Rabdomanzia: tra mito, illusioni e scienza

La scena è familiare: un uomo cammina con una bacchetta biforcuta fra le mani, in attesa che il ramo si pieghi misteriosamente indicando la presenza di acqua sotterranea. Lo sguardo è serio, quasi mistico; chi osserva trattiene il fiato. È l’immagine della rabdomanzia, una pratica antica che ancora oggi conserva un certo fascino, a metà strada tra magia, folklore e speranza.

Se non fosse per un piccolo dettaglio: la bacchetta non funziona. Non importa se sia di nocciolo, di salice o di legno d’ulivo raccolto la notte di San Giovanni – l’acqua, in realtà, se ne infischia del bricolage arboreo. Eppure, generazioni di rabdomanti hanno giurato che quel ramoscello si muove da solo, attirato da misteriose forze sotterranee.

La verità, a guardarla con occhio scientifico, è che la rabdomanzia ha molto in comune con altre discipline affascinanti ma poco affidabili: dall’astrologia alle previsioni calcistiche del barista sotto casa. Funziona finché nessuno prende nota dei risultati, e smette improvvisamente di funzionare appena qualcuno si ostina a fare i conti con carta e penna.

E allora la domanda sorge spontanea: se decenni di esperimenti hanno mostrato che la bacchetta magica non è poi così magica, perché la sua immagine continua ad avere presa su di noi? Forse perché racconta qualcosa di più profondo: il nostro desiderio che il mondo, oltre a pozzi e falde acquifere, nasconda ancora un po’ di incanto.

Una lunga storia di rami e speranze

La rabdomanzia non nasce ieri: già nel XVI secolo in Europa c’erano cronache di minatori che si affidavano alla bacchetta per trovare filoni. Ma se allarghiamo lo sguardo, scopriamo che il trucco del ramo che trema è universale: in Cina, in Africa, nel cuore dell’Europa contadina, ovunque qualcuno sperava di strappare alla natura un segreto in più.

Il contesto era chiaro: quando non avevi né carte geologiche né GPS, provavi di tutto pur di evitare un buco a vuoto. E allora perché non affidarsi a un ramo che vibra in mano? Dopotutto, tra un ingegnere inesistente e un rabdomante disponibile, il contadino assetato sceglieva il secondo. La bacchetta diventava così un’ancora psicologica, una piccola illusione per addomesticare l’imprevedibilità della natura.

La scienza mette alla prova la bacchetta

Col passare del tempo, però, qualcuno iniziò a chiedersi: ma funziona davvero? Così, dal XIX secolo in poi, si organizzarono i primi esperimenti controllati. Qui inizia il bello: quando nessuno teneva conto degli errori, i rabdomanti sembravano infallibili; quando invece entravano in gioco rigore, randomizzazione e doppio cieco, la bacchetta diventava improvvisamente timida.

George P. Hansen nel 1982 fece il punto con una rassegna storica. Risultato? Un mare di studi traballanti. Molti test erano poco più che spettacoli di paese travestiti da esperimenti: niente controlli, numeri minuscoli, conclusioni ottimistiche. Insomma, la bacchetta piegava più le regole del metodo scientifico che quelle del nocciolo.

Monaco e Kassel: la Champions League dei rabdomanti

Negli anni ’80 e ’90 la Germania decise di fare sul serio. Basta esperimenti da cortile: servivano test colossali. Centinaia di rabdomanti convocati, un fienile trasformato in laboratorio, tubi d’acqua fatti scorrere a caso sotto il pavimento. Sembrava un reality show, ma con meno glamour e più statistica.

Il verdetto? La maggior parte non indovinava meglio del caso. Ma – ed è qui che si accese la speranza – una piccola minoranza sembrava cavarsela meglio. Era davvero abilità, o semplice fortuna? Il dibattito infuriò: per i sostenitori, la prova che “qualcosa” c’era; per gli scettici, l’ennesimo esempio di come in un campione ampio ci sia sempre qualcuno che batte la media, anche tirando a indovinare.

Per rendere l’idea, immaginate la scena: decine di rabdomanti convocati come concorrenti a un talent show. Invece di cantare o ballare, camminavano nervosi sopra il pavimento di un fienile, stringendo la bacchetta con l’ansia di chi aspetta l’applauso della giuria. Sotto di loro, nascosto, il famigerato tubo d’acqua che veniva spostato di volta in volta per mantenere il mistero.

Ogni “esibizione” era accompagnata dal silenzio carico di aspettativa: il pubblico (scienziati e assistenti con blocchi per gli appunti) tratteneva il fiato in attesa che la bacchetta si piegasse. Qualcuno, per darsi un tono, chiudeva gli occhi come un pianista rapito dall’ispirazione; altri procedevano a piccoli passi, come rabdomanti zen. Ma, al momento della verità, le performance erano spesso deludenti: bacchette immobili, movimenti incerti, colpi andati a vuoto.

A guardarla con occhi moderni, quella parata sembrava una puntata di “X-Factor” ambientata in un granaio: solo che il premio in palio non era un contratto discografico, ma l’onore di essere proclamati campioni dell’“acqua sotto al fienile”. E, come in ogni talent che si rispetti, alla fine i veri protagonisti furono i giudici: perché la statistica, inflessibile come un televoto truccato, decretò che la maggioranza non aveva alcun talento speciale.

Betz 1995: il canto del cigno

Nel 1995 Hans-Dieter Betz pubblicò due articoli sul Journal of Scientific Exploration che per i rabdomanti furono un po’ come il disco d’oro per una band in declino: la grande occasione di rivincita. Si trattava della trattazione più sistematica mai scritta a favore della rabdomanzia, con tanto di dati, grafici e racconti di campagne sul campo. Betz riportò i risultati dei “progetti di Monaco” e delle missioni in Africa finanziate dalla Gesellschaft für Technische Zusammenarbeit (GTZ), la cooperazione tecnica tedesca (oggi GIZ), presentando la bacchetta come una potenziale compagna di squadra della geofisica tradizionale.

Secondo lui, alcuni rabdomanti avrebbero ottenuto risultati “statisticamente significativi” nel localizzare tubi nascosti o anomalie geologiche. Nei test di campo, specialmente in zone aride e su rocce fratturate, qualcuno riuscì effettivamente a indicare punti di perforazione che poi si rivelarono buoni. Non mancava il tocco epico: Betz parlava di pochi “dowser d’élite”, una sorta di squadra speciale capace di performance superiori alla media, quasi come i supereroi della bacchetta.

Eppure, sotto la patina brillante, le crepe erano evidenti. I presunti successi riguardavano solo una minoranza, mentre la grande maggioranza non si distingueva affatto dal caso. Il meccanismo fisico rimaneva un mistero: si tirarono in ballo ipotesi fantasiose come campi elettromagnetici, vibrazioni sottili, “energie della terra” … ma senza mai una prova concreta. Le analisi statistiche, poi, furono bersagliate di critiche: sembravano cucite su misura per trovare significatività dove non ce n’era.

E infine la questione editoriale: i due articoli non uscirono certo su Nature o Science, ma su una rivista di nicchia, non proprio la Champions League delle pubblicazioni scientifiche. Più una serie cadetta, frequentata da fenomeni di confine e discipline in cerca di legittimazione.

In conclusione, lo stesso Betz, pur con toni misurati, lasciava intendere che la rabdomanzia non poteva dirsi provata. Al massimo, poteva essere definita “promettente” in qualche caso particolare – una formula elegante per dire: non funziona, ma non vogliamo ammetterlo troppo forte.

Ma ogni disco d’oro, si sa, prima o poi incontra la critica musicale. E in questo caso la critica aveva il nome di J. T. Enright.

Enright e la doccia fredda

Pochi anni dopo, J. T. Enright prese in mano gli stessi dati e li analizzò con rigore da scienziato. Risultato: nessun effetto reale, nessun rabdomante miracoloso, solo casualità travestita da abilità. In altre parole, il re era nudo e la bacchetta pure.

La sua critica mise in imbarazzo i sostenitori che, a quel punto, si rifugiarono nell’argomento classico: forse c’è, ma non si riesce a misurare. È lo stesso tipo di scusa usata per i fantasmi, gli UFO, l’omeopatia, l’agricoltura biodinamica e certe diete miracolose.

Suggestione, ideomotorio e fortuna

Perché allora la rabdomanzia continua a sembrare efficace a tanti praticanti e osservatori? Le spiegazioni più condivise chiamano in causa la psicologia umana:
Effetto ideomotorio: piccoli movimenti inconsci delle mani fanno oscillare bacchette o pendoli.
Bias di conferma: si ricordano i successi e si dimenticano i fallimenti.
– Indizi ambientali: in campagna, un occhio esperto può cogliere segni del terreno senza rendersene conto.
Fortuna: con abbastanza tentativi, qualche “colpo giusto” è inevitabile.

Non servono forze misteriose: bastano i meccanismi ben noti della percezione e della memoria selettiva.

Conclusione: il fascino della bacchetta

La storia della rabdomanzia è una parabola perfetta del rapporto tra scienza e credenze popolari. Un rito antico che sopravvive all’avanzata della geologia e della fisica, alimentato da aneddoti e speranze. Gli esperimenti moderni, dai progetti di Monaco alle analisi critiche di Enright, ci dicono che la bacchetta non ha poteri misteriosi: i pochi risultati “positivi” non sono replicabili e si dissolvono al vaglio della statistica.

Eppure, il mito resiste. Resiste come certe catene WhatsApp, come gli oroscopi del mattino o le promesse di miracoli a domicilio: inutile ma rassicurante. Forse perché non parla soltanto di acqua nascosta, ma del nostro bisogno profondo di credere che la natura conservi ancora qualche trucco segreto da regalarci gratis.

Peccato che, quando si tratta di scavare un pozzo, la bacchetta tenda più a piegarsi sotto il peso delle illusioni che a segnalare una falda acquifera. Se vogliamo davvero trovare acqua, meglio affidarsi a un idrogeologo. Con lui, almeno, l’unica bacchetta magica sarà quella del geologo… e al massimo la fattura a fine lavoro.

Riferimenti e approfondimenti

Betz (1995) Unconventional Water Detection: Field Test of the Dowsing Technique in Dry Zones: Part 1. Journal of ScientiJic Exploration, 9(1): 1-43

Betz (1995) Unconventional Water Detection: Field Test of the Dowsing Technique in Dry Zones: Part 1. Journal of ScientiJic Exploration, 9(2): 159-189

Dix (2017) Skeptics beware — a story about dowsing. Available online

Enright (1995) Water Dowsing: the Scheunen Experiments. Naturwissenschaften 82: 360-369

Enright (1999) Testing Dowsing the Failure of the Munich Experiment. Skeptical Enquirer, Available online

Hansen (1982) Dowsing: a Review of Experimental Research. Journal of the Society for Psychical Research, 51(792): 343-367

McCarney & al. (2002) Can homeopaths detect homeopathic medicines by dowsing? A randomized, double-blind, placebo-controlled trial. Journal of the Royal Society of Medicine, 95(4): 189–191

Skeptical Enquirer (1999) Letters to the editor. Available online

Walach & Schmidt (1997) Empirical evidence for a non-classical experimenter effect: An experimental, double-blind investigation of unconventional information transfer. Journal of ScientiJic Exploration, 11(1): 59-67

0 0 votes
Article Rating
Subscribe
Notificami
guest

0 Commenti
Newest
Oldest Most Voted
Inline Feedbacks
View all comments
Share
0
Would love your thoughts, please comment.x