altri metalli della tavola periodica (tutti quelli colorati in verde nella Figura 2) hanno la medesima caratteristica.

Figura 2. Tavola periodica con, in verde, indicazione degli elementi metallici (Fonte)
A cosa è dovuta la lucentezza?

Per poterlo spiegare dobbiamo innanzitutto comprendere come è fatto un atomo.

Struttura dell’atomo

È ben noto che un atomo è costituito da un nucleo, contenente protoni e neutroni, e da elettroni. Questi ultimi  si muovono attorno al nucleo formando una nuvola generalmente indicata come “nuvola elettronica” (Figura 3).

Figura 3. Schema di atomo. Gli elettroni, che si muovono attorno al nucleo, formano una una nuvola elettronica (Fonte)

La nuvola elettronica è piuttosto complessa. Gli elettroni non possono semplicemente “ammucchiarsi” e stare tutti assieme. A coppie di due, essi si devono disporre a distanze differenti dal nucleo e devono occupare degli spazi la cui forma geometrica è variabile. La Figura 4 mostra proprio la forma di questi spazi occupati dagli elettroni e che chiamiamo “orbitali”.

Figura 4. Forma degli orbitali atomici s, p, d, f (Fonte)
Gli orbitali di valenza

Quando combiniamo più atomi assieme per formare un sistema multiatomico complesso, in realtà stiamo combinando le varie nuvole elettroniche ognuna fatta dall’insieme di orbitali descritti in Figura 4. In genere, per comodità, quando si descrive l’interazione tra atomi in un sistema multiatomico, si trascura il contributo alla interazione da parte degli elettroni che sono più vicini al nucleo, ovvero degli elettroni che occupano la parte più interna della complessa nuvola elettronica summenzionata. Il motivo per cui viene trascurato questo contributo è intuitivo. Immaginate ogni orbitale come se (*) fosse un palloncino. La nuvola elettronica può essere pensata come se fosse un inviluppo di palloncini la cui rigidità diminuisce man mano che aumentano le sue dimensioni, ovvero man mano che gli elettroni si allontanano dal nucleo. Il palloncino che ospita gli elettroni più lontani dal nucleo (chiamato anche orbitale di valenza) è quello più facilmente deformabile (il termine tecnico è “polarizzabile”). La deformabilità dei palloncini più esterni consente la loro migliore interazione per la formazione del legame chimico.

I legami nei metalli

Quando si raggruppa un insieme di atomi di un qualsiasi metallo della tavola periodica  (come nel caso del foglio di alluminio di Figura 1), si può pensare che si formi un sistema come quello descritto in Figura 5.

Figura 5. Schema di legame metallico

In altre parole, si può pensare che gli orbitali di valenza dei singoli atomi perdano la loro identità e si combinino (grazie alla loro elevata capacità di “deformarsi”) in modo da formare un unico “contenitore” in cui si muovono tutti gli elettroni di valenza. Questo vuol dire che gli elettroni dei palloncini più esterni non appartengono più ad un singolo specifico atomo, ma diventano elettroni dell’insieme di atomi. Immaginiamo, quindi, che i nuclei (in Figura 5 indicati con pallini gialli) siano immersi in un mare di elettroni (in Figura 5 indicati con pallini azzurri).

A questo punto mi si potrebbe dire che con questa descrizione io stia violando i principi più elementari della meccanica quantistica. Infatti, poco sopra ho scritto che gli elettroni non possono ammucchiarsi, ma devono occupare, a coppie, spazi dalle forme ben precise e disporsi ad una distanza ben definita dal nucleo. Al contrario ora io sto scrivendo che si è formato un “mare elettronico” in cui tutti gli elettroni sembrano essere tutti assieme appassionatamente. Volendo essere un po’ più precisi, possiamo dire che quando le nuvole elettroniche di valenza si combinano per formare il “mare elettronico”, si realizzano, in realtà, bande energetiche differenti molto vicine tra di loro in cui gli elettroni possono “entrare” ed “uscire”   mediante acquisizione o rilascio di una minima quantità di energia.

La lucentezza dei metalli

Quando una radiazione elettromagnetica (ovvero un raggio di luce) colpisce la superficie di una lamina metallica, gli elettroni si muovono da una banda energetica all’altra passando da uno stato fondamentale ad uno eccitato. Nel momento in cui gli elettroni tornano allo stato fondamentale, emettono dei fotoni alla stessa lunghezza d’onda della luce incidente con la conseguenza che viene restituito il riflesso dell’immagine che ha emesso la radiazione luminosa.

Maurits Cornelis Escher, Mano con sfera riflettente (Fonte)

Note ed approfondimenti

(*) la locuzione “come se” viene spesso usata dai chimici per fare delle analogie tra il mondo chimico e quello quotidiano. In altre parole, nel delucidare i modelli chimici e chimico-fisici, il “come se” viene usato per generare immagini mentali che, pur non essendo corrette, consentono la comprensione qualitativa dell’argomento di cui si discute. Gli orbitali NON sono palloncini, ma li immaginiamo come tali per comodità; un elemento chimico, una molecola NON sono sferici, ma le descriviamo come tali perché conosciamo tutto di una sfera ed è più semplice definirne il comportamento sotto l’aspetto qualitativo. Quando però dobbiamo applicare la matematica per la descrizione quantitativa del modello, non possiamo più usare le immagini mentali che abbiamo generato col “come se” e dobbiamo fare delle astrazioni che, per i non addetti ai lavori, risultano poco chiare o del tutto incomprensibili. Per comprendere le astrazioni dobbiamo passare dalla divulgazione scientifica al tecnicismo scientifico che può essere appreso solo attraverso uno studio specifico e settoriale.

Il legame chimico (1) e (2)

Il legame metallico

Il binario 9 e ¾ ovvero del perché non possiamo attraversare i muri come Harry Potter

Orbitali atomici ed ibridazione

Una lezione di Rai Scienza sul legame metallico

Fonte dell’immagine di copertina:

larapedia.com. Metalli e leghe

Biochar: ultime rivelazioni sul suo meccanismo d’azione

Chi frequenta questo blog o la mia pagina facebook sa che la mia attività di ricerca degli ultimi anni, oltre ad essere centrata sullo sviluppo della risonanza magnetica nucleare a ciclo di campo in ambito ambientale, è imperniata sulla valutazione della chimica fisica del biochar, un carbone ottenuto per degradazione termica in assenza o scarsità di ossigeno (ovvero pirolisi) di biomassa animale e vegetale. Faccio anche parte della European Biochar Certificate (EBC), una organizzazione internazionale che promuove l’uso del biochar in agricoltura e si interessa della standardizzazione delle metodiche analitiche per la valutazione delle caratteristiche chimico fisiche di tale materiale. Lo scopo ultimo è quello di suggerire una agricoltura sostenibile mediante l’uso, il riciclo e la trasformazione delle biomasse di scarto delle attività antropiche.

Alla luce di quanto appena scritto, sono felicissimo del fatto che la stampa scientifica divulgativa  stia facendo da cassa di risonanza per un lavoro apparso su Nature Communications a firma di venti persone, tra cui il sottoscritto, in cui cominciano ad essere chiariti i meccanismi molecolari attraverso cui il carbone applicato ai suoli consente l’incremento  della fertilità. Qui, qui,  qui la notizia apparsa su alcune testate di divulgazione scientifica, mentre qui trovate il link al lavoro originale pubblicato su Nature Communications.

Biochar sì, biochar no?

Sebbene sia noto che l’uso del carbone in agricoltura consenta un aumento della produzione agricola (per esempio qui e qui), ci sono ricerche che ne demonizzano l’uso invocando la sua tossicità legata ad una presunta capacità di rilasciare idrocarburi policiclici aromatici e diossine o alla sua inerzia chimica che non consentirebbe il miglioramento della fertilità dei suoli (un libro in cui c’è una visione ecologista abbastanza spinta sull’uso del biochar è questo). In realtà, come si può leggere nella review qui, la probabilità che il carbone ha di cedere all’ambiente idrocarburi policiclici aromatici e diossine è praticamente nulla a fronte di un miglioramento delle proprietà idrauliche (qui), della struttura (qui) ed, in generale, della fertilità (qui) dei suoli.

Come funziona il biochar? In che modo promuove la fertilità di un suolo?

Nel 2013, il gruppo di ricerca di cui sono responsabile ha pubblicato un lavoro in cui è stata analizzata la dinamica dell’acqua sulla superficie di un biochar (qui). Perchè tra i tanti liquidi proprio l’acqua? Semplice. Perché l’acqua è direttamente coinvolta nei processi di nutrizione vegetale e, di conseguenza, è il mezzo attraverso cui il biochar nei suoli consente la veicolazione dei nutrienti alle piante. I risultati di questo lavoro hanno evidenziato che acqua e biochar interagiscono tra loro attraverso due tipologie di legame: da un lato legami a idrogeno non convenzionali tra il piano dei sistemi aromatici del carbone e le molecole di acqua, dall’altro legami di coordinazione tra le componenti metalliche delle impurezze inorganiche e le coppie solitarie dell’acqua (Figura 1).

Figura 1. Interazioni tra biochar e acqua

La presenza di queste interazioni, associate a quelle che l’acqua forma con i soluti in essa disciolti, ha consentito di ipotizzare che la capacità che il carbone ha di assorbire e poi rilasciare gradualmente nutrienti come il nitrato sono dovute proprio alla mediazione delle molecole di acqua.  Queste, mediante il loro caotico movimento, consentono ai nutrienti di penetrare nei pori della superficie del biochar; una volta lì, il nutriente solvatato rimane “agganciato” alla superficie grazie alle interazioni anzidette (Figura 2).

Figura 2. Interazioni tra nutrienti (pallini verdi e viola) e biochar mediate da molecole di acqua

Se il biochar è invecchiato, la sua capacità assorbente migliora perché la chimica della superficie del biochar cambia nel tempo. Infatti, il numero di gruppi funzionali idrofilici (per esempio quelli contenenti ossigeno che si inserisce sulla superficie del biochar per effetto dell’ossidazione con l’atmosfera) aumenta con l’invecchiamento (Figura 3. Qui il lavoro in cui sono descritti tutti i dettagli sperimentali che hanno portato alle conclusioni brevemente descritte).

Figura 3. Interazioni tra nutrienti e biochar invecchiato

Un miglioramento delle capacità assorbitive/desorbitive del biochar si ottiene attraverso la funzionalizzazione della sua superficie mediante l’inserimento di un film organico usando un processo chimico che prende il nome di co-compostaggio. In parole povere, il carbone viene inserito assieme a biomassa vegetale fresca in un compostatore (ovvero un sistema che consente l’ottenimento del compost); una volta avviato il processo di degradazione ossidativa della miscela biochar-biomassa, si ottiene un carbone la cui superficie risulta più idrofilica di quella del carbone non co-compostato; la maggiore idrofilicità superficiale permette a questo materiale di intrappolare meglio i nutrienti e di funzionare meglio del carbone tal quale come ammendante dei suoli (qui il lavoro in cui si discute delle migliori caratteristiche qualitative del biochar co-compostato).

Perché è importante la comprensione dei meccanismi di funzionamento del carbone?

Delucidare le modalità con cui qualcosa funziona consente di indirizzare in modo opportuno la sintesi di nuove tipologie di materiali.

Nel caso specifico, si pongono le basi per la progettazione di nuovi ammendanti che permettono pratiche agricole sostenibili.

Effetto placebo: le ultime novità

Ed eccoci di nuovo qui a parlare di effetto placebo. Ne avevo già discusso qui quando avevo evidenziato l’assenza di effetto terapeutico dell’omeopatia attribuendo al solo effetto psicologico l’eventuale successo di preparati che di farmacologico non hanno assolutamente nulla.

Naturalmente ogni volta che si parla male dell’omeopatia c’è la sollevazione popolare perchè a nessuno piace ammettere di cadere preda di ciarlatani e stregoni; oggetto della sollevazione è sempre lo stesso argomento “su di me funziona”; argomento questo che ha un senso logico solo per chi non capisce nulla di scienza oppure per chi, pur avendo studiato a qualsiasi livello una qualche materia scientifica, non ha “digerito” molto bene le materie che ha studiato.

In realtà l’effetto placebo è tenuto in debito conto dalla comunità scientifica, tanto è vero che ci sono numerosissimi studi che cercano di spiegarne l’importanza nel coadiuvare l’azione di farmaci di ogni tipo.

Una disamina divulgativa sull’effetto placebo la si può trovare nel libro del Prof. Dobrilla dal titolo “Cinquemila anni di effetto placebo”.

Perché ho deciso di tornare alla carica con l’effetto placebo? Semplicemente perché mi è caduta sotto gli occhi una notizia in merito ad uno studio condotto da un team di ricercatori svizzeri sull’importanza dell’effetto placebo nella sensazione del dolore (qui).

Di solito si riporta che perchè un placebo possa avere un qualche effetto è necessario che l’individuo sia cosciente ed in stato di veglia; in più si ritiene che il soggetto debba essere sottoposto ad inganno, ovvero non deve sapere che sta assumendo il placebo.

La novità dello studio dei ricercatori svizzeri è che sembra non sia necessario l’inganno perché un rimedio placebo possa avere effetto. Infatti, questi studiosi hanno sottoposto un gruppo di volontari a shock termico, ovvero hanno analizzato la loro resistenza e tolleranza alle alte temperature con e senza l’aiuto di un farmaco antiustioni. In particolare, in una delle prove è stato chiaramente esplicitato che il farmaco era un semplice placebo.

Ebbene, a quanto pare, la tolleranza alle ustioni sembra sia stata superiore alle aspettative anche quando i soggetti sapevano di assumere un formulato senza alcuna valenza farmacologica. La domanda a questo punto è: quali sono i meccanismi alla base del fenomeno osservato?

Dal momento che quello appena descritto è il primo studio del genere, è necessario attendere ulteriori sviluppi per confermarne la validità e per approfondire i meccanismi che aumentano la tolleranza al dolore anche in condizioni in cui si è consci di star assumendo un sistema placebo.

Fonte dell’immagine di copertinahttp://www.stateofmind.it/2016/01/effetto-placebo-psicologia/

Breaking news – Premio Nobel per la Chimica 2017: il regalo della Elsevier

Qualche giorno fa è stato annunciato il premio Nobel per la chimica. Ne ho parlato qui. Si tratta del contributo al miglioramento della microscopia crio-elettronica, una tecnica molto utile in campo biochimico.

Come ogni anno, il mondo scientifico si stringe intorno ai vincitori di questo ambito riconoscimento e fioccano informazioni ed iniziative in merito alla biografia dei vincitori o all’importanza della loro scoperta.

Una delle iniziative più interessanti, a mio avviso, è quella di avere la possibilità di leggere i lavori che hanno consentito l’attribuzione del Nobel in originale. Come docente universitario, ricevo costantemente lettere di ogni tipo da case editrici di ogni tipo. La sorpresa stamattina è stata quella di trovare una lettera dalla Elsevier, una delle case editrici più importanti in ambito scientifico.

È, quindi, con enorme piacere che ricevo e  condivido, la lettera della Elsevier con il link ai lavori più significativi dei tre vincitori del premio Nobel per la Chimica 2017. Eccola nella versione online: link

Cliccando su “read more” si apre una pagina da cui si possono leggere/scaricare i lavori suddetti gratuitamente.

Per i pigri come me, la pagina è questa.

Buona lettura

Scienza: contenuto e contenitori

Quante volte ho letto che un certo lavoro non è attendibile perché pubblicato su una rivista poco importante o su una rivista che viene considerata predatoria?

Certo. E’ importante che i risultati del proprio lavoro vengano accettati da una rivista che sia significativa per la comunità scientifica di riferimento. E’, altresì, importante che i risultati di una ricerca vengano pubblicati il più velocemente possibile perché la competizione tra gruppi di ricerca è talmente elevata che basta un niente per perdere la primogenitura su una determinata scoperta scientifica. E’ per questo che nascono archivi come arXiv che consentono di archiviare i risultati di una ricerca prima ancora che essi vengano pubblicati. Il limite di questi archivi è che il lavoro lì depositato non necessariamente può vedere la luce. Può accadere che rimanga lettera morta e che, di conseguenza, di esso rimanga traccia solo su quel data base. Non tutto quanto presente negli archivi digitali che attestano della primogenitura di un dato modello, è da prendere in considerazione perché non tutto quanto ha passato il vaglio della comunità scientifica di riferimento.

“Passare il vaglio della comunità scientifica di riferimento” non significa che un dato modello viene accettato perché rispecchia il modo di pensare in auge in quel momento; questa locuzione vuol dire che quando un lavoro arriva nelle mani di referenti/revisori anonimi, questi verificano la congruità delle ipotesi formulate con il disegno sperimentale e la congruità dei risultati ottenuti con le conclusioni che sono state tratte. Non è possibile per i referenti/revisori riprodurre esattamente gli stessi esperimenti di cui leggono, perché questi ultimi richiedono finanziamenti ad hoc e strumentazioni che non tutti i laboratori possono avere a disposizione. Inoltre, riprodurre gli esperimenti significa per i referenti/revisori cambiare lavoro, ovvero dedicarsi ad altro e non alla ricerca che hanno deciso di portare avanti.

Prendete me, per esempio. Solo per il 2017 (ed Ottobre è appena iniziato) ho fatto da referente/revisore per 15 lavori ed almeno altrettanti ho rifiutato di giudicare per mancanza di tempo. Se volessi mettermi a fare tutti gli esperimenti dei lavori che ho giudicato, non avrei tempo per portare avanti le mie ricerche e la mia didattica. Quello che faccio è, quindi, cercare di capire quanto ho appena scritto: verifico la congruità delle ipotesi formulate con il disegno sperimentale e la congruità dei risultati ottenuti con le conclusioni che sono state tratte

Ma veniamo al punto.

Più volte ho evidenziato che non il contenitore (la rivista), bensì il contenuto (ovvero i risultati della ricerca) è importante perché un modello scientifico possa essere considerato valido (per esempio qui).

La storia della scienza è piena di esempi di contenuti dall’importanza notevole, in termini di progressione delle conoscenze, ma pubblicati in contenitori poco noti; ma è anche piena di esempi di contenuti di nessuna o scarsa importanza presenti in contenitori molto prestigiosi.

Volete qualche esempio?

Cosa dire del lavoro di Benveniste sulla memoria dell’acqua pubblicato su Nature e sconfessato dagli stessi editor ad un approfondimento successivo? Ne ho parlato qui. E del lavoro di Wakefield in merito all’inesistente correlazione vaccino-autismo vogliamo parlare? E’ stato pubblicato, e poi ritirato, dalla prestigiosissima rivista The Lancet. Ne ho discusso qui.

Recentemente mi è capitato di leggere un breve articolo su www.sciencealert.com in cui è stata ripercorsa la storia di otto lavori che descrivono scoperte scientifiche che sono valse il premio Nobel agli autori.

Sapevate, per esempio, che Nature, nel 1933, ha rifiutato il lavoro di Enrico Fermi in merito alle interazioni deboli poi pubblicato nel 1934 su una rivista molto meno prestigiosa dal nome “Zeitschrift für Physik” oggi scomparsa? L’articolo in questione è qui (in tedesco).

Anche la scoperta di un meccanismo importantissimo in ambito biochimico ed alla base della vita, non è stato pubblicato da Nature perché in quel momento la rivista era fin troppo satura di lavori da pubblicare ed avrebbe dovuto posporre la pubblicazione di tale scoperta a tempi migliori (Figura 1). Mi riferisco al lavoro fondamentale di Hans Adolf Krebs che nel 1953 ha ricevuto l’ambito riconoscimento per aver scoperto il ciclo dell’acido citrico.

Figura 1. La lettera con cui l’editor di Nature chiede a Krebs se è disponibile a ritardare la pubblicazione del suo lavoro (Fonte)

Il lavoro fu poi inviato ad una rivista meno prestigiosa (Enzymologia) che lo pubblicò nel 1937 (qui). Se volete leggere il lavoro originale, lo potete scaricare da qui.

Chi mi conosce sa che nella mia attività di ricerca mi interesso delle applicazioni in campo ambientale delle tecniche di risonanza magnetica nucleare. Tra i miei idoli c’è sicuramente Richard Ernst che nel 1991 ha vinto il premio Nobel per il suo contributo allo sviluppo della tecnica NMR. Ernst ha applicato la trasformata di Fourier ai decadimenti che descrivono il comportamento ad oscillatore smorzato  della magnetizzazione nucleare, generata dall’applicazione di campi magnetici aventi certe intensità,  stimolata da radiazioni elettromagnetiche aventi lunghezza d’onda nel campo delle  radiofrequenze. Lo so ho parlato difficile. In altre parole, Ermst ha capito che poteva trasformare qualcosa di incomprensibile come quanto indicato in Figura 2:

Figura 2. Decadimento della magnetizzazione nucleare

in qualcosa di più facilmente leggibile come lo spettro di Figura 3:

Figura 3. Spettro NMR in fase solida dell’alcol coniferilico (precursore delle sostanze umiche). Ogni segnale dello spettro è attribuito in modo univoco ad ogni singolo atomo di carbonio

Il lavoro che descrive la scoperta di Ernst fu rifiutato dal Journal of Chemical Physics e fu pubblicato sul meno prestigioso Review of Scientific Instruments. Il lavoro di Ernst è qui. Invece,  a questo link trovate la lezione che Ernst ha fatto all’Accademia delle Scienze quando ha ricevuto il premio.

Conclusioni

La storia della scienza ci insegna che non dobbiamo tener conto del prestigio di un giornale. Ciò che importa è il valore del contenuto di un rapporto scientifico. Un lavoro è ottimo sia che venga pubblicato su una rivista altamente impattata, sia che venga pubblicato su una rivista sconosciuta. Un lavoro è sciocchezza sia che venga pubblicato su Nature o che venga accettato per la pubblicazione sulla rivista del vicinato. Gli addetti ai lavori, coloro che guardano ai contenuti piuttosto che alla copertina, lo sanno ed è per questo che leggono di tutto. La grande idea, quella che può essere alla base della rivoluzione scientifica, si può nascondere anche tra le righe di un lavoro pubblicato su una rivista sconosciuta.

Fonte dell’immagine di copertinahttps://www.dreamstime.com/royalty-free-stock-photo-chemistry-infographic-template-medical-research-illustration-image40572265

Premio Nobel per la chimica 2017

Ci siamo. Un anno esatto è passato da quando il 4 Ottobre 2016 il premio  Nobel per la chimica è stato assegnato a Sauvage, Stoddart e Feringa per la sintesi delle macchine molecolari (qui).

Quest’anno è toccato a Jacques Dubochet, Joachim Frank, Richard Henderson per aver messo a punto la microscopia crio-elettronica per l’analisi di sistemi biologici.

Difficile, vero? Cerchiamo di capire di cosa si tratta.

Più o meno tutti hanno sentito parlare di microscopia. E’ una tecnica in base alla quale un oggetto posto su un vetrino viene illuminato; la luce intercettata dall’oggetto viene indirizzata verso una lente di ingrandimento che chiamiamo “obiettivo”; la luce proveniente dall’obiettivo viene convogliata verso l’oculare dal quale osserviamo l’immagine dell’oggetto ingrandita (Figura 1).

Figura 1. Principio di funzionamento del microscopio (Fonte)

Quello appena citato è il meccanismo semplificato del funzionamento di un microscopio ottico. Lo strumento è dotato anche di tutta una serie di accessori che servono per correggere le aberrazioni ottiche che fanno vedere cose che, nella realtà, non esistono. Il limite della tecnica appena citata è la risoluzione che, in genere, è di circa 0.2 μm, ovvero oggetti di dimensioni inferiori a quelle appena indicate non sono osservati in modo nitido.

Per poter osservare nitidamente oggetti di dimensioni inferiori a 0.2 μm, sono state messe a punto tante altre forme di microscopia tra cui quella elettronica la fa da padrona.

Nella microscopia elettronica un fascio di elettroni viene “sparato” verso un oggetto (o campione); all’uscita dal campione il fascio di elettroni, dopo essere passato in un campo elettrico ed in un campo magnetico che ne modificano la traiettoria, viene convogliato verso un oculare dal quale viene indirizzato verso una lastra fotografica oppure uno schermo fluorescente che vengono utilizzati per generare l’immagine dell’oggetto in esame.

Anche questa appena data è una spiegazione semplificata, ma il mio scopo non è quello di fare una lezione di analisi strumentale, bensì di evidenziare che mentre nella microscopia ottica si raggiungono al massimo un centinaio di ingrandimenti (con risoluzione di 0.2 μm ovvero di 200 nm, come già evidenziato), con la microscopia elettronica si può arrivare a 150000-200000 ingrandimenti con una risoluzione che è intorno al milionesimo di millimetro ovvero dell’ordine di circa 1-10 nm. Considerando che la lunghezza di un legame covalente C-C è poco più di 0.1 nm, si capisce che con la microscopia elettronica siamo in grado di “osservare” molecole a un livello quasi atomico (Figura 2).

Figura 2. Immagine al microscopio elettronico della struttura di una nanoparticella di grafene. L’immagine originale è in b/n. I colori vengono aggiunti in fase di elaborazione per rendere l’immagine più attraente (Fonte)

Qual è la novità apportata da Jacques Dubochet, Joachim Frank e Richard Henderson nel mondo della microscopia elettronica per aver meritato il premio Nobel 2017?

Bisogna sapere che uno dei problemi principali della microscopia elettronica è la preparazione del campione. Quest’ultimo deve essere attraversato dal fascio di elettroni. Per questo motivo lo spessore del campione deve essere di pochi nanometri. Preparare un campione del genere per l’analisi al microscopio elettronico richiede molta abilità ed una specifica preparazione sia tecnica che scientifica.

Fintantoché si tratta di campioni come la nanoparticella di grafite mostrata in Figura 2, le difficoltà sono serie ma si possono superare. Immaginate di voler, invece, analizzare un tessuto umano come, che so, un pezzo di pelle. Se staccate la pelle, otterrete un campione ancora troppo spesso per poter essere attraversato dal fascio di elettroni. Dovete prendere questo tessuto e farne una fettina sottile di pochissimi nanometri. Potete facilmente immaginare che operare su un sistema del genere implica danneggiarlo. Insomma la preparazione del campione, anche se fatta con la massima attenzione possibile, può portare ad un sistema che non ha più nulla a che vedere col campione di partenza.

Negli anni Ottanta del XX secolo, il team di Dubochet prima su Nature  poi su Quarterly Reviews of Biophysics, descrive una innovazione tecnica in base alla quale il sistema biologico da affettare prima di essere sottoposto all’indagine al microscopio elettronico, viene congelato rapidamente. Il rapido congelamento evita la formazione di tutta una serie di artefatti che possono influenzare la qualità dell’immagine ottenuta al microscopio. In altre parole, viene “inventato” un modo per ottenere immagini (ovvero fotografie) dei sistemi biologici sempre più nitide  al livello nanometrico. E’ come se avessero inventato una macchina fotografica con un numero di pixel di gran lunga superiore al massimo tecnologico finora disponibile. Grazie a questa invenzione, oggi è possibile studiare anche la dinamica delle proteine nella conformazione nativa, ovvero nella disposizione spaziale che esse hanno negli organismi viventi. Fino ad ora le uniche tecniche disponibili erano i raggi X e la spettroscopia di risonanza magnetica nucleare (NMR). I limiti di queste tecniche sono legati alla necessità di strutture cristalline (raggi X) che non sempre sono facilmente ottenibili oltre a non corrispondere alla conformazione nativa, ed alla necessità di usare solventi diversi dall’acqua (NMR) nei quali non necessariamente la struttura proteica deve assomigliare a quella nativa.

Interessante, vero?

Per saperne di più

Microscopia ottica ed elettronica

I principi di microscopia elettronica

Cryo-electron microscopy for structural analysis of dynamic biological macromolecules

Fonte dell’immagine di copertinahttps://www.nobelprize.org/nobel_prizes/chemistry/laureates/2017/

Sugli idrocarburi policiclici aromatici (PAH o IPA)

Quante volte abbiamo letto o sentito parlare di “idrocarburi policiclici aromatici”? Talvolta la locuzione viene indicata con gli acronimi PAH (da Polyciclic Aromatic Hydrocarbons) oppure IPA (da Idrocarburi Policiclici Aromatici). Si tratta di una classe di composti chimici che si ottiene per pirolisi (ovvero decomposizione termica in assenza o scarsità di ossigeno) di sostanza organica. Tanto per capirci: il fumo di sigaretta contiene gli IPA. Le sigarette, infatti, sono fatte da sostanza organica (la carta, il tabacco, i filtri) che quando sottoposta alle alte temperature prima subisce il processo di combustione con formazione di ceneri, anidride carbonica ed acqua, poi, man mano che il comburente (ovvero l’ossigeno) si allontana, subisce pirolisi con formazione di IPA.

In questa breve nota voglio puntare l’attenzione sulle caratteristiche strutturali degli idrocarburi policiclici aromatici e la loro tossicità.

1. Le premesse: significato di isomeria, formula chimica e struttura
1.1. Isomeria

“Isomeria” è una proprietà in base alla quale due o più composti chimici, pur avendo la stessa formula bruta, hanno differente struttura e, per questo, differenti proprietà chimico-fisiche.

1.2. Formula bruta, formula empirica e formula molecolare

La locuzione “formula bruta” si può riferire o alla formula empirica con la quale si descrive semplicemente il rapporto tra i diversi atomi che partecipano alla formazione di un composto chimico, oppure alla formula molecolare, in cui si indicano esattamente quanti atomi formano il composto in esame.

L’esempio più semplice per distinguere tra formula empirica e formula molecolare è quello dell’acqua ossigenata. La formula empirica dell’acqua ossigenata è HO, grazie alla quale si evidenzia che questo composto è fatto da idrogeno ed ossigeno nel rapporto 1:1; la formula molecolare dell’acqua ossigenata è H2O2 nella quale si evidenzia che due atomi di ossigeno sono combinati con due atomi di ossigeno.

1.3. La struttura chimica

La struttura di un composto chimico descrive il modo con cui i diversi atomi che lo compongono si dispongono nello spazio.  La Figura 1 mostra, come esempi, le diverse tipologie di formule di struttura dell’acqua ossigenata.

Figura 1. Dioverse tipologie di formule di struttura dell’acqua ossigenata (Fonte: http://www.chimicamo.org/chimica-generale/acqua-ossigenata.html)

In alto a sinistra c’è la formula molecolare dell’acqua ossigenata; in basso a sinistra c’è la formula di struttura “ball-and-stick” della stessa molecola (gli atomi in bianco sono l’idrogeno; gli atomi in rosso, l’ossigeno); in alto a destra la struttura dell’acqua ossigenata è rappresentata con il modello “space-filling“, ovvero ogni atomo è rappresentato da una sfera con il codice colore avente lo stesso significato già illustrato; in basso a destra l’acqua ossigenata è rappresentata con un modello a linee e lettere in cui le prime indicano i legami tra gli atomi rappresentati col proprio simbolo chimico.

2. Le caratteristiche degli IPA
2.1. Struttura chimica e proprietà chimico fisiche degli IPA

La Figura 2 mostra la struttura di due idrocarburi policiclici aromatici molto comuni. Si tratta di antracene e fenantrene. Entrambi hanno formula molecolare C14H10 ma formula di struttura differente. Si tratta quindi di isomeri. Per effetto della differente disposizione spaziale degli atomi di carbonio ed idrogeno, i due idrocarburi hanno proprietà chimico fisiche differenti.

Figura 2. Strutture di antracene e fenantrene

Per esempio, la temperatura di fusione alla pressione atmosferica (ovvero la temperatura alla quale la fase solida di un composto chimico è in equilibrio con la sua fase liquida) di antracene e fenantrene è:

antracene         216°C

fenantrene       94°C

In altre parole, mentre l’antracene diventa un liquido alla temperatura di 216°C, il fenantrene diventa liquido ad una temperatura molto più bassa (94°C). Questa differenza si spiega perché le molecole di antracene e fenantrene interagiscono rispettivamente con altre molecole di antracene e fenantrene attraverso interazioni deboli chiamate interazioni di Van der Waals. La struttura “non-ripiegata” dell’antracene consente un impaccamento migliore (e, quindi, interazioni più forti) rispetto a quella “ripiegata” del fenantrene. La conseguenza è che occorre una temperatura più alta (più energia termica) per liquefare l’antracene rispetto al fenantrene.

La differente disposizione spaziale degli atomi di carbonio ed idrogeno è responsabile anche della differente solubilità in acqua di antracene e fenantrene. Infatti, l’antracene ha solubilità pari a 3.7×10-4 mol/L, mentre il fenantrene pari a 7.2×10-3 mol/L. In altre parole, il fenantrene è circa 20 volte più solubile in acqua rispetto all’antracene. Dal momento che”il simile scioglie il simile“, si potrebbe argomentare che il fenantrene è più simile all’acqua rispetto all’antracene. Questa maggiore similarità è dovuta al fatto che la geometria “ripiegata” del fenantrene conferisce a quest’ultimo una maggiore polarità rispetto all’antracene col risultato di una migliore solubilità in acqua.

2.2. Struttura chimica e carcinogenicità degli IPA

All’aumentare del numero di anelli aromatici condensati (ovvero all’aumentare della complessità strutturale degli IPA) aumenta anche la carcinogenicità di questi composti ( a pagina 35 del documento a questo link, si riporta la carcinogenicità dei diversi IPA).

Più elevato è il peso molecolare degli IPA, più diminuisce la loro aromaticità e maggiore risulta la loro reattività. In particolare, gli IPA tendono a dare reazioni di epossidazione (ovvero reagiscono con l’ossigeno per formare sistemi triciclici altamente reattivi) che poi modificano la struttura a doppia elica del DNA portando a problemi nei processi di replicazione e conseguente insorgenza di tumori.

La Figura 3 mostra la reazione di epossidazione del benzo[a]pireneche produce prima un sistema eposiddico nelle posizioni 7, 8 (reazione in alto in Figura 3), seguita poi da apertura di anello (reazione centrale in Figura 3) ed ulteriore epossidazione (reazione in basso in Figura 3).

Figura 3. Reazione di epossidazione del benzo[a]pirene
 Il diolo epossidico (ovvero la molecola in basso a destra di Figura 3) è il diretto responsabile delle alterazioni strutturali del DNA. Infatti, esso può reagire con il gruppo amminico di una base nucleotidica con formazione di un legame covalente stabile che altera la doppia elica e, impedendo la corretta replicazione del DNA, porta al comportamento “impazzito” delle cellule (Figura 4).

Figura 4. Alterazione della struttura a doppia elica del DNA per effetto della reazione con il derivato diolo epossidico del benzo[a]pirene
3. Conclusioni

Questa breve disanima sugli idrocarburi policiclici aromatici è una sintesi di una delle mie lezioni di chimica del suolo. Gli incendi boschivi sono causa di immissione in atmosfera di questi contaminanti, esattamente come l’uso delle sigarette, o la cottura spinta dei prodotti alimentari (per esempio la carne o la pizza). Quando in atmosfera, questi composti (non solo quelli descritti in questa breve nota ma un insieme complesso di essi come per esempio quelli mostrati nell’immagine di copertina) possono finire nei nostri polmoni ed innescare i processi carcinogenici descritti. Certo non tutti gli individui sono soggetti a tumore. L’insorgenza dei tumori dipende non solo dalle condizioni ambientali, ma anche dalla predisposizione genetica. Questo vuol dire che “mia nonna ha sempre fumato 3 pacchetti di sigarette al giorno ed è arrivata a 90 anni” non ha alcun significato scientifico. Vuol dire solo che giocando alla roulette russa, “la nonna” è stata fortunata ed è sfuggita alla morte solo per una serie di circostanze fortuite tra cui la sua predisposizione genetica. Altri possono non essere ugualmente fortunati e subire insorgenza di tumori anche solo per aver inspirato il fumo passivo della nonna o le polveri sottili (contenenti IPA) normalmente presenti nell’atmosfera delle grandi città e dovute al traffico automobilistico.

Fonte dell’immagine di copertinahttps://ilblogdellasci.wordpress.com/tag/tartrato-di-potassio/

Le figure di Chladni e la pseudoscienza definita “cimatica”

Avete mai visto figure geometriche come quelle rappresentate in Figura 1 che vengono chiamate figure di Chladni? Belle, vero? Sapete quante volte mi sono trovato a leggere in rete delle elucubrazioni mentali (per non chiamarle in altro modo) in merito all’origine di queste figure? Addirittura c’è chi dice che sono delle rappresentazioni fisiche degli orbitali (SIC!).
Ma andiamo con ordine
Gli effetti scenografici delle figure di cui mi accingo a parlare sono oggetto di una particolare branca della pseudoscienza che va sotto il nome di cimatica. La cimatica nasce piuttosto recentemente. Nel 1967 un tale Hans Jenny, affascinato dagli esperimenti di Chladni del 1787 in merito alla propagazione delle onde nei mezzi solidi, trae delle conclusioni abbastanza arbitrarie sulla natura delle figure geometriche riportate in Figura 1 e chiamate “figure di Chladni” in onore di colui che per primo le ha studiate. Per non andare troppo per le lunghe, Jenny asseriva che le vibrazioni di tutti i materiali (fino ad arrivare alle vibrazioni atomiche) sono in grado di modellare la materia. In pratica, le frequenze delle vibrazioni sono responsabili delle forme materiali che noi conosciamo. Anche le cellule sono soggette a specifiche vibrazioni con determinate frequenze a seconda delle quali predomina una forma animale piuttosto che un’altra. Da qui è facile lo sviluppo di tutta una serie di pseudo teorie sulle vibrazioni energetiche che determinerebbero l’origine delle malattie o, in generale, dello stato di salute degli organismi viventi (un esempio di queste pseudo teorie è riportato qui  e qui).

Figura 1. Esempi di figure di Chladni
Come stanno davvero le cose?
La storia completa è che Jenny era un medico, non un fisico. Evidentemente le sue conoscenze di fisica elementare erano piuttosto povere. Inoltre, era anche un seguace delle pseudo teorie scientifiche di un tal Rudolf Steiner vissuto a cavallo tra il XIX ed il XX secolo ed autore delle teorie sull’agricoltura biodinamica di cui mi riservo di dare informazioni in un nuovo post.
Le “figure di Chladni” sono generate dal processo di vibrazione di una placca metallica su cui è disposta della sabbia. Immaginate la lastra in due sole dimensioni come nella Figura 2 (l’esempio in due dimensioni è quello della corda vibrante. Quando si pensa alla piastra metallica, si passa alle tre dimensioni).

Figura 2. Propagazione di un’onda in una corda vibrante (fonte: Wikipedia)
Se fate vibrare la lastra tra i punti 0 e 1 otterrete un’onda con una certa frequenza. Se disponete la sabbia sulla lastra, questa andrà a cadere nei punti di minima ampiezza dell’onda che sono i nodi indicati con 0 e 1 nella rappresentazione più in alto. Se bloccate la lastra a metà, ovvero mettete un dito proprio in mezzo, l’oscillazione cambia frequenza e la sabbia si disporrà nei tre nodi: i due agli estremi e quello centrale. Se provate ad inserire due altri nodi dividendo la lastra in tre, la sabbia si disporrà lungo tutti i nodi e così via di seguito. Più elevato è il numero di nodi, più complesse saranno le figure geometriche generate dalla sabbia che si dispone in queste zone in cui l’ampiezza dell’onda è nulla.
Note conclusive
La cimatica con tutte le sue teorie è una vera e propria scemenza. Non c’è nulla di sovrannaturale o di esoterico nella disposizione della sabbia su una lastra soggetta a vibrazioni a diversa intensità. Di certo le vibrazioni non hanno alcuna capacità di modellare la materia o di influenzare lo stato di salute degli individui.
A questo link un bell’esperimento che mostra le figure di Chladni: https://www.youtube.com/watch?v=1ya… (avvertenza: abbassate il volume delle cuffie o degli altoparlanti. I suoni che sentirete possono essere molto fastidiosi)
Per approfondimenti:

Più veloci del suono

Avete mai sentito un aereo superare la barriera del suono? Si sente un rumore assordante ed intorno all’aereo si forma una nuvola come quella che vedete nella foto di copertina. Volete avere un’idea sonora e visiva di quello che accade? Potete vedere il video qui sotto preso da YouTube.

Fin dal tempo delle scuole elementari ci insegnano che la velocità con cui si propaga il suono nell’aria è di circa 300 m/s. Ciò che impariamo alle superiori o nei corsi di Fisica I all’università è che il suono si propaga a velocità differenti a seconda del mezzo e della temperatura.

La tabella qui sotto mostra le diverse velocità con cui il suono si propaga nei mezzi più disparati:

Ma perché si sente il “bang” quando un aereo supera la velocità del suono? E perché si forma quella nuvola?

È tutta questione di aria e di umidità.

Un aereo è in grado di volare grazie alla forza che l’aria esercita sulle sue ali. L’aria ha una ben precisa composizione chimica, ovvero circa 79% di azoto, circa 20% di ossigeno e circa 1% di altri gas come argon, anidride carbonica, acqua, metano etc etc.  In realtà non è importante la composizione chimica dell’aria; ciò che importa è il fatto che essa sia un fluido nel quale “galleggia” l’aereo ed è il mezzo grazie al quale siamo in grado di sentire i suoni.

Le vibrazioni generate da una sorgente sonora (le nostre corde vocali, le corde di un violino, un motore in moto etc etc) si trasmettono alle molecole che compongono l’aria che sono, così, soggette a compressione. In altre parole, una sorgente sonora sposta le molecole di aria ad essa più vicine. Queste ultime a loro volta urtano e spostano le molecole di aria nelle immediate vicinanze. Questo balletto di molecole che si urtano tra loro tende ad attenuarsi all’aumentare della distanza dalla sorgente sonora. Se noi ci troviamo abbastanza vicini alla sorgente del suono, accade che le molecole di aria vadano ad urtare (ovvero comprimere) le componenti interne del nostro orecchio. Il movimento generato dall’urto tra le molecole di aria e le parti più interne del nostro orecchio viene trasformato nel suono che udiamo. Il meccanismo macroscopico con cui le onde sonore di propagano è simile a quello con cui si propagano le onde generate da un sasso lanciato in uno stagno.

Se la sorgente sonora è in movimento (per esempio un’autombulanza a sirene spiegate), le onde sonore si propagano come riportato nella parte più a sinistra della Figura 1. In altre parole, la compressione delle molecole di aria nella direzione del moto (da sinistra a destra) è maggiore che la compressione delle molecole di aria nella direzione opposta. La conseguenza è che il suono prodotto dalla sorgente in movimento è più intenso nella direzione del moto.

Figura 1. Propagazione delle onde sonore di una soriente sonora in movimento (Fonte: Wikimedia commons)

Quando la sorgente sonora (per esempio un aereo a reazione) accelera ad una velocità più alta di quella a cui viaggia il suono, si ode il bang supersonico (parte più a destra della Figura 1).

Un oggetto che viaggia più velocemente del suono genera una serie di onde di forma sferica che si muovono più lentamente dell’oggetto stesso. La dimensione delle onde cresce man mano che l’oggetto si allontana. Tutte queste onde si intersecano tra di loro. Unendo i punti di intersezione si ottiene un cono il cui vertice è l’oggetto in movimento (parte più a destra di Figura 1). Nei punti di intersezione le molecole di aria sono soggette a rapida compressione. È questa rapida compressione delle molecole di aria ad essere responsabile del forte bang che sentiamo. In realtà, sebbene a noi sembra di sentire un unico “bang”, un aereo che accelera ad una velocità più alta di quella del suono genera due bang supersonici; uno dovuto alla rapida compressione delle molecole di aria in “testa” (ovvero alla prua) dell’aereo, ed uno dovuto alla ugualmente rapida decompressione delle stesse molecole in coda all’aereo. La distanza temporale tra i due bang dipende dalla lunghezza dell’aereo: più esso è lungo più distanti tra loro nel tempo saranno i due bang.

Ma perché si forma la nuvola che si vede nell’immagine di copertina?

Ho già scritto che la rapida accelerazione della sorgente sonora ad una velocità più alta di quella del suono provoca la repentina compressione delle molecole di aria da cui il forte boato. Come ho già riportato, l’acqua è una delle componenti molecolari dell’aria. La forte compressione cui sono soggette le molecole di acqua porta alla formazione di una nube di condensazione. In altre parole, le molecole di acqua vapore nell’aria si aggregano a formare goccioline di acqua liquida.

Considerazioni conclusive

La chimica-fisica consente di spiegare quello che accade quando un aereo supersonico supera la barriera del suono. Mi scuso con fisici ed ingegneri per l’enorme semplificazione di un fenomeno che ho deciso di spiegare usando un linguaggio assolutamente non tecnico. Mi scuso anche con i medici per la semplificazione nella descrizione dei fenomeni uditivi.

Immagine di copertinahttps://mannaismayaadventure.com/2011/01/26/in-photos-readers’-best-national-geographic-images/

 

Stucco e cosmetici: breve nota sugli isotiazoloni

5-cloro-2-metil-2H-isotiazol-3-one (anche indicato come metil cloro isotiazolinone) e 2-metil-2H-isotiazol-3-one (anche indicato come metil isotiazolinone) (Figura 1). Nomi difficili, vero? Hanno destato la mia curiosità perché li ho trovati nell’elenco dei componenti dello stucco che ho comprato per alcune riparazioni a casa (foto di copertina). Mi sono chiesto cosa fossero ed a cosa servissero.

Figura 1. Strutture del metti cloro isotiazolone e del metil isotiazolone

Ne è venuto che si tratta di composti abbastanza comuni e si usano in miscela  3:1 perché, in tale formulazione, hanno ottima attività  antimicrobica. Sono presenti in tanti prodotti come lo stucco della foto di copertina, parecchi disinfettanti per la casa e l’amuchina gel per le mani (Figura 2).

Figura 2. Composizione dell’amuchina gel disinfettante per le mani

Una breve ricerca su Google, però, consente di arrivare alla pagina Wikipedia relativa ai conservanti nei cosmetici (qui).  Da questa si evince che la miscela anzidetta viene anche addizionata ai prodotti cosmetici destinati al risciacquo per aumentarne la shelf life, ovvero, nel linguaggio comune, la data di scadenza.

Come per ogni prodotto, anche per la miscela 3:1 dei due isotiazoloni esiste la scheda di sicurezza.

Una scheda di sicurezza  è un documento in cui si riportano le caratteristiche chimico-tossicologiche di tutti i prodotti chimici e le norme di comportamento in caso di intossicazione da quel determinato prodotto. In altre parole è l’equivalente dei bugiardini presenti nelle confezioni dei farmaci. Tuttavia, mentre i bugiardini riportano gli effetti osservati indipendentemente dalla loro reale correlazione causale col farmaco, le schede di sicurezza riportano tutto quanto scientificamente testato sulla tipologia di prodotto che si sta maneggiando.

Le schede di sicurezza sono obbligatorie in ogni laboratorio perché ci aiutano a capire come dobbiamo comportarci nel caso in cui qualcuno di noi si dovesse intossicare o dovesse avere problemi di qualsiasi tipo con le sostanze che sta maneggiando.

La Figura 3 mostra l’immagine di  una scheda di sicurezza delio stucco contenente la miscela di cui state leggendo. Una scheda più completa e relativa proprio alla miscela dei due isotiazoloni è qui.

Figura 3. Scheda di sicurezza della miscela 3:1 di metil cloro isotiazolone e di metil isotiazolone

Dalla scheda si legge la seguente lista di pericolosità:

Tossicità acuta, Corrosione cutanea, Sensibilizzazione cutanea, Pericoloso per l’ambiente acquatico, tossicità cronica,  Tossico se ingerito. Tossico per contatto con la pelle. Tossico se inalato. Provoca gravi ustioni cutanee e gravi lesioni oculari. Può provocare una reazione allergica cutanea. Molto tossico per gli organismi acquatici. Molto tossico per gli organismi acquatici con effetti di lunga durata. 

Insomma, non è proprio uno scherzo. Si tratta di una miscela certamente utile, ma dal forte impatto ambientale e da maneggiare con cura.

Certamente “è la dose che fa il veleno”; questo vuol dire che solo alte concentrazioni della miscela possono portare agli effetti descritti.

Cosa vuol dire alte? Per esempio, si legge che la concentrazione letale che ha effetto sul 50% della popolazione  di pesci sottoposti a test corrisponde ad una quantità pari a 0.19 mg/L, mentre la concentrazione che ha effetto tossico sul 50% dei crostacei sottoposti a test è 0.16 mg/L. Gli esseri umani rispondono alla presenza di questo prodotto solo se lo ingeriscono o se sono particolarmente sensibili ad esso.

la Figura 4 mostra la foto della pelle irritata di una signora sensibile proprio alla miscela dei due isotiazoloni descritti in questa nota. La foto è presa da questo blog.

Figura 4. Effetti dovuti ad allergia agli isotiazoloni discussi in questa nota (Fonte: http://beautyblahblahblah.blogspot.it/2014/05/my-skin-allergy-methylisothiazolinone.html?spref=pi&m=1)

Cosa voglio concludere? A parte soddisfare la mia curiosità sugli isotiazolinoni di cui non conoscevo le caratteristiche antimicrobiche, voglio solo evidenziare che bisogna sempre agire con prudenza quando usiamo un qualsiasi prodotto sia cosmetico che per la pulizia personale o dei luoghi che frequentiamo. Evitiamo l’uso indiscriminato di cosmetici ed evitiamo di “farci il bagno” nei profumi. Oltre a rilasciare olezzi molto sgradevoli (non so voi, ma io provo fastidio quando sento profumi molto forti), senza saperlo possiamo essere intolleranti o anche allergici a qualunque delle componenti dei prodotti che usiamo e ci possiamo ritrovare nelle condizioni della foto in Figura 4.

 

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