Sull’evoluzione del termine “molecola”

Tutti sanno cos’è una molecola. Se si scende in strada e si chiede a qualcuno di definire il termine “molecola”, tutti, più o meno, diranno qualcosa come “molecola è l’acqua” oppure “la plastica è fatta di molecole” oppure “il sale è una molecola”.

Dire che l’acqua è una molecola, ribadire che anche il sale lo sia o dire che la plastica è fatta di molecole non definisce il termine “molecola”; piuttosto si sposta l’attenzione da un termine ad un altro dal momento che si riconduce il significato di “molecola” a quello di acqua, sale o plastica.

Se è nozione comune sapere cosa sia l’acqua e come essa sia fatta – per cui si tende ad associare la formula H2O al significato di “molecola” in modo tale che tutto ciò che è riconducibile a una situazione analoga possa essere considerato “molecola” – non lo è altrettanto per quanto riguarda la plastica o il sale. Per esempio, qual è la “molecola” che descrive il cloruro di sodio? E il solfato di sodio? E il permanganato di potassio? Questi sono tutti sali differenti tra loro. Ognuno di essi è descritto da una diversa formula bruta. Si può considerare la singola formula bruta (NaCl, Na2SO4, KMnO4, rispettivamente) come indicazione di molecola per i sali citati, esattamente come la formula H2O viene intuitivamente indicata come molecola di acqua?

E per la plastica? Solo per citare alcune delle plastiche che utilizziamo nella vita quotidiana, si può parlare di polivinilcloruro (PVC), polietilene (PE) e politetrafluoroetilene (PTFE). Le formule brute di questi sistemi sono rispettivamente (CH2CHCl)n, (C2H4)n e (C2F4)n. Queste formule appena descritte possono essere considerate alla stregua di “molecole” come la formula H2O lo è per l’acqua?

In realtà nessuna delle definizioni che spostano l’attenzione dal generale (ovvero “molecola”) al particolare (ovvero acqua, sale, plastica) è una buona definizione di molecola. Solo per fare un esempio banale, NaCl non è la molecola di cloruro di sodio.

Mentre per l’acqua, la formula H2O corrisponde ad una struttura ben precisa fatta da due atomi di idrogeno ed uno di ossigeno disposti nello spazio a formare un tetraedro (come nella figura di copertina di questa nota), per il cloruro di sodio (ma il discorso si estende ad ogni sale inorganico), la formula NaCl non corrisponde affatto ad una struttura fatta da uno ione sodio ed uno ione cloruro. Anzi, potrei dire, semplificando, che ogni ione (sia esso sodio che cloruro) è circondato da una nuvola di ioni di segno opposto. Ogni ione della nuvola occupa posizioni ben precise nello spazio tridimensionale a formare un reticolo che si estende all’infinito.

Una estensione infinita nello spazio tridimensionale è anche descrivibile per le plastiche. Il pedice “n” nelle formule brute scritte sopra indica proprio che la lunghezza della catena di atomi di carbonio è praticamente “infinita” potendo il valore di “n” essere compreso tra 0 ed infinito.

Alla luce di quanto sto scrivendo ne viene che una “molecola” di sale o una di plastica dovrebbero avere estensioni infinite. È possibile una cosa del genere?

Se si apre un qualsiasi libro di chimica generale del primo anno di università o un testo base usato nelle scuole superiori si trova una definizione molto chiara:

“una molecola è la più piccola particella di una sostanza che conserva intatte le proprietà chimiche e fisiche dell’intera sostanza ed è costituita da almeno due atomi, oppure da un gruppo di essi, tenuti assieme da forze chimiche”.

Rileggete la definizione e provate a riflettere. Non trovate ci sia qualcosa di strano in questa definizione?

Quando si parla di proprietà di una sostanza si intende una proprietà di massa.

L’acqua bolle a 100 °C. Non la singola H2O, bensì  un insieme di H2O. È  la massa di acqua ad avere quella temperatura di ebollizione ad una data pressione, non la singola H2O. Per quest’ultima non ha alcun senso definire un punto di ebollizione. In effetti, usando un linguaggio più moderno, potremmo dire che la temperatura di ebollizione dell’acqua (o di qualsiasi altro sistema chimico) altro non è che una proprietà emergente dall’interazione tra più sistemi del tipo H2O.

Lo stesso discorso si applica ai sali ed alle plastiche. Il PTFE ha un punto di fusione di circa 327 °C. Questa temperatura emerge dall’interazione tra diversi filamenti del tipo (C2F4)n. Il singolo filamento non ha una temperatura di fusione, esattamente come la singola H2O non ha una temperatura di ebollizione.

La definizione di “molecola” appena proposta considera anche due o più atomi tenuti assieme da forze chimiche. Ma quali forze?  Le interazioni tra due atomi o gruppi di atomi sono non solo interazioni covalenti, ma anche ioniche, legami a idrogeno e forze di Van der Waals. Quale di queste interazioni dobbiamo prendere in considerazione per la definizione di “molecola”?

Si potrebbe dire: atteniamoci alla vecchia distinzione proposta da Gilbert Lewis più di un secolo fa in base alla quale molecole sono tutte quelle in cui gli atomi interagiscono mediante legami covalenti, mentre altri sistemi, come i sali, sono identificati come solidi ionici non molecolari.

I gruppi chimici, ovvero le particelle con struttura ben definita, interagenti mediante forze di Van der Waals come devono essere classificati?

Pensiamo alle macchine molecolari. Queste le definiamo come aggregati supramolecolari (ovvero fatti da tante subunità) che interagiscono tra loro mediante legami deboli (legami a idrogeno e forze di Van der Waals) in grado di far emergere certe particolari proprietà. Perché non considerare tutto l’insieme, a cui si associano le proprietà emergenti, come intera molecola? Perché non considerare l’emoglobina, una delle macchine molecolari più semplici, come una unica unità molecolare piuttosto che come un sistema complesso fatto da diverse subunità ognuna delle quali non ha alcuna delle proprietà dell’insieme?

In realtà possiamo farlo. Nessuno ci impedisce di estendere il significato di “molecola” ad aggregati di subunità. È quanto suggerisce Whitesides in un suo lavoro su Annual Reviews of Analytical Chemistry.

“Molecola” è un termine che non deve essere inteso in modo fisso ed immutabile. Esso deve essere considerato in continua evoluzione in funzione del progredire delle conoscenze scientifiche. Il termine può essere usato semplicemente come una abbreviazione per consentire al pensiero chimico di elaborare nuovi concetti e nuove idee su scale sempre più vaste.

Ed allora cos’è una molecola? Potremmo dire che si tratta di una unità elementare in cui sono presenti atomi o gruppi ben definiti di particelle che interagiscono in qualsiasi modo così da realizzare delle ben precise proprietà emergenti.

Alla luce di questa definizione l’emoglobina è una molecola così come lo è la doppia elica del DNA o una qualsiasi macchina molecolare. Andando nell’ambito ambientale, anche le sostanze umiche, che sono state definite come aggregati supramolecolari di molecole di peso molecolare non superiore a 5000 Da, possono essere considerate a tutti gli effetti delle vere e proprie molecole.

Altre letture

What is a molecule? by Philip Ball

Fonte dell’immagine di copertina: Wikimedia commons

Il ruolo dei legami a idrogeno nel comportamento dell’acqua

Quale  ruolo svolgono i legami a idrogeno nel comportamento anomalo dell’acqua?

Tutti sanno cos’è l’acqua. Una molecola di importanza notevole per la vita. Non tutti sanno, però, che l’acqua mostra proprietà particolari quando soluti vengono disciolti in essa. Potrei dire che, in realtà, è patrimonio comune sapere che mettere il sale in acqua ne innalza il punto di ebollizione (innalzamento ebullioscopico) [1] e ne abbassa quello di congelamento (abbassamento criogenico) [2]. In effetti lo sanno tutti che il rimedio per sciogliere il ghiaccio sulle strade innevate è quello di spargere sale [2]. È anche patrimonio comune il fatto che se si mette una bottiglia di vetro piena di acqua in ghiacciaia, questa si rompe. È noto che abbassando la temperatura si ha un espansione del volume dell’acqua liquida [3] che, compressa tra le pareti della bottiglia, ne determina la rottura. Cosa vuol dire, allora, “non tutti sanno che”? Semplicemente che non è noto a tutti che il comportamento anomalo dell’acqua a circa 4 gradi centigradi dipende dalla presenza dei legami a idrogeno [4] che, dovendo rispondere a requisiti geometrici (il legame a idrogeno è di natura lineare), favoriscono l’allontanamento delle molecole di acqua tra loro con aumento degli spazi tra molecole, diminuzione della densità e conseguente aumento di volume. Se dei soluti, come sostanze organiche, sono presenti in acqua, si assiste ad un effetto scenico molto simpatico, ovvero si osserva una compartimentazione della miscela in due fasi: una fase organica (in genere colorata) al centro ed una fase acquosa esterna. Come mai? Ancora una volta i legami a idrogeno hanno un ruolo importante. Man mano che si abbassa la temperatura, le molecole della miscela tendono a”fermarsi” (in termini più opportuni si dice che diminuisce il valore dell’energia cinetica sia delle molecole di acqua che delle molecole di soluto organico). Tuttavia, come è stato evidenziato, i legami a idrogeno sono lineari. Al diminuire della temperatura le molecole di acqua e quelle di soluto non si trovano molto bene assieme. Intendo dire che le molecole di acqua sono certamente più “flessibili” (in quanto più piccole) di quelle del soluto cosicché quest’ultimo fa più fatica a riorientarsi velocemente per mantenere le interazioni a idrogeno con le molecole di acqua. Accade, quindi, che le molecole di acqua espellano quelle di soluto in modo tale da formare legami a idrogeno acqua-acqua più stabili rispetto a quelli acqua-soluto. Il risultato finale è la separazione della fase organica da quella inorganica. Potete fare un esperimento casalingo non pericoloso. Preparate del té e mettetelo in una bottiglia di plastica nel freezer (eviterete, così, la rottura del vetro). Lasciate la bottiglia in freezer, senza disturbarla, per un po’ di tempo ed osserverete quanto vi ho detto. Questo comportamento è stato osservato ed opportunamente misurato nel miele sottoposto a congelamento come si può leggere nel riferimento [5].

Il ruolo dei legami a idrogeno nell’innalzamento ebullioscopico e nell’abbassamento crioscopico verrà spiegato in altre note.

Riferimenti:

1. http://bressanini-lescienze.blogautore.espresso.repubblica.…
2. http://www.chimicare.org/…/come-agisce-il-sale-antighiaccio/
3. http://asd.itd.cnr.it/…/Fi…/AldoeGiustina/acqua_anomalo.html
4. https://www.facebook.com/RinoConte1967/photos/a.1652785024943027.1073741829.1652784858276377/1818201761734685/?type=3
5. https://www.researchgate.net/…/287520592_Conformational_Red…

L’intolleranza al lattosio

Vi siete mai chiesti come mai si parla tanto di intolleranza al lattosio? Cos’è e come si manifesta?

Il lattosio è uno zucchero; per la precisione si tratta di un disaccaride, ovvero di uno zucchero formato da due altri zuccheri, chiamati monosaccaridi, che, nella fattispecie, sono il D-glucosio ed il D-galattosio legati tra loro attraverso un legame beta, 1-4 glicosidico.

Il lattosio è lo zucchero principale del latte di mucca, capra, asina oltre che del latte umano [1]. La sua funzione è molto importante nei bambini in fase di crescita dal momento che il D-galattosio è implicato nella formazione delle strutture nervose, mentre il D-glucosio è coinvolto nel ciclo di Krebs, ovvero in uno dei processi metabolici più importanti dell’organismo dal momento che è implicato nella respirazione cellulare [2].

La scissione (o idrolisi) del lattosio nelle sue due componenti avviene ad opera di un enzima che si chiama lattasi [3] di cui l’intestino degli esseri umani è provvisto fin dalla nascita. In particolare, l’efficienza della lattasi rimane costante durante tutto il periodo dell’allattamento, diminuendo, poi, progressivamente dallo svezzamento in poi.

Negli individui adulti la lattasi è quasi completamente assente comportando quella che viene indicata come “intolleranza al lattosio”. Infatti, l’assenza (o la scarsa efficienza) dell’enzima fa in modo che il lattosio non venga idrolizzato completamente (o non venga idrolizzato del tutto) nelle sue componenti D-galattosio e D-glucosio. Il lattosio che rimane intatto all’interno dell’intestino subisce processi fermentativi ad opera della flora batterica intestinale e porta alla produzione di gas quali idrogeno, metano ed anidride carbonica oltre ad acidi grassi a catena corta. Gli effetti di questi prodotti sono: meteorismo, distensione addominale, digestione lenta, stanchezza, pesantezza di stomaco, senso di gonfiore gastrico oltre che forti crampi [1].

Un modo per evitare i suddetti problemi è assumere alimenti senza lattosio. Questi si ottengono aggiungendo ad essi la lattasi. Quest’ultima idrolizza il lattosio all’interno degli alimenti stessi rendendoli non solo più adatti a chi è affetto da intolleranza al lattosio, ma anche più dolci a causa della presenza dei due monosaccaridi derivati dal lattosio.

Riferimenti:

[1] http://www.associazioneaili.it/cosa-e-lintolleranza-al-lat…/
[2] http://www.pianetachimica.it/…/d…/Respirazione_cellulare.pdf
[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Lattasi

La biochimica del diabete

Perché è importante la biochimica del diabete?

Il diabete è una patologia legata ad una eccessiva concentrazione di glucosio nel sangue. Due possono essere i motivi che portano alla suddetta patologia.

Da un lato, il cattivo funzionamento del pancreas comporta una drastica riduzione dell’ormone insulina deputato alla regolazione dell’utilizzo del glucosio da parte delle cellule (diabete mellito di tipo I) [1]. La conseguenza è un incremento della concentrazione del predetto zucchero nel sangue (iperglicemia) dovuta alla incapacità delle cellule di poterlo utilizzare per la produzione energetica (ciclo di Krebs [2]). Gli eccessi di glucosio vengono eliminati attraverso le vie urinarie e le cellule sono costrette ad attivare vie metaboliche alternative per ricavare l’energia necessaria per la loro sopravvivenza. Una di queste vie alternative sfrutta il catabolismo (ovvero la degradazione) degli acidi grassi [3] con formazione ed accumulo di quelli che si chiamano corpi chetonici [4], ovvero di molecole (appartenenti alla classe dei chetoni come, per esempio, l’acetone) che in alte concentrazioni risultano tossiche per l’organismo (possono portare al coma ed alla morte). Il forte cattivo odore che si sente nell’alito dei malati di diabete di tipo I è proprio dovuto alla presenza di tale molecola (oltre che di un altro paio di esse [4]) nel loro sangue. L’unico modo per evitare i rischi legati al diabete di tipo I è quello di fornire insulina all’organismo che non è in grado di sintetizzarla per conto proprio.

L’altra forma di diabete (diabete mellito di tipo II) [5] è legata o alla scarsa sensibilità all’azione dell’insulina da parte delle cellule adipose e muscolari che non sono, quindi, in grado di “consumare” il glucosio nel sangue per produrre energia e ne determinano un accumulo, o ad una produzione insufficiente di insulina che, quindi, non consente alle cellule di utilizzare al meglio tutto il glucosio assimilato. Questa forma di diabete, che si presenta in età adulta, può essere curata attraverso una dieta controllata, attività fisica e, nei casi più gravi, assunzione di metformina (la molecola la cui struttura è mostrata in foto) [6]. Ad oggi, non si conoscono ancora bene i dettagli della biochimica della metformina, sebbene sembri che essa possa agire a tre livelli differenti: 1. agisce nella regolazione dell’attività di un enzima (il cui nome abbastanza complicato è protein-chinasi AMP-attivata o AMPK) coinvolto nel metabolismo di carboidrati e lipidi; 2. attiva degli enzimi (anche questi dal nome difficile: tirosin-chinasi) il cui “cattivo” funzionamento è collegato alla scarsa sensibilità all’insulina da parte delle cellule adipose e muscolari; 3. inibisce la produzione di glucosio epatico (ovvero il glucosio prodotto dal fegato) attraverso la stimolazione alla produzione di una molecola dal nome ancora più complicato di quelli precedenti: il peptide glucagone simile 1 altrimenti detto anche GLP-1. Proprio perché interviene in diversi processi metabolici, la metformina ha una applicabilità abbastanza trasversale. Per esempio può essere usata come coadiuvante nelle diete per contrastare l’obesità; può essere usata per prevenire (o curare) malattie cardiovascolari come l’ipertensione; può essere utilizzata per la prevenzione dell’aterosclerosi precoce ed addirittura, recentemente, è stata scoperta la sua funzione selettiva nel contrastare lo sviluppo di alcuni particolari tipi di neoplasie (ovvero alcuni tipi di cancro) [7, 8].

Come tutti i farmaci, sia l’insulina (per il diabete di tipo I) che la metformina (per il diabete di tipo II) devono essere usati con cautela e soltanto sotto stretto controllo medico perché un loro abuso può portare a complicazioni notevoli [5-10]

Riferimenti ed approfondimenti

[1] http://www.scienzeascuola.it/…/biolog…/353-il-ciclo-di-krebs

[2] http://www.diabete.net/…/vivere…/il-diabete-di-tipo-1/31137/

[3] https://it.wikipedia.org/wiki/Acidi_grassi

[4] https://it.wikipedia.org/wiki/Corpi_chetonici

[5] http://www.diabete.net/…/vivere…/il-diabete-di-tipo-2/31202/

[6] http://www.ulss20.verona.it/…/Informazioni/NUMERO_5_2015.pdf

[7] http://www.associazioneamec.com/…/effetti-della-metformina-…

[8] http://www.chimicaweb.com/…/farmaco-del-diabete-utile-cont…/

[9] http://www.ospedalecardarelli.it/…/somministrazione-ed-eff…/

[10] http://www.associazioneamec.com/…/effetti-della-metformina-…

Naturale è buono? Le sostanze tossiche di origine vegetale

Naturale è buono? Le sostanze tossiche di origine vegetale

Quante volte si sente dire che naturale è buono e chimico è cattivo? In realtà non tutto quello che viene sintetizzato in natura è “buono” nell’accezione che oggi noi diamo a questo aggettivo. Un esempio molto banale è quello delle piretrine (la figura che accompagna questa Pillola è la struttura base di queste sostanze).

Le piretrine sono delle molecole che vengono sintetizzate nei processi metabolici di alcune piante. Nella fattispecie si trovano in alcuni crisantemi. Sì, proprio i fiori che nel nostro mondo vengono usati per addobbare le tombe nel giorno dei morti, mentre nel mondo orientale (il Giappone per quanto mi è dato sapere) sono simbolo di gioia e felicità.

Passando al linguaggio scientifico, le piante da cui vengono estratte le piretrine sono del genere Chrysantherum. La pianta che è più ricca di piretrine è la Chrysanterum cinerariaefolium coltivata in diversi paesi tra cui il maggior produttore sembra essere il Kenia.

Le piretrine agiscono alterando la trasmissione assonale dell’impulso nervoso bloccando in questo modo le funzioni vitali degli insetti. In effetti quello che si verifica è che gli insetti che entrano a contatto con queste molecole vengono immediatamente paralizzati. Non è una bella morte devo aggiungere. Ma non è questo il punto. Pur essendo tossici per gli insetti, le piretrine mostrano una tossicità per gli animali superiori che sembra essere abbastanza bassa. Per esempio la dose letale media per i topi è di circa 500 mg/kg. Supponiamo che questa sia anche la dose letale media per l’essere umano. Quel numero significa che per arrivare ad avere degli effetti tossici, un individuo del peso di 80 kg deve ingerire circa 40 g di piretrine. Non è facile. Ovvero, non lo è per i consumatori di frutta e verdura. Può esserlo per gli agricoltori che nella loro attività fanno uso di queste che vengono definite sostanze naturali .

Come si vede dalla foto allegata, queste molecole hanno un ciclo a tre atomi di carbonio. Questa parte della molecola rende le piretrine facilmente degradabili. Infatti, il loro tempo di residenza medio nei suoli è di circa un paio di giorni. Dopo tale periodo esse sono totalmente decomposte ed il loro effetto tossico finisce. Ecco spiegato il motivo per cui un consumatore medio difficilmente può essere intossicato da queste molecole.

Interessante vero? Beh, questo è il fascino di quella che si chiama “chimica delle sostanze naturali”. Si tratta di una branca della chimica che studia la struttura e le proprietà delle molecole che vengono sintetizzate come metaboliti secondari nelle piante e negli animali. E’ facile capire che la presenza delle piretrine tra i metaboliti secondari delle piante sia un vantaggio evolutivo. Solo le piante che sono in grado di sintetizzare questi metaboliti sono in grado di “difendersi” dagli insetti predatori e, di conseguenza, sopravvivere in natura. Si tratta, in definitiva, di molecole che fanno parte dello scudo difensivo che viene usato dagli esseri viventi nell’eterna lotta per la sopravvivenza.

Approfondimenti
http://www.informatoreagrario.it/…/0…/piretro-per-difesa.pdf
http://www.informatoreagrario.it/…/viti…/Vic0304/piretro.pdf
http://veterinaria.scivac.org/…/intossicazione-da-insettici…

Cos’è e come funziona il GoreTex?

Avete mai sentito parlare di GoreTex?

Si tratta di un tessuto usato per impermeabilizzare. Allo stesso tempo, però, esso consente di rendere traspiranti gli indumenti per i quali viene utilizzato.

Si ottiene dal politetrafluoroetilene (PTFE). Si tratta di un polimero che è alla base del teflon, una plastica usata in diversi campi, dall’idraulica all’industria aerospaziale. Il teflon, sotto forma di nastro, viene usato per evitare le perdite nelle tubazioni, per fabbricare pentole antiaderenti o per la costruzione degli scudi che consentivano, fino a qualche anno fa, il rientro dello Space Shuttle dalle missioni spaziali.  L’elevata resistenza alle temperature rendeva, infatti, il PTFE particolarmente adatto ad evitare i danni dovuti all’attrito tra la struttura dello Space Shuttle e l’atmosfera Terrestre.

Quando il PTFE viene trattato in modo particolare (in termini tecnici si dice che viene espanso [1]) si ottiene un materiale brevettato dalla famiglia Gore (sì, quella del vice presidente degli Stati Uniti nell’epoca Clinton) che è stato battezzato GoreTex.

Il PTFE espanso ha un’area superficiale molto elevata. Poiché l’area superficiale è direttamente correlata alla porosità di un materiale, il GoreTex ha anche una elevata porosità. In particolare, la dimensione dei pori del GoreTex è dell’ordine dei 2 um (um sta per micrometri, ovvero 10^(-6) m)).

Una molecola di acqua occupa un volume del diametro di circa 0.2 nm (nm sta per nanometri, ovvero 10^(-9) m).

Il rapporto tra le dimensioni dei pori del GoreTex e il diametro di una molecola di acqua è di circa 10000 : 1, ovvero i pori del GoreTex sono diecimila volte più grandi di quelli di una singola molecola di acqua.

Poiché la dimensione dell’acqua in fase aerea (ovvero vapore) è molto più piccola di quella dei pori del GoreTex, il sudore, che altro non è che acqua in forma di vapore, riesce passare attraverso il tessuto. Al contrario, le molecole di acqua in fase liquida formano aggregati le cui dimensioni sono molto più grandi di quelle dei pori del GoreTex. Il risultato finale è un materiale plastico,(sì, il GoreTex è plastica) in grado di impedire la penetrazione dell’acqua dall’esterno (proprietà impermeabili) e di favorire la fuoriuscita del sudore (proprietà traspiranti).

La chimica dei materiali lascia sempre a bocca aperta

Riferimenti e note:

  1. L’espansione di un polimero si ottiene addizionando materiali espandenti quali, per esempio, il pentano, o qualsiasi altro idrocarburo, che bollono a temperature basse. Durante la fase di preparazione del polimero, che avviene a caldo, il materiale espandente si allontana e lascia “traccia” di sé nelle bolle che conferiscono “leggerezza” al prodotto finale. Nel caso specifico del GoreTex, l’espansione si ottiene termomeccanicamente, ovvero il filamento caldo viene viene teso con uno stratto secco

La foto di copertina è da Wikimedia Commons

L’acqua e la forza dei legami a idrogeno

L’acqua e la forza dei legami a idrogeno

Il ruolo che i legami a idrogeno svolgono nel comportamento dell’acqua è già stato evidenziato più volte in altre Pillole di scienza [1-3]. La formazione dei legami a idrogeno è stata ascritta al momento dipolare dell’acqua, ovvero al fatto che una parziale carica positiva è presente sugli atomi di idrogeno mentre una parziale carica negativa è presente sull’atomo di ossigeno. Grazie a questa separazione di carica, ogni molecola di acqua è in grado di circondarsi di un massimo di altre 4 molecole di acqua che sono agganciate alla prima attraverso 4 legami a idrogeno. Di questi, due legami sono ottenuti grazie al contributo degli elettroni delle coppie solitarie, gli altri due grazie al contributo degli atomi di idrogeno.

All’aumentare del numero di molecole di acqua che circondano una data molecola H2O, si osserva un comportamento singolare. Infatti, man mano che il numero di molecole di acqua aumenta intorno ad una di riferimento, si osserva un “rafforzamento” dei legami a idrogeno che la molecola di riferimento forma con quelle vicine. Questo “rafforzamento” è dovuto ad un incremento del modulo, ovvero del valore, del momento dipolare che passa da 1.85 D (la D è l’unità di misura del momento dipolare e si legge Debye) per l’acqua monomerica (cioè l’acqua da sola) a circa 3 D per l’acqua inserita in un cluster (cioè un grappolo, un insieme) fatto da 32 molecole di acqua.

Come si spiega il cambiamento del momento dipolare e, di conseguenza, il rafforzamento dei legami a idrogeno?

Sembra che il ruolo più importante nel definire il momento dipolare di una molecola di acqua non sia ricoperto dai legami O-H, ma dalle coppie solitarie (indichiamole semplicemente con lp) presenti sull’ossigeno. Quando il numero di molecole che circondano quella di riferimento aumenta, l’angolo lp-O-lp diminuisce passando da circa 125 gradi dell’acqua singola a circa 114 gradi dell’acqua circondata da altre 32 molecole di acqua. Questa diminuzione dell’angolo descritto porta all’incremento del valore del momento dipolare e della forza coi cui la molecola di acqua riesce a legare a sé le altre molecole di acqua via legami a idrogeno. Informazioni dettagliate per i più curiosi nel riferimento [4].

Riferimenti:

[1] https://www.facebook.com/RinoConte1967/photos/a.1652785024943027.1073741829.1652784858276377/1818201761734685/?type=3

[2] https://www.facebook.com/RinoConte1967/posts/1847184085503119:0

[3] https://www.facebook.com/notes/rino-conte/pillole-di-scienza-il-ruolo-dei-legami-a-idrogeno-nel-comportamento-dellacqua-li/1856785507876310

[4] Kemp & Gordon, An interpretation of the enhancement of the water dipole moment due to the presence of other water molecules. J. Phys. Chem. A, 2008, 112: 4885-4894

I fluidi non newtoniani

Devo dire che la chimica è estremamente affascinante. Si imparano cose sempre nuove, anche se uno le ha studiate da tempo e già le conosce. Si rimane sempre sorpresi dal comportamento dei materiali. Soprattutto di certi sistemi fluidi che vanno sotto il nome di “fluidi non Newtoniani”.

Se siete chimici o fisici sono sicuro che li ha già sentiti. Ma chi non lo è, magari li ha avuti tra le mani senza rendersi conto che aveva a che fare con qualcosa dalle proprietà particolari.

Un fluido non newtoniano è un un fluido la cui viscosità varia a seconda dello sforzo di taglio che viene applicato. Questo significa che la viscosità (quindi la consistenza) del fluido non newtoniano dipende dall’intensità della forza che viene applicata ad una certa velocità. Per il breve lasso di tempo in cui viene applicata la forza, il liquido non newtoniano varia il suo stato da liquido a solido e viceversa.

Perché si chiama “liquido o fluido non newtoniano”? Semplicemente perché secondo la fluidodinamica classica elaborata da sir Isaac, la viscosità di un liquido è indipendente dalla forza applicata, ovvero le proprietà dei liquidi sono isotropiche (uguali in tutte le direzioni). Invece, esistono liquidi le cui proprietà sono anisotropiche, ovvero cambiano a seconda della direzione presa in considerazione. Nel caso specifico, la viscosità cambia a seconda della direzione lungo cui è applicata una forza.

Tipici fluidi non newtoniani? Per esempio il polimero reticolato mostrato nella foto che accompagna questa Pillola. Si tratta di una sorta di plastica (chiamata slime) che cambia forma a seconda di come viene maneggiata. Anche il dentifricio è un fluido non newtoniano

Qui un po’ di links che fanno vedere:
1. lo slime: http://www.sweetpaulmag.com/cra…/professor-figgys-glow-slime
2. il comportamento di un fluido non newtoniano: https://www.youtube.com/watch?v=AiLQ8zjE_BA
3. una lezione facile sui fluidi non newtoniani: http://www.urai.it/ftp/app/viscosimetria/corso/corso.pdf
4. come sia possibile camminare sulle acque: https://youtu.be/f2XQ97XHjVw

La biodiversità

La biodiversità

Fin da quando Darwin ha posto le basi della teoria dell’evoluzione è apparso chiaro, ed è diventato progressivamente sempre più evidente sotto il profilo sperimentale, che tutti gli organismi viventi hanno avuto origine da un progenitore comune che oggi noi chiamiamo LUCA, ovvero “Last universal common ancestor”. LUCA altro non è che il famoso brodo primordiale nel quale si sono realizzate tutte le condizioni chimico fisiche per la formazione delle protocellule e lo sviluppo del metabolismo che caratterizza tutti gli esseri viventi.

Solo l’evoluzione, associata all’adattamento alle condizioni ambientali, dal progenitore comune riesce a spiegare la similitudine tra il nostro patrimonio genetico e quello di tanti altri organismi viventi. Per esempio, oltre il 98% di similitudine esiste tra il DNA umano e quello degli scimpanzé, oltre il 90% di affinità esiste tra il DNA umano e quello dei topi mentre oltre il 50% di somiglianza accomuna il nostro DNA a quello delle piante (potremmo dire che quando mangiamo verdura siamo cannibali per il 50%).

La differenziazione genetica avviene in modo casuale per effetto di errori imprevedibili durante i processi di replicazione del DNA. La moltitudine di organismi che viene così generata è fatta da individui che sotto la spinta della pressione ambientale possono soccombere oppure sopravvivere. In quest’ultimo caso, il patrimonio genetico viene trasmesso alle generazioni successive.

Nel corso di milioni di anni, la differenziazione genetica ha prodotto l’insieme di organismi viventi (dai microorganismi all’uomo) che oggi siamo abituati a conoscere. In definitiva, tutti noi siamo il prodotto di modificazioni genetiche (ovvero alterazioni imprevedibili del DNA) che ci consentono di occupare delle ben precise nicchie ecologiche nelle quali siamo in grado di sopravvivere.

Cosa è, allora, la biodiversità? Volendo semplificare il più possibile, la biodiversità siamo tutti noi esseri viventi che variamo in numerosità intra- ed Inter- specie. Nella biodiversità vanno inclusi anche i compartimenti ambientali con i quali interagiamo e che interagiscono tra loro.

Il suolo come compartimento ambientale ha caratteristiche chimico, fisiche e biologiche che variano a seconda delle condizioni nelle quali esso si sviluppa. La variabilità di queste caratteristiche rappresenta la biodiversità dei suoli che, per i chimici del suolo come me, sono in tutto e per tutto dei veri e propri esseri viventi

Per saperne di più

Cristian De Duve, Alle origini della vita, Bollati Boringheri, 2011 (http://www.bollatiboringhieri.it/scheda.php…)

http://ww2.unime.it/snchimambiente/GAIA.doc

Come è fatto e come si ottiene l’olio di palma

Come è fatto e come si ottiene l’olio di palma

L’olio di palma è ottenuto dai frutti delle palme da olio che si presentano a grappoli. Questi frutti vengono raccolti e poi sottoposti all’azione del vapore in modo da disattivare la lipasi (1) e separare la polpa dai semi. La polpa così ottenuta viene pressata e l’olio opportunamente recuperato. L’olio ottenuto dalla pressatura della polpa viene chiarificato (2) per centrifugazione, quindi lavato con acqua calda e poi seccato. Il prodotto così ottenuto contiene un elevato ammontare di beta-carotene ed il suo colore varia dal giallo scuro al rosso. Durante la raffinazione (3) il colore giallo/rosso dell’olio di palma viene perso ed il prodotto finale si presenta di un colore giallo chiaro.
La composizione percentuale media in acidi grassi (4) dell’olio di palma è:

14:0 – 1%
16:0 – 43.8%
16:1 – 0.5%
18:0 – 5%
18:1 (9) – 39%
18:2 (9, 12) – 10%
18:3 (9, 12, 15) – 0.2%
20:0 – 0.5%

Come si evince dalla tabella, l’olio di palma è, per lo più, costituito da acidi grassi saturi e contiene un acido grasso monoinsaturo a 18 atomi di carbonio in quantità vicine al 40% in peso del totale.

L’olio di palma fa male? non più di tanti altri oli alimentari. Come per ogni alimento, è la dose che fa il veleno. Un consumo oculato di olio di palma (negli alimenti che lo contengono) non comporta assolutamente nulla, esattamente come un consumo oculato di un qualsiasi altro tipo di olio.

E la Nutella che contiene olio di palma? La Nutella fa male solo se ne viene ingurgitata una quantità notevole. Ma non è l’olio di palma a creare problemi quanto, piuttosto, l’elevato contenuto in zuccheri che può sfociare nel diabete

Note
(1) Lipasi – si tratta di un enzima che ha la funzione di degradare gli acidi grassi
(2) La chiarificazione di un olio consiste nella separazione dall’olio di tutte quelle componenti che ne possono compromettere la qualità nel corso del tempo. In altre parole vengono allontanate le sostanze che possono favorire fenomeni di ossidazione, idrolisi e fermentazione
(3) La raffinazione di un olio viene effettuata ogni qual volta esso non viene ottenuto attraverso la semplice spremitura dei semi (come nel caso dell’olio extra vergine di oliva). Questa procedura consiste nell’allontanamento di sostanze che possono essere pericolose o alterare il sapore del prodotto. Per esempio la raffinazione degli oli, in generale, serve per la rimozione della lecitina, degli acidi grassi liberi, per la decolorazione, il degommaggio e la rimozione di odori sgradevoli
(4) Un acido grasso viene indicato con due numeri separati dal segno “:” come per esempio x:y. Il primo numero (la x) indica il numero di atomi di carbonio; il secondo numero, la y, indica quanti doppi legami ci sono. Se y=0 si ha un acido grasso saturo. Se y è diverso da zero si ha un acido grasso insaturo, ovvero con uno o più doppi legami. Se è necessario individuare la posizione del doppio legame, la coppia di numeri viene fatta seguire da un numero tra parentesi tonda che indica l’atomo di carbonio dove si trova il doppio legame. Per esempio, 18:2 (9, 12) sta ad indicare un acido grasso a 18 atomi di carbonio con due doppi legami, uno in posizione 9 e l’altro in posizione 12.

Per saperne di più:

Belitz, Grosch e Schieberle Food Chemistry, Springer (2009)

http://www.butac.it/olio-palma-qualche-precisazione-piu/

Share